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Autore: iwaizumemes    28/01/2018    1 recensioni
«Abbiamo dei trascorsi e sono passati anni dall’ultima volta che mi hai visto, sei certo che non hai nulla che muori dalla voglia di raccontarmi?» Oikawa sorride, tutta una farsa, e si strofina i palmi sulla camicia nera. Forse sta sudando, forse cerca di fargli credere che sia nervoso, Kageyama non è in grado di dedurlo da così lontano.
Ancora ricorda la prima volta che notò le mani di Oikawa. Accadde quando si conobbero, quasi un decennio fa, che Kageyama fu condotto dai suoi sovrintendenti in uno squallido ufficio, spinto su una sedia, e ricevette un’offerta di promozione.

{ Oikawa/Kageyama | One shot | 3734 parole | Spy!AU | Traduzione di Hiraeth }
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Tobio Kageyama, Tooru Oikawa
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Note della traduttrice (Hiraeth): sono ormai caduta nel fosso senza fine dell’Oikage e non c’è verso di potermi salvare. Poi se mi aggiungi la Spy!AU, che è una delle cose più belle al mondo, muoio.
 Ho letto questa fanfiction per la prima volta più di un mese fa, in realtà, ma le dinamiche tra Oikawa e Kageyama in questa storia mi sono rimaste impresse e ho dovuto tradurla! Il link alla versione originale è qui. Leggete quella se masticate l’inglese e vi va di farlo, non questa traduzione, haha.
 Comunque sia, buona lettura!










You Told Me This Is Right Where It Begins
di iwaizumemes




«Hai mai pensato che ci saremmo ritrovati in questa situazione, Tobio-chan?» chiede Oikawa. Oikawa è in vantaggio, la schiena contro la parete, mentre Kageyama ha le spalle rivolte verso la porta da cui è appena entrato. Potrebbe trattarsi di un’imboscata, è molto probabile che sia una trappola.

 Non ribatte all’interrogativo, perché la risposta è no. Non capisce perché non è afflosciato sul marciapiede con una pallottola piantata in testa. Anzi, gli è stato consentito di giungere fin qui, nel nascondiglio dei sogni di qualsiasi cecchino, e di incontrare Oikawa faccia a faccia.

 È una stanza piccola, spoglia fuorché per la custodia del fucile di Oikawa e il treppiede vicino alla finestra aperta. Dalla sua posizione sfavorevole, Kageyama scorge solo una vasta area della piazza sottostante, ma può immaginare cosa sia successo: Oikawa ha avvistato il suo arrivo da più di un chilometro di distanza e non ha fatto nulla per impedirlo.

 Sia lui che Kageyama sono cecchini, non sono tagliati per uccidere un avversario combattendolo corpo a corpo. E Oikawa? Be’, di sicuro è qui per ordine di qualcuno che lo vuole morto.

 «Non hai niente da dire?» lo punzecchia Oikawa e, una volta sondata la stanza, Kageyama lo fissa direttamente negli occhi. Oikawa ha un’aria stanca, non più giovane come un tempo, nessuno di loro due lo è più, e può darsi che Oikawa abbia ricominciato a non dormire la notte. A Kageyama non piace la prospettiva, detesta l’immagine di un Oikawa in difficoltà, avverte una fitta di dolore nonostante la maschera di arroganza dell’altro.

 «Che c’è da dire?» replica infine, e la sua gola protesta, stridente e asciutta perché per troppo a lungo non è stata usata. Mentre lavora non parla mai granché, ritiene che la solitudine sia uno dei pro del mestiere. Affermando che non sa cosa ci sia da dire non sta mentendo, tuttavia sa bene perché gli è stata posta quella domanda. Oikawa si è chiaramente preparato un monologo e Kageyama può soltanto sperare di sfruttare la nozione per uscirne vivo.

 «Abbiamo dei trascorsi e sono passati anni dall’ultima volta che mi hai visto, sei certo che non hai nulla che muori dalla voglia di raccontarmi?» Oikawa sorride, tutta una farsa, e si strofina i palmi sulla camicia nera. Forse sta sudando, forse cerca di fargli credere che sia nervoso, Kageyama non è in grado di dedurlo da così lontano.

 Ancora ricorda la prima volta che notò le mani di Oikawa. Accadde quando si conobbero, quasi un decennio fa, che Kageyama fu condotto dai suoi sovrintendenti in uno squallido ufficio, spinto su una sedia, e ricevette un’offerta di promozione. A presentarla non fu Oikawa, che tra parentesi non avrebbe nemmeno dovuto essere lì, ma lui attirò la sua attenzione come un bersaglio in movimento. Kageyama lo contemplò mentre Oikawa stava in silenzio addossato al muro dell’ufficio, lo studiò mentre univa le mani e incrociava le lunghe dita in un gesto di cortesia, che sarebbe parso innocente su chiunque altro, ma che su di lui sembrava una presa in giro.

 Kageyama era bravo a fare multitasking e pertanto riuscì lo stesso ad ascoltare il discorso del sovrintendente, e comunque dubitò che quello si fosse accorto della leggera esitazione nella sua voce quando accettò la proposta. Avrebbe intrapreso senza alcun indugio il suo addestramento sotto la supervisione di Oikawa, lo informò il sovrintendente, ma Kageyama si concentrò esclusivamente su quelle mani, l’una stretta all’altra.

 «Questa è bella» commenta, e per un istante il viso confuso di Oikawa si accartoccia. «Morire dalla voglia. Era una battuta, giusto?» Tenta di cacciare una risata, che rimbomba contro le pareti della stanza senza che lui si aspetti di suonare sincero, eppure Oikawa non lo imita.

 «Sei cambiato, Tobio-chan». Oikawa lo squadra come un libro scritto in lingua straniera, assottigliando lo sguardo che esamina Kageyama da cima a fondo e poi, di nuovo, dal basso verso l’alto.

 Non sbaglia asserendo che Kageyama è cambiato, cresciuto, e Kageyama presume che lo sia anche Oikawa. Era impossibile che restassero uguali a com’erano quando tutto cominciò. Questo lavoro cambia le persone, e Oikawa aveva appena completato il suo addestramento quando iniziò quello di Kageyama.




«Hai mai usato un fucile?» gli chiese Oikawa, con quel tipo di sprezzo che Kageyama aveva sentito rivolto solamente ad altri, mai a se stesso.

 Kageyama era stato un soldato e adesso lavorava per un’agenzia di spionaggio, per cui una domanda simile oltre a essere idiota era anche offensiva, e dovette fare appello al suo sangue freddo per mantenere un tono rispettoso. «Sissignore».

 Oikawa allora rise, e protese il busto in avanti avvicinandosi a Kageyama dall’altro lato della scrivania. «Ma hai mai usato un vero fucile?» C’era qualcosa nella sua voce, un che di seduttivo nel modo con cui descriveva le armi, il processo con cui prendeva la mira dell’obiettivo, e Kageyama aveva ormai dimenticato l’esistenza di altri mestieri all’infuori del loro. Aveva l’occasione di trasformarsi nella creatura leggendaria di cui parlava Oikawa, arbitro della vita e della morte, un dio il cui dito era fisso sul grilletto, lo sarebbe diventato, tutto il resto non aveva più importanza.

 Quella notte osservò Oikawa disassemblare, pulire e oliare il suo fucile. Le sue mani, forti ma dotate della precisione delicata di un chirurgo, smontarono l’arma e verificarono l’assenza di danni. L’olio colava dai polpastrelli che entravano in contatto con i pezzi. Oikawa non fornì spiegazioni tecniche, non indicò i nomi dei componenti e non illustrò il loro scopo all’interno del fucile. Rimase taciturno, e Kageyama non ebbe scelta se non scrutare il suo operato in un silenzio analogo, interrotto solamente dalla sporadica boccata d’aria quando si scordava di respirare.

 Fu congedato diverse ore dopo la transazione del cielo da notte tarda a mattina presto e, quando finalmente riuscì a farsi qualche ora di sonno, sognò le mani di Oikawa ricoperte di sangue e di polvere da sparo.




«In fondo sono trascorsi dieci anni» decide di affermare anziché concordare. È un compromesso e il debole sorriso che Oikawa gli rivolge è segno che anche lui lo comprende. A Oikawa pare basti questa tranquillità, la minaccia benigna del suo fucile, la canna che sporge leggermente dalla cornice della finestra aperta. Kageyama attende ancora un discorso, la ragione per cui si sono incontrati, per cui sono assieme nella stessa stanza, però è impaziente di farla finita, qualunque cosa abbia in mente Oikawa. «Perché ci troviamo qui?»

 «Perché no?» replica Oikawa, e contempla il paesaggio fuori dalla finestra ignorando il suo interlocutore. Kageyama scorge il sole che tramonta e che dipinge chiazze arancioni sulle pareti grigie-bianche della stanza, il fuoco che scintilla nelle iridi di Oikawa. La risposta di Oikawa non sembra canzonatoria, è singolare, e a Kageyama occorre qualche secondo per capirne il motivo. È perché è triste.

 I loro ordini, dovrebbe menzionare Kageyama, o la tacita rivalità tra loro due, o l’incontrollabile attrazione che prova quando è intorno all’altro, una qualsiasi argomentazione logica da contrapporre alle parole illogiche di Oikawa. Invece Kageyama compie un passo verso la finestra.

 Così avanza in direzione di Oikawa, e a Kageyama non sfugge di notare che i suoi muscoli si irrigidiscono, che il suo polso ha uno scatto verso quella che, sotto la giacca, è probabilmente una fondina da pistola agganciata al petto. Il sole che cala dietro l’orizzonte degli edifici in distanza gli brucia gli occhi. Oikawa è immobile. Kageyama non ribatte alla sua domanda.

 Non aprono bocca finché il sole non scompare e la vista di Kageyama non si abitua all’oscurità.

 «Avevo voglia di vederti» dice Oikawa, e Kageyama fa un profondo respiro.




«Desidera vederla» gli comunicò la segretaria, indicando il modesto ufficio di Oikawa sul retro del banale palazzo definito quartiere generale. Durante quei mesi passati insieme Kageyama vi era entrato solo sei volte, Oikawa di solito preferiva la sala conferenze o l’autorimessa o il minuscolo appartamento di Kageyama. Non c’erano aspetti della sua vita che l’esistenza di Oikawa non tingesse di rosso marrone, persistente come un profumo spruzzato troppo generosamente. Rosso marrone come i suoi capelli, sistemati senza tante cerimonie dietro le orecchie quando accostava l’occhio al mirino, come il fiore che sbocciava lentamente sul petto dei bersagli pitturando le loro camicie bianche.

 Oikawa sedeva sulla scrivania, leggendo in apparenza un raccoglitore pieno di fogli, ma squadrandogli l’espressione Kageyama ne notò la fissità. Si trattava dell’ennesima ostentazione, dello spettacolo che continuava a inscenare come se Kageyama fosse il pubblico di un’opera teatrale. Oikawa poggiò il raccoglitore sulla scrivania, chiudendolo con cautela e scorrendo le dita lungo le pagine color bianco sporco, e rimosse la pistola dalla fondina al suo petto. L’arma pareva piccola se paragonata ai fucili che Kageyama era abituato ad ammirare tra le mani di Oikawa, tuttavia il modo con cui era impugnata dava prova della disinvoltura con cui il suo proprietario si serviva anche dei calibri inferiori. Oikawa fece scivolare la pistola sulla superficie all’angolo della scrivania, in prossimità di Kageyama.

 «Mostrami». Il suo fu un sorriso tutto denti e Kageyama agguantò la pistola. Si avvicinò alla scrivania al punto da poter toccare con un’anca il ginocchio piegato di Oikawa. La scrivania non era abbastanza alta perché Oikawa potesse troneggiare su di lui, eppure la sua presenza lo faceva sentire insignificante al confronto.

 Nel disassemblare l’arma non si distrasse mai, deponendo ogni componente con precisione lungo una linea rettilinea, parallela al bordo della scrivania di legno e alla coscia di Oikawa. Lo fece con rapidità, quasi istintivamente grazie all’esperienza accumulata. Quando sollevò il mento, scoprì che Oikawa lo stava osservando.

 «Che c’è?» chiese Kageyama, troppo piano per apparire severo come avrebbe voluto.

 «Prosegui» replicò Oikawa. Non distolse mai lo sguardo, talmente intenso da mettere a disagio Kageyama, le cui mani tremavano contro il metallo mentre riassemblava la pistola. Questa volta avvertì gli occhi di Oikawa su se stesso quando posò la pistola dov’era all’inizio, sulla scrivania, il caricatore pieno.

 Tuttora ricorda cosa credeva sarebbe successo, il lampo di sfida nell’iride di Oikawa mentre si guardavano faccia a faccia, l’incapacità di Kageyama di volgere altrove l’attenzione e la consapevolezza che Oikawa non lo avrebbe fatto. Gli parve un nuovo principio, il nuovo inizio della loro storia, di cui non avrebbero fatto parola con nessun altro.

 «Di nuovo». Ancora quel sorriso ma, nel sollevare la mano di Kageyama adagiandola sulla pistola, Oikawa evitò il suo sguardo.

 «È per questo che mi hai fatto chiamare?» Sebbene pensasse di conoscere la ragione, la domanda gli abbandonò le labbra con una facilità inaspettata; la compagnia di Oikawa lo confortava quando le loro bocche erano separate dalla distanza di un soffio.

 Le dita di Oikawa si chiusero a pugno intorno al dorso della mano di Kageyama e la pistola. Sorrise, quel sorriso a trentadue denti che diceva “fidati di me” e che Kageyama non era sicuro di amare o di detestare, poi si mosse. Fu così veloce a conficcare il tacco nel poplite di Kageyama da coglierlo di sorpresa. Kageyama cadde in ginocchio sul tappeto, il gomito che sbatté contro lo spigolo della scrivania e che sbalzò via come proiettili sparati da un dilettante.

 «Cos…» tentò di biascicare prima di trovarsi in bocca la pistola, che urtò i suoi incisivi con una forza tale da farlo trasalire e che lo costrinse ad aprire la mascella per meglio accomodarvi la volata. Lui raggelò per sentimenti non dissimili alla paura mista alla curiosità.

 «Voglio che mi ascolti, Tobio-chan. È per questo che ti ho fatto chiamare». Oikawa rideva con un’innocenza che di norma nella sua voce era assente. Era il tipo di risata che avrebbe fatto sorridere il Kageyama d’allora al solo pensiero. Invece Kageyama rammenta che continuò a stare inginocchiato, inerte e silenzioso accanto alla gamba di Oikawa e la scrivania. La canna di metallo premeva contro la punta dei suoi incisivi superiori. «Stai ancora imparando e hai bisogno di pratica, non sei d’accordo?»

 Gli pose quell’interrogativo come in attesa di una reazione, ma lui non osò schiodarsi. Il pollice di Oikawa fece un gesto, che alla coda dell’occhio di Kageyama parve soltanto un baluginio di movimento, ma che comprese era il rumore della sicura tolta.

 «Voglio una risposta, Tobio-chan» intimò Oikawa, questa volta con un tono più basso e, anche ipotizzando che Kageyama non avesse avvertito la minaccia che già prima caratterizzava la voce di Oikawa, adesso il pericolo straripante era impossibile da ignorare.

 Kageyama annuì il più veloce che poté, limitandosi a scuotere di qualche millimetro il mento. «Pratica» cercò di scandire, ma non potendo unire le labbra risultò inintelligibile.

 Oikawa si placò e sorrise.

 «Bravo» esclamò, approvando come se Kageyama avesse azzeccato l’opzione corretta. «Ottimo. Sono lieto che siamo d’accordo. Allontanati dalla scrivania».

 Il gomito gli palpitava dal dolore provocato dall’impatto contro la scrivania e la sua spalla sfiorava le gambe di Oikawa. L’idea di ritrarsi, allargargliele per poi finire con un proiettile in fondo alla gola lo faceva esitare. Oikawa però era stato chiaro con il suo ordine e Kageyama non aveva alcuna scelta se non obbedirgli. Arretrò, trascinando all’indietro prima un ginocchio e poi l’altro. Oikawa assecondò i suoi spostamenti, allungando il braccio per evitare che la pistola si sfilasse, finché non ebbe finalmente tra le gambe Kageyama a un passo dalla scrivania. Ora la figura di Oikawa si stagliava su di lui, chinandosi come un’ombra che si arrampica sul muro.

 «Molto meglio, adesso resta dove sei».

 Kageyama non aveva comunque intenzione di ribellarsi. Era ben conscio di quanto letale fosse Oikawa, sia a distanza che da vicino, e con il dito sul grilletto la natura lunatica del suo umore poteva costargli la vita.

 Avrebbe voluto chiedere ancora: «Perché mi hai fatto chiamare?», tuttavia aveva sempre saputo che eventualmente sarebbero giunti qui, Kageyama alla completa mercé di Oikawa. Era ciò a cui erano destinati sin dal loro primo incontro, sin dal momento in cui Kageyama aveva contemplato per la prima volta il flettere delle mani di Oikawa, in cui aveva fissato con bramosia il suo dito indice premere il grilletto. Kageyama aveva sempre agognato l’attenzione indivisa di Oikawa su se stesso e nessun altro.

 «Adesso ti levo la pistola dalla bocca e mi dici cosa vuoi che ti faccia, okay, Tobio-chan?» Dal linguaggio del corpo di Oikawa non traspariva niente se non affabilità, c’erano solo il terrore nei meandri della mente di Kageyama e l’opprimente richiamo di quel sorriso. «Non essere timido. Non trattenerti, perché la pistola tornerà dov’è non appena avrai concluso e se poi mi domanderai qualcos’altro non riuscirò a comprenderti».

 Malgrado il panico, sapeva cosa intendeva Oikawa. A Kageyama era offerta l’opportunità di tirarsi indietro, ma cogliendola non sarebbe stato più in grado di guardarsi in faccia e ripresentarsi in ufficio. Era anche consapevole che, rimanendo… sarebbe stata una questione di tutto o niente.

 Oikawa tolse la pistola lentamente, facendo scorrere il metallo umido sul labbro inferiore di Kageyama. Sarebbe parso seducente, piacevole ma non abbastanza, se quella sulla sua pelle non fosse stata un’arma mortale.

 Kageyama inspirò ed ebbe quasi imbarazzo del tremore che gli attraversò il petto. Le sue mani, serrate a pugno sulle ginocchia, erano ancora bianche dalla paura.

 Cosa desidero?, pensò allora e pensa tuttora. Per cosa smaniava? L’unica cosa di cui era sicuro era che non avrebbe mollato. Non sarebbe mai stato capace di ribattere “no” e abbandonare la vita che conduceva. E allora rispose. Disse tutto quello che avrebbe voluto fare e tutto quello che credeva gli avrebbe voluto fare Oikawa. Tutto o niente.




Io invece non avevo affatto voglia di vederti è quello che vorrebbe sbottare, quello che vorrebbe urlare, dimenticare che è Oikawa colui che lo ha trasformato nella persona che è oggi e che ha frantumato il suo io passato.

 Concede a se stesso il lusso di sibilare: «Avrei preferito ignorare la tua esistenza per un altro decennio». Non è mai stato loquace quanto adesso, ma gli è più facile esprimersi nell’oscurità, dove può scordare che dietro di lui c’è Oikawa.

 «Aah, non essere cattivo» replica Oikawa, e Kageyama è certo che voltandosi avrebbe davanti un sorriso familiare, l’espressione Ho ciò che voglio per la quale un tempo faceva i salti mortali pur di compiacerla. Il cielo in fronte a lui è buio, ma le luci della città hanno cominciato a diffondersi, spuntando fuori come lucciole che volano nell’aria, la città è viva e Kageyama non capisce perché lui è ancora vivo.

 Quando cala il silenzio, sente il respiro di Oikawa, che impaziente sposta il peso da un piede all’altro. Kageyama è immobile. Scruta la città, tuttavia si concentra il più possibile sulla sua visione periferica, osserva Oikawa senza ammettere di starlo studiando. È come rimirare il sole, non è l’ora di farsi accecare.

 «Possiamo farla finita?» decide infine di pregarlo. È stanco dell’attesa che ha sopportato per accontentare quel seccatore. Se ha intenzione di ucciderlo, che ci provi. Nel corso degli ultimi dieci anni ha imparato ben più di quanto gli sia stato insegnato e chi lo conosce afferma che lui è destinato alla grandezza.

 Quando Oikawa gli tocca la spalla ha solo mezzo secondo per scegliere: attaccare o difendere?

 Kageyama attacca.

 Con una gomitata all’indietro devia qualunque eventuale attacco armato mirato alla sua colonna vertebrale e, girandosi, fa sì che la mano di Oikawa si allontani dalla sua spalla. Oikawa reagisce. Respinge con l’avambraccio il colpo inflittogli dal gomito di Kageyama, ma anziché arretrare, esaminare il campo di battaglia e combattere usando il cervello come dovrebbe, Oikawa si avvicina, lo costringe ad appiattirsi contro la finestra e perdere l’equilibrio. Anche lui a quanto pare ha imparato qualche trucco nuovo, ma la mera nozione del fatto non procura a Kageyama alcun vantaggio.

 Kageyama afferra la camicia dell’avversario per non cadere e, quando le sue gambe ritrovano stabilità, ha una spalla poggiata contro il cornicione della finestra, l’altra esposta all’aria aperta e, cosa allarmante, ha Oikawa a stretto contatto con lui.

 «È questo che vuoi?» chiede Oikawa sogghignando, e la distanza che separa i loro volti è talmente esigua che Kageyama può direttamente squadrare le sclere bianche dei suoi occhi.

 Kageyama non sa perché lo bacia.

 È un’esperienza nuova e familiare al contempo. Mordendogli il labbro inferiore il sapore è lo stesso, però che Oikawa si sciolga come ghiaccio al fuoco è una novità inaspettata e terrificante. Kageyama non si è mai sentito in controllo dei loro baci, è sempre stato in balia dell’altro, ma adesso le mani di Oikawa vagano sul suo petto, pizzicando e graffiandogli la pelle con disperazione, ed è una sensazione piacevole, sebbene non sia in grado di spiegarne il perché.

 Oikawa gli è premuto contro e Kageyama gli circonda il collo con le mani approfittandosene per raddrizzarsi, recuperare l’equilibrio e spostarsi a fianco della finestra, al sicuro eccetto che dall’uomo a cui appartiene la lingua infilata nella sua bocca.

 Quando riacquista lucidità, pensa che quanto gli ha domandato Oikawa sia buffo, e che lo sia anche la risposta che gli ha dato. È questo che vuole? Se deve essere onesto, . Sin dall’ultima volta che ha visto Oikawa entrare nel vecchio quartier generale, consapevole che non sarebbe tornato più. Avrebbe voluto baciare e scacciare dalla faccia di Oikawa l’espressione accigliata che rivolgeva da sopra la spalla con aria di sospetto. Avrebbe voluto spingerlo contro la parete dell’edificio e baciarlo al punto da registrare i commenti dei passanti solo nell’eventualità che quelli si facessero assordanti. Ma allora non lo fece e oggi deve tracciare un limite.

 Si separa dall’altro, giusto di un centimetro, respirando affannosamente. Trascorre un attimo prima che riesca a parlare, ma Oikawa non muove un muscolo. «Sei qui per uccidermi» asserisce Kageyama, e si obbliga a guardarlo.

 Oikawa non sembra sorpreso, tuttavia per una frazione di secondo il suo viso lo tradisce, e Kageyama la prende come una conferma, come la dimostrazione che è successo quanto Oikawa aveva già previsto. «E tu sei qui per uccidere me, Tobio-chan».

 Non lo nega. Non consiste in questo l’obiettivo principale della sua missione, ma Oikawa è un combattente nemico, e uno per giunta abile. Togliendolo di mezzo, Kageyama verrebbe lodato per il suo valore, premiato, forse addirittura promosso. Il suo unico rammarico è che non può farlo con il suo fucile come insegnatogli.

 Rispetto a lui, Oikawa pare ricomporsi più rapidamente, ma mantiene la sua posizione anziché scostarsi e scorre le mani lungo i fianchi di Kageyama fino a stringergli il fondoschiena. «Allora» esclama, e la sua voce volubile è impregna di promessa, «e adesso?»

 Kageyama afferra la pistola al fianco di Oikawa nello stesso istante in cui Oikawa impugna quella riposta nella fondina agganciata al sedere di Kageyama. Kageyama preme il grilletto e, al contempo, urta il braccio di Oikawa con il gomito.

 La sua mira è imperfetta, approssimativa, e se il sangue che trapela dal tessuto nero è di alcuna indicazione, la zona della ferita è collocata nella parte inferiore dell’addome. Oikawa non capitola immediatamente, e si riprende abbastanza da tentare ancora di sparare. Kageyama lo colpisce di nuovo, questa volta disarmandolo della pistola, che vola via e finisce dall’altro lato della stanza buia.

 Quando Oikawa crolla, non c’è alcuna differenza tra lui e i bersagli che Kageyama ha visto soccombere a centinaia, la sola distinzione è la vicinanza. È più personale osservare con i propri stessi occhi l’espressione sofferente di una vittima piuttosto che attraverso il mirino di un fucile di precisione.

 «Lo sapevo» dice Oikawa e, a udire la sua voce che si spezza, Kageyama in solidarietà sente l’esigenza di schiarirsi la gola. «Sei stato bravo, Tobio-chan».

 Le ginocchia di Kageyama tremano e le sue mani tremano e ben presto trema il suo corpo intero, come se nelle sue ossa si fosse insidiato il freddo, e Oikawa ride come se non fosse lui quello che giace morente sul pavimento incompiuto. Kageyama si chiede se le assi di legno si impregneranno di sangue, se rimarrà una macchia troppo profonda da lavare via.

 La sua mente esamina decine di frasi con cui potrebbe concludere, che vanno da grazie a te lo sei meritato e tutte le sfumature in mezzo tra le due. Non apre bocca, però. Non raccoglie la sua pistola da terra e lascia cadere quella di Oikawa con un tonfo sordo. Quando esce dalla stanza Oikawa sta ancora ridendo, ma è soltanto in seguito che Kageyama si rende conto che le sue risa erano somiglianti a dei singhiozzi.

   
 
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