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Autore: Soul of dreams    31/01/2018    1 recensioni
Racconto scritto da me, che ho presentato come tesina all'esame di stato. Il tema principale era, appunto, il Grande Gatsby, libro scritto da Francis Scott Fitzgerald.
Spero che vi piaccia, buona lettura!
[...] «Allora è così che finisce, vecchio mio?» Chiede Gatsby, sospirando.
«Dipende tu cosa intendi per fine, la tua emblematica scomparsa è qualcosa di estremamente significativo per me», esordisce Fitzgerald sereno.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Allora è così che finisce, vecchio mio?» Chiede Gatsby, sospirando.
«Dipende tu cosa intendi per fine, la tua emblematica scomparsa è qualcosa di estremamente significativo per me», esordisce Fitzgerald sereno.
«È tutto così buio, non riesco a scorgere nient'altro. Sono stato inghiottito dal nulla».
«Ed è negativo?», continua a dire l'autore, rivolgendosi alla sua eccezionale creazione.
Per un attimo il silenzio regna sovrano, Gatsby corruga la fronte. «No, stranamente no. Provo quasi una sensazione confortevole. Il nulla, dopotutto, dona una sfumatura particolare al tutto».
«Perché il tuo desiderio si è spento, la tua volontà assoluta si è assopita. Hai smesso di varcare i limiti del tuo essere, approdando in una specie di nirvana», esordisce lo scrittore, fissando attentamente il protagonista della sua opera.
«Adesso che ci penso, anche la luce verde è svanita. Prima bastava che mi sbilanciassi soltanto di qualche passo, che protendessi la mia mano in avanti e il suo calore irradiava la mia figura. Per tutti quegli anni è stata la fiamma che ha vivificato la mia anima, ma ora non riesco più a percepirla».
«È una cosa naturale, prima o poi il lanternino, racchiuso nel frammento più profondo del nostro essere, si spegne, rendendoci parte integrante di quell' oscurità dalla quale esso ci separava. Una volta che la sua luminescenza si affievolisce, una sensazione di pace ci pervade», dice Fitzgerald con espressione assorta.
«Il lanternino?», mormora Gatsby confuso.
«Si, quella scintilla vitale che differenzia l'uomo dagli altri esseri viventi, trasformandolo in un animale metafisico».
«Una scintilla alimentata da grandi ideali», afferma con sguardo consapevole il visionario.
«Esatto, i cosiddetti lanternoni. Sono loro che guidano il nostro cammino, che permettono alla nostra fiamma di ardere con decisone e vigore». Sorride entusiasta l'artista.
«Ma se essi diventano evanescenti, cosa ne resta del lanternino?»
«Perdono la loro stabilità, andando incontro, inevitabilmente, alla...»
«Fine», interviene il frutto della sensibilità del poeta.
Fitzgerald lo fissa intensamente.
«Il mio qual era?»
«Credo che tu già lo sappia».
Gli occhi vacui di Gatsby sussultano.
«Daisy, era lei il mio ideale. Fino all'ultimo istante mi sono aggrappato alla sua immagine, ma ormai era troppo tardi. La donna che ho amato per cinque anni, un lasso di tempo che mi è parso eterno, è stata consumata nello sfarzo di un'epoca vuota e dilaniata».
Il creatore guarda la propria creatura e dice «è stato necessario, le persone si sono rifugiate nell'edonismo perché scavare nel profondo faceva ancora male. Volevano semplicemente dimenticare, erano reduci di una guerra, un conflitto sanguinoso che li ha devastati».
«Una società che non lascia ancora spazio a persone come me».
Dinanzi a tale affermazione, stavolta, è Fitzgerald a corrugare la fronte.
«Cosa intendi?», chiede.
«È una società liquida, imbrigliata in delle caste che irrigidiscono l'individuo, paralizzando il suo essere».
L'autore, sempre più confuso, fissa il protagonista del suo romanzo con sguardo malinconico, aspettando che si spieghi.
«Ora che ci penso, non ero poi tanto diverso dal Trimalcione di Petronio o dal Mastro Don Gesualdo di Verga. Semplici parvenu, distrutti da un sistema che apprezzava le loro ricchezze, ma che, nonostante tutto, continuava a giudicarli come dei poveri arricchiti. Individui che non si sarebbero mai integrati in quella struttura che divora gli uomini, trasformandoli in dei semplici fantocci».
Delle lacrime amare rigano le guance di quell'uomo, dalla ragione, dal cuore e dalla volontà divine, che si è spento nell'ombra della sua perfezione.
«L'ho sempre saputo, ma ho preferito non guardare. Pensavo che sarebbe stato diverso, ma, alla fine, sono rimasto prigioniero di una gabbia che io stesso ho creato.
La perfezione è una condanna, l'imperfezione un difetto.
Volevo solo che lei mi amasse senza vergognarsi. Credevo che, se avessi reso tutto perfetto, lei mi avrebbe amato per l'eternità.
L'ho fatto per amore, seguendo la mia coscienza, un ideale che, lentamente, è diventato troppo grande, schiacciandomi.
Ne ero consapevole, ma non volevo ammetterlo, non potevo farlo».
Sorride.
«Perché avrei dovuto?
Ho sempre creduto in un futuro orgastico. Quel frangente di tempo che anno dopo anno si ritira dinanzi a noi.
“Ieri ci è sfuggito, ma non importa...”, mi ripetevo
“Correremo più forte, allungheremo di più le braccia e un bel mattino...” .
Non c'era bisogno di preoccuparsi, avremmo continuato a remare controcorrente, risospinti, senza posa, nel passato, in un semplice perpetuarsi dell'identico.
Solo adesso mi rendo conto che erano pensieri malati, di una mente infettata dalla sfavillante e ruggente America degli anni venti».
Lo scrittore, che fin a quel momento è stato lì fermo ad ascoltare, esordisce «la tua mente non era infetta, era la mente di un visionario. Di colui che si pone al sopra delle parti, che ha una sensibilità diversa, da renderlo speciale. Un intelletto raffinato, capace di udire rumori o parole che gli altri non percepiscono e sordo alle parole che invece sembrano sentire.
Qualità che ti spingono ad andare oltre, denudando le persone dalle loro maschere e permettendoti di sondare i frammenti più reconditi delle loro anime.
Un stato di pura elevazione che, inevitabilmente ti posiziona al di fuori della cornice sociale, dall’altra parte di una vetrata immensa e invisibile.
Vivi in essa, ma in un stato di perenne nostalgia perché la tua mente è impegnata ad interrogarsi, invece di stordirsi in passioni comuni che offuscano la percezione.
Non so ancora dire quale sia la scelta migliore, il comportamento più adeguato e funzionale. Vivere o lasciarsi vivere?», Fitzgerald sospira.
«L'unica certezza che possiedo, è quella della tua scomparsa. Era inevitabile e necessaria».
«Perché?», chiede Gatsby, tranquillandosi, mentre tutte le sue accezioni umane stanno fluendo via, divenendo parte di quel Tutto indistinto.
«Perché la morte di qualcuno dona agli altri il modo di apprezzare la vita nel contrasto», esordisce semplicemente l'artista.
«Il visionario deve morire per permettere ciò», dice il personaggio.
«Si, lasciando che la sua sensibilità risvegli quella del prossimo».
«Nick...», dice Gatsby, pensando all'amico.
Fitzgerald annuisce, sorride e si siede al fianco di quest'ultimo.
Una sensazione di pace li pervade, lasciando che la grandezza racchiusa in quel romanzo, continui a suscitare emozioni per i giovani della generazione del poeta, per i critici della generazione successiva e per gli insegnanti di tutte quelle che sarebbero venute dopo.

  
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