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Autore: QueenOfEvil    18/01/2018    3 recensioni
Un breve minuto di introspezione nella testa di Gaio Cesare Germanico. Forse più conosciuto da tutti con il nome di Caligola.
«E lo avrebbero odiato, oh, sì, di questo Caligola era perfettamente consapevole, ma, nella sua lucida follia, non poteva fare a meno che riderne e rallegrarsene: l’odio portava quasi sempre la paura e per Gaio Cesare Germanico nulla poteva suonare più allettante della prospettiva di essere temuto.»
Genere: Dark, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
- Questa storia fa parte della serie 'Ad augusta per angusta'
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Oderint, dum metuant1

 

Il sapore del potere era, per molti versi, simile a quello del vino: inebriante, speziato, dolce e intenso allo stesso tempo. Ma, considerava Gaio Cesare Germanico, al contrario della coppa che in quel momento stava tenendo fra le mani, aveva il vantaggio di non attenuarsi mai: a tre anni dall’inizio del suo regno, lui stesso provava ancora nel cuore la stessa folle euforia che lo aveva travolto il giorno in cui era stato nominato princeps.

Non aveva compreso subito le possibilità che la carica -il nome, niente di più che un nome attribuitogli dal Senato- poteva offrirgli e, ripensando ai suoi primi mesi di governo, in cui aveva dilapidato il patrimonio delle casse statali, concesso amnistie, creato nuovi spettacoli per divertire la plebe, alzato e abbassato le tasse a sua discrezione, non poteva che stupirsi del proprio comportamento, che così poco si addiceva all’uomo che, a capo del più grande impero mai realizzato nella Storia, aveva poteri pari agli dei. Che così poco si addiceva a lui.

Perché sì, Caligola non era interessato a mantenere le apparenze, a fingere, fingere come aveva fatto Tiberio -e Ottaviano prima di lui-: lo era stato, forse, un tempo, prima che la malattia2, che lo aveva ridotto quasi in fin di vita ma che aveva sconfitto, gli aprisse gli occhi e gli mostrasse, finalmente, in che cosa consisteva il suo potere.

Oh, la meraviglia quando si era reso conto di ciò che sarebbe stato in grado di fare, se solo avesse voluto.

E lui voleva. Sì, lui voleva tutto.

Voleva gli onori, voleva la gloria, voleva eguagliare i suoi predecessori e superarli in fama, ma rigettava l’idea di nascondersi dietro la carica di semplice reggente e limitare così la sua importanza. Anche ripensando ai suoi genitori, non poteva che ridere della sorte che lo aveva eletto, da figlio di un generale morto -assassinato3- troppo presto -e che ancora poteva vedere, lì davanti a lui: l’immagine di suo padre riverso sul pavimento, macchie nere su tutto il corpo, sguardo fisso, sbarrato, privo di vita- al sommo capo della res publica romana, che res publica, considerò, con sprezzo, oramai non era più4.

Roma gli apparteneva, lo Stato gli apparteneva. Il mondo, sì, il mondo che all’uomo comune sembrava una distesa sconfinata ed indefinita, era nelle sue mani: era princeps, era imperator, era dio. E ad un dio è concesso spremere senza pietà l’universo che governa.

Cosa potevano, in confronto a lui, i membri della classe senatoria, che tanto disprezzava e che tanto si davano importanza, quando avrebbero dovuto ammettere, prima o poi, che tutto il loro potere era passato ad un unico, e più degno, infinitamente più degno, detentore?

Per Giove, un cavallo, il suo cavallo avrebbe svolto un lavoro migliore di quei lacchè! E quanta ilarità aveva causato quell’occasione, quando, con aria di noncuranza e scherno, lo aveva fatto presente ai diretti interessati, quando il suo Incitatus, sotto gli occhi scandalizzati e impotenti di tutti loro, aveva raggiunto la carica di console. 

Così: uno schiocco di dita, una parola sussurrata.

Uno stallone -uno stallone valente, in ogni caso, valente e fedele, a cui era più affezionato della maggior parte delle donne con cui aveva giaciuto- era diventato console in un istante solo perché questa era stata la sua volontà.

Nessuno si era potuto opporre a quella decisione, nessuno perché nessun potere avevano i suoi oppositori, mentre lui aveva tutto, lui era tutto.

Un tutto magnifico, assoluto, destinato alla venerazione eterna.

Non era fiero dei suoi antenati -considerava Agrippa uomo di troppo umili origini e la sua bisavola, Livia Drusilla, nulla di più di un Ulixem stolatum5- e per questo li aveva rinnegati, continuava a rinnegarli, preferendo voci, dicerie infamanti, crudeli e scandalose, ma straordinarie, al tedio profondo che la banalità di quei nomi gli avrebbe offerto: l’incesto di Giulia con Ottaviano6, i suoi stessi rapporti con le sorelle -Drusilla, cara Drusilla, unica fra tanti ad avere riscosso, in lui, un briciolo di affetto sincero- e poi le esecuzioni capitali.

La morte! Quale migliore spettacolo -i corpi straziati, le urla, le suppliche non accolte ed infine il silenzio tetro che si adagiava sopra i corpi a rito compiuto- per ricordare agli altri la loro inferiorità e a se stesso la propria grandezza! Aveva sempre preso parte volentieri alle uccisioni, e ricordava, come periodo particolarmente lieto della sua giovinezza, l’anno in cui, ospitato da Tiberio aveva potuto saggiare il sapore delle decisioni arbitrarie e soggettive e l’odore, dolciastro, -come quello del vino, come quello del potere- proprio del sangue.

Aveva spesso visioni7 della sua grandezza futura. Durante la giornata, e anche nei sogni, gli apparivano chiarissime immagini fantastiche, ancora lontane, ma che, sapeva, si sarebbero realizzate a breve: il suo impero non era che agli inizi. Il popolo poteva disprezzarlo, scalpitare, tentare di sottrarsi al suo giogo, ma lui, lui, invincibile nella sua natura divina, sempre avrebbe prevalso: avrebbe fatto cadere ai suoi piedi ogni istituzione, ogni residuo dell’antica libertà di cui ancora in quel momento senatori, e tribuni, e consoli, amavano tanto riempirsi la bocca.

E lo avrebbero odiato, oh, sì, di questo Caligola era perfettamente consapevole, ma, nella sua lucida follia, non poteva fare a meno che riderne e rallegrarsene: l’odio portava quasi sempre la paura e per Gaio Cesare Germanico nulla poteva suonare più allettante della prospettiva di essere temuto.

Alzò il calice, steso sul suo triclinium, e, un sorriso crudele sulle labbra, fece un brindisi in onore della sua città.

Che Roma tremasse, si sfaldasse, rovinasse sotto il suo comando! 

Fiumi di sangue, pianti, futili suppliche rivolte agli dei: ecco quello che vedeva nel futuro, quello sicuramente anche gli altri vedevano ad ogni sua decisione, ogni sua crudeltà, ogni sua pazzia.

Ma lui sarebbe rimasto lì, immobile nel tempo, immortale, testimone e simbolo della nuova era che stava sorgendo sullo Stato romano.

 

 

 

 

 

 

Perché le figure storiche normali a me, ovviamente, non piacciono.
Riconosco che scrivere una one shot su Cicerone e subito dopo una su Caligola possa non venire interpretato come il massimo segno di sanità mentale e coerenza (e qui non ho neanche la scusa del compleanno da accampare). Non credo che sia una cosa normale avere Caligola come imperatore romano preferito. O almeno, non ho ancora incontrato nessuno che pensi che sia una cosa normale. Ma non posso farci nulla: ho iniziato ad appassionarmi alla sua figura per puro spirito di contraddizione -se tutti lo detestano e lo chiamano folle allora per forza deve essere un personaggio interessante-, ma ho notato, con il passare dei mesi, che Gaio Cesare Germanico aveva davvero qualcosa che stuzzicava la mia immaginazione. Spero di aver reso bene una sua ipotetica introspezione e di averlo reso -se non più simpatico, riconosco che sarebbe chiedere troppo- almeno un personaggio un più a tutto tondo dell’immagine che Svetonio ci ha lasciato di lui.
Ovviamente, se qualcuno volesse lasciare un commentino -in negativo o positivo- io sono sempre qua.


Dato che non mi aspetto che molti altri, qui, siano appassionati di Caligola, -mi sento una persona orribile io stessa ammettendolo- lascio due o tre note, giusto per sicurezza:

1 «Che mi odino pure, purché mi temano». Stando a Svetonio, fonte più attendibile per quanto riguarda la sua vita, Caligola aveva scelto queste parole come linea guida di comportamento.

2 Ancora una volta, qui dobbiamo fare affidamento su Svetonio: lui -e gli altri storici che si sono occupati della vita di Gaio Cesare Germanico- distinguono due periodi della sua vita. Il primo, in cui governò in modo, tutto sommato, moderato ed il secondo, in cui invece si rese tristemente famoso per le pazzie con cui il suo nome è stato tramandato fino ai giorni nostri. La divisione è, appunto, delineata dalla malattia che lo colse nell’ottobre del 37 d. C.: dopo la guarigione, dicono, nulla in Caligola fu più lo stesso.

3 Il padre, Germanico, fu ucciso, avvelenato, -forse dal governatore della Siria, Pisone- quando Caligola aveva solo sette anni: sempre Svetonio riporta come questo avvenimento abbia segnato, forse per sempre, la mente del futuro imperatore.

4 Caligola fu il primo tra gli imperatori a rendere ben chiaro quanto gli organi repubblicani non avessero più valore: si dice che, al cospetto di alcuni sovrani stranieri, egli abbia gridato «Ci sia un solo capo, un solo re!».

5 Letteralmente «Un Ulisse in gonnella»: si dice che l’unico antenato per cui portasse rispetto fosse Marco Antonio.

6 Diffuse lui stesso la diceria che la madre fosse nata da un simile rapporto, in modo tale da poter vantare origini più illustri possibili ed ebbe rapporti incestuosi con tutte e tre le sue sorelle, tra le quali però solo Drusilla gli fu veramente vicina: alla morte di questa, infatti, le altre due vennero esiliate.

7 Più che visioni, Svetonio parla di allucinazioni in piena regola: si è fatta strada fra gli storici l’ipotesi che Caligola soffrisse di una qualche malattia degenerativa.

 

   
 
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