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Autore: 3ww_    15/02/2018    3 recensioni
Amsterdam. Due cuori, mille canali, un po' di musica e una canzone.
Lexa e Clarke che si conoscono sotto le luci di un palco.
(una one-shot per San Valentino, un giorno in ritardo)
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa, Lincoln, Octavia Blake
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lexa era stranamente felice della sua vita.
Era felice della la piega che finalmente aveva preso, del suo andamento e di quella strana sensazione di tranquillità e serenità che ne derivava.
Se le avessero detto cinque anni fa, che in un futuro prossimo, si sarebbe trovata a pedalare su una bicicletta per andare a lavoro pensando che la sua vita si era finalmente “assestata”, non ci avrebbe mai creduto. Mai.
Eppure stava accadendo. L’aria calda le attraversava i capelli scompigliandoli, ma lei non se ne curava mai, perché tanto a lavoro se li legava sempre. Il vento le accarezzava le braccia nude e i suoi occhiali da sole nascondevano i suoi occhi verdi.
Una dolce musica risuonava nelle sue orecchie, forse non era proprio il genere di musica che si ascoltava la mattina ma Lexa aveva sempre amato le musiche tristi e malinconiche, anche quando era felice da morire. Secondo lei le melodie nostalgiche, i testi struggenti e le note tristi, sono la parte più autentica e sincera che un artista possa mai creare per il pubblico. Perché quando soffri e scrivi musica, non puoi far a meno di condividere quel sentimento unico e intimo con il mondo. Perché la tristezza è una di quelle emozioni che non puoi frenare, circuire, stringere fino a farla stare in un cassetto chiuso a chiave.
Semplicemente non puoi contenerla. Per questo motivo Lexa ascoltava spesso le melodie tristi… perché poteva collegarsi in qualche modo con l’arista che aveva messo tutto sé stesso, ogni singola particella di sé, nella canzone.
Lexa era convinta che dalla tristezza uscissero solo capolavori.
Scese dalla bicicletta ancora in corsa e si tolse le cuffie una volta arrivata a destinazione. Appoggiò la bicicletta contro il muro rossiccio della casa, scese tre scalini ripidi e aprì la porta di vetro decorata da strani ricami in ferro battuto.
Chiuse la porta dietro di sé prima di studiare il locale. Era ancora vuoto.
-Ehy!- la salutò Lincoln mentre stava asciugando dei grandi boccali di birra con un panno bianco. In sottofondo, una musica si spargeva per tutto il pub.
-Ciao Lincoln- ricambiò il saluto la bruna, sedendosi su uno degli sgabelli di fronte al bancone.
-Ti sei ripresa?- chiese il ragazzo ridacchiando.
Lexa sbuffò sonoramente ricordando la serata appena passata.
-Dio, ricordami ancora perché ti ho fatto scegliere la band per il concerto di ieri sera- disse passandosi una mano tra i capelli lunghi.
-Perché il tuo artista ti ha dato buca e ho salvato la baracca?-
Lincoln posò il boccale a posto e poi si mise ad asciugare i bicchieri da vino, posizionandoli in alto sopra il bancone, a testa in giù.
-Per fortuna ci sono io ad occuparmi della direzione artistica del locale, se no tu rovineresti i timpani a tutti i tuoi clienti con le tue scelte-
Il ragazzo rise di gusto sapendo che Lexa aveva ragione, decisamente ragione.
Lexa scese dallo sgabello e si diresse verso il suo angolo, quello che mai avrebbe pensato di avere nella sua vita. Sebbene fosse modesto, nulla di eccezionale, era quello che aveva sempre sognato di fare per vivere. Aprì la grande scatola davanti a lei e ne posò il coperchio sotto al tavolo che la reggeva. Una marea di controlli e levette si mostrò sotto ai suoi occhi.
Se qualcuno là fuori non sapeva neanche il significato di una di quelle levette, in compenso Lexa sapeva tutto: ogni singola leva e pulsante aveva un ruolo e lei l’aveva studiato giorno e notte per arrivare a conoscerli tutti e alla perfezione, ogni piccolo cambiamento doveva essere calibrato al millimetro per non rovinare l’intero lavoro.
-Quando arriva l’artista di stasera?- chiese Lincoln da dietro al bancone.
-Alle 18:30, tra un’oretta- urlò Lexa mentre apriva un altro enorme baule pieno di cavi e microfoni.
-Non è un po’ tardi?-
-Non ti preoccupare Lincoln, è mai successo che facessi il soundcheck con i clienti davanti al palco a fare aperitivo?- chiese ironicamente Lexa.
-No- risposte poi l’altro.
-Vedi? Tutto sotto controllo, so quel che faccio-
Lincoln dietro al bancone sorrise e si rimise al lavoro, lasciando la responsabilità dell’artista a Lexa. D'altronde era ormai un anno e mezzo che Lexa lavorava per lui, e nulla era mai andato storto per causa sua. Anzi, a volte era colpa degli artisti in ritardo o troppo ubriachi già alle 21 per suonare, ma non era mai colpa di Lexa. Lexa era perfetta nel suo lavoro, ed era anche per questo motivo che Lincoln la prese come sua collaboratrice fissa.
Il ragazzo ricordava ancora la sera in cui conobbe Lexa. Era una di quelle sere davvero complicate al locale: fuori pioveva a dirotto e tutti si rifugiavano dentro i vari locali aperti e quello di Lincoln era stracolmo di persone dalle scarpe bagnate pronte a riscaldarsi con la birra.
Lexa era seduta al bancone e non appena ordinò il suo calice di vino bianco a Lincoln, lui notò un accento canadese che difficilmente si trovava da quelle parti.
-Sei qui in vacanza?- chiese Lincoln.
-Spero più che altro di restarci da queste parti- commentò la bruna sorseggiando il vino bianco.
Lincoln sorrise e poi si dedicò agli altri clienti insieme alla sua fidata cameriera.
Quando il cantante con la sua tastiera si palesò sul piccolo palco infondo alla sala e iniziò a cantare, Lincoln rimase a sentire ma soprattutto rimase ad osservare la reazione dei clienti.
Aveva sempre voluto avere quel tipo di pub in cui c’è la musica dal vivo e non solo le partite di rugby di tanto in tanto, quel pub dove puoi trovare un bravo cantautore o una band valida da sentire mentre ti scoli una birra.
Alla terza canzone si ritrovo di nuovo davanti alla bruna che neanche degnava di uno sguardo il cantante ma che dopo pochi secondi commentò: -Il fonico dovrebbe togliere un po’ di bassi a quella voce, sembra che stia cantando in una vasca da bagno. Magari aggiungere un po’ di riverbero ma giusto un goccio e mettere del delay, a tempo.-
Dopo questo commento quasi involontario da parte della bruna che sembrava più che altro parlare con sé stessa, Lincoln disse: -Giudichi senza neanche guardare?-
-Non serve guardare, ma sentire- commentò finendo il vino. -Chiudi gli occhi e dimmi se ti piace quel che senti-
Lincoln chiuse gli occhi per una ventina di secondi. Ascoltò le note e dopo il commento che fece la bruna, riuscì a sentire tutti i difetti elencati anche se non ne sapeva nulla di tutte quelle cose così tecniche. Una volta riaperti gli occhi notò un sorrisetto sul viso della bruna, che intanto si era riempita di nuovo il bicchiere mentre lui aveva gli occhi chiusi.
-Effettivamente hai ragione… non mi piace poi molto-
-Che ti avevo detto? Guardare non serve poi a molto- commentò ancora.
Lincoln uscì dal balcone e si diresse verso il fonico e riferì le esatte parole che la sua cliente aveva detto. Il fonico farfugliò un po’, ma poi fece i cambiamenti che gli disse il suo capo.
All’improvviso tutto suonava meglio, molto meglio.
-Senti? L’avevo detto- commentò di nuovo la bruna quando Lincoln ritornò alla sua postazione.
-Questo secondo giro te lo offro io- disse il ragazzo.
Quando il concerto finì, la ragazza tornò da Lincoln con un biglietto da visita in mano. -Se vuoi una sera posso farti vedere come si organizza una vera serata in un locale- disse lasciando il bigliettino in mano al ragazzo per poi mettersi un cappuccio e uscire in mezzo alla pioggia.
Il ragazzo lesse il nome sul bigliettino: Lexa Woods.
Da quella sera Lincoln non incontrò più la ragazza e non la vide neanche in mezzo alla massa dei suoi clienti. Ma un pomeriggio, quando il suo fonico di fiducia gli diede buca perché malato, si ritrovò a rigirare tra le mani quel bigliettino e quella sera Lexa Woods, una canadese forestiera che con i canali di Amsterdam c’entrava ben poco, gli salvò la serata.
Dopo quella “prova generale” Lincoln capì che la ragazza era ciò che lui cercava: giovane, con una visione della musica lontana dalla sua, amante di quello che faceva e soprattutto intraprendente.
Lexa accettò il lavoro ad una sola e semplice condizione, ovvero che potesse scegliere lei gli artisti che avrebbero suonato nel locale. Lincoln accettò, un po’ intimorito ma anche sollevato di poter delegare un compito a qualcun altro.
Quando la porta d’entrata si aprì, Lincoln si riconcentrò di nuovo sul presente. Una ragazza giovane fece capolino timidamente. I suoi capelli biondi erano corti e terminavano con delle punte rosa chiaro, indossava una maglietta semplice e dei jeans scuri.
-Ciao!- esclamò Lincoln sporgendosi dal bancone. -Piacere io sono Lincoln, il proprietario-
La ragazza sorrise e strinse la mano possente di Lincoln. -Piacere, sono Clarke dovrei suonare stasera-
-Perfetto! Per e-mail avrai di sicuro parlato con Lexa…- disse Lincoln staccando lo sguardo da Clarke alla ricerca della bruna. -Vedi quella ragazza con il nastro adesivo in bocca accucciata sul palco mentre distende i cavi in modo maniacale? È lei, buona fortuna- disse alla ragazza aggiungendo una risata finale.
Clarke si avvicinò timidamente a Lexa, che era davvero accucciata quasi stesa sul palco dove stava tirando i vari cavi jack fino al mixer.
-Ciao!- esclamò Clarke alle spalle della bruna quasi facendo sobbalzare quest’ultima.
L’altra si mise subito in piedi e ricambiò il saluto tenendo una mano che subito venne stretta da quella dell’artista.
-Puoi posare le tue cose qua- disse Lexa facendole vedere l’angolo destro del palco che era nascosto alla vista del pubblico. -E quando sei pronta possiamo cominciare con il soundcheck-
Lexa aveva sentito l’artista tramite e-mail. La bionda aveva contattato il locale perché stava cercando delle date per far conoscere le sue nuove canzoni.
Lexa le aveva ascoltate ed era rimasta stupida dalla voce e dagli arrangiamenti semplici ma eleganti. La ragazza aveva una voce potente e dei testi che avevano colpito Lexa fin dal primo ascolto. Quel giorno le rispose quasi subito, una cosa strana per Lexa che di solito si decideva dopo due o tre giorni di ascolti continui. Eppure era curiosa di sentire l’artista dal vivo, sentire se le versioni live potevano addirittura battere quelle studio.
Quando Clarke tirò fuori la sua chitarra acustica, una Takamine color mogano che quasi scintillava sotto le luci del palco, Lexa si avvicinò di nuovo al palco per mostrarle dove attaccare il jack.
-Hai qualche effetto per la chitarra?- chiese Lexa.
-No, sono a posto così. Se mettessi un po’ di riverbero mi faresti felice però-
Lexa annuì sorridendo, perché era esattamente qualcosa che anche lei avrebbe voluto fare su una chitarra di quel calibro.
-Ok, allora se per te va bene, ti faccio entrare in D.I. con la chitarra. Preferisci suonare in piedi o seduta?-
-Seduta-
Allora Lexa le porse uno sgabello e l’artista si sedette e accordò la chitarra. Intanto Lexa montava l’asta del microfono.
Quando tutto fu montato iniziarono le prove. Dopo una decina di minuti il suono era già perfetto e Lincoln fece un pollice in su. Approvava il risultato.
Lexa sorrise più a sé stessa che a lui, contenta che anche questa volta tutto avesse funzionato alla perfezione.
-Puoi ancora provare qualcosa, per cinque minuti se vuoi. Però è tutto perfetto da qua- disse Lexa dal fondo della sala nel suo microfono che solo Clarke sul palco poteva sentire nelle spie.
La bionda sorrise e strimpellò ancora un po’, giusto il tempo per Lexa di mettere a posto le luci.
Quando Lincoln le chiamò i loro piatti per la cena erano già pronti sul bancone di fronte a lui. Due panini belli caldi e fumanti che solo il ragazzo sapeva fare così bene, lo stomaco di Lexa brontolò al solo pensiero e ringraziò mentalmente Lincoln per averle offerto la cena evitando di farla tornare a casa per poi correre di nuovo al locale.
Quando la fidanzata del proprietario raggiunse le altre due, tutti e quattro si sedettero e mangiarono in tranquillità. La conversazione ovviamente era totalmente incentrata sulla musica.
-Clarke, da quanto tempo suoni?- chiese Lincoln.
-Da… sempre. Mio zio mi regalò una piccola chitarra giocattolo a da quel momento ho solo iniziato a preferire gli strumenti ai giocattoli- disse ridacchiando e contagiando un po’ tutti.
-Sei davvero brava- questo era l’unico commento che Lexa riusciva a formulare al momento, perché era ancora presa dall’emozione che aveva provato sentendo le canzoni di Clarke per la prima volta.
Clarke la ringraziò con un timido grazie. Si prese un attimo per studiare la ragazza al suo fianco. Aveva i capelli legati in uno chignon spettinato e morbido, indossava una canottiera grigia e larga, da cui Clarke poteva intravedere i suoi fianchi tatuati e il suo top nero, le sue gambe erano fasciate da dei pantaloni neri stretti e leggermente strappati sulle ginocchia e delle scarpe di pelle basse e anch’esse nere.
-Allora, Lexa, com’è andata ieri sera?- chiese la donna davanti a Clarke, che si presentò come la fidanzata del proprietario.
-Oh, Octavia non me ne parlare… avevano mille mila strumenti, la cantante non mi ascoltava e faceva tutto di testa sua- disse Lexa sbuffando e guardando male Lincoln che invece ridacchiava.
-Mi sembrava la tua tipa- commentò ironicamente Octavia.
-Se poteva esserlo, ma non appena ha aperto bocca non lo è più diventata- disse bevendo un sorso della sua birra. -Mi ha chiesto se potevo togliere la chitarra dalle casse perché il chitarrista l’aveva tradita con una fan la sera precedente…- raccontò roteando gli occhi all’insù, per poi tornare a giocherellare con l’anello che le circondava il pollice.
Tutti al tavolo risero di gusto sentendo le lamentele di Lexa, che quando si trattava di lavoro diventava molto irascibile quando nessuno la ascoltava o quando quello che aveva pianificato veniva accartocciato e buttato via dagli artisti copricciosi.
Quando Lincoln ed Octavia si alzarono per aprire ufficialmente il locale, Lexa e Clarke rimasero sole ed in silenzio sedute una di fianco all’altra al tavolo. I loro occhi vagavano sul palco, Lexa lo faceva per ricontrollare che tutto fosse esteticamente carino e Clarke lo faceva per ripassare mentalmente le canzoni.
-E tu è da tanto che fai questo lavoro?- chiese Clarke spezzando il silenzio.
-In realtà no, da tre anni. Ma qua lo faccio solo da un anno e mezzo-
Clarke annuì. -Prima lo facevi in un altro locale?-
-Lo facevo come hobby a New York tra una lezione e l’altra, poi sono venuta qua in viaggio… e alla fine ci sono rimasta- spiegò Lexa.
-Un bel cambiamento…- commentò Clarke.
-Sì, indubbiamente. Però mi trovo molto bene, Lincoln mi ha accolto a braccia aperte e mi fa gestire la mia parte del locale come meglio credo, questa è la cosa più importante- Lexa bevve un altro sorso di birra. -Come mai sei finita da queste parti? Visto il tuo marcato accento australiano direi che anche tu ne hai fatta di strada…-
Lexa si girò verso l’artista e appoggiò i piedi sul poggiapiedi di legno consumato della sedia di Clarke.
-Mi serviva un cambiamento e ho sempre voluto visitare l’Europa. Così ho deciso di partire e avventurarmi tra le capitali europee con la mia chitarra-
Clarke aveva cautamente evitato di dire che stava girando l’Europa con i soldi dell’eredità di suo padre che morì soltanto pochi mesi prima e che probabilmente sua mamma, dall’altra parte del mondo, la stava rinnegando in dodici modi diversi.
Però in fondo non era importante, no? Il bello di viaggiare e spostarsi di settimana in settimana, da una parte all’altra di uno stato, era anche questo: non dover essere troppo sinceri con nessuno, non dover legare con nessuno, non dover… mettere radici da nessuna parte.
-Beh, ci troviamo nella stessa città per gli stessi motivi… anche io volevo un cambiamento nella mia vita- disse Lexa perdendosi nel guardare il liquido nel suo boccale.
La sua mente incominciò a vagare nel passato, a inquadrare l’esatto momento in cui salì sull’aereo per poi non tornare mai più indietro. Il momento in cui lasciò alle spalle tutto il dolore che aveva provato a causa degli altri, per concentrarsi su sé stessa e realizzare i suoi sogni. Lasciava, tra le fredde strade di Toronto, un amore finito male e il matrimonio dei suoi genitori spezzato definitivamente dall’animo egoista di suo padre. Ma oltre a quello lasciava tutte quelle decisioni prese perché doveva prenderle, quell’università che l’aveva quasi fatta morire di ansia per colpa delle aspettative di suo padre, quegli amici che non vedeva mai perché non erano mai stati veri amici… insomma, lasciava tutti i suoi sbagli là a Toronto nella speranza di ricominciare con il piede giusto da qualche altra parte.
Dopo aver visitato Parigi e Londra, che erano sempre state un sogno fin dall’adolescenza, finì per caso tra i canali di Amsterdam con lo scopo di sentire il concerto di una band che aveva conosciuto da poco. Non avrebbe mai pensato che una città in cui potevi sentire solo l’odore d’erba e di BBQ, poteva accoglierla così bene. Si era sentita a casa. Di nuovo a casa. Forse perché le strade strette e i palazzi alti la facevano sentire protetta e racchiusa in una città molto più piccola di quello che uno potrebbe immaginarsi, forse perché amava i colori strani dei muri delle case che pendevano lungo le strade, le scale interne ripidissime che dopo due birre a stomaco vuoto erano davvero una sfida, forse le piaceva la neve che si scioglieva sull’acqua e le luci delle case che si specchiavano la sera lungo i canali d’acqua.
Ogni mattina si svegliava e guardava fuori dalla finestra il piccolo canale di fronte a casa sua e pensava che non avrebbe cambiato per nulla al mondo quel posto. Ormai era casa sua a tutti gli effetti, ormai Amsterdam l’aveva inglobata del tutto e Lexa non era per niente dispiaciuta.
-Lexa?- la richiamò Clarke, facendola tornare con i piedi per terra.
L’altra la guardò con sguardo interrogativo.
-Ho detto che vado a prendere una boccata d’aria fuori… qua incomincia a far caldo e tutta questa gente mi fa agitare- disse Clarke prendendo la sua felpa per poi uscire dal locale.
Lexa si alzò immediatamente e involontariamente la seguì, vide la schiena di Clarke svincolarsi tra le persone ammassate fuori dal locale a chiacchierare, seguì con gli occhi la forma del suo corpo fino a quando non la raggiunse. Aveva le mani in tasca e gli occhi che fissavano i riflessi dell’acqua del canale.
Sebbene il clima non fosse ancora caldissimo, Lexa stava bene in canottiera a qualsiasi ora del giorno anche dopo il tramonto. Proprio in quel momento la città stava assumendo il colore dell’ambra grazie alle sfumature del cielo e al tramonto del sole. Lexa amava quel momento, la città sembrava quasi paralizzata dalla bellezza, il tutto veniva coperto da questa patina di tranquillità momentanea, un limbo tra oscurità e luce che rendeva il tutto suggestivo.
-Non dovresti agitarti- disse Lexa che per poco non fece spaventare Clarke. Clarke rimase in silenzio. -Meno della metà delle persone che ascoltano musica, ne sa effettivamente di musica-
Sebbene Clarke fosse ormai abituata a suonare davanti alle persone da anni e anni, quella sera sentiva qualcosa di diverso dentro di sé. Era come se ci fosse qualcosa di diverso in ballo, come se quella sera significasse qualcosa, come se fosse… più importante di quelle precedenti e di quelle future.
Clarke annuì silenziosamente.
-È bellissimo qua fuori non trovi? Questo canale è uno dei più belli di Amsterdam perché non è tanto frequentato ed è piccolo. Non appena il sole scende tra i palazzi, il cielo diventa blu ma non un blu notte… è un blu diverso, uno di quei blu che fanno risaltare le luci gialle delle case, e le luci decorative che adornano i piccoli ponti. Poi se non c’è il vento, l’acqua è ferma e il riflesso degli archi dei ponti sul canale fa si che sia tutto perfetto come un cerchio che si chiude esattamente dove è iniziato- disse Lexa tentando di far svagare l’artista.
Quando le parole della bruna incontrarono le orecchie di Clarke, la bionda poteva sentire l’importanza di ciò che Lexa stava descrivendo. Sebbene ad alcuni potesse sembrare semplicemente una stupida descrizione di un momento, Clarke da artista poteva sentirne i sentimenti al di sotto. Era come se Lexa stesse cogliendo ogni piccolo particolare della città, delle emozioni che le suscitava e le stava condividendo con lei. Clarke percepiva l’importanza delle parole di Lexa e il loro peso sentendosi grata di averle sentite.
-Tutti si dovrebbero sentire in sintonia con il mondo e con la città in cui vivono. Dovremmo essere tutti felici delle piccolezze della nostra vita, del tramonto che ci colora di rosso la parete della cucina, dell’alba che vorremmo vedere ma che poi non vediamo mai perché preferiamo dormire venti minuti in più- continuò Lexa come se il suo fosse un flusso di coscienza senza fine. -Torno dentro, ti ho annoiato anche troppo con queste sciocchezze- disse Lexa girandosi.
Quando la mano di Clarke si strinse intorno al braccio di Lexa, alla bruna che tutto il mondo avesse smesso di girare e che tutta la forza dell’universo fosse dentro quel tocco. Quel tocco che quasi bruciava la pelle di Lexa, quel tocco che sembrò più una richiesta disperata da parte di Clarke. Un tocco che diceva: “Non andare via ora”
-Hai mai pensato di scrivere questi tuoi pensieri?-
Lexa rise sentendo quella domanda. -Tipo un libro di seghe mentali? Questo intendi?-
Clarke non rise, l’aveva presa seriamente quella cosa.
-Scrivere qualcosa per te, senza etichette o categorie. Una poesia, delle frasi che ti vengono in mente, una canzone…-
-Lascio questi ruoli ad altre persone e l’ultimo lo lascio a cantautori come te. Così posso sentire le vostre canzoni e rivedermi in esse- disse senza mezzi termini.
La mano non aveva ancora lasciato l’avambraccio tatuato di Lexa. Era calda e dalla presa delicata, Lexa poteva sentire la pelle morbida dell’altra e l’odore della sua crema al miele.
-Hai molto da dire. Più di quanto credi-
Era come se Clarke potesse vederla da un punto di vista che altri non disponevano. Era come se Clarke la stesse psicoanalizzando lì, su una strada ciottolata mentre tutta la gente intorno a loro rideva e scherzava.
Quell’artista conosciuta da qualcosa come due ore o poco più l’aveva già capita. Aveva già capito il fatto che erano anni che Lexa non parlava di come stava con qualcuno che non fosse sé stessa, aveva capito Lexa non spiegava i suoi sentimenti a nessuno da quando si mise su quell’aereo e non si guardò più indietro. Anzi, aveva imparato a piegare i suoi sentimenti. In modo accurato e senza lasciarne traccia visibile a nessuno, mettendoseli nel taschino interno del suo giubbotto e aprendoli ogni tanto come se fossero vecchie lettere. Eppure la sua vita si era finalmente bilanciata grazie a questo meccanismo di difesa, si era ricomposta: non era più un’altalena di emozioni, di momenti belli infranti dalle lacrime, di momenti felici passati in famiglia distrutti dai messaggi che suo padre nascondeva a sua madre, di gambe intrecciate sotto le lenzuola che finivano per andare in direzioni diverse dopo una litigata.
Perché una sconosciuta doveva mettere in dubbio ogni cosa?
Lexa si scrollò di dosso quei pensieri ritornando a pensare alla cosa più bella che le potesse essere mai capitata in tutti quegli anni: quel lavoro. Quel lavoro che finalmente le aveva dato un motivo per alzarsi la mattina e dare il meglio di sé, quel lavoro che le dava una miriade di soddisfazioni, quel lavoro che coniugava passione e sforzi, quel lavoro in cui sentiva di eccellere.
-Ti ringrazio per la fiducia, ma preferisco pensare a far si che il tuo concerto di stasera sia perfetto-
Lexa rientrò dentro il locale ormai pieno.
Tra pochi minuti Clarke doveva cominciare e davvero Lexa voleva che fosse tutto perfetto come al solito. Ricontrollò i livelli del mixer, controllò che le luci si muovessero tutte come aveva predisposto, accese il suo computer per avere altri controlli a portata di mano e aspettò che l’artista si posizionasse.
Quando spense la musica dalle casse, il pubblico si fece silenzioso. Clarke prese la chitarra in mano e la gente applaudì già un po’ ubriaca.
Si presentò velocemente con una voce tranquilla ma decisa, non era sicuramente la prima volta che lo faceva. Stava sfoderando una sicurezza che Lexa trovava incredibile. La bruna non sarebbe mai salita su un palco con la sola compagnia di una chitarra. Gli occhi degli spettatori l’avrebbero giudicata e scrutata, avrebbero scannerizzato ogni angolo della sua pelle senza lasciare scampo a nessuno sbaglio. La voce, a patto che sapesse effettivamente cantare, avrebbe tremato senza fine.
Invece Clarke era tranquilla, stava facendo qualche battuta sugli australiani per rompere il ghiaccio come se nulla fosse. Quando incominciò a cantare la prima canzone, la sua voce era molto diversa rispetto alla chiacchierata avuta con Lexa qualche momento prima. Era ferma, decisa, graffiante ma a tratti dolce. Ti entrava nel cuore e te lo scioglieva immediatamente. Le parole ti rimanevano impresse nella mente.
Le note risuonavano ancora all’interno della sala quando il pubblico inondò Clarke di applausi.
-La prossima canzone- disse Clarke interrompendo l’applauso. -Parla un po’ della vita in generale. E so che dire che parla della vita vuol dire tutto e niente contemporaneamente, però credetemi quando dico che parla della vita. Parla di quella giostra continua che è la nostra vita, tra alti e bassi, e di come quei momenti o quelle certezze che credi non vadano mai via… a volte ti scivolano tra le dita come se niente fosse-
Un arpeggio dolce e malinconico si fece strada tra le orecchie di tutti.
-Siccome questa sera qualcuno mi ha detto che dovremmo imparare ad apprezzare ogni singolo particolare della nostra vita, le dedico questa canzone-
Lexa perse un battito del cuore sentendo quelle frasi. Si stupì di come l’artista le avesse letto nel pensiero, di come le loro due menti fossero affini da quel punto di vista.
Non appena Lexa sentì la voce di Clarke risuonare nel locale tutti i suoi pensieri si fermarono. La bruna ascoltò attentamente le parole e la melodia che Clarke le stava dedicando e ogni parola affondava sempre di più nella sua anima a mano a mano che la canzone andava avanti.
Gli occhi di Lexa erano fissi su di Clarke che cantava ad occhi chiusi, come se ogni singolo verso significasse troppo per lei. Le sue mani chiare e curate accarezzavano dolcemente le corde della chitarra che produceva una melodia malinconica che Lexa stava adorando.

“And the feeling I thought was set in stone
It slips through my fingers
And I'm trying hard to let go
But it comes and goes in waves
'Cause it comes and goes in waves
And carries us away”


Lexa stava incassando parola per parola, come se Clarke gliele stesse tatuando sul cuore mentre cantava.
Quando arrivò alla fine della canzone aprì gli occhi lentamente e le sue iridi azzurre incontrarono quelle verdi di Lexa, che in fondo alla sala aveva percepito tutti i sentimenti che Clarke le stava donando con quella canzone. Gli occhi di Lexa stavano accarezzando da lontano il viso serio di Clarke, che sperava la canzone fosse arrivata a Lexa con la stessa intensità con cui Clarke l’aveva scritta e suonata.
I loro occhi continuarono a concatenarsi e a rincorrersi per tutta la serata, quando Clarke posò la chitarra un lungo applauso si fece strada tra tutto il locale. Lei ringraziò e Lexa spense le luci sul palco accendendo quelle soffuse.
Clarke iniziò subito a smontare la sua roba e Lexa si fiondò ad aiutarla.
-Lascia fare a me- le disse con tono dolce. -Sarai stanca. Vai a bere qualcosa, qua finisco io-
Clarke la ringraziò e si avviò verso il bancone.
Lexa mise a posto tutti i cavi, scollegò il microfono, chiuse il mixer nella sua grande custodia, mise a posto la chitarra di Clarke nella custodia e poi osservò l’artista da lontano.
Stava chiacchierando con un gruppo di ragazzi, Lexa poteva immaginare di cosa stessero parlando. Probabilmente della sua performance perfetta, della sua voce potente o della sua bravura a comporre. Lexa sarebbe stata in grado di motivare tutte queste affermazioni, perché era convinta che fossero tutte vere e che Clarke meritasse quel genere di complimenti.
Era strano, perché non si era mai sentita così prima di quella sera. Nessun artista che aveva visto esibirsi davanti a lei l’aveva mai colpita così tanto, anche i più bravi quelli che aveva chiamato lei per esibirsi al locale, quelli che aveva quasi pregato in ginocchio per farli venire, quelli che erano i suoi preferiti, non avevano mai smosso così tante cose dentro di lei. Era come se con la musica di Clarke avesse una specie di connessione invisibile, un filo che nessuno poteva vedere se non lei. O forse la connessione perfetta era tra lei e Clarke stessa.
Arrivata a quel ragionamento scrollò la testa e si diresse verso Lincoln che aveva già pronta una birra per lei.
-Bella scelta- disse lui nell’orecchio di Lexa.
Lei sorrise genuinamente per poi iniziare a bere la sua birra. Quando Clarke fu libera dalla presa delle persone che si complimentarono con lei, Lexa si diresse verso la bionda.
-Grazie- le disse senza troppi giri di parole.
-E di cosa, Lexa?- chiese Clarke.
-Per la canzone… era… stupenda- Lexa voleva articolare quella frase, voleva dirle che le aveva messo i brividi, che l’aveva colpita e affondata, che le parole le erano rimaste impresse nella sua mente, che l’arrangiamento di chitarra era una delle cose più dolci e malinconiche che avesse mai sentito, che quindi… era un capolavoro. Un perfetto capolavoro.
-Sono felice che ti sia piaciuta, è molto importante anche per me e sono felice di averla condivisa con qualcuno che l’ha saputa apprezzare-
-È un capolavoro Clarke- Lexa continuò a dire alla ragazza di fronte a lei senza staccare gli occhi da quelli di Clarke.
Lei sorrise timidamente.
-Senti… io pensavo… Cioè sto cercando di portare avanti un piccolo progetto che è ancora in fase embrionale- disse Lexa impacciatamente. Cavolo, Lexa non era mai impacciata con nessuno, lei era sempre quella sicura di sé stessa, quella con la battutina pronta e quella che non si faceva intimorire da nessuno. -Sto cercando di migliorare le mie abilità da film-maker… quindi quando passa da queste parti qualche cantautore interessante, gli faccio un video con una registrazione audio professionale, e poi consegno il tutto a lui. È una cosa che ho sempre sognato di fare e ora ci sto dedicando molto del mio tempo per far sì che venga fuori un prodotto eccellente- disse senza prendere fiato. -Niente... se sei interessata ti lascio il mio biglietto da visita. La mia e-mail ce l’hai. Quanto resterai ancora in città?-
-Tre giorni-
-Okay, sai dove trovarmi e ora hai i mie contatti. Ora… devo scappare, complimenti ancora alla prossima- concluse Lexa senza dar tempo a Clarke di rispondere o di ringraziarla.
Prese la sua giacca di pelle leggera dietro il bancone e salutò Lincoln con un pugno sulla spalla, per poi uscire dal locale.
Iniziò a pedale velocemente. Voleva scappare ma al contempo sarebbe stata tutta la sera a sentire Clarke parlare, cantare oppure… qualsiasi altra cosa. Avrebbe voluto chiederle cosa l’ha spinta a scrivere quella canzone, come ha fatto a descrivere così bene la vita di Lexa in tre strofe e due ritornelli, avrebbe voluto chiederle il significato di tutte le altre sue canzoni, il perché aveva scelto quel giro di note, perché aveva iniziato a cantare, come ne pensava della tristezza e della malinconia nelle canzoni, se tifava Fender o Gibson e cosa ne pensava dei Foo Fighters. Semplicemente, avrebbe voluto conoscerla. Per questo stava scappando, perché qualcosa la attirava verso quella ragazza.
Aprì il portone di casa e infilò la sua bicicletta nel piccolo atrio. Salì le scale ripide e poi aprì la porta del suo appartamento.
Si tolse le scarpe e la canottiera. Buttò le chiavi sulla piccola scrivania, chiuse le veneziane e si mise una maglietta rovinatissima ma che amava da sempre. Si sedette alla scrivania e fissò la moleskine nera davanti a lei. La aprì e incominciò a scrivere due semplici frasi, poi la chiuse di nuovo.
Entrò nella sua camera da letto e cercò di dormire, per quanto possibile.

Il giorno dopo tutto ricominciò da capo. Lexa non si svegliava mai troppo presto, soprattutto perché tornava sempre tardi da lavorare. A volte erano le quattro del mattino a volte le tre, ma comunque prima delle due non era mai a casa. Quindi ormai aveva preso questa routine del riposo un po’ strana e storta, e quella mattina nulla fu diverso. Si svegliò intorno alle nove e mezza, poi rimase un po’ lì a rigirarsi nel letto fino a quando non decise che era ora di alzarsi per davvero.
Mise dei cereali una tazza larga e poi ci aggiunse del latte freddo. Una volta finita la colazione decise di andare a fare una lunga passeggiata.
Fuori c’era un sole splendido, quello tipico di un maggio appena iniziato.
Lexa si perse per ore tra i canali della città, con il naso all’insù come fosse una turista. Si distese all’ombra di uno dei tanti alberi all’interno del Vondelpark e sonnecchiò grazie alle note del suo pianista preferito.
Dopo ore si ritrovò di nuovo in sella alla sua bici diretta al locale. Quella sera si sarebbe esibito un artista che stava molto a cuore a Lexa. Era un ragazzo semplicissimo e timido, che creava canzoni che per Lexa erano dei capolavori. Usava la sua voce e una semplice tastiera, niente altro. Niente accompagnamenti, niente suoni che arrivavano dal computer, nessun turnista che lo accompagnasse e che lo sopportasse. La sera in cui lo sentì la prima volta, era una sera particolare: tutto il suo mondo stava cadendo a pezzi. Tutta la sua vita si stava sgretolando. Si trovava nel suo piccolo monolocale di fronte alla Columbia University, perché era lì che suo padre voleva che lei studiasse, dove aveva studiato lui è dove avevano studiato tutti gli altri avvocati della famiglia. Lexa era esausta della sua vita, non aveva neanche più le forze per combatterla. Mentre fissava da ore e ore il libro di diritto commerciale, decise che per quel giorno la tortura poteva anche finire lì. Si mise a letto, attivò un podcast a caso da Spotify e dopo qualche ore una voce delicatissima si fece strada tra le sue orecchie e il suo cuore. La voce era una voce maschile che cantava di una vita triste, piena di problemi e solitudine. Lexa si rivide così tanto in quei versi che finì per ascoltare quotidianamente il ragazzo. Il giorno in cui decise di iniziare una nuova vita lontano da quel posto che era pieno di angoli tristi e ricordi strazianti, scrisse una lunga e-mail al cantante. Spiegò l’importanza che la sua musica aveva avuto nella sua quotidianità e nella sua vita, che nessuno aveva mai capito così a fondo la sua tristezza. Non avrebbe mai immaginato che a quella mail senza senso e sconnessa, un fiume in piena di sentimenti, l’artista avrebbe risposto.
Rispose con una semplice frase che però aprì un mondo a Lexa: “Le mie canzoni arrivano da un posto scuro e triste, ma il segreto è usare la tristezza per evadere da essa. La tristezza è speranza”
Da quel giorno, la visione di Lexa cambiò totalmente. E da quel giorno ci fu uno scambio di mail ricorrenti fino a quando Lexa non propose all’artista di andare a suonare nel locale dove lavorava da poco. Lexa era determinata, l’avrebbe pregato in ginocchio se avesse dovuto farlo, oppure l’avrebbe pagato lei stessa con i suoi risparmi se a Lincoln non fosse andato bene il cachet della serata.
Per farla corta: quella sera era la terza volta che il ragazzo di esibiva lì.
Quando lui entrò nel locale si abbracciarono. Il ragazzo era più affettuoso e aperto di quanto potesse sembrare con un primo sguardo.
I due fecero tutto quel che dovevano fare in tempo, provarono i suoni, si aggiornarono sulle loro vite come se fossero amici.
Quando il concerto iniziò Lexa gli augurò buona fortuna sapendo bene che non ne aveva neanche poi così bisogno. Si mise in piedi in fondo alla sala per avere una visuale perfetta del concerto, ma essere al contempo pronta a cambiare qualcosa al mixer se avesse dovuto.
La bruna si stava godendo il concerto quando intravide una chioma bionda tra il pubblico, segretamente sperava fosse Clarke.
Il pubblico era stretto in un religioso silenzio quando l’artista stava concludendo una delle più delicate canzoni del suo repertorio. Però poi fu lo stesso artista, una volta finita la canzone, a rompere quel silenzio con una battuta: -La prossima canzone probabilmente è una delle poche canzoni felici che abbia mai scritto, quindi godetevela-
Un arpeggio di pianoforte riempì il locale e poco dopo la sua voce incominciò a cantare.
You came into the picture like a natural
You were unexpected, got me spiritual
I don't wanna say it, but maybe it was fate…”

Lexa era così presa dalla canzone che non si accorse di avere qualcuno al suo fianco, qualcuno che aveva conosciuto la sera precedente e che sperava fosse lì più per lei che per il concerto. Girò gli occhi lentamente, giusto per prendere fiato e quando posò gli occhi su di lei, Clarke stava già ricambiando il suo sguardo. Un tenero sorriso spuntò sul volto di Clarke che era illuminato soltanto dalle luci rosse che arrivavano dal palco di fronte a loro.
Lexa, non sapeva come comportarsi. Avrebbe voluto stringere la mano della ragazza di fianco a lei. Un gesto intimo e pieno di significati, un gesto che lega e unisce più di molti altri. Ma la bruna si limitò a osservare il volto di Clarke e ad abbozzare un sorriso, cercando di lasciarsi trasportare dal momento e dal suo cuore.
Quando Clarke si voltò di nuovo in direzione del palco, Lexa non fece lo stesso. Continuava a seguire con gli occhi il profilo di Clarke, ad osservare come muovesse la testa al ritmo, come canticchiava già il ritornello orecchiabile della canzone. Si rese conto, di colpo, che avrebbe voluto che quel piccolo momento tra di loro non finisse mai. Avrebbe voluto continuare a scoprire i suoi dettagli solo osservandola, senza chiedere, senza parlare, solo guardando e sentendo il suo corpo. Involontariamente si avvicinò al corpo di Clarke, che era come una calamita. La musica dolce continuava a scorrere nelle loro orecchie e la bionda sentì l’avvicinarsi di Lexa e il suo sguardo su di lei. Sorrise maliziosamente quando se ne accorse, però poi arrossì.

I came into your picture such a broken fool
A million different pieces looking back at you
Believe me when I say this, I was giving up
But now you come and save me”


Lexa sentendo quelle parole, così maledettamente vere e sincere ebbe l’istinto di prendere la mano di Clarke e portarsela al cuore. Per farle capire, quello che stava provando, per dirle tutto senza dover dire nulla. Non era un batticuore dovuto all’infinita bellezza della musica, non era un batticuore qualunque, non erano brividi per la bravura del cantante… era tutt’altro e Lexa lo sapeva bene.
Lo sapeva perché aveva provato l’emozione che le dava la musica e non era questa. Non era così potente, non era così inarrestabile. Lo sapeva bene perché, seppur la sua mano non stesse toccando quella di Clarke, poteva sentire la sua pelle bruciare per l’assenza del contatto. Le sue mani bramavano quelle dell’artista, il suo corpo ne aveva bisogno, i suoi occhi l’avevano già memorizzata e quella vicinanza faceva contrarre ogni singolo muscolo, perché ogni singola molecola voleva sfiorare la pelle di Clarke.
Lexa sapeva che Clarke stava provando lo stesso. Lo sentiva e lo poteva percepire solo guardando le sue labbra dischiuse e i suoi occhi chiusi, il suo respiro che cercava di controllare senza riuscirci.

“Love can terrify, love can start a fire”

Lexa appoggiò le sue dita calde sotto il mento di Clarke, spingendolo dolcemente verso i suoi occhi verdi. Clarke assecondò il gesto per poi aprire gli occhi e incontrare Lexa.

“Holding on tonight, we're burning like a lighter”

Clarke fu la prima a muoversi verso le labbra di Lexa. Quando le loro bocche si toccarono, Lexa perse un battito. Quando Clarke appoggiò la sua mano sulla guancia di Lexa, tutto sembrava essere tornato a posto nella vita della bruna. Tutto sembrava avere senso, tutto ora era davvero completo.

Everything inside us burning with desire, now

Clarke si stacco dal bacio solo per prendere fiato, per poi fiondarsi di nuovo sulle labbra carnose di Lexa. Questa volta fu un bacio passionale, fatto di lingue che si scontrano e rincorrono, con la mano di Lexa che stringe forte quella di Clarke. Un bacio che le stava facendo rimanere senza fiato, per la delicatezza e la passione che si stavano regalando e scambiando come doni incartati.
Lexa sperava che questa volta, il suo cuore non si sarebbe rotto.
Quando si staccarono definitivamente, nessuna delle due decise di lasciare la mano dell’altra. Le due rimasero in silenzio per le ultime tre canzoni del concerto. Un sorriso era dipinto sul volto della bruna e la bionda al suo fianco si continuava a mordere il labbro inferiore nel pensare a ciò che era appena successo.
Quando il cantante ringraziò il pubblico per poi dileguarsi, Lexa fece un respiro profondo. Un respiro che sapeva di una ricerca di coraggio, un incoraggiamento involontario a sé stessa.
-Usciamo da qua- disse ferma.
Prese la sua giacca di pelle e subito le mancò il contatto con la pelle di Clarke.
L’altra la guardò complice una volta fuori, lungo la strada di fronte al locale riprese la mano di Lexa tra la sua per poi tirarla leggermente per attirare la sua attenzione.
Lexa si voltò verso di Clarke, già impaurita che l’altra ragazze avesse ripensato al bacio e si fosse pentita di tutto. Invece Clarke la tirò a sé e la baciò delicatamente. Con quel bacio Clarke volle spiegare a Lexa tutto quello che aveva dentro di lei, le baciò le labbra delicatamente per mostrarle rispetto, le prese la mano per farle capire che lei c’era e poi la fissò negli occhi per rassicurarla.
Lexa sorrise finalmente dal fondo del suo cuore.
Camminarono ridacchiando come due adolescenti. Lexa mise le loro mani incastrate tra loro nella giacca del suo giubbotto quando sentì che la pelle di Clarke stava diventando fredda.
-Forse di sera è più bella che di giorno- commentò Clarke.
Lexa annuì per poi tirare fuori le chiavi di casa sua e aprire il portone.
Non appena le due entrarono in casa, Lexa si ritrovò in uno stato di imbarazzo. Improvvisamente tutto si fermò così come era arrivato. Si chiese improvvisamente se era tutto vero oppure no e se il suo fare avventato non fosse un pericolo alla sua parziale felicità tanto faticata.
Il treno di domande che stava passando per la testa di Lexa venne interrotto da un bacio caldo che si posò esattamente sotto il collo di Lexa, dove la sua maglietta non arrivava lasciava quel lembo di pelle nuda che Clarke aveva notato ed adorato fin da subito. Dopo il bacio arrivarono due mani che si strinsero a quelle di Lexa, e dopo altri baci, altre lingue che si accarezzano e mani che si cercano.
Tra i baci famelici Lexa riuscì a togliere la maglietta di Clarke. Clarke in risposta sciolse i capelli di Lexa e poi la guardò dolcemente: -Sei più bella così-
Lexa non sapeva rispondere ai complimenti così la baciò e le sussurrò di seguirla. Aprì la porta della camera e Clarke la riprese a baciare, le tolse la maglietta scura e il reggiseno dello stesso colore. I respiri affannosi riempivano tutta la stanza, insieme al rumore che fecero i loro corpi nella collisione con il letto. Clarke, a cavalcioni su di Lexa, tentava di toglierle i jeans stretti.
-Vorrei dirti di prenderteli un po’ più larghi ma poi non risalterebbero più certe curve-
Nel sentire quella frase Lexa slacciò il reggiseno di Clarke liberando i suoi seni bianchi e perfetti. Si slacciò i pantaloni per poi calciarli via e ribaltare le loro posizioni. La sua bocca incominciò a baciare il suo collo fino al suo sterno come se stesse esplorando ogni angolo della sua pelle. Mentre le sue dita sbottonavano i jeans di Clarke, la bocca di Lexa si concentrò sul suo seno lasciando Clarke in preda a una miriade di emozioni diverse. Quando i gemiti incominciarono ad uscire dalla bocca di Clarke, Lexa fu felice. La sua bocca scese ancora e una volta sfilati i pantaloni, Lexa distanziò leggermente le gambe di Clarke ormai solo in intimo. Baciò le sue cosce come se fosse una riverenza e un omaggio alla ragazza che si dimenava sotto i suoi tocchi, le esplorò fino a toglierle anche l’ultimo pezzo mancante.
La bionda era ormai inerme nei confronti di Lexa e quest’ultima decise di girovagare intorno al centro di Clarke fino a quando le mani dell’altra non strinsero i capelli di Lexa. In quel momento decise di accontentare Clarke e dedicare tutta la sua attenzione a quel punto preciso che fece gridare di piacere la bionda dopo poco. Quando Lexa entrò dentro Clarke, gli ansimi dell’artista incominciarono ad aumentare, i movimenti frenetici del suo bacino si fecero costanti e Lexa continuava a seguirli spingendo sempre più.
-Lexa- disse con poco fiato Clarke. Dopo poche spinte Clarke era al culmine e Lexa si perse nel vedere la ragazza reagire a quell’ondata di piacere, si perse nel vedere gli occhi socchiusi, il petto muoversi ritmicamente e velocemente, le labbra rosse e socchiuse.
La voce di Clarke che ansimava sotto i suoi tocchi, poteva essere il nuovo suono preferito di Lexa.
Dopo che Clarke si riprese, Lexa la risalì e la strinse tra le sue braccia.

Clarke si svegliò prima di Lexa. Erano ancora avvolte nelle lenzuola ed erano ancora nude. Lexa dormiva a pancia in giù e il suo volto era rivolto verso di Clarke. Doveva avere caldo perchè, al contrario di Clarke, il lenzuolo copriva soltanto la parte inferiore del suo corpo lasciando scoperta la sua schiena tatuata che aveva tanto sognato di vedere il giorno prima. Si prese un attimo per notare i suoi capelli scuri e arruffati, le sue scapole sporgenti e le sue fossette di Venere verso la fine della sua schiena.
Come la prima volta che la vide, chinata su quel palco con il suo collo tatuato scoperto, sentì crescere dentro di sé l’urgenza di baciarla. Si sporse piano verso la sua schiena e iniziò a baciarla dolcemente proprio dalle fossette di Venere, una parte che aveva capito di amare da pochi minuti. Risalì tutta la schiena, fino a quando un piccolo suono uscì dalla cola di Lexa.
-Colazione?- disse scherzando.
Le mani di Clarke continuarono ad accarezzare la schiena di Lexa, Clarke seguì con un dito il profilo delle sue costole per poi sorridere maliziosamente.
Si mise a cavalcioni sulla sua schiena, fece scivolare una mano tra il materasso e la pancia tonica di Lexa.
-Ho in mente un tipo di colazione…- commentò.
Quando Lexa capì le intenzioni della bionda, alzò il bacino agevolando la mano di Clarke che arrivò subito al suo centro. Le dita sapienti di Clarke incominciarono a muoversi lentamente e Lexa non riuscì a contenere i suoi leggeri gemiti di piacere. Si incominciò a contorcere sotto la presa di Clarke quando il ritmo si fece più incalzante, più deciso. Quando Clarke notò che i gemiti erano sempre più forti e che Lexa stava stringendo le lenzuola tra le sue dita esili, capì che era vicina. Aumentò il ritmo e la dondolò fino al culmine con dei baci sulla sua scapola sinistra.

-Quella è una delle poche foto che ho della mia famiglia che non abbia rotto- commentò Lexa tornando in salotto dopo la doccia. L’altra ragazza indossava gli indumenti di Lexa e stava mangiando una ciambella girovagando per la modesta casa di Lexa.
Clarke le lanciò uno sguardo interrogativo.
-Durante il primo anno di collage beccai mio padre con un’altra donna. Subito non dissi nulla, ero sconvolta… senza parole. Speravo che fosse una sbandata, ma quando lessi dei messaggi sul suo telefono… beh decisi di dire il tutto a mia madre. Quel giorno ho rovinato la mia famiglia. E dopo un anno ho rovinato il mio rapporto con mia madre quando decisi di lasciare Legge per venire qua e coltivare la mia passione-
Lexa non sapeva neanche perché stava spiegando tutto quello, perché lo stava dicendo a Clarke… eppure si sentiva meglio. Si sentiva più libera e leggera, si sentiva ascoltata.
Gli occhi azzurri di Clarke la stavano guardando e dentro quegli occhi Lexa non stava leggendo un sentimento di pietà come tutti in passato avevano fatto. Era qualcosa di diverso, come se fosse realmente dispiaciuta per la vita di Lexa e le difficoltà che aveva dovuto sorpassare.
La strinse in un abbracciò stretto. Era la miglior risposta che Clarke poteva formulare in quel momento. Avrebbe voluto dire a Lexa che erano cose che succedevano, che sua madre l’avrebbe perdonata e il padre anche, ma Clarke sapeva che erano false speranze di cui Lexa di sicuro non aveva bisogno.
Le due chiacchierarono, Clarke raccontò a Lexa qualcosa della sua vita e Lexa fece lo stesso. Il padre di Clarke era morto da poco e odiava parlarne, eppure si sentì in dovere di aiutare Lexa condividendo una parte importante della sua vita con lei sperando che la potesse aiutare.
-Mi spiace Clarke, non so cosa tu stia provando… ma sono sicura che la miglior cosa che tu possa fare nei suoi confronti e ricordare i momenti felici che hai vissuto con lui-
Lexa non sapeva cosa volesse dire perdere qualcuno che ami, qualcuno di così importante che pensi non possa mai andarsene dalla tua vita, ma comunque sapeva il significato di non avere più qualcuno. Lo conosceva bene e all’inizio, l’unica cosa che l’aveva aiutata ad affrontare il tutto, era ricordare tutto ciò che di buono, felice, allegro le era successo. I ricordi della sua infanzia le regalavano sempre un sospiro di sollievo quando più ne aveva bisogno.
-Ti andrebbe bene del cinese?- chiese Lexa quando ormai il suo stomaco gorgogliava. Le due erano semplicemente distese sul divano di Lexa e non avevano smesso di parlare un secondo. Clarke stava scherzando su come l’arredamento di Lexa fosse casuale e di certo non abbinato tra i vari pezzi. Lexa, rise e poi diede la colpa al padrone di casa probabilmente daltonico.
-Certo- rispose Clarke. Non si erano più baciate dalla mattina e ora Clarke incominciava a sentire una certa mancanza. Così appoggio le sue labbra su quelle di Lexa e poté sentire chiaramente le labbra di Lexa distendersi in un sorriso.
-Arrivo subito, è sotto casa- disse alzandosi e infilandosi delle vans consumate. Quando la porta si chiuse Lexa, fuori di casa cercò di riprendere fiato. Doveva ancora realizzare cosa era successo, cosa volesse dire, cosa sarebbe successo quando Lexa sarebbe dovuta tornare a lavoro la sera… però in quel momento Lexa non voleva pensarci. Se era una follia, era una follia bellissima. Le follie sono temporanee, ma lei scacciò quel pensiero ed entrò nel piccolo negozio.
Uno dei vantaggi di abitare ai confini con il quartiere cinese è che quando Lexa aveva bisogno di un pranzo veloce o una cena di corsa senza dover cucinare, poteva scendere sotto casa e prendersi un bel piatto di sushi o di involtini primavera.
Quando girò le chiavi nella toppa riconobbe subito un dolce suono provenire dal salotto. Clarke stava suonando la chitarra acustica che Lexa aveva trovato abbandonata nel locale una sera. Posò silenziosamente la borsa in cucina e poi si infilò nella sua camera per prendere la sua videocamera.
Stranamente, questa voglia di documentare tutto con foto e video, era l’ultima cosa rimasta che la accomunava con sua madre. E anche la videocamera era l’ultima cosa rimasta in casa di Lexa che apparteneva a lei. Sua madre gliel’aveva regalata il giorno della consegna dei diplomi. Le raccontò che era la prima videocamera che avesse mai avuto e che non avrebbe mai voluto cambiarla, ma le esigenze erano diverse e allora sua madre gliela regalò nella speranza che Lexa ne facesse buon uso. E Lexa, lo fece. Da quel giorno documentò tutto quello che le accadeva: il suo trasloco, i suoi amici skaters nel parco di fronte a casa, i concerti a cui andava, i viaggi in macchina per tornare dai suoi genitori… tutto. Ogni singolo fotogramma raccontava una storia e dei sentimenti.
Con il tempo aveva imparato i trucchi e segreti del fare buoni video, l’aveva usata per raccontare i suoi viaggi in Europa ed era sempre più soddisfatta dei suoi risultati. Ora, voleva applicare quella conoscenza a favore degli artisti che suonavano nel locale di Lincoln.
La accese e poi, si mise dietro Clarke mettendo a fuoco il suo braccio nudo per poi incominciare a girarle intorno. Riprese tutti i dettagli: la maglietta di Lexa che era indossata dall’artista, le dita che sapienti si muovevano lungo il manico della chitarra, i suoi occhi socchiusi mentre cantava quasi sottovoce e le sue labbra che poco prima aveva baciato con passione.
Quando la canzone finì Lexa sorrise felice del risultato ottenuto e felice di aver vissuto un momento così intimo con Clarke.
Quel video sarebbe rimasto nel suo computer insieme a tutti i ricordi che racchiudeva. Appoggiò la videocamera sul tavolino, prese la chitarra tra le mani di Clarke e la appoggiò di nuovo nell’angolo del salotto.
Clarke la guardò triste, ma quando le labbra di Lexa furono di nuovo sulle sue, non si lamentò più di tanto.
-Non avevi comprato il pranzo?- chiese ironicamente Clarke tra un bacio e l’altro.
-Pranzo? Credo tu abbia capito male…- rispose altrettanto ironicamente Lexa per poi infilare le sue mani sotto la maglietta di Clarke.
L’altra rise compiaciuta decidendo che il pranzo si poteva anche scaldare.

—•—

-Ehy che hai?- chiese Lincoln.
-Niente, sono solo stanca- Lexa mentì bevendo l’ennesima birra della serata. Sapeva molto cosa aveva. E non poteva dare la colpa a nessuno se non a sé stessa. Era finita in questa situazione con tutta la mente e il corpo, non era stato uno sbaglio o un errore, era stato tutto volontario. Come se fosse andata a sbattere contro un muro con una macchia, accelerando al massimo della potenza e con le due mani ben ancorate al volante.
Questo era quello che era successo con Clarke, sparita il giorno dopo senza spiegazioni o abbracci, senza bigliettini lasciati sul tavolo della cucina. Era semplicemente sparita. Lexa aveva temuto tutto quello, aveva temuto che fosse una pazzia temporanea che sarebbe finita nei peggiori dei modi, ma per un attimo… per un attimo aveva creduto che anche per Clarke fosse di più di una semplice pazzia.
Forse aveva letto i segnali della bionda nel modo sbagliato, forse aveva creduto in qualcosa che in realtà non esisteva. Quel giorno, nel vedere i suoi vestiti piegati sul suo letto, la roba di Clarke non all’entrata dell’appartamento, la chitarra di nuovo al suo posto… si rese conto che era tutto finito com’era arrivato. In un lampo.
Sorseggiò la birra non curandosi neanche della band che suonava alle sue spalle. Sbloccò il suo telefono e controllò per l’ennesima volta la sua e-mail. Clarke poteva contattarla in quel modo, ma ad un mese dal quel giorno non l’aveva fatto. Lexa pensò spesso di scriverle, ma a che proposito? Clarke se n’era andata senza dire nulla. Quindi forse non aveva nulla da dire a Lexa.
L’ultima volta che sentì la voce di Clarke fu quando gemette urlando il suo nome. Lexa poi la lasciò lì nel suo letto a dormire, mentre lei andava al locale per gestire la serata.
Sospirò sonoramente.
La bruna sapeva gli spostamenti della bionda, perché le sue date del tour erano pubbliche e accessibili a chiunque. In quel momento era ad Edimburgo nel mezzo della Scozia.
Infatti Clarke era là, in un bar qualunque di Edimburgo seduta a bersi un te caldo per scaldarsi un po’. Fuori pioveva a dirotto da giorni e Clarke non lo sopportava proprio.
Sospirò sonoramente per poi sbloccare il telefono.
Si sentiva male, male da morire. Aveva lasciato Lexa senza dirle nulla. Senza spiegare l’ammontare di emozioni uniche che provava nel suo cuore.
Aveva paura… Clarke aveva avuto paura per la prima volta dell’amore, dell’attrazione, dello stare bene con qualcun altro e non da sola. Era sempre stata una persona solitaria, il viaggio che stava facendo ne era la prova. Ma quando incontrò Lexa tutto cambiò. Ed ora, in mezzo a tutta quella pioggia, si sentiva incompleta.
Ovviamente, seguiva silenziosamente Lexa grazie ai suoi aggiornamenti sui suoi social. Aveva scoperto che finalmente il suo progetto di catturare gli artisti live, in acustico, tra i canali di Amsterdam stava avendo successo. Questo successo arrivò soprattutto grazie alla piccola collaborazione che Lexa e il suo artista preferito avevano avuto durante la sua tappa ad Amsterdam.
Clarke ricordava benissimo il ragazzo che aveva suonato mentre loro, nelle retrovie del locale, si baciavano per la prima volta. Quella canzone ancora le dava i brividi ogni volta che la ascoltava, perché continuava a sentire le labbra di Lexa sopra le sue.
Lexa aveva scritto una canzone insieme al ragazzo, aveva ripeso l’esecuzione con la sua fidata videocamera e il video divenne virale tra i fan. Clarke imparò che il testo era tutto merito di Lexa e la musica era stata scritta dal giovane artista.
Da quando Clarke scoprì questo fatto, ascoltava la canzone in ripetizione ogni giorno. Mentre era sul tram, sull’autobus, su un treno o su un aereo, mentre aspettava il suo ordine in una caffetteria… quella canzone c’era.
E anche in quel momento, sotto la pioggia battente della Scozia, quella canzone c’era di nuovo.

Cold bones, yeah that's my love
she hides away, like a ghost
does she know that we bleed the same?

 
La voce del cantante era quasi straziata dalle parole e dalla melodia triste. Clarke poteva sentire una coltellata al cuore ogni volta che la strofa iniziava, perché sapeva benissimo che quelle parole perfettamente calibrate erano dedicate del tutto a lei.
Lexa le aveva scritte per lei, le aveva scritte per dare sfogo ai suoi sentimenti e tutto questo peggiorava soltanto la situazione.
Una situazione che era insostenibile dal primo momento in cui Clarke uscì dall’appartamento di Lexa senza dire nulla, spaventata da quello che era appena successo tra loro, da quello che sarebbe successo… Clarke aveva delle date che doveva fare in tutta Europa. La sua carriera dipendeva da questo tour improvvisato, niente doveva portala fuoristrada. Le distrazioni non erano contemplate quindi neanche Lexa.
Però Clarke, sotto sotto, non credeva che Lexa fosse una distrazione. Quello che era Lexa poteva chiamarsi solo in un modo: felicità.
La felicità non dovrebbe essere una distrazione nella vita di qualcuno, la felicità dovrebbe essere il premio nella vita di qualcuno. Eppure, Clarke un mese fa non sentiva di meritare quel tipo di premio o essere il giusto premio per Lexa.
Entrò nella sua stanza d’albergo e fissò la sua roba sparsa per la stanza. La sua chitarra chiusa nella sua custodia rigida, le sue valigie ancora immacolate e il suo computer aperto sull’e-mail che tanto non avrebbe mai inviato.

“Did you run away? I don't need to know
If you ran away, come back home
Just come home”


Clarke sapeva benissimo dov’era la sua casa.
Non era in quella stanza d’hotel.

—•—

Le luci erano pronte. Il palco era perfetto come al solito.
Tutto era pronto per la band che si sarebbe esibita quella sera.
Lincoln sforno uno dei suoi panini e richiamò Lexa al bancone.
-Okay, quindi da domani vacanza mi raccomando- ricordò ancora una volta Lincoln a Lexa.
-Stai tranquillo, ho capito. Te l’ho detto che ho anche prenotato un viaggio- sembrava di parlare con suo padre più che con un amico.
-Ah è vero! Norvegia, vero?-
L’altra annuì.
Dopo aver mangiato decise di uscire fuori a fare una passeggiata. Ormai era estate e stare dentro il locale per molto tempo diventava una tortura per lei.
Si mise le cuffie e decise di sedersi lungo le sponde del piccolo canale.
Fece play.
La canzone che iniziò fu molto importante per lei e ogni volta che partiva dal suo iPod, Lexa si emozionava sempre. Faceva parte della lista di canzoni che ti danno solo un unico importante messaggio: sebbene ci siano momenti della vita che ti sembrano insormontabili, non sei solo, non sei l’unico, non sei un’anima senza scopo. Devi accettare quello che provi, anche se sembra fuori controllo e anche se ti sta lacerando il cuore… perché esisterà sempre qualcosa di più forte dei tuoi sentimenti che ti lega a questo mondo. Potrebbe essere una persona, un lavoro, uno scopo o qualcuno che devi ancora conoscere. Quindi non devi scivolare o cadere in un buco nero, devi respirare a fondo e andare avanti.
Era una di quelle canzoni che ti danno di nuovo la speranza, la fiducia che ti possa succedere qualcosa che migliorerà la tua vita diventando di nuovo la vita che vorresti vivere.
Lexa non si accorse neanche che due gambe fasciate da dei jeans chiari si materializzarono vicino a lei. Quando una mano, che conosceva benissimo, si appoggiò sulla sua coscia, Lexa credette di morire. Lì in quel momento.
Mise la sua mano sopra la sua, per capire se era un sogno o la realtà.
Quando toccò la mano chiara capì che era pura realtà, perché il tocco la fece quasi rabbrividire.
Lexa subito non ebbe il coraggio di guardare la ragazza negli occhi, ma dopo minuti interminabili alzò lo sguardo fino ad incontrare gli occhi di Clarke proprio come la prima volta.
-Sono tornata a casa-

 
Ciao a tutti e buon San Valentino in ritardo!
Lo so lo so, devo aggiornare la storia con un nuovo capitolo. Tranquilli è quasi finito, lo giuro.
Non so che mi è passato per la testa ma ho scritto questa cosa mentre mi facevo 23 ore di volo insonne quindi ho deciso di postarla per San Valentino ma alla fine l’ho messa oggi sigh.
Niente, sarà il fatto che sono tornata a casa (appunto ad Amsterdam che ormai mi sopporta da tre anni e mezzo) oppure sarà il fatto che - grazie alla mia ragazza - son finita ad un tavolo con l’artista che ha ispirato la storia (il titolo e le ultime due canzoni citate sono sue), ma mi è uscito questo scenario un po’.
L’unione di queste due cose, ma soprattutto i discorsi fatti con quest’artista (che io prima non conoscevo) mi hanno fatto riflettere molto e credo che questa one-shot sia anche il risultato di questo mio continuo ragionamento ahahah
In pratica, spero che vi sia piaciuta. La musica è una parte importante di tutte le nostre vite e molte volte è quello che ci può legare con le persone sconosciute, oppure con altre che se no sarebbero distanti anni luce da noi. Non sottovalutate mai la sua potenza ed importanza, lo dico perché senza un particolare concerto non avrei mai incontrato la mia persona.
Auguri a tutti eeee vi abbraccio forte!​
   
 
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