Anime & Manga > Inuyasha
Ricorda la storia  |      
Autore: LarcheeX    08/02/2018    8 recensioni
Fanfiction scritta per il contest Special February indetto dal gruppo Takahashi fanfiction Italia!
Ad una festa in maschera che si tiene in un'antica villa di periferia, Rita inizia ad avere degli strani flashback di un periodo passato in cui ballava con un uomo misterioso...
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Rin, Sesshoumaru | Coppie: Rin/Sesshoumaru
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Salve, sono Larch.
Eeh, non so più fare l'introduzione ad una cosa nuova, bene.

Allora, prima di tutto, il prompt di questa storia mi è stato dato sul gruppo Takahashi fanfiction Italia, quindi grazie u-u
Poi, il titolo viene da una canzone degli Smiths "There is a light that never goes out", ve la consiglio perché è molto bella!


Questa storia è sperimentale, non si tratta del mio solito modo di scrivere, ma dato che è una One-Shot mi sono presa la briga di uscire un po' dai miei standard, anche se probabilmente non si nota per nulla, adoro complicarmi la vita a caso.
Ma insomma, se ha qualche sgorbio è perché probabilmente ho fatto il passo più lungo della gamba. Good.
Dietro la struttura stessa della storia c'è uno schema, ma non mi piace molto spiegarlo subito, quindi se la volete sapere ditemelo e ve la scrivo in risposta. Se volete condividere la vostra interpretazione sono ugualmente contenta - non che sia particolarmente difficile lol

Altra precisazione, per chi mi conosce già e inciampa in questa storia: questa OS è completamente scollegata dalla mia long, quindi non ci sono spoiler, andate tranquilli :3

E boh, non so più che dire, probabilmente invierò la storia al sito e comincerò a ricordarmi le cose da dire.


Buona lettura a tutti!!!




A light that never goes out

 

 

 

 

 

 

 

iII

 
L’intermittenza dei lampioni si faceva più rapida e ritmica mano a mano che si perdevano tra le strade della campagna illuminata come se fosse giorno. Lasciava che quei raggi artificiali attraversassero il suo viso, bucando il buio delle sue palpebre strizzate nel tentativo di non far bruciare gli occhi di fronte a quella luce insolita.
Anche senza aprirli, percepiva gli sguardi delle altre passeggere del pullman pungerla con confusione e ironia. Sentiva i loro sibili, ma non vi dava peso.
Alla fine quel brusio si risolse in un fermo: « Scusami » coordinato a una vigorosa stretta al braccio per attirare la sua attenzione.
Aprì gli occhi, voltandosi nella direzione del richiamo: di fronte a lei trovò una ragazza dalla corporatura esile e raffinata, il viso parzialmente coperto da un paio di spessi occhiali da sole orlati di decorazioni dorate, esattamente allo stesso modo delle altre otto presenti.
« Mi hai chiamato? » la interrogò, sospettosa. Probabilmente volevano solo prendersi gioco di lei.
« Sì, scusami... »
« Rita. »
« Rita, scusami, ma, ecco, noialtre volevamo sapere... » si interruppe, intimidita da uno spicchio di luce che corse sulle sue gambe per poi sparire.
« Volevate sapere perché non mi proteggo gli occhi dai lampioni, non è così? » concluse lei al suo posto, con uno sghembo sorriso a incresparle le labbra, fugace come i lampeggiamenti dell’illuminazione della parte ricca della città.
« Beh, sì... non hai paura che ti si brucino? »
« E perché dovrebbero? » rispose, ridendo della loro ingenuità: « Mica sono laser. Sono solo lampadine: si tratta di un filo di tungsteno che- »
« Altrimenti perché ci avrebbero dato gli occhiali, se non per proteggerci? » avanzò una di loro, con la tipica cieca fede dei più sempliciotti, facendola sorridere ancora una volta.
« Proteggerci? Che cosa gliene frega, se una popolana si carbonizza le palle degli occhi? » rispose, sprezzante, indicando con un cenno del capo l’autista del piccolo e buio pullman: « Non vogliono che abbiamo lo stesso privilegio dei ricchi, ecco perché. Gliela consumiamo, la luce, se la guardiamo troppo a lungo. »
Sentì gli occhi dell’uomo al volante perforarla attraverso lo specchietto retrovisore centrale, ma fece finta di non farci caso, vertendo di nuovo lo sguardo verso l’esterno. Le altre erano troppo sconvolte dalla sua schiettezza per replicare, ed era sicura che sarebbe stata lasciata in pace.
Invece che sull’esterno, si concentrò sulla propria immagine riflessa nel vetro del finestrino, i famigerati occhiali protettivi stretti tra le dita, la pochette con diamanti di plastica comprata al supermercato in grembo. L’avevano truccata d’oro e fini glitter sulle palpebre, in modo che, pur teoricamente impossibilitata dal farsi vedere in viso, potesse risplendere alla luce fosforescente della festa come una gradevole chincaglieria abbandonata sul ripiano di un mobile antico e pregiato.
Si passò un dito sulle labbra: anche il rossetto era dorato.
Era troppo pallida per quel colore. Lo strofinò via con un polso. Si sistemò i capelli scuri aggrovigliati per il lungo viaggio.
Non staccò gli occhi dal vetro fino a che non giunsero alla Villa.
Quando la visione dell’enorme e antica abitazione le si parò davanti, per un attimo il finestrino divenne come lo schermo di una televisione sintonizzata male: i puntini isterici della statica le offuscarono i sensi, mentre strizzava le palpebre nello sforzo di mettere a fuoco quello che c’era di fronte a lei, invano. Riusciva a malapena a vedere i profili sbiaditi di alti e fitti alberi che la circondavano, il bianco di una figura indistinguibile di fronte a lei.
Come quando indossava il casco della realtà virtuale per guardare i film, si trovò catapultata in un corpo che non le apparteneva e che estese un braccio in avanti per raggiungere la forma bianca di fronte a lei. Il suo arto era la parte più vivida, e a stento riusciva a capire di cosa fosse vestita.
« I... gna... i ...lare com... ni... » sentì la propria voce dire, distorta come se l’impianto auricolare nel suo orecchio si fosse guastato e stesse ascoltando una telefonata senza rete.
Si riebbe solo quando l’autista frenò e spense il motore, facendo sobbalzare il pullman.
Stordita, si ritrovò a scendere dai pochi scalini del mezzo e mettersi in linea assieme alle ragazze vestite con la sua stessa tunica dorata senza spalle, appesa al collo, lunga fino alle punte fintamente metalliche delle loro scarpe col tacco basso e quadrato.
L’autista, minaccioso nella sua divisa nera, si piazzò a gambe larghe davanti a loro. Le squadrò con severità, e il suo sguardo fu rapidamente catturato dal manganello elettrificato e dal frustino dalle punte roventi legati alla sua cinta.
« Siamo arrivati alla Villa » annunciò: « Mi auguro vi rendiate conto dell’onore che vi è stato concesso e della fortuna che vi ha baciato, nell’estrazione. »
Annuirono, incerte sul fatto che fosse permesso loro di parlare.
« Sarete ospiti della Famiglia numero 48, che ha organizzato la festa. Comportatevi educatamente, come delle adeguate donne del Sistema. Potete mangiare, bere, utilizzare i servizi e parlare con gli altri invitati a patto di essere appropriate, e dovrete solo sottostare alle loro richieste qualora ve ne siano. Mi avete capito? »
« Sì, signore. »
« Molto bene » concesse il loro accompagnatore: « Esibite i vostri inviti. »
Raggiunse la piccola borsa che aveva appeso ad una spalla, fece scattare il fermaglio che la teneva chiusa, ed estrasse la tessera dorata che le era stata recapitata, dopodiché si accodò alle altre per guadagnare l’ingresso.
Fece strisciare il microchip nel citofono, che si accese, mostrando le sue generalità:
 

Cognome: Freeman
Nome: Rita
Nata il: 01/02/2309 (Reg. presso Archivio n. 48, Sistema della Città di New York)
Cittadinanza: statunitense
Residenza: Città di New York, bassofondo numero 408, quarto edificio, ottava stanza
Stato civile: chippata
Professione: sarta
 
Statura: 165 cm
Capelli: Neri
Occhi: Castani
Numero di matricola: 22.222

 
decantò la voce meccanica dell’interfono in coro con il piccolo altoparlante dell’identificatore legato al suo polso sinistro. Avrebbe desiderato che mostrare i propri documenti non fosse così rumoroso.
Fece per avanzare e permettere alla ragazza dietro di lei di compiere la sua stessa operazione, ma le riapparve, per un lampeggiante secondo, nel piccolo schermo del citofono, la stessa immagine che aveva intravisto nel finestrino del pullman: grazie alla retroilluminazione del congegno, risultava più vivida sebbene ancora leggermente disturbata, e le fu possibile distinguere alcuni particolari della figura bianca che aveva cercato di raggiungere. Vide i suoi capelli molto lunghi agitarsi nel vento, bianchi come la luce al neon, come l’abito che vestiva, come la sua pelle pallida. Vide un’armatura dalla foggia sconosciuta, in scuro contrasto col candore del resto.
Non vide il suo viso.
« Ma ti muovi? Si può sapere perché ti sei fermata a fissare il citofono?! » berciò la ragazza dietro di lei, spingendola in avanti con un gesto secco.
L’intontimento procuratole dalla visione sparì di colpo.
« D’accordo » sbottò: « Tanto non aspettano te. »
Dopo quella frecciatina, avanzò, entrando finalmente nel salone principale, dove la festa era già cominciata.
Di fronte al luccichio dell’argenteria in bagno d’oro, ai mobili laccati in vernice dorata, i tendaggi caldi e luminosi, al bianco del marmo del pavimento, delle liscie colonne di sostegno, al buffet florido e profumato, si chiese perché permettessero a delle comuni mortali di accedere a quei beni di lusso, a quello splendore tale non da far impallidire le fini paillettes della sua tunica, ma da farle sfolgorare come se fossero anch’esse preziose, satelliti della luce della sala nonostante la loro essenza di plastica.
Perché avevano deciso, una volta all’anno, per il Carnevale, di condividere con poche fortunate le ricchezze del loro benestare?
Non trovò una risposta al proprio quesito, ma non riuscì più a concentrarsi sulla questione, perché il suo sguardo, una volta abituato al cambio di illuminazione, fu immediatamente catturato da una figura alla base della grande scalinata che portava al piano superiore, che disquisiva pacatamente con un’interlocutrice elegante e velata, un piede appoggiato sullo scalino più basso, un braccio accomodato sul corrimano di marmo.
Seppe immediatamente il perché della sua attenzione: il suo abito, di un bianco pulito, con una giacca aderente ricamata come se fosse l’armatura di un antico guerriero asiatico, con un busto nero orlato d’argento e una fascia d’oro e viola a decorarlo, era una sua opera.
L’aveva riconosciuto subito. I suoi ghirigori voluminosi e precisi erano una firma delle sue creazioni, un tratto distintivo tra tutti gli altri completi delle sue colleghe.
Ricordava con esattezza la messa a punto di quella giacca, di quei pantaloni: era stata china sul proprio lavoro con passione e devozione, ispirata come un’artista sulla propria tela, piegata sotto la luce appena sufficiente delle candele che il Sistema le forniva, avviluppata nei ricami, con le dita sforacchiate dall’ago manovrato al buio.
Aveva tagliato la stoffa con amore.
E, osservando il fisico asciutto e slanciato del fruitore della sua opera, non se ne pentì. Nessun uomo avrebbe potuto portare il frutto del suo lavoro con quella fierezza, con quella grazia e distinzione, nessuno avrebbe potuto valorizzare l’armatura appuntata sul petto come lui.
Inevitabilmente, lui si accorse del suo sguardo ammirato, e si distaccò dalla conversazione per voltarsi, alla ricerca degli occhi che lo stavano divorando con talmente tanta intensità da bruciare la distanza.
Non riuscì a vedere il suo volto, perché indossava una maschera, una di quelle che coprivano la faccia di chi le portava con una piatta proiezione digitale di un’immagine personalizzata.
Ma non riuscì a scorgere nemmeno quella, perché, sempre più vivida, rivide la scena che l’aveva tormentata, in quell’ultima mezz’ora: nel piccolo e lontano schermo, riuscì a distinguere le spalle dell’uomo bianco, e il proprio braccio che le avvolgevano, le accarezzavano con amorevolezza. La visione fu parzialmente oscurata dalla vicinanza con lo sconosciuto, degli occhi che socchiuse al piacevole contatto con la sua pelle.
« Mi... segni... allare... com... i de... oni? »
Sorpresa, alzò di scatto la mano per osservare i propri polpastrelli: per un attimo le era parso di aver davvero toccato il pallore della figura di schiena, di aver percepito il vello leggerissimo sotto il mento, di aver sentito il suo odore.
Eppure non aveva toccato niente.
Lo sconosciuto non le aveva tolto gli occhi di dosso, o almeno era l’impressione che aveva avuto, essendo girato nella sua direzione.
Sicuramente quella sfrontatezza sarebbe stata considerata inappropriata, per cui si voltò di scatto e si diresse verso il lungo tavolo dove erano esposte le prelibatezze di quel banchetto: era sicura di non aver visto la maggior parte dei cibi, che si distinguevano dalla sua razione di grigia sbobba in consistenza, in colore, in odore e sicuramente in sapore.
Con un gesto timido, indicò al cameriere la teglia con quella che sembrava selvaggina fresca e speziata, ma non riuscì a esprimere il proprio ordine che vide che il suo gesto si era scontrato contro quello di un uomo accanto a lei, intento nel servirsi del vino.
Le loro dita si sfiorarono.
 
« Mi insegni a ballare come fanno i demoni? »
Scostò i suoi capelli di lato e baciò il suo collo bianco, vezzo atto a corrompere la sua statica alterigia. Ormai aveva capito quali erano i punti che lo stimolavano, e aveva intenzione di utilizzarli ogni volta che poteva. Voleva solleticarlo, forse sedurlo.
Sentì le sue spalle irrigidirsi, mentre raggiungeva con gli artigli il braccio che l’avvolgeva, passandoli sopra con leggerezza, facendole venire la pelle d’oca. Anche lui aveva imparato a stuzzicarla.
« Ballare? » le domandò.
« Ballare » confermò con un sorriso sulla sua pelle: « Voi demoni non ballate, quando fate una festa? »
« Sono sicuro che si balli. »
Rise appena: « Ma tu non l’hai mai fatto. »
« Non c’era nessuna con cui valesse la pena ballare. »
Lo guardò scostarsi dal suo abbraccio, alzarsi con un gesto fluido tipico del suo portamento aggraziato, compiere qualche passo in avanti per poi girarsi.
Fissò lo sguardo sul suo viso sereno, cadde nei suoi occhi liquidi di desiderio, luminosi, sul sole basso e arancione che giocava con le ombre dei suoi zigomi femminei, del suo naso sottile, della sua bocca abituata al silenzio. Vedeva le strisce sul suo viso, la luna crescente sulla fronte, le sue ciglia bianche come i suoi capelli.
Le porse una mano per aiutarla ad alzarsi, e si lasciò tirare in piedi da lui, appoggiandosi al suo petto quando si sbilanciò in avanti.
Le afferrò con delicatezza un polso, e la invitò a ricambiare la stretta.
La fece volteggiare assieme a lui, su di un asse invisibile.
Poi si stancò della distanza, e la tirò a sé senza strattonarla, appoggiando una mano sulla sua schiena e lei, obbediente e voluttuosa, si lasciò avvicinare, e alzò il viso.
Le sue labbra, come tante altre volte in passato e in futuro, incontrarono e si scontrarono con le sue, la afferravano, voraci, e la lusingavano, gentili.
Si lasciò sollevare per i fianchi, e si agganciò al suo busto con le gambe, con le mani sulle sue guance, chinandosi per baciare il suo viso.
« Conosco una danza più antica » propose lui, svincolandosi per morderle il collo.
Rise, giocosa: « Forse la conosco anche io. »
Sapeva di amarlo, ma lo amava ancora di più quando si permetteva di scherzare.
« Allora balliamo. »
 

iiI

 
Al centro della Villa sorgeva una fontana.
Era la preferita del figlio del padrone di casa, e passava nei pressi di quella larga piscina la maggior parte del suo tempo libero, leggendo, o ammirando il paesaggio, avvolto nei propri pensieri, o privo di cure.
Gli piacevano i gracidii delle rane che sguazzavano nell’acqua, gli piaceva osservare i riflessi della luce negli zampilli, gli piaceva vedere i raggi del sole che si tuffavano sul fondo della vasca e facevano scintillare le tessere del mosaico subaqueo della pavimentazione.
Nessuno era mai stato con lui, in quegli attimi di silenzio: nonostante la facilità con cui riusciva a sedurre le componenti della sua classe sociale – facilità che non gli era del tutto chiara – il pensiero di condividere uno spazio come quello non l’aveva mai sfiorato.
Eppure, mentre ballava con la sconosciuta popolana, per la prima volta, desiderò portarla dietro le siepi del giardino, a guardare le rane.
Turbato dalle visioni, l’aveva invitata in mezzo al salone, quando era cominciata la musica, e non era riuscito a parlarle, o a chiedere perdono per la sua imposizione, quasi brusca, quasi sgradita.
Volteggiando, la osservava, guardava il suo viso senza maschera: gli sembrava una metafora, la sincerità grezza dei bassifondi che spiccava nel turbine di facce false e proiezioni piatte che occupava la sua dimora, per quella sera, e ne era rimasto colpito.
Al punto di cominciare ad avere allucinazioni di alberi tanto alti e fitti da formare foresta, della fanciulla che lo stringeva, confidenziale come solo un’amante avrebbe potuto fare, delle sue labbra soffici, del suo desiderio. Chiunque fosse quella ragazza, doveva amarla molto.
Chiunque fosse lei, chiunque fosse lui.
La sua compagna di ballo, d’altro canto, lo squadrava con altrettanta curiosità, con altrettanta fascinazione. Vedeva immagini, nella sua tecnologica copertura, le visioni che si riproponevano sempre più vivide, sempre più chiare, ma sempre più enigmatiche.
I suoi occhi continuavano ad alternare la scena che vedeva nello schermo della sua maschera ai particolari della figura del suo accompagnatore che riusciva a distinguere: i capelli biondi, quasi bianchi, la pelle del collo, candida e liscia come quella che aveva baciato in quel sogno cosciente, l’armatura ricamata dalle sue mani così simile al vestito dell’uomo bianco.
« C’è qualcosa che ti disturba? » domandò lui, dopo una piroetta.
« Scusatemi, signore » si affrettò a dire Rita
« Sebastian, chiamami Sebastian. »
« D’accordo... Sebastian... ma... ecco, forse... forse non mi sento bene. »
« Non ti senti bene? »
Lui rifletté per un secondo.
L’espressione confusa e intimidita della ragazza gli fece sospettare l’incredibile.
« Sai, anche io non mi sento bene » cominciò, diretto come suo solito, come i suoi ricchi coetanei detestavano: « da quando ti ho sfiorato per sbaglio, prima, ho delle strane immagini in testa. »
Lei spalancò gli occhi, sospresa: « Immagini di una foresta? »
« Con una fanciulla- »
« -che vi abbraccia? »
« Esatto! » concluse lui, interrompendo la danza per afferrarle una mano.
« Vieni con me. Andiamo via dalla folla. »
Corsero fuori, due colombi che volavano a tubare, due innamorati sconosciuti che si erano incontrati per caso, o per destino. La portò dietro le siepi, stringendole la mano tra le dita nervose, lunghe, da pianista, col cuore che rimbombava nella gola per un motivo che non riusciva a identificare. Lei era docile, ancora intontita dallo stupore, e non aprì bocca fino a quando non si fermarono, ansimanti, su di una panchina.
Sebastian si tolse la maschera, rivelando un viso affilato, pallido, con gli occhi azzurri. Rita rimase sorpresa nel constatare che assomigliasse all’uomo bianco, anche se era privo dei segni che caratterizzavano i suoi zigomi. Si chiese, cosa significava quell’incontro?
« Dove siamo? »
« Questa è una fontana vicino alla quale mi piace passare il tempo. Ci sono le rane. »
Rita si sporse in avanti per osservare il mosaico sul fondo, catturata dalle tessere più luminescenti: « Cosa sono le creature sul pavimento della vasca? » chiese, infilando un dito nell’acqua fredda.
« Sono kappa » le spiegò, sapiente dei suoi variegati studi universitari: « Sono creature dell’antica mitologia giapponese. Ogni fontana ha una creatura acquatica sul fondo. »
« Oh, che bello! I kappa sembrano un po’ delle ranocchie, l’avete fatto apposta? »
Si era seduta per terra, con le braccia appoggiate al bordo della fontana, e lui fece lo stesso, vicino, confidenziale nonostante non sapesse nemmeno il suo nome.
« No, sono venute naturalmente, e si sono stabilite sullo stagno. »
Lei non rispose, assorta, e parlò solo dopo qualche minuto passato a guardare le rane che nuotavano. Si era persa nei propri pensieri, punzecchiata da una bizzarra sensazione di già visto, già vissuto: vedeva ciò che l’aveva infastidita fino a quel momento riproporsi, lampeggiante e indefinito, veloce come l’intermittenza dei lampioni sulla strada, con l’aggiunta di innumerevoli, indefiniti, variopinti particolari.
« Kappa... » mormorò: « Mi ricorda qualcosa. »
« Qualcosa? »
Lei fece spallucce: « Da quando sono arrivata che vedo... cose strane... cose che non sono ricordi, ma che lo sembrano, perché io ci sono dentro... » il tono incerto tradiva un certo timore nei suoi confronti, la paura di sembrare una pazza. Condividevano quel sentimento, ma per lui fu uno stimolo a confessare, piuttosto che a ritrarsi nell’imbarazzo.
Sebastian era rimasto sbalordito, quasi interdetto, da ciò che la sua mente aveva forzato al suo conscio, tanto da essere rimasto impietrito, con gli occhi sbarrati, per un lungo secondo, di fronte al tavolo del buffet. Aveva visto il viso della fanciulla, gli occhi a mandorla, la pelle rosea per il sole, la statura minuta ma, in qualche modo, stabile, energica. Si era scoperto a baciarla, a spogliarla.
E la sua meraviglia non aveva fatto altro che aumentare, quando girandosi, aveva trovato un volto diverso, occidentale, eppure così simile a colei che aveva incontrato nella visione.
Aveva dovuto prenderla con sé, ballare, conoscerla, parlare.
E aveva fatto bene.
« A me è capitato tutto quando ti ho toccata » confessò: « La ragazza che ho visto... ti somigliava molto. Non so perché. »
« Anche l’uomo bianco ti somigliava. »
Rita si voltò verso di Sebastian, con gli occhi larghi e liquidi: « Cosa... cosa credi che significhi? Cosa siamo? Cosa ci sta succedendo? »
Lui fece spallucce: « Non lo so. Non so chi sei. »
« Mi chiamo Rita. Sono una sarta dei bassifondi, ma ogni tanto mi viene data qualche commissione importante » sorrise, e sfiorò il suo braccio con un dito: « E tu chi sei? Ci siamo già incontrati? »
« Mi chiamo Sebastian, sono il figlio del padrone di casa » rispose: « E non sono mai andato nei bassifondi. »
« Cosa dovremmo fare, allora? » chiese Rita: « Come facciamo a capire queste visioni? »
« Forse prima dovremmo parlarne. Capire tutti i particolari. »
E lo fecero.
Rita cominciò a parlare del ballo dei demoni, del suo compagno laconico ma misteriosamente espressivo, del suo volto illuminato dal sole, e, mentre parlava, le sembrava che i raggi dei ricordi accendessero anche le guance di Sebastian, come la luna diventa bianca per la luce del sole, per riflesso. Lui controbatteva descrivendo il suo vestito arancione brillante, la sua spigliatezza e la sua dolcezza, il ballo, la danza antica.
I particolari più minuti diventarono i grandi sentimenti, l’imbarazzo di un’intimità sconosciuta, i sottintesi della scena che avevano condiviso diventarono ormai evidenti, incontrastabili.
I “cosa siamo” divennero “cosa siamo stati” e a quella domanda diedero mille risposte:
« Tu eri un demone, lo ricordo. »
« Tu eri umana. »
« Tu mi hai conosciuto quando ero piccola. »
« Tu sei cresciuta vicino a me. »
« Ora ricordo, che eri molto forte, e molto scontroso, e tutti avevano paura di te! »
« Ma tu non ne avevi. Non ne hai mai avuta. »
E a quel ritmo incalzante come lo sfregare una pietra focaia contro un masso, a quella discussione sempre più accesa e intensa, i ricordi invasero la loro mente ormai comune, sempre più vividi, sempre più reali. Era come il fuoco dei falò che avevano acceso innumerevoli volte: le fiamme lambivano timidamente i primi ciocchi, spezzavano solo i rametti più fragili, ma crescevano gradualmente, esponenzialmente, fino a divorare i pezzi di legno più grandi, fino ad essere caldo, e luminoso da fendere l’oscurità, da non spegnersi mai.
Come la lanterna il cui stoppino non conteneva il fuoco, che ne bruciava le sottili pareti di carta, le brevi e inconsistenti personalità che si erano costruiti in quella vita buia si consumarono e sparirono, cenere nell’aria, leggera, inconsistente, inesistente, e, riuscirono a guardarsi con i loro veri occhi, con una luce nuova, immateriale.
« Rin. »
« Sesshomaru. »
Saltarono in ginocchio dalla loro posizione, le mani corsero al viso dell’altro di nuovo, le labbra si cercarono e si trovarono. Si abbracciarono.
Non ci fu altro da dire. Persero il contatto col tempo e con lo spazio come l’avevano perso con la maschera che avevano assunto per una nuova vita, e si strinsero per scacciare la distanza a cui erano stati costretti, una volta morti entrambi, una volta reincarnati entrambi.
Poi Sesshomaru si staccò, per osservare il viso causcasico di Rita, che però era Rin, per accarezzarlo con mani che non avevano artigli ma che non avevano dimenticato la delicatezza con cui sfioravano le sue guance.
« Ti avevo detto che ti avrei ritrovata » disse lui infine, con gli occhi colmi di sardonica soddisfazione.
« Mi hai ritrovata! » rise Rin, strizzando le palpebre per scacciare la commozione che le offuscava la vista e le impediva di parlare adeguatamente: « Ma anche io ti ho ritrovato! »
Non riuscivano a interrompere il contatto, e continuavano a carezzarsi, a constatare con ogni senso la propria presenza.
« Il mio odore è cambiato? » chiese poi lei.
« Non saprei, il naso di questo umano non è sviluppato come il mio. »
Rin rise ancora, in modo più sommesso, ma più canzonatorio: « Ora sei un umano, come me! »
« Come te » le ripeté, con uno sbuffo. Si sarebbe dovuto sentire umiliato, ma era solo contento. Avrebbe davvero potuto viverle accanto come aveva desiderato, in un periodo senza lampadine.
Si sarebbero stretti ancora una volta, ma l’interruzione venne da una delle rane che decise di saltare in grembo a Rin, gracidando rumorosamente senza sosta. Lei rise, e fece per restituire alla fontana il piccolo anfibio ma, prima che potesse bagnarlo, questo scivolò lontano dalle sue mani, attaccandosi alla giacca bianca di Sesshomaru.
Lo afferrò con due dita, lo scrutò, intento. Poi un sorrisetto fiorì sulle sue labbra.
« Jaken? » chiamò, e la rana si calmò. La posò sul proprio ginocchio: « Se sei Jaken, salta in grembo a Rin, e poi torna qui. »
Con occhi sgranati, osservarono la rana eseguire gli ordini.
« È proprio lui! » esclamò Rin, battendo le mani: « Il destino non unisce solo noi, non è così? »
Sesshomaru permise a Jaken di sistemarsi sulla sua spalla.
« Ora tutto è tornato in ordine. »


iii

 
Concludere l’amplesso insieme e abbanonarsi sul terreno, era la conclusione migliore.
Lei si stancava rapidamente, e quasi sempre si arrampicava sul suo petto e si addormentava lì, cercando di sostenere qualsiasi conversazione avessero cominciato con un tono assonnato e vulnerabile che la rendeva particolarmente bella. Era pronta a chiudere gli occhi, ma resisteva ai buoni consigli del proprio corpo per non annoiarlo, per godere al massimo della sua presenza.
Gli piacevano quei momenti.
Alzò un braccio per accarezzarle il viso.
« Puoi dormire. » le disse.
« Non voglio » sbottò lei, trattenendo uno sbadiglio: « Sai che noia osservare una persona mentre dorme? »
« Io non mi annoio » replicò, sereno come solo i momenti successivi al coito erano capaci di renderlo.
La guardò arrossire con una certa soddisfazione.
Per sviare l’imbarazzo, lei si concentrò sul suo kimono. Passò una mano sulla manica strappata, con un espressione di intenso cruccio: « Ti ho rovinato l’abito » commentò, amareggiata: « Dovrò... ricucirtelo... prima o poi... »
Scosse la testa.
Già si stava arrendendo.
« Ehi... Sesshomaru » bofonchiò poi.
« Dimmi. »
« Quando morirò... cosa succederà? »
« Ti ritroverò. »
« Anche se non ricorderò nulla? »
« Ricorderai. »
« Ma è impossibile che mi ritrovi, il mondo è così grande... »
« Ti ritroverò. »
Le palpebre si chiusero sugli occhi di Rin, e lei sprofondò in un un meritato e placido sonno. Posò la testa vicino a lei, le baciò la fronte.
Poi si addormentò.
 
Troppo eccitati per starsene seduti, si erano alzati per passeggiare e scaricare quelle indicibili emozioni col movimento.
Rin gli aveva afferrato la mano, con un sorriso: « Qui è accettabile camminare così. Mi terresti per mano? » chiese, col suo tono giocoso. Le accordò quel piacere volentieri, e cominciarono a girovagare per il parco che scoprì essere sua proprietà – o della sua famiglia – Jaken sempre sulla sua spalla, fedele come sempre.
« Tutto quello che è successo ha dell’incredibile! » esclamò lei, dopo qualche passo: « Sono così felice, così- » ma si interruppe, smorzando il proprio entusiasmo con un’espressione ben più triste e contrita: « Ah. »
« Cos’hai? »
Lo guardò con gravità: « Mi sono ricordata in che mondo viviamo. Io sono solo un’abitante dei bassifondi, se non fosse per il Carnevale non sarei nemmeno qui. Tu non saresti mai venuto da me, altrimenti. »
« Pensi che mi importi? » le domandò, alzando un sopracciglio.
« Beh, ma è pericoloso, da me è buio, ormai ti sei abituato alla luce della nobiltà. »
« Rin, devo ricordarti che detesto ripetermi. »
Lei sbuffò, un sprizzo d’ilarità a spezzare la sua desolazione. « Oh, ricordo, ricordo. Anche Jaken ricorda, vero? »
Ci fu un basso gracidio di conferma che proveniva da vicino il suo orecchio.
Percorsero il sentiero segnato dai bassi fari posizionati a terra, circondati dal forte odore della vegetazione, il suono di piccoli sassi del brecciolino sotto le loro scarpe eleganti.
Avrebbe voluto farle troppe domande per poterle mettere in ordine e renderle verbali, e si limitava a godere della percezione del suo palmo stretto a quello di lei, delle loro dita intrecciate, nel silenzio che tanto lo caratterizzava.
In quel mutismo, fu sommerso dai ricordi, le altre memorie che lo rendevano Sesshomaru, e non Sebastian: c’era suo padre, i suoi modi bruschi, la stima bruciante nei suoi confronti; sua madre, la sua freddezza, ma la sua generosità nel salvare la piccola Rin; il suo fratellastro Inuyasha, rivale e infine complice di tante battaglie, forzato collaboratore contro il suo gomito; Naraku, l’orgoglio che aveva ferito, la difficoltà nel combaterlo.
E ovviamente Rin.
Lei occupava tutto il resto.
« Quindi ora che si fa? » chiese lei, una volta giunti di fronte all’entrata posteriore della Villa.
« Mi pare ovvio » rispose.
« Ovvio? »
« Tu rimani qui. »
Rin ridacchiò: « Oh, e presenteresti a tuo padre una popolana dei bassifondi? Ti farà tagliare un certo organo, sai anche tu cosa succede a chi si fa scoprire con una di noi. Siamo state chippate apposta. »
« Non mi interessa. Farò rimuovere quello stupido microchip. »
« Molto romantico da parte tua. »
Jaken gracidò. Se avesse potuto parlare, sapeva che l’avrebbe rimproverata per l’eccessiva sveltezza della sua lingua, o per il linguaggio inappropriato.
Quasi gli mancava, il suono gracchiante della sua voce.
Fu costretto a lasciare la sua mano per rientrare: la festa stava finendo, e riusciva a sentire i richiami di alcuni servitori che gridavano il suo nome a gran voce.
Perché finiva sempre incastrato in ruoli di rappresentanza che non voleva?
Era diventato Generale, e in quel momento sarebbe dovuto diventare qualcos’altro.
« Temo che per ora sia giunto il momento di dividerci » mormorò Rin.
« Già » concordò, con una punta di stizza.
« Devo andare, vedo le mie compagne che si stanno radunando. »
A stento riuscì ad allontanarsi.
« Come farò a rivederti? » le chiese, con urgenza. Udiva le voci che lo chiamavano, e percepiva la fretta della guardia che imponeva il ritorno a quelle come lei.
Rin si voltò, dedicandogli l’ultimo sorriso della serata che già diventava notte: « Vieni da me. Abito nell’ottava stanza, del quarto edificio, nel bassofondo 404. »
« Sarà buio? »
« Accenderò una candela. Sarà accesa ogni notte. Sempre. »

  
Leggi le 8 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Inuyasha / Vai alla pagina dell'autore: LarcheeX