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Autore: ___Page    21/02/2018    1 recensioni
"Abbassò gli occhi sui foglietti che lo guardavano di rimando, minacciosi e giudicanti.
Si era infilato in un bel casino, non aveva la più pallida idea di come Perona avesse deciso di disporre i posti su quel tavolo. Inspirò profondamente per farsi coraggio.
«Ma sì, Ace. Così andrà sicuramente bene.»"
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*Fan Fiction partecipante al Crakc&Sfigaship's Day indetto dal Forum Fairy Piece*
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Liberamente ispirato al film "Se sposti un posto a tavola"
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Koala, Penguin, Portuguese D. Ace, Trafalgar Lamy, Trafalgar Law
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Angolo dell'autrice:
Ed eccoci anche quest'anno. 
Prima di iniziare vorrei usare questo piccolo spazio per ringraziare tutti coloro che al Fairypiece hanno reso possibile quast'evento e stanno mantenendo il forum vivo e attivo. Ci tengo anche a scusarmi per la mia prolungata latitanza, non è stato un anno per niente tranquillo per me ma spero di riuscire a tornare, dopo la meritata doccia di verdura marcia che giustamente mi verrà tirata addosso. 
Un grazie davvero enorme a tutti voi e a Zomi che, instancabile, fa uno splendido lavoro ogni volta. 
Buon Crack&Sfigaship's Day a tutti. 
Hope you'll enjoy it. 
Page











Una coincidenza è una concatenazione di fatti, spesso casuali, che, susseguendosi secondo un non preciso ordine, portano ad un esito inaspettato e difficilmente prevedibile.
Sbagliare traversa e incontrare un vecchio amico che non si vedeva da tempo è una coincidenza. Arrivare in ritardo al lavoro e scoprire che proprio quella mattina è stato lanciato un allarme bomba è una fortunata coincidenza. Pestare una cacca e pulirsi accidentalmente la scarpa su una banconota da 50 berry che si era scambiata per un tovagliolino è una sfortunata coincidenza. O forse no.
Qualcuno sostiene che le coincidenze non esistano e tutto ciò che accade è un piano previsto e architettato da una qualche entità superiore che, per comodità, viene chiamata destino.
Ace non credeva nel destino. Era da sempre convinto che le persone fossero artefici delle proprie vite e, non credendo nel destino, credeva per forza di cose alle coincidenze. O meglio, avrebbe potuto anche vivere il resto della propria vita senza credere né all’uno né alle altre, se solo non avesse avuto stretta tra le braccia quella che era a suo parere la più meravigliosa creatura che gli fosse capitato di incontrare sul proprio cammino.
Non ci sarebbe stata possibilità alcuna, in nessun universo, in nessuna linea temporale, che una ragazza come Perona notasse uno come lui se solo quel piovoso pomeriggio di sei anni prima non fossero casualmente capitati sullo stesso treno per Foosha, alla stessa ora, nella stessa carrozza e l’unico posto rimasto libero non fosse stato proprio quello accanto a lei.
Impermeabile bordeaux, libro in mano, cappellino sulle ventitré. I capelli raccolti in una treccia impeccabile, le labbra dipinte con precisione quasi artistica di un bel rosso ciliegia, era così diversa da lui, la zazzera incasinata come sempre, come la sua vita, la giacca sgualcita, i pantaloni della tuta e il borsone fatto all’ultimo. Non si stupiva per essere stato tanto spavaldo – imbecille avrebbe detto Sabo – da provare ad agganciarla con quella battuta idiota. Quello di cui non si capacitava era di non essere stato liquidato in tre secondi netti e tutto ciò che ne era seguito.
Così come non si capacitava dei gemiti che Perona gli stava ansimando direttamente nell’orecchio, dei colpi di bacino con cui Perona seguiva i suoi movimenti, del tintinnio delle posate sulla tavola circolare elegantemente imbandita, che aveva avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non che l’incredulità o il rischio di rompere qualche piatto o bicchiere stesse impedendo a Ace di godersi il momento.
Ma, dopotutto, non se l’era cercata. Non era mai stata sua intenzione combinare niente del genere, non quel giorno, non in quella situazione. Era stata, appunto, una coincidenza a cui nessuno dei due aveva saputo resistere.
Aumentò le spinte quando sentì che anche Perona era vicina all’apice e soppresse un suono a metà tra un ringhio e un gemito contro la sua gola pallida e liscia. Rimasero immobili per un tempo impossibile da definire, Ace con le mani puntellate sulla tovaglia bianca, Perona con le dita incastrate trai suoi capelli scuri e spettinati, anche in quel giorno tanto importante e che creavano un interessante e difficilmente resistibile contrasto con l’abito scuro ed elegante che indossava per l’occasione.
Il fiato grosso, Ace si staccò riluttante da lei per poterla guardare, con uno stupido sorriso sul volto. Il cuore gli perse un battito. Era perfetta.
Non nel senso che era oggettivamente perfetta, come di fatto era. Nemmeno una ciocca fuori posto, una piega sull’abito, persino il gloss color lampone era riuscito a resistere ai baci affamati di Ace. Nessuno vedendola avrebbe potuto sospettare che fosse appena stata protagonista di un travolgente amplesso.
Ma, agli occhi di Ace, Perona era perfetta e bellissima sempre e comunque, indipendentemente da tutto. Con il trucco o senza, in tuta o con addosso quell’abito. Perfetti i suoi occhi da cerbiatta, perfetto il sorriso lieve che le piegava le labbra schiuse per recuperare un po’ di ossigeno, perfetta come la giornata di sole che aveva deciso di sorgere su Raftel. E perfetta era anche la sua voce, squillante ma lievemente roca, la sua voce che ansimava ed implorava il suo nome, la sua voce che rideva in quel modo così assurdo eppure che lui amava così tanto. La voce di Perona era perfetta o meglio lo sarebbe stata se solo non avesse pronunciato quelle parole.
«Ace! Spostati, devo andare o verranno a cercarmi!» lo incitò sottovoce, spingendo a palmo pieno sul suo petto con autorità.
Ace strinse appena la tovaglia di cotone tra le dita, tentato di rifiutarsi e fare i capricci come un bambino troppo cresciuto ma sapeva che aveva ragione e anche se così non fosse stato, non avrebbe ceduto perché averla vinta e spuntarla era il suo hobby preferito, anche se con lui lo aveva sempre fatto come un gioco. Ed era stato così, giocando e impuntandosi, che aveva rimesso a posto, per molto tempo e in molteplici occasioni, il gran casino che era la sua testa e la sua vita. Doveva lasciarla andare, anche se era difficile con il suo profumo ancora addosso e le sue labbra così vicine, pronte da baciare e violare di nuovo.
Ma doveva lasciarla andare.
Con simulata nonchalance, Ace si rimise dritto e indietreggiò, mentre passava le mani tra i capelli in un vano tentativo di riavviarli.
«Oh accidenti!» esclamò Perona, sempre sottovoce. «Sono caduti tutti i segnaposto.»
Ace tornò in sé quando si accorse che Perona si era accovacciata a terra e stava raccogliendo freneticamente i fogliettini in raffinata carta di riso su cui erano stati vergati i nomi degli occupanti del tavolo.
«Perona che fai? Ti sporchi l’abito così!» protestò il ragazzo, avvicinandosi a lei per afferrarle le i polsi e obbligarla a rimettersi in piedi. «Ci penso io, tu vai.» la incitò mentre prendeva dalle sue mani i cinque segnaposto già raccolti e si piegava per recuperare anche gli ultimi tre. «Che c’è?» chiese, spaesato nell’accorgersi che Perona lo fissava con le mani sui fianchi e un’espressione a metà tra il rimprovero e il divertimento.
«Sicuro di essere in grado di sistemarli senza fare danni?»
Ace la fissò per un attimo incredulo e poi scettico. «Mi credi così scemo?» s’imbronciò e fece del suo meglio per restare imbronciato e non dare a vedere quanti battiti avesse perso il suo cuore quando Perona si concesse una piccola risata cristallina. Più restava imbronciato più lei avrebbe riso. Ma più lei rideva, più a Ace veniva voglia di prenderla e farle di tutto. Di nuovo.
Con un raro quanto inaspettato ritorno di lucidità, Ace si tirò prontamente su con tutti e otto i segnaposto in mano. «Ci penso io.» ribadì e un brivido lo attraversò da capo a piedi quando Perona annuì in segno di ringraziamento, prima di avviarsi rapida all’uscita della sala addobbata a festa. «Perona!» la richiamò Ace. Lei si voltò, ancora sorridente, radiosa come non mai, e Ace si concesse un altro attimo per ammirarla, bella da fare male nel suo vestito da sposa. «Dillo.»
Presa in contropiede, Perona sgranò appena gli occhi e si irrigidì. «Non posso ora, lo sai.» rispose, tornando subito raggiante. «Ora vado. Ci vediamo dopo.» sussurrò, strappando un sorriso a Ace.
«A dopo.»
Con un ultimo svolazzo di stoffa bianca, Perona scomparve dietro la porta a vetri e fuori in giardino dove era già tutto pronto per la celebrazione, lasciando Ace solo e con gli otto segnaposto da sistemare, quattro per mano. Abbassò gli occhi sui foglietti che lo guardavano di rimando, minacciosi e giudicanti.
Si era infilato in un bel casino, non aveva la più pallida idea di come Perona avesse deciso di disporre i posti su quel tavolo. Fissò qualche secondo i nomi. Agitò i segnaposto in aria mentre, in cerca di ispirazione, faceva una panoramica della sala zeppa di tavoli circolari, disposti con cura maniacale, identici l’uno all’altro al millimetro. Opera di Perona, ovviamente.
Si era messo in un bel casino ma si augurava che più tardi sarebbe stata troppo presa dalla festa, gli auguri e le congratulazioni per accorgersi che a uno dei tavoli gli ospiti non erano disposti precisamente come aveva pensato lei.
«Ace è tutto a posto?»
Sobbalzò colto alla sprovvista e si girò verso un ragazzo dai capelli rossi, se possibile ancora più disordinati dei suoi, che lo fissava a pochi passi di distanza. Strano vederlo senza la sua inseparabile Reflex al collo.
«Pen! Sì, sì sto bene!»
L’amico lo fissò a sopracciglio alzato una manciata di secondi. «Sicuro?» insistette.
«Ma certo!» annuì Ace, convinto. «Devo solo… sistemare una cosa e arrivo.» tagliò corto. «Tu che fai qui?»
Pen si strinse nelle spalle con noncuranza. «Facevo un giro. Comunque sbrigati, tra poco si inizia.» gli ricordò, prima di avvicinarsi a lui e dargli una goliardica pacca sulla spalla. «Sei pronto?» s’informò, scambiando con lui uno sguardo complice che solo un caro amico avrebbe potuto pienamente comprendere.
Ace deglutì a vuoto prima di annuire di nuovo. «Ma certo. Tu vai pure, arrivo subito.»
«D’accordo. Per qualsiasi cosa io sono qui.» gli ricordò, superandolo per andarsene, la stessa strada fatta da  Perona pochi minuti prima. Era già praticamente sulla soglia della sala quando un pensiero improvviso lo riportò sui propri passi. «Oh ehi amico io… ci tenevo ancora a ringraziarti per l’ospitalità e tutto il resto sai… Io non sapevo proprio dove altro andare e…»
«Pen!» lo fermò il moro, alzando solenne una mano. «Non dirlo nemmeno. È ancora casa tua.»
«Ah… va bene! Datti una mossa!»
«Sì. Arrivo subito.» ribadì e lo osservò uscire prima di tornare ad affrontare gli otto foglietti che teneva ancora stretti in mano come se fossero un contorto rebus.
Andiamo, non poteva essere così complicato! 
Bastava mettere Law e Koala lontani e Bonney e Killer vicini e il gioco era fatto. O per lo meno quello era un ottimo punto di partenza, erano le uniche due certezze che aveva.
Inspirò profondamente per farsi coraggio.
«Ma sì, Ace. Così andrà sicuramente bene.»
 
 §
 
Ace non era mai stato contrario alla tradizione di dubbia provenienza che prevedeva un ingresso in pompa magna per gli sposi sul luogo del ricevimento, con tanto di musica, applausi, fischi e roteare di tovaglioli nell’aria.
Non che la cosa lo infastidisse in qualche modo. Di base gli piaceva perché casinista per natura, nella peggiore delle ipotesi sarebbe semplicemente rimasto indifferente. Il problema era che Ace non aveva mai contemplato quello scenario quando si parlava di “peggiore delle ipotesi” e, quindi, non aveva mai pensato che avrebbe finito con l’odiare quel momento e sperare con tutto se stesso che finisse in fretta, un desiderio difficilmente realizzabile con una festa da duecentocinquanta invitati.
Ogni sorriso radioso di Perona alla marea di visi dei loro invitati era un colpo al cuore per Ace, ma si impose di continuare a roteare il tovagliolo e fingere di gioire mentre osservava l’amore della sua vita raggiungere il tavolo d’onore, apparecchiato per loro due soltanto, al braccio del suo neo marito, Robb Lucci.
Ora, a Ace, Robb non era mai piaciuto e questo non aveva nulla a che vedere con il fatto che gliel’avesse portata via, arrivando nella vita di Perona con un tempismo disgustosamente perfetto, poco dopo la loro rottura, conquistandola con la sua parlantina fastidiosamente perfetta e infine chiedendole di sposarlo con una proposta impeccabilmente perfetta. A Ace Robb non piaceva non perché fosse perfetto ma perché era un perfezionista maniacale e in tutte le occasioni in cui li aveva visti insieme in quell’ultimo anno aveva avuto la sensazione, solo sua e del tutto irrazionale, che Robb soffocasse tutto ciò che di più spontaneo e vivo e vero albergasse nell’animo di Perona. Con lui si tratteneva dal ridere sguaiatamente, fingeva interesse per la sua collezione di francobolli e non mangiava mai con le mani.
Ma Ace aveva dovuto a malincuore ammettere che Perona, in realtà, non faceva niente in modo forzato, che era perfetta e perfezionista anche lei e che la differenza tra le loro due relazioni – oltre alla durata – era che con Robb non si concedeva di scostarsi dal suo essere ma nemmeno ne sentiva realmente il bisogno. Perona stava bene anche così, era felice anche così, con le posate in mano e un modo di ridere più discreto, e Ace aveva dovuto accettarlo o meglio avrebbe dovuto accettarlo.    
Perché dopo quanto successo quella mattina, era difficile, soprattutto per uno come Ace, rinunciare e accettare una sconfitta che non sentiva, non dopo averla stretta tra le braccia e averci fatto l’amore con così tanta passione da poco più di due ore appena. E d’altra parte, come ignorare il guizzo negli occhi di Perona nell’incrociare i suoi?
Stava ancora fissando quel punto esatto, anche se ora la sua visuale era occupata dall’elaborato raccolto che si avvolgeva sulla nuca della sposa, quando si rese conto che il momento di euforia era passato e stava lentamente scemando. Ringraziò mentalmente di avere già abbassato la mano che stringeva il tovagliolo – e non essere l’unico imbecille che ancora lo roteava nell’aria – e si avviò per raggiungere il tavolo a cui era stato assegnato. Il tavolo su cui lui e Perona avevano fatto l’amore. Il tavolo da cui avevano fatto cadere tutti i segnaposto che continuavano a fissarlo, sempre minacciosi e giudicanti. Lanciò un’occhiata al resto degli ospiti con cui avrebbe condiviso la giornata. Li conosceva tutti, chi più chi meno, ma non poteva fare a meno di vederlo come quello che Sabo avrebbe definito “il tavolo degli avanzi”. Non c’era cattiveria in quell’affermazione. Semplicemente loro erano quegli amici che erano rimasti progressivamente esclusi da tutti gli altri tavoli. Non era come il tavolo di suo fratello, per esempio, a cui erano tutti ex compagni di classe e amici di vecchissima data. Loro otto in comune avevano solo di conoscere la sposa e conoscersi più o meno bene tra loro.
La cugina di Perona, Bonney, che lavorava come assistente in una galleria d’arte di Raftel, e il suo fidanzato informatico, Killer.
Pen, ex compagno di liceo di Ace e coinquilino recidivo, diplomato all’accademia delle belle arti. Appassionato di fotografia, lavorava per un negozio di stampe digitali ed era alla costante ricerca della propria musa ispiratrice che diventava puntualmente la sua donna, con cui altrettanto puntualmente finiva male quando Pen si accorgeva che non gli ispirava proprio un bel niente. 
Lamy e Sugar, le due più vecchie amiche di Perona, nonché sue damigelle, single.
E per finire Law e Koala, fratello e cognata di Lamy, in attesa di divorzio. Perona ci aveva provato in tutti i modi a metterli su due tavoli diversi ma non c’era stato verso. Fortunatamente, nonostante fossero separati da ormai sei mesi – o forse proprio per quello – si sapevano comportare da persone civili e Ace non dubitava che averli messi distanti l’uno dall’altra fosse stata una mossa quanto meno intelligente.
D’altra parte doveva ammettere di essere contento di averli allo stesso tavolo suo. Non ricordava più nemmeno da quanti anni conosceva Koala e stimava Law come poche persone a quel mondo. Con Sabo e Bibi in viaggio di nozze proprio in quel periodo, sapeva che uno dei due, se non entrambi, gli avrebbero salvato il deretano nel caso avesse perso il controllo o alzato troppo il gomito.
Tra l’altro, oh, tutti che si sposavano quell’anno!
Con una stretta allo stomaco al pensiero di quanto la sua vita si sarebbe incasinata ancora di più dopo quel matrimonio, si decise a prendere posto sull’ultima sedia libera, tra quella di Koala e quella di Lamy.
«…una cosa pazzesca guardate! Non ho mai visto i nudi spopolare così come negli ultimi due anni. Chi espone fotografia ormai non espone altro.» stava raccontando Bonney tra un boccone e l’altro di pizzette che si era portata via di straforo dall’aperitivo a buffet. Ace fece appena in tempo a notare con soddisfazione che la conversazione era già ben avviata e tutti sembravano perfettamente a loro agio che una mano sottile si posò sulla sua spalla e un profumo fin troppo famigliare lo avvolse.
«Ehi ragazzi, come sta andando?»
Ace lanciò un’occhiata di striscio verso l’alto, proprio mentre Perona gliene lanciava una verso il basso, con un muto messaggio nello sguardo che Ace riuscì ad interpretare fin troppo facilmente e che gli fece sprofondare il cuore nello stomaco. “Quello che è successo non significa niente ed è stata l’ultima volta”. 
Non che avesse intenzione di crederci o gettare la spugna.
«Contenti dei posti?» chiese ancora Perona, tornando a guardare il resto dei suoi invitati che risposero prontamente con un cenno di assenso, tutti tranne Killer, impegnato ormai da parecchi minuti a fare chissà che con il proprio cellulare. «Bene! Allora ci vediamo più tardi. Godetevi la festa!»
Ace si concesse di lanciarle solo una rapida occhiata mentre si allontanava, prima di imporsi di riportare l’attenzione al proprio tavolo.
«Quindi dicevi, Bonney? Nudi?» Pen aveva già ripreso il filo prima che l’argomento cadesse, sempre interessato a sperimentare ma soprattutto determinato a trovare un trampolino di lancio che lo spedisse se non proprio in orbita almeno più su del terzo del piano del palazzo dove si trovava l’appartamento di Ace, dove viveva ormai da tre settimane.
«Nudi, Pen. Nudi come se piovesse.» confermò, prendendo un sorso di vino e girandosi contemporaneamente verso Killer. «Non puoi staccarti da quel cellulare?» chiese, con il tono di una che doveva avere posto quella domanda già più volte nell’arco di quella sola mattina, ottenendo probabilmente tutte le volte la stessa risposta.
«Solo un attimo.» mormorò Killer a mezza voce, continuando a smanettare. «Oookay, ci sono!» esclamò alla fine, posando il cellulare accanto al proprio piatto e lanciando uno smagliante sorriso al resto dei commensali. «Che si diceva?»
Bonney sollevò un sopracciglio. «Se nemmeno la parola “nudo” penetra più nei tuoi pensieri, siamo veramente messi male.» commentò con tono piatto e sarcastico per poi tornare a ignorarlo.
Ace si irrigidì sulla propria sedia, preso in contropiede dalla scarica di tensione che aveva saettato per un attimo tra i due. Che stava succedendo? Eppure era certo che metterli vicini fosse la cosa giusta. Anche se forse…
Il dubbio che Perona fosse informata di qualche dettaglio in più rispetto a lui lo colpì. Avrebbe benissimo potuto metterli vicini senza metterli necessariamente uno accanto all’altra, sarebbe stato esattamente il genere di diplomatica mossa che avrebbe fatto per assicurarsi di non scontentare nessuno, neanche fosse una stratega che pianificava come organizzare un esercito. Certo, era un piccolo disguido che gli avrebbe perdonato, in fondo lo aveva lasciato solo a sistemare i segnaposto, aveva sicuramente messo in conto che sarebbe potuto succedere ma fu più forte di lui cercarla con lo sguardo per accertarsi che non stesse tentando di incenerirlo a distanza per quell’errore.
Sapeva quanto fosse fondamentale per lei che tutto andasse esattamente secondo i piani, che tutto fosse perfetto, dal colore dei tovaglioli alla voce del DJ che doveva, doveva essere piacevole da sentire. Perché lei era così, decisa, un po’ viziata forse ma così dolce e fragile certe volte che Ace provava il desiderio di inglobarla dentro di sé per tenerla al sicuro e…
«A-ehm!»
Ace saltò come una molla sulla sedia, voltando di scatto il capo verso sinistra solo per incrociare le iridi indaco e sapute di quella che poteva senz’altro definire la propria migliore amica e che già di base sembrava sempre saperne più di quel che avrebbe dovuto anche del perfetto sconosciuto che le stava accanto al bar, figuriamoci di lui.
«Se continui a fissarla così c’è il rischio che il vestito le cada davanti a tutti.» sussurrò Koala, facendosi sentire solo da lui. «E va bene che è il suo matrimonio ma in teoria dovrebbe succedere solo una volta nell’arco della giornata, non tre.» aggiunse lasciandolo a bocca aperta e senza parole.
Più passavano gli anni più si rafforzava la sua convinzione che fosse una spia del RAD.
«…nudo artistico. Il problema è che le ragazze non ci credono o non si fidano ed è difficile trovare qualcuna che posi senza veli senza chiederti una cifra assurda.» Ace registrò vagamente l’argomentazione di Pen, mentre ordinava al proprio cervello di riattivarsi e fare qualcosa che non lo facesse sembrare un emerito imbecille, tipo dare una risposta a Koala.
«Io non so se lo farei, nemmeno per soldi.» rifletté Sugar, il mento posato sulla mano.
«Non so di cosa tu stia parlando.» Ace riuscì finalmente a ribattere, convincente come Rufy quando sosteneva di non essere stato lui a spazzolare tutta la Nutella, guadagnandosi un’occhiata divertita e guizzante da Koala che riportò la propria attenzione sulla conversazione in corso, spingendolo a fare altrettanto.
Pen stava fissando Sugar con un’espressione che Ace conosceva fin troppo bene. Era l’espressione che Ace aveva ribattezzato “Challenge Accepted” e, in genere, quando Pen la sfoderava c’era da avere seriamente paura, specie se c’era di mezzo una ragazza.
«Non hai mai posato?» le chiese e Sugar rispose con un cenno di diniego. «Dovresti provare, è divertente. E magari poi saresti curiosa di farlo nuda.» mormorò in uno dei suoi inaspettati sprazzi di sicurezza, che provocavano imbarazzo a chi non lo conosceva e la certezza che soffrisse di personalità multipla a chi era suo amico.
Ragion per cui Ace non si sarebbe affatto sorpreso se solo non avesse avuto l’impressione di aver visto Pen lanciare una fugace e forse speranzosa occhiata verso Lamy. Si voltò a guardare la biondina alla sua destra, concentrata sul menù e apparentemente disinteressata all’argomento “posare nudi”.
«Ma esattamente cosa dovrebbe essere “taglio di maiale con fiori di zucca e mantecatura filante?”» domandò a nessuno in particolare, accigliata, il naso appena arricciato.
«Un tentativo di farti pagare tanto un flan di verdure e prosciutto.» rispose Ace senza riflettere, gli occhi che già vagavano autonomi per la stanza, di nuovo alla ricerca di Perona. Si accorse a malapena di Lamy che spostava la propria attenzione dal menù a lui, finché non la sentì scoppiare a ridere.
Aveva una bella risata, Lamy, limpida, cristallina. Era una di quelle risate che ti facevano venire voglia di ridere a tua volta, una di quelle risate che sono abbastanza per innamorarsi. Ma alle orecchie di Ace mancava qualcosa. Non era abbastanza roca, né abbastanza strana. Però sentiva bene che era bella e nemmeno lui era immune al contagio di una bella risata.
Abbassò gli occhi su di lei, con un mezzo sorriso e lo sguardo interrogativo. Che aveva mai detto di tanto divertente? 
«Cinico.» commentò Lamy a mo’ di spiegazione, sollevando un sopracciglio ma senza smettere di sorridere.
Ace ghignò ancora di più e si strinse nelle spalle. «Onesto.» e Lamy rise di nuovo.
Fu in quel preciso momento, quando la risata di Lamy risuonò di nuovo nella stanza, mentre Koala e Bonney discutevano di qualcosa che Law sembrava seguire con interesse e di cui Killer non stava sentendo una sola parola, che Ace la intravide, ai margini del proprio campo visivo, girarsi verso di loro, ignorando deliberatamente gli invitati del tavolo a cui si era fermata per salutare.
Ace azzardò un’occhiata nella sua direzione e lo stomaco gli fece una capriola. Perona lo fissava ridere e scherzare con Lamy, con un’espressione come se il suo mondo si stesse sgretolando intorno a lei. Ace non riuscì a capire se gli fece più bene o più male.
Un brivido lo scosse da capo a piedi mentre la speranza tornava a pulsare al centro del suo petto e lui tornava concentrarsi su Lamy. Beh, più o meno.  
Era sbagliato, sapeva che era sbagliato.
Lamy era una specie di amica, praticamente una sorella per Perona e sorella al cento per cento di un suo carissimo amico. Ma Perona era l’amore della sua vita e se c’era una cosa che Portuguese D. Ace non faceva era arrendersi anche di fronte alla situazione più disperata e fare tutto quanto in suo potere per uscirne o volgerla a proprio favore.
E Ace aveva appena capito quale strategia adottare.
 
§
 
Se qualcuno gli avesse chiesto perché avesse accettato l’invito a quel matrimonio, Killer non avrebbe saputo rispondere. Di fatto, qualcuno gliel’aveva chiesto e che il qualcuno in questione potesse anche solo contemplare la possibilità di declinare l’invito al matrimonio della cugina della propria fidanzata storica non sorprendeva solo perché il qualcuno in questione era l’essere più anaffettivo, ineducato e privo di tatto che mai avesse posato piede sul pianeta, altresì conosciuto come Eustass Kidd.
Quando Kidd gli aveva chiesto perché avesse accettato, Killer non era riuscito a rispondere ma nemmeno si era posto la questione. Era una di quelle situazioni dove il “no” non era nemmeno un’opzione, un po’ come quando Wire proponeva un improvvisato torneo di birra pong ma molto meno divertente e, purtroppo, senza la birra.
Ora però, doveva ammettere che se lo stava domandando anche lui. Sapeva che se avesse rifiutato Bonney avrebbe meditato di cacciarlo di casa, castrarlo, dare fuoco alla sua collezione di vinili e rasargli i capelli a zero nel sonno. Ma sapeva anche che nessuna di quelle azioni vendicative avrebbe lasciato la sfera delle fantasie della sua donna e che, alla fine, se la sarebbe cavata con un’accesa lite e qualche giorno di silenzio e broncio.
D’altra parte, i pro se fosse rimasto a casa sarebbero stati decisamente maggiori. Intanto a quell’ora sarebbe stato svaccato sul divano, in tuta, con una birra a fargli compagnia e le voci di Kidd e Heat che imprecavano contro la playstation, anziché infilato dentro uno scomodo completo scuro, a cercare una posizione in cui quelle sedie non risultassero scomode, i capelli che tiravano per il raccolto troppo stretto sulla nuca e un costante quanto fastidioso brusio di sottofondo che gli impediva di essere produttivo come avrebbe voluto. E senza birra.
Non che Killer fosse un tipo antisociale o che vedesse malvolentieri gli amici meno stretti. Di lui tutto si poteva dire ma di certo non che fosse selvatico e che non gli piacesse stare in compagnia. Solo che il progetto in cui si era lanciato richiedeva tempo e dedizione e, in fondo, l’unico lato positivo di quella giornata era che stava riuscendo a lavorarci anche in quel frangente.
Per fortuna i suoi compagni di tavolo non solo non erano tipi da fargli il contropelo per la sua poca partecipazione ma al tempo stesso stavano anche tenendo Bonney abbastanza impegnata perché non gli facesse il contropelo per la sua poca partecipazione.
Dopotutto, non faceva male a nessuno. Era certo che la conversazione non necessitasse del suo intervento per mantenere un certo livello e alla fine aveva partecipato al matrimonio come Bonney si aspettava. Tutti contenti e tutti vincitori. Peccato solo per il divano e la birra ma andava bene anche così.
Ora doveva concentrarsi, soprattutto perché quegli stupidi codici sembravano rifiutarsi di farsi crackare e lui cominciava a perdere seriamente la pazienza.
«Accidenti!» imprecò, sollevando lo sguardo solo per rendersi conto che metà del loro tavolo si era svuotato, eccezion fatta per lui, Bonney e Sugar. «Ma che fine hanno fatto tutti?» domandò, commettendo l’errore di girarsi verso Bonney, che gli lanciò un’occhiata a dir poco truce mentre masticava i rimasugli di un panino, un gomito appoggiato allo schienale della sedia e l’espressione omicida.
«Ah, ti ricordi ancora come si fa a comunicare senza quell’affare?» commentò asciutta e pungente Bonney, cogliendolo alla sprovvista.
Che aveva da essere tanto scocciata? Aveva fame, per caso?
«Dannazione, quando esce la prossima portata?» sibilò ancora Bonney, guardandosi intorno spazientita, e Killer soffiò dal naso uno sbuffo che sarebbe anche potuto sembrare di sollievo.
Fame. Lo sapeva. La conosceva troppo bene.
«Hai visto dov’è andato Ace?» le chiese, sporgendosi appena verso di lei.
Con spaventosa lentezza, Bonney riportò lo sguardo su di lui, gli occhi viola lampeggianti di qualcosa che Killer non riuscì a codificare. «Potrei. Come potresti averlo visto anche tu se solo avessi fatto caso a cosa ti stava succedendo intorno per più di dieci secondi per volta.» mormorò avvelenata e Killer si irrigidì, improvvisamente nervoso.
Ancora con quella storia? Perché doveva stargli tanto addosso? Che differenza faceva a lei?
«Senti, Bonney…» cominciò ma Bonney non aveva nessuna intenzione di starlo a sentire.
«Se sei tanto preoccupato possiamo sempre chiamarlo.» continuò, tirando fuori teatralmente il proprio cellulare. «O forse potrei chiamare te così forse riuscirei ad avere la tua attenzione per qualcosa di più del tempo che ci mette il caffè a venire pron...»
«Cibooooooo!!!»
L’effetto doppler aveva sempre affascinato molto Ace. Era stato l’unico argomento di fisica in cui avesse mai preso un voto che non fosse una sufficienza stringata. Ciò che più lo affascinava di quel fenomeno, era come suo fratello minore riuscisse a esserne un lampante esempio. Anche a notevoli distanze, la voce di Rufy dava all’osservatore un’idea molto chiara di quanto veloce riuscisse a correre suo fratello quando si trattava di raggiungere una tavola imbandita. Per Ace era anche il segnale che c’era del cibo in giro e la risposta meccanica alle giubilanti urla di Rufy era, in genere, individuarlo e seguire la traiettoria del suo spostamento per capire dove si ubicasse la roba da mangiare. E, anche se in quel momento non aveva particolarmente fame e ben più impellenti questioni per le mani, fu inevitabile, anche mentre si trovava sulla pista da ballo con Lamy, attivare il radar e cercarlo in mezzo alla folla, giusto in tempo per vederlo passare proprio accanto al loro tavolo, far volare il cellulare che Bonney teneva in mano a terra, pestarlo con un piede e dare una spallata a un cameriere che rovesciò inavvertitamente della panna addosso a Killer.
Bonney osservò con espressione atona ciò che restava del suo cellulare, per niente conscia di Killer che scattava in piedi con una mezza imprecazione mentre la panna gli colava dalla giacca alla camicia, arrivando a sporcargli la cravatta, per poi stringersi nelle spalle e lanciarsi verso il buffet di dolci, nella direzione opposta al suo uomo che si diresse invece verso il bagno.
Killer aveva già la giacca in mano quando si chiuse la porta della toilette alle spalle, e si accostò immediatamente a uno dei lavandini. La camicia era bianca perciò era sufficiente rimuovere i ciuffetti di crema senza stare a lavarla ma, se non voleva girare con i vestiti chiazzati tutto il giorno, doveva sciacquare subito la giacca e la cravatta. Sarebbe dovuto restare in camicia per un po’, non che la cosa gli dispiacesse particolarmente.
La porta di uno dei cubicoli alle sua spalle si aprì e richiuse mentre sciacquava il bavero della giacca.
«Kira, tutto bene?»
Killer lanciò un’occhiata nel riflesso dello specchio di fronte a sé, trovandosi a fissare Koala che lo fissava di rimando, appena uscita dal bagno di mezzo.
«Mi sono sporcato un pochino.» scherzò Killer, indicando la cravatta ricoperta di panna.
Koala ridacchiò, avvicinandosi per lavare le mani. «Serve aiuto?» chiese mentre Killer posava la giacca e si apprestava a disfare il nodo della cravatta.
«Non preoccuparti, sono abituato con Kidd.» la flashò con un sorriso, facendola ridere ancora di più.
«Okay, allora ci vediamo dopo. Se sei in difficoltà chiama e accorreremo in tuo soccorso!»
«Grazie!»
Aumentò di nuovo la pressione dell’acqua quando Koala fu uscita, pronto anche a inzuppare la cravatta. Sarebbe stata la scusa perfetta per non doverla più mettere fino a sera. Cominciò a strofinare con le dita e una seconda porta di un altro cubicolo si aprì con un secondo tonfo. Killer non si preoccupò minimamente di scoprire chi fosse, focalizzato su ciò che stava facendo, finché una mano svelta e sottile non si strinse intorno alla sua natica destra e strizzò con evidente soddisfazione.
«Sicuro che non ti serve una mano?»
Killer sgranò gli occhi sorpreso, nel constatare che la voce della proprietaria della mano non corrispondeva a quella di Bonney. A una più attenta riflessione, in effetti, era logisticamente impossibile che Bonney si trovasse già in bagno quando era entrato lui ma era anche vero che in tutta la sua vita gli era capitato una volta soltanto di venire palpeggiato da una perfetta sconosciuta, il giorno in cui aveva appunto incontrato Bonney.
Una prosperosa ragazza mora, infilata dentro un abito porpora che la fasciava come un guanto, apparve al suo fianco, una mano sul bordo del lavabo, l’altra al fianco e il petto spinto volutamente in avanti per dare ancora più risalto a un seno che già così parlava da solo. Killer deglutì a vuoto mentre, suo malgrado, la squadrava da capo a piedi.
Non che fosse un tipo infedele o Bonney non soddisfacesse le sue esigenze, i suoi desideri e persino le sue più recondite fantasie, ma era pur sempre un uomo e per la prima volta si rese conto da quanto non veniva toccato e guardato con tanta lussuria e malizia e di quanto ne avesse sentito la mancanza.
D’altra parte, se le cose stavano così era solo colpa sua e, anche non fosse stato, non avrebbe comunque tradito Bonney. La amava, era assolutamente certo che fosse la donna della sua vita, anche se da qualche giorno aveva notato qualcosa di strano in lei, fisicamente parlando, ma il suo cervello non riusciva a focalizzare cosa fosse quel dettaglio fuori posto che lo aveva inconsciamente colpito. A dire il vero, il suo cervello in quel momento non riusciva a fare proprio niente che non fosse lanciargli messaggi di allarme perché se ne andasse da lì.
«Se hai bisogno di me, sarei più che felice di aiutarti.» proseguì la ragazza, sbattendo le lunghe ciglia che incorniciavano un paio di giganteschi occhi blu.
«Ah io… io i-in realtà…» articolò Killer, indicando la porta con il pollice, sconnesso. Sobbalzò quando la giovane allungò di nuovo una mano verso il suo sedere, stavolta accarezzandolo dalla base della schiena all’attaccatura della coscia. Si avvicinò abbastanza da strusciare il pube contro il suo fianco e l’inquilino che alloggiava tranquillo e pacato nelle mutande di Killer cominciò a risvegliarsi contro la volontà del padrone di casa.
Merda! 
«Ahhhh, io dovre-e-ehi!» Killer protestò quando la mora sollevò una gamba per accarezzargli l’inguine con il ginocchio, portando le mani a saggiare il petto scolpito sotto la camicia bianca. «Signorina non credo che sia il caso di…»
 Le parole gli morirono in gola quando la ragazza si sporcò le dita con la panna e le portò alla bocca per succhiarla via dai polpastrelli.
Santo Roger, ma cosa gli prendeva? Non sarebbe dovuto essere lì a guardare quella perfetta sconosciuta mentre tentava di sedurlo! Sarebbe dovuto essere di là, insieme a Bonney! 
«Mi scusi, ora devo proprio and… mmmmngh!» fu più o meno il suono che produsse quando si ritrovò la giovane avvinghiata al collo e la sua lingua infilata in bocca. Si sentì sbilanciare in avanti e istintivamente portò le mani sui fianchi della mora, dando la priorità al non perdere l’equilibrio e rovinare a terra. Sapeva esattamente cosa fare subito dopo. Staccarsi da lei e uscire dal bagno, panna o non panna. Non sarebbe stato così complicato, visto che pesava il doppio della propria assalitrice, senza contare che baciandolo così di prepotenza e mugugnando come stava facendo aveva anche spezzato l’incantesimo, perciò…
«Killer!»
Il tono sconvolto, la voce sofferente. Killer vacillò come se qualcuno gli avesse sfilato il pavimento da sotto i piedi. La ragazza si staccò finalmente da lui, lasciandolo senza fiato e con la labbra sporche di rossetto che, troppo scioccato per quello che stava succedendo, Killer non ebbe nemmeno la prontezza di pulire prima di voltarsi verso Bonney che lo fissava devastata dalla porta della toilette.
«Bonney…» la chiamò, ma Bonney, gli occhi pieni di lacrime, scosse il capo e gli diede le spalle per andarsene. «Bonney!» alzò la voce, mentre scattava per correrle dietro.
Per fortuna una sua falcata corrispondeva a circa tre passi di Bonney e riuscì a raggiungerla a pochi metri dal bagno. Senza pensare, le afferrò il polso. «Bonney, lasciami spieg…»
«Lasciami, stronzo.» sibilò senza dargli neanche il tempo di finire, strattonando per liberarsi della sua presa. «Ora capisco perché stai sempre al cellulare e sei sempre così distratto.»
«Cos…» Killer sgranò gli occhi, in panico. «No! Non è così, Bonney! Devi credermi!»
«E io convinta che stessi lavorando al tuo progetto… Che stupida!»
«Infatti era quello, è sempre stato quello! Bonney…»
«E allora come spieghi il fatto che non mi guardi e non mi tocchi da settimane, eh?!» gridò con voce tremante. «E non provare a dirmi che quella non c’entra.» proseguì, indicando il bagno, prima di avvicinarsi al suo viso con il proprio, contratto in una smorfia di sofferenza e rabbia. «Io e te abbiamo chiuso.» sentenziò con la voce di nuovo ridotta a un sussurro.
Killer si sentì attraversare da una scarica di qualcosa di non meglio definito mentre la fissava allontanarsi da lui a passo di carica, il cuore in gola e l’anima a pezzi. Aveva combinato un fottuto casino e non poteva avercela che con se stesso. E, fuori luogo come solo Kidd quando piombava a casa loro incazzato per qualcosa nel bel mezzo di una sessione di sesso selvaggio, la risposta al perché avesse accettato l’invito a quel matrimonio fece capolino nella sua testa.
Lo aveva fatto per lei. Ma aveva la netta sensazione che non avrebbe fatto nessuna differenza.
 
§
 
Ace non smetteva mai di stupirsi per quanto il tempo scorresse veloce quando c’era di mezzo una festa, che fosse attesa o temuta. Tanti mesi spesi a organizzare una giornata che sembrava durata il tempo di un alito di vento.
Per lui non era certo stata un’occasione felice ma gli sembravano passati appena cinque minuti da quando, quella mattina, Perona gli era caduta, di nuovo e senza alcun preavviso, tra le braccia e invece era quasi mezzanotte. A testimonianza della lunga giornata c’era certamente la stanchezza fisica e l’evoluzione degli stati d’animo dei suoi compagni di tavolo, così diversi da quando si erano accomodati per il pranzo da lasciar intendere che qualche ora almeno fosse passata per forza per permettere a tutto ciò che era accaduto per renderli com’erano di accadere.
Il vino a fiumi aveva sicuramente contribuito ma non sarebbe bastato a spiegare le condizioni in cui il gruppo di commensali di cui faceva parte versava.
Killer non era certo il tipo da sbronza triste, ragion per cui la sua depressione non poteva essere colpa delle numerose bottiglie che erano passate per il loro tavolo. Probabilmente era in rotta di collisione con Bonney, vista l’espressione truce che la rosa aveva e che faceva un baffo a quella di Law, il quale, però, in effetti, poteva essere anche solo stanco e impaziente di andarsene a casa. O forse stava ancora pensando a Koala che rideva e scherzava con Kaku e Ace sarebbe anche stato abbastanza alticcio da arrischiarsi a chiederglielo se solo Law non lo avesse preceduto.
«Ti serve un passaggio?» domandò, diretto a sua sorella che non si trattenne dal lanciare un’occhiata a Ace, abbastanza eloquente.
«Mi fermerei ancora un po’ a dire il vero.»
Anche Law lanciò un’occhiata abbastanza eloquente a Ace e Ace non si rese conto di dover ringraziare la propria buona stella e il fatto che Law avesse la testa troppo impegnata in altre questioni quando pensò bene di strizzargli l’occhio e commentare con un: «Vai tranquillo, amico, è in buone mani.»
Law valutò per un momento soltanto di minacciarlo di atroci torture se si fosse comportato da imbecille con sua sorella, ma già sapeva che se lo avesse fatto Lamy l’avrebbe presa sul personale e si sarebbe scocciata, perché non era più una bambina, e avrebbero finito con il discutere e Law era troppo stanco e non aveva nessuna voglia di discutere e nessuna voglia di restare lì a sentire Koala ridere di chissà quale stronzata uscita dalla bocca di un altro degli amici dello sposo o, peggio, di qualcuno dei loro amici. Cosa che, per altro, stava succedendo in quel preciso momento.
«Beh, allora visto che nessuno ha bisogno di me per tornare a casa io me ne vado.» sentenziò voltando loro le spalle, le mani infossate in tasca. «Ci si vede.»
«Ciao Law.»
«’Notte.»
Ace e Lamy lo guardarono salire sulla sua Submarine gialla e accodarsi a Bonney e Killer per uscire dal parcheggio sterrato. «Sbaglio o era di umore anche peggiore del solito?» domandò Ace, ottenendo solo un sospiro in risposta.
Una risata fin troppo acuta e fin troppo ubriaca li obbligò a voltarsi entrambi verso la fontana che ornava un lato del parcheggio, sul cui bordo di pietra, in bilico, Sugar stava posando per Pen che fingeva di scattarle foto con un’inesistente macchina fotografica.
«Ora girati verso sinistra. Così. Sei splendida!»
Erano gli unici due del tavolo il cui atteggiamento a fine serata era imputabile ai fumi dell’alcool. Ace era certo che Pen avesse preso ad alzare il gomito per smorzare la noia quando Sugar aveva rifiutato il suo invito a ballare e lui si era allontanato con Lamy ma mai avrebbe creduto possibile che sarebbe stato in grado di far ubriacare Sugar. E mai avrebbe immaginato che l’alcool facesse quell’effetto a Sugar.
«Erano anni che non la vedevo così.» commentò Lamy, scioccata quasi quanto lui.
«Ehi ragazzi!» chiamò una voce solare, che non doveva proprio nulla al vino per essere tanto vivace, visto che la sua proprietaria era astemia. «Scusate, ora ci sono. Usopp doveva farmi vedere una cosa.» spiegò Koala raggiungendoli e respirando a pieni polmoni l’aria frizzante della sera. «Allora, qualcuno di voi ha voglia di un bicchiere della st…» si interruppe, stranita. «Ma che fine ha fatto Law?»
Ace e Lamy si scambiarono un’occhiata di striscio, tra il dispiaciuto e l’eloquente.
«Ha detto che era stanco ed è andato a casa.» spiegò Lamy, con un sorriso di scuse per il comportamento del fratello.
«Oh.» Koala si accigliò per un secondo soltanto prima di tornare a sorridere come se niente fosse. «Beh ha senso, è stata una giornata lunga. Certo non mi ha nemmeno salutato ma non è come se oggi ci fossimo rivolti mai la parola, giusto?» disse senza alcun rancore, continuando a sorridere indefessa. «Beh allora vado anche io eh! Buona serata, ragazzi!» decise, avviandosi a passo di carica verso il parcheggio.
«Ti serve un passaggio?» le gridò dietro Ace.
«No, sono qui con la mia macchina! Ci vediamo al lavoro dopodomani!» rispose Koala con un ultimo gesto di saluto.
«E anche lei è andata…»sospirò Ace prima che un urletto riportasse di nuovo la loro attenzione alla fontana, appena in tempo per vedere Pen che trascinava Sugar verso di sé, salvandola da una caduta in acqua.
«Grazie, mio eroe.» mormorò la verdina a un soffio dalle labbra di Pen, gettando Ace nel più totale sconforto. Aveva la netta sensazione che avrebbe finito per essere terzo incomodo in casa propria quella notte.
«A quanto pare toccherà a noi occuparci dei due adolescenti al battesimo del fuoco con l’alcool.»
Sorpreso, quasi che si fosse dimenticato che era proprio lì accanto lui, Ace si voltò verso Lamy e trattenne a stento un sobbalzo nell’incrociare i suoi occhi che brillavano di una luce abbastanza inequivocabile.
«Mi pare di aver sentito da Pen che casa vostra è piuttosto grande. O almeno abbastanza per quattro persone.» aggiunse, casomai fosse necessario dissipare anche gli ultimi, inconsistenti dubbi riguardo le proprie aspettative sul resto della serata.
Ace prese un profondo respiro, dandosi del coglione per la situazione in cui si era andato a infognare con le sue stesse mani. Perché andava bene flirtare con lei per tutto il giorno per far ingelosire Perona, scherzarci e ballarci per passare il tempo ma passare al livello successivo era tutt’altra faccenda. E se Lamy si era illusa, in fondo, era solo colpa sua e ora doveva rimediare.
«Lamy, ascolta…» cominciò, senza sapere nemmeno lui cosa dire, o meglio, come dirlo.
E poi successe. Una risata, la sola capace di rivoltarlo dentro come un terremoto e illuminare anche la più nera delle giornate e Perona apparve sulla porta, sottobraccio a Nami e Zoro e Ace smise di pensare. Per tutto il giorno, nonostante fosse riuscito ad attirare la sua attenzione, nemmeno una volta gli si era presentata un’occasione simile. L’occasione di aprirle finalmente gli occhi, una volta per tutte. E ora non poteva lasciarsela scappare.  
Era un uomo con una missione ed era pronto a tutto per portarla a termine. 
Le mani si posarono da sole ai lati del viso di Lamy, mentre scendeva a coprire la sua bocca con la propria, osservando la reazione di Perona con la coda dell’occhio. Lo stomaco gli fece una capriola quando vide il suo sorriso spegnersi e il suo entusiasmo scemare improvvisamente.
Lamy afferrò i baveri della sua camicia, Perona riprese a parlare con Zoro e Nami.
Ace si strinse Lamy addosso, Perona perse di nuovo il filo del discorso.
Ci mise qualche secondo, Ace, a rendersi pienamente conto di quello che stava davvero succedendo. Che Lamy lo stava baciando con così tanto trasporto che alla fine aveva chiuso gli occhi e ci stava mettendo più impegno del dovuto per rispondere.
La voce di Perona si allontanò sempre di più, insieme con i passi suoi, di suo fratello e di sua cognata e lui stava ancora baciando la sorella di uno dei suoi migliori amici.
E fu solo in quel momento che Ace realizzò la vera portata della cazzata che aveva appena fatto e che non sapeva assolutamente come fare marcia indietro.       
 
§
 
Ace ne aveva provate tante, di situazioni strane. Come il campeggio in otto in una tenda per quattro, dormire in due su un divano troppo piccolo per uno, condividere la cucina con altre cinque persone che si cucinavano in simultanea cinque pasti diversi.
Ma la convivenza a quattro, quella gli mancava.
Ora, Ace si guardava bene dal definirla convivenza quando ne parlava con persone esterne alla situazione logistica di casa loro – eccezion fatta per Koala – perché chiunque – lui per primo – lo avrebbe trovato un passo fin troppo affrettato. Ma, anche se dipendeva da tutta una serie di condizioni coincidenziali, Ace era abbastanza intelligente da rendersi conto che la loro era, di fatto, una convivenza a quattro.
Era tutto iniziato con la convinzione di Pen che Sugar fosse quella Giusta, la Musa che tanto a lungo aveva cercato, convinzione che aveva dato il via a lunghe sessioni di foto che avevano portato lunghe – o brevi, dipendeva dalla giornata e dal tempo a disposizione – sessioni di altro, nonché lo spazzolino da denti di Sugar nel loro bagno.
Certo, Ace era un tipo altamente adattabile e in ogni caso non era la prima volta che succedeva, anche se nel novanta per cento dei casi era Pen a trasferirsi dalla ragazza di turno, almeno fintanto che durava e non tornava di nuovo a casa. Ciò che non era mai capitato prima, però, era che Ace frequentasse nello stesso periodo una cara amica della ragazza con cui si frequentava Pen e doveva ammettere che quella fortuita coincidenza era stata un colpo di fortuna.
Sugar non era niente facile da gestire, aveva un carattere tutto suo, un po’ viziata, a tratti apatica, facilmente irritabile eppure adorabile quando si scioglieva di fronte a un grappolo d’uva o alla pasta di mandorle. Ace pensava che fosse matta o che, in alternativa, avesse solo bisogno di molta, tanta leggerezza nella propria vita per mollare un po’ il colpo e lasciarsi andare.
Lamy però sapeva sempre esattamente come prenderla e averla in giro rendeva più semplice mantenere un equilibrio che, senza sapere nemmeno lui il perché, Ace sentiva costantemente in bilico e a rischio di crollo. Senza contare che con lei in giro anche Pen sembrava molto più rilassato. E così gli inviti a cena si erano moltiplicati, le colazioni tutti insieme nei weekend erano diventate la norma e nessun campanello di allarme si era messo a suonare quando Lamy aveva iniziato a lasciare lì i propri vestiti. O forse sì, avevano suonato eccome ma Ace era troppo assordato dal sollievo per sentirli.
E così, a tre settimane, cinque giorni e tredici minuti dal matrimonio del secolo, Ace e Lamy si erano ritrovati presi dentro un’ufficiosa convivenza a quattro insieme a un’altra coppia di amici. Nella fattispecie, la coppia di amici che si stava scannando nella propria stanza, a voce così alta che Ace e Lamy non si stavano facendo alcuno scrupolo ad aspettare sulla soglia della cucina che uno dei due si decidesse a mandare l’altro al diavolo e mettesse fine a quel massacro. Restava da capire chi dei due avrebbe dovuto seguire l’amico di una vita fuori di casa in quel fresco sabato mattina di inizio autunno per dargli o darle tutto il proprio supporto.
«Ma tu hai capito per cosa litigano?» chiese Lamy con espressione accigliata.
Ace, appoggiato allo stipite e a braccia conserte, le lanciò un’occhiata ma non rispose, almeno non subito. A onor del vero, Ace aveva tutte le intenzioni di risponderle ma lo sconforto ebbe per un attimo la meglio su di lui. Perché sapeva benissimo per cosa stavano litigando, anche se Sugar urlava così forte da sfiorare gli ultrasuoni e rendere incomprensibile qualunque parola. Ma Ace aveva assistito a quell’evento troppe volte per non sapere con matematica certezza cos’avesse scatenato quel delirio.
Nuovamente, puntualmente era successo. E il fatto che quella mattina a colazione Sugar avesse chiesto a Pen se avesse fatto domanda per esporre le sue fotografie alla galleria d’arte dove lavorava Bonney, con l’aria di una che doveva averlo già chiesto molte volte, e che Pen avesse glissato con fare evasivo, senza darle una reale risposta, non faceva che avvalorare la sua tesi.
Perciò sì, Ace si sentiva abbastanza sicuro della propria intuizione da spiegare a Lamy che stavano litigando perché sicuramente Pen si era accorto che, dopotutto, Sugar non lo ispirava poi così tanto o non era così dotata come gli era sembrato all’inizio e probabilmente Pen non aveva scelto il modo più adatto per dirglielo, ammesso esistesse un modo adatto per dire una cosa simile a una donna bipolare come Sugar. E quindi sì, Sugar e Pen avrebbero rotto perché il motivo stesso della loro relazione, dal punto di vista di Pen, non sussisteva nemmeno più e perché Sugar era quel genere di donna che non perdonava un’offesa simile a meno di non essere pazzamente innamorata. E Sugar non era più innamorata di Pen di quanto Pen non fosse innamorato di lei, il che, in una scala da uno a Rufy&laCarne, si collocava circa sotto allo zero.
Avrebbe anche aggiunto che ovviamente Pen non era una cattiva persona, né un approfittatore ma che, semplicemente, non aveva ancora trovato una ragazza che riuscisse ad amare quanto amava la fotografia e Ace era certo che quella sarebbe stata quella giusta e che, quando l’avesse trovata, tutto nella sua incasinata vita sarebbe andato a posto. Ne era certo perché lui sapeva come funzionava, sapeva che succedeva e lo aveva provato sulla propria pelle.
E quindi Ace aveva appunto tutte le intenzione di rispondere a Lamy e spiegarle nel dettaglio cosa stesse succedendo più o meno davanti ai loro occhi, se non che, mentre rifletteva su tutta quella serie di accoppiate causa-effetto, si rese conto che per il primo pomeriggio non ci sarebbe stato più nessuno spazzolino da denti color vinaccia nel bicchiere del bagno, nessun vestito a pois in nessun cassetto e nessuna Sugar in nessuna stanza della casa.
E così, dal niente, Ace si chiese cosa stesse succedendo a lui o, più precisamente, cosa lui stesse combinando. Perché di fronte alla prospettiva, non poi così tragica, di vedere Sugar tornare a casa propria in modo definitivo, improvvisamente Ace non sapeva più cosa Lamy ci facesse lì o, più precisamente, cosa lui stesse facendo con Lamy. Ora che non era più un’ancora a cui appigliarsi né un pesetto per riportare la bilancia in equilibrio, ora che ormai non aveva più notizie di Perona da cinque settimane, a parte quelle di seconda mano, Ace si accorse di quanto orribile fosse stato e di come non avesse fatto che usarla dal giorno del matrimonio.
Ci aveva provato. Ci aveva sperato, anche. Lamy era bella, intelligente, divertente, scaltra, dolce e insospettabilmente piena di iniziativa tra le lenzuola. Ace aveva seriamente valutato di ritentare, si era impegnato, era andato persino andato a prenderla al lavoro in macchina quella settimana, quando si era accorto che Lamy covava una mezza influenza, per evitare che prendesse freddo e la malattia scoppiasse. Sì, Ace aveva sperato di potersi innamorare di nuovo ma ora era chiaro che doveva metterci una pietra sopra.
Lamy non era Perona e lui era patetico oltre che uno stronzo di prima categoria. Non era mai stata sua intenzione farlo ma lo aveva fatto eccome e ora avrebbe dovuto fare i conti con una colpa che era solo sua. Strinse più forte le mani intorno alle braccia, per controllare un tremito che, in realtà, lo stava scuotendo solo dentro ma che lui percepiva in ogni fibra del proprio corpo.
Osservò Lamy qualche istante e si sentì morire. Come aveva potuto arrivare a tanto?
Deglutì a vuoto, il cuore stretto in una morsa. Forse… forse poteva provarci ancora, solo un altro po’. Non per rimandare il momento in cui l’avrebbe scaricata ma perché davvero sarebbe voluto andare oltre e pensava sinceramente che, se fosse riuscito ad andare oltre, Lamy sarebbe stata una prima scelta. E Lamy se lo meritava, meritava amore e dedizione e impegno e quindi forse, dopotutto, poteva aspettare e fare ancora un ultimo tentativo…
«E comunque non sono io che non so posare nuda!!! Sei tu che fai schifo come fotografo!!!» gridò Sugar fuori di sé, sulla porta aperta della sua già ex camera da letto, che aveva quasi scardinato per uscire, e andarsene da lì senza voltarsi indietro, la valigia al seguito.
Ci aveva messo meno di quanto Ace avesse pronosticato.
«Temo che oggi sarò impegnata.» sospirò Lamy seguendo con gli occhi la sua amica che marciava decisa verso la porta d’ingresso.
Ace provò a dirle di non preoccuparsi e di fare ciò che doveva, che tanto anche lui avrebbe avuto il suo bel daffare con Pen ma non ci riuscì. Fu solo quando Lamy si girò a guardarlo, comprensibilmente scioccata, che si accorse di averle detto: «Lamy, penso che dovremmo finirla qui anche noi.»
 
§
 
Il matrimonio portava tanti cambiamenti.
Perona se l’era sentito ripetere spesso, dalle più svariate persone ma non ci aveva mai dato troppo peso. Suonava molto come una frase fatta, quella saggezza popolare spiccia che nove volte su dieci ci azzeccava ma che spesso riguardo i rapporti uomo-donna era lontana dalla realtà, quanto lo era l’epoca in cui la frase fatta in questione era nata rispetto all’anno corrente.
Da donna moderna, emancipata e indipendente del ventunesimo secolo qual era, sapeva che non sarebbe bastato un anello al dito per cambiare la percezione di sé. Il fatto che proprio le amiche a lei più simili in fatto di carattere forte e personalità spiccata fossero tra le poche a non averla messa in guardia al riguardo, per Perona era stata solo una conferma.
Dopotutto, non era una sprovveduta. Lei e Robb avevano convissuto un anno prima del grande passo. Certo, aveva organizzato il matrimonio in due mesi appena ma solo perché non era tipo a cui piacesse perdere tempo e, d’altro canto, sia lei che Robb erano talmente organizzati che non ci era voluto molto a decidere e incastrare tutto.
Ora però, doveva ammetterlo. Un fondo di verità, in quella frase fatta, c’era.
Perché se prima non si era mai posta il problema, quella volta l’idea di lasciare da solo suo marito per la serata tra donne del terzo giovedì del mese le era parso poco… poco carino. E anche se sapeva che con il tempo le sarebbe passato, che era solo perché era sposata da appena quattro settimane e che era irrazionale, alla fine aveva proposto di organizzare la serata da loro. Tanto Robb aveva in programma di dedicarsi un po’ ai suoi francobolli quella sera e la casa era abbastanza grande per non darsi fastidio a vicenda.
Allungò un piattino con sopra una mastodontica fetta del dolce fatto in casa da Koala verso Bonney, che lo afferrò distrattamente. «Ma che ha Sugar stasera?» chiese, senza distogliere gli occhi dalla verdina. «Sembra pronta a commettere un omicidio.»  
«Probabilmente lo è.» rispose Lamy, rientrando in salotto dopo una capatina alla toilette. «Pen l’ha scaricata stamattina.»
Bonney e Perona sgranarono gli occhi sorprese mentre Koala andava avanti a porzionare la torta senza scomporsi.
«Cosa? Come mai?»
Sugar inspirò dal naso, come un toro in procinto di attaccare. «Ha cercato di incolpare me per la sua totale incapacità di fotografare una ragazza nuda senza farla apparire volgare.» spiegò con un tono tra l’altezzoso e il furente.
«Ah sì?» chiese Bonney mentre, tutte ora munite di torta, prendevano posto sul divano e sulla poltrona ancora libera, di fronte a quella occupata da Sugar. «Strano.» proseguì la rosa, attaccando la propria fetta con la forchettina. «Dai pochi scatti che ho visto, Pen mi è sempre sembrato molto dotato.» ammise, guadagnandosi un’occhiata truce da Sugar e di rimprovero dalle altre tre.
Purtroppo, Bonney non era nota per avere molti filtri e se c’era in giro del cibo gustoso o anche solo commestibile si straniava così tanto che, a volte, sembrava anche lenta di comprendonio, sebbene fosse una delle donne più intelligenti che Perona conoscesse.
«Immagino che questo complicherà un po’ le cose tra te e Ace.» commentò con la bocca piena e, come volevasi dimostrare, senza tatto, del tutto ignara per altro della reazione della propria cugina, che abbassò gli occhi al suolo e strinse le labbra, come se stesse cercando di controllare una fitta dolorosa e improvvisa.
«Oh beh, non credo sai. Sospetto che sarà molto più semplice di quel che si possa pensare, visto che Ace mi ha scaricata giusto oggi.» si strinse nelle spalle Lamy.
Perona sollevò il capo di scatto mentre Lamy prendeva una forchettata di dolce, come se nulla fosse. «Santo cielo Koala! È paradisiaca!» si complimentò prima di aver finito di deglutire, indicando la fetta con i rebbi.
«Grazie, cucciola.» mormorò lei, con un sorriso a metà tra l’affettuoso e il dispiaciuto. Aveva fatto apposta la preferita sua e di Sugar, quella con lo yogurt greco e i mirtilli.  
«Cioè no, ehi, ferma, ferma, stop!» Bonney, che l’aveva fissata a bocca spalancata per una lunga manciata di secondi, ritrovò l’uso della parola. «Mi stai dicendo che Ace e Pen vi hanno mollate tutte e due oggi? Lo stesso giorno?»
«Già…» confermò Lamy, lasciandola ancora più basita.
«Ma si sono messi d’accordo per caso?!» scattò senza preavviso, lanciando quasi all’aria il piattino. «E tu…» si girò verso Koala, colpita da un pensiero improvviso. «Tu lo sapevi, non è vero?»
Koala sostenne il suo sguardo con fierezza e determinazione. «Non stava a me dirlo.»
«Quindi stai dalla parte di Ace.»
Perona sobbalzò, risvegliandosi dalla trance in cui sembrava caduta. «Bonney io non credo che…»
«Io non prendo le parti di nessuno, Bonney. Sono entrambi miei amici e questa non è una guerra.»
«Sono stati due infami! Si sono messi d’accordo!»
«Non penso fosse premeditato, Bonney.» provò a calmarla anche Lamy ma ormai era partita in quarta.
«Non illuderti Lamy. Fanno tanto i finti tonti ma nel profondo sono degli animali. Non gliene frega niente dei tuoi sentimenti. Pen ha usato Sugar solo finché ha avuto bisogno di una modella e Ace, ora che il suo amichetto è tornato single…»
«Ace non farebbe mai una cosa del genere!» alzò improvvisamente la voce Perona, visibilmente contrariata. Un silenzio denso di imbarazzo calò per un attimo nel salotto mentre quattro paia di occhi si giravano verso la padrona di casa che, se avesse potuto, si sarebbe sotterrata.
Tutte e cinque, chi consapevolmente  e chi no, sperarono che ovunque fosse Robb in quel momento non l’avesse sentita.
«Ha ragione.» riprese il filo Koala, con il principale intento di trarre Perona d’impaccio. «Ace non è il tipo.»
«Oh sì certo, non è il tipo. Non sono mai “il tipo”, finché poi non ti tradiscono o non ti chiedono il divorzio.» ribatté lapidaria Bonney, troppo alterata per trattenersi dal colpirla là dove faceva più male.
«Bonney, ora basta! Sei arrabbiata per la faccenda di Killer, non sei in te e…» 
«E a tal proposito, scommetto che non hai ancora firmato le carte, vero?»
Koala si irrigidì sulla poltrona e quasi rischiò di frantumare il piattino da dolce tra le mani. «Lui non me le ha ancora chieste se è per questo.» sussurrò con sfida.
Bonney scoppiò in una sonora risata. «Dio, sei patetica.»
«Ho detto basta!»  Lamy scattò in piedi, gli occhi lampeggianti, riuscendo finalmente a zittire Bonney. «Si può sapere qual è il tuo problema? Sì, Ace mi ha mollata è vero ma non è che io stessi con lui per amore, okay? Volevo divertirmi un po’ e non mi serve che nessuno si schieri con nessuno! E se Koala non ha ancora firmato le carte del divorzio non sono affari tuoi! Non è una cosa che si controlla e non c’è niente di patetico nel continuare ad amare qualcuno nonostante tutto. O forse sei così arrabbiata perché non riesci a odiare Killer anche se ti ha tradita e ora vorresti che l’intero genere femminile si rivoltasse contro quello maschile? Puoi avere la nostra solidarietà se vuoi, perché siamo amiche, ma ognuna di noi ha il diritto di gestire i propri problemi come meglio crede. E ora scusatemi ma io me ne torno a casa che sono stanca.»
Lamy recuperò la propria borsa, fece il giro del tavolino per schioccare un bacio sulla tempia a Perona e poi imboccò decisa il corridoio che portava all’ingresso, chiudendosi sonoramente la porta alle spalle. Non passarono nemmeno dieci secondi che Sugar si riscosse e si affrettò a raggiungere Lamy, salutando Perona allo stesso modo e lasciando le tre amiche immerse in un imbarazzante silenzio.
Fu Bonney a spezzarlo, schiarendosi la gola, a disagio. «Beh io… è il caso che vada anche io. Buonanotte.» decise, alzandosi in piedi e sparendo alla loro vista senza voltarsi indietro.
Perona e Koala rimasero a fissare per un po’ la porta del salotto che dava sul corridoio principale della casa, senza fiatare.
«Se vuoi posso fermarmi ancora un po’.» si offrì poi Koala con un sorriso materno, voltandosi verso una scioccata e sofferente Perona che deglutì un paio di volte prima di riuscire a ritrovare l’uso della parola.
Cos’era appena successo? Com’era successo?
«N-non preoccuparti, Koala. Io sto bene. Davvero.» annuì decisa, nonostante il groppo in gola. Certo, sapeva che Koala non se la sarebbe mai bevuta ma l’istinto di almeno provarci l’aveva sopraffatta.
Sapeva che lo sguardo apparentemente tranquillo dell’amica nascondeva in realtà una miriade di domande che non le faceva perché, fondamentalmente, Koala conosceva già la risposta.
«Perona.» la richiamò piano, guardandola fissa. Il tono era calmo ma il suo sguardo era determinato. «Ricordati che non hai fatto nulla che non si può disfare, d’accordo? Si tratta solo di prendere una decisione e sei ancora in tempo per farlo.»
Perona trattenne il fiato e dovette limitarsi ad annuire quando Koala insistette per una risposta con un paziente ma fermo: «Va bene?!» Sorrise soddisfatta mentre si alzava dalla poltrona e si avvicinava a lei per schioccarle a sua volta un bacio tra i capelli. «Buonanotte, tesoro.»
«Buonanotte, Koala.» mormorò Perona, osservandola allontanarsi a occhi ancora sgranati.
Attese di sentire la porta richiudersi alle spalle dell’ultima delle sue amiche, chiuse le palpebre per un attimo, tentando di calmare il ritmo impazzito del proprio cuore, per poi scattare in piedi e precipitarsi in cucina, il cellulare stretto in mano.
Ovunque Robb si fosse piazzato per fare manutenzione ai francobolli, di certo non sentiva cosa stava succedendo da quelle parti della casa o si sarebbe almeno fatto vivo per assicurarsi che fosse tutto a posto dopo la sfuriata di Lamy. Forse aveva messo di sottofondo uno dei suoi CD di musica classica o, peggio ancora, era in videoconferenza su Dial con Kaku, Jabura e Paulie. Non si sarebbe potuto accorgere di una cannonate nelle orecchie con Jabura impegnato in uno dei suoi siparietti da maniaco della persecuzione.
Sbloccò e ribloccò il telefono per tre volte, prese un profondo respiro, chiuse gli occhi e inoltrò finalmente la chiamata. Con il cuore in gola, si portò l’apparecchio all’orecchio e si avvicinò rapida a Kumachi, accovacciato sul davanzale, sperando che le fusa e il pelo morbido del suo gatto riuscissero a trasmetterle un po’ di tranquillità, mentre ascoltava gli squilli lunghi e prolungati e pregava con ogni fibra del suo essere che rispondesse.
«Pronto?!»
Aveva risposto senza guardare chi lo stesse chiamando, lo capì all’istante dal suo tono.
«Ace…»
Per un momento Perona credette che fosse caduta la comunicazione.
«Perona.» mormorò alla fine Ace, a metà tra il sorpreso e il perso, e tanto bastò a Perona per sentirsi improvvisamente rigenerata e guarita. Un sorriso fece capolino sulle sue labbra una volta tanto struccate ma comunque così rosee da farla sembrare Biancaneve, in contrasto con la sua pelle chiarissima. «Ciao! Come… come stai?» chiese Ace, dominando a stento l’emozione nella voce.
Perona dovette concentrarsi per non scoppiare a ridere, felice e isterica al tempo stesso.
«Sì io… io sto… p-più o meno.»
«È successo qualcosa?» domandò immediatamente Ace.
«No! Sì! F-forse.» prese un profondo respiro. «Ace… possiamo vederci? Solo noi due. Io ho… ho bisogno di vederti, ho bisogno…» si fermò prima di dire qualcosa di irreparabile, consapevole di avere già detto anche troppo comunque. «Ti prego…»
Di nuovo silenzio assoluto, di nuovo il dubbio che fosse caduta la linea.
«Vuoi lasciare Robb?»
Perona si portò una mano alle labbra, gli occhi pieni di lacrime. «Io non… non lo so, Ace. Ho bisogno di vederti, ho bisogno di stare un po’ con te. Per favore.» singhiozzò quasi. «Per favore.» ripeté più calma.
«Okay.» sussurrò nel ricevitore, come se stesse parlando direttamente nel suo orecchio. «Io posso domani sera.»
«Va bene.» annuì con il capo. «Ora devo chiudere.»
«Perona.» la richiamò Ace prima che riattaccasse.
«Sì?»
«Dillo.» mormorò implorante, fermandole per un attimo il cuore.
Perona deglutì a vuoto, lacerata e tremante. Una lacrima rotolò sulla sua guancia e andò a infrangersi sul davanzale della finestra, vicino alla coda di Kumachi. «Non posso.» soffiò nel ricevitore, pronta a troncare la comunicazione. «Buonanotte.»
 
§
 
Cucinare lo rilassava. Cucinare era qualcosa che aveva scoperto di saper fare davvero bene e in cui aveva voluto diventare uno dei migliori. 
Cucinare era qualcosa che gli veniva così naturale che non doveva nemmeno sforzarsi per restare concentrato come gli capitava in quasi qualsiasi altro ambito della propria esistenza.
Almeno, di solito era così.
«Ace!!!»
Un rumore di metallo contro metallo risuonò nella cucina quando Ace sobbalzò, colto alla sprovvista dall’urlo di Zeff nelle orecchie.
«Sì, chef?» domandò, un po’ affannato.
Che aveva combinato per alterarlo tanto?
«Pensi di unirti a noi o vuoi lavorare tutto il giorno perso nel tuo mondo?» chiese il truce e claudicante proprietario ed executive chef del Baratie, uno dei più prestigiosi ristoranti di Raftel del cui staff Ace aveva l’immensa fortuna di fare parte.
«Scusa, chef, stavo pensando.» rispose prontamente il ragazzo, sollevando una mano a sistemarsi meglio la bandana sulla fronte imperlata di sudore.
Zeff incrociò le braccia al petto, fissandolo con una punta di rimprovero. «Ora capisco perché la tua postazione emanava così tanto fumo.» commentò facendo ridere il resto della cucina. «Un cliente ha chiesto cos’hai messo di particolare nell’hollandaise. Tamago sta aspettando una risposta.»
«Nel... nell'hollandaise?» chiese, non certo di aver sentito bene.
Non aveva la più pallida idea di cosa il capo stesse dicendo. Era certo di averla fatta come sempre. Confuso, spostò lo sguardo da Zeff al nasuto maître di sala, che voleva a tutti costi passare per francese e aggiungeva parole a caso in suddetta lingua alla fine di ogni frase.
«Io non...»
«Un pizzico di cren.»
Ace, Zeff e Tamago si girarono verso la piccola chef pâtissier, che sollevò a sua volta gli occhi su di loro, continuando a temperare il cioccolato. «Ci ha messo un pizzico di cren, chef.»
«Mille grazie, mademoiselle-soir.» Tamago si produsse in un lieve inchino, prima di sparire nuovamente in sala.
«Posso sapere per quale motivo Koala, che sta ai dessert, sa cos'hai messo nell'hollandaise e tu, che sei lo chef saucier, non lo sai?»
Ace sostenne una manciata di secondi lo sguardo del capo, riflettendo molto bene sulla risposta, per poi risolversi a non dargliene una.
«Perché se Koala non esistesse io sarei semplicemente fottuto, chef.» affermò forte e chiaro, com'era prassi quando Zeff poneva loro una domanda, tornando a dedicarsi al filetto di maiale.
«Puoi dirlo forte, moccioso. E ora al lavoro!»
«Sì, chef!»
Attese un paio di minuti, il tempo necessario al succo del filetto per ridursi e venire rimosso dal fornello, prima di cercare con gli occhi Koala, che lo stava già guardando con palese divertimento.
Ace le regalò uno dei suoi migliori ghigni. «Grazie.»
«E di che?» minimizzò la ragazza per poi assumere un'espressione indagatrice. «Ma almeno ce lo hai messo di proposito, il cren, o l’hai confuso con la cayenna?» domandò a metà tra il serio e la presa in giro.
Ace si guardò intorno furtivo, attento che nessuno potesse sentirlo tranne lei, e abbassò ulteriormente la voce per rispondere: «Dipende. Prima devo capire se al cliente è piaciuta.» facendola scoppiare a ridere.
Sminuzzò un altro po’ di erba cipollina, riflettendo su quanto appena accaduto. Era vero che sapeva preparare l’hollandaise a occhi chiusi ma era piuttosto convinto di averci messo il cren di proposito, ispirato dall’idea di una nuova variante, eppure non ricordava di averlo fatto. Tutti quei pensieri lo avrebbero mandato ai pazzi, sapeva che sarebbe andata a finire così. Dopo la telefonata di Perona della sera prima aveva dormito poco niente, rovesciato metà del caffè fuori dalla tazza, messo i pantaloni al contrario, dimenticato la bandana, dimenticato le chiavi della moto quand’era tornato indietro a prendere la bandana e ora aggiunto il cren all’hollandaise senza rendersene conto. E non erano passate nemmeno ventiquattro ore.
Il punto era che non riusciva a smettere di pensarci. Al suo tono implorante e malfermo, alla certezza che fosse successo qualcosa che l’aveva scossa. Si era dovuto fare violenza per non andare da lei appena chiusa la telefonata e se non si era presentato al negozio dove lavorava quella mattina, era solo perché aveva il turno del pranzo al ristorante. Avrebbe dato non sapeva cosa per scoprire subito cosa fosse successo senza dover aspettare quella sera.
Sollevò di scatto la testa, colpito da un pensiero improvviso. Come aveva fatto a non pensarci prima?
«Ehi Koala. Com’è andata la serata tra donne ieri? Tutto bene?»
Koala si fermò per un momento con la spatola a mezz’aria e lo fissò con una strana espressione. «Diciamo che è stata un po’ particolare.» concesse, attivando nuovi segnali di allarme nel cervello del moro.
«È successo qualcosa?» indagò ancora, allungando una mano verso i coltelli per prenderne uno da sfilettatura.
«Beh ec… Ace attento!»
La voce di Koala si alzò di due ottave e un dolore penetrante gli attraversò il braccio. Scattando come se avesse preso la scossa, Ace si allontanò bruscamente dal bancone e portò ad altezza occhi il palmo, su cui si apriva un taglio rosso brillante e parecchio profondo.
«Oh magnifico!»
 
§
 
«Hai afferrato il coltello dalla parte della lama.» cercò di metabolizzare Koala mentre gli svuotava mezza bottiglietta di perossido di idrogeno sulla mano, nella speranza di rallentare un po’ l’emorragia.
«Ero impegnato a perdermi nei tuoi occhi.» rispose sognante Ace prima di masticare un’imprecazione tra  i denti per il bruciore.
Koala gli picchiò la bottiglietta dell’acqua ossigenata in testa. «Deficiente. Te la spruzzo nel naso.» lo minacciò. Con un sospiro, afferrò una benda e si affrettò ad avvolgerla stretta intorno alla mano di Ace. «Si può sapere che ti è preso?»
«Koala è stato un incidente. Può capitare.»
Koala finì di annodare la benda prima di sedersi sul tavolo, le gambe penzoloni, e lanciare a Ace una lunga, saputa occhiata. «Non parlo del coltello. E nemmeno del cren. Sto parlando di Lamy.»
Il sorriso sempre splendete di Ace si spense senza scomparire del tutto, facendosi malinconico e rassegnato. Sapeva che presto o tardi avrebbe dovuto affrontare il discorso con lei e sperava soltanto che non lo giudicasse troppo duramente.
«Sono stato un coglione. Cercavo solo di attirare l’attenzione di Perona e un attimo dopo ero nel bel mezzo di una relazione con Lamy. E anche se so di non avere giustificazioni per come è iniziata, sappi che l’ho lasciata nell’istante in cui mi sono reso conto che non potevamo avere futuro e che continuare così sarebbe stato come usarla!» mise in chiaro prima che Koala potesse ragionevolmente ribattere, facendogli notare tutte le ovvie incongruenze che il suo piano aveva presentato sin dall’inizio come, ad esempio, il dettaglio del cercare di fare ingelosire una donna nel giorno del suo matrimonio con un altro.
Ma, contro i suoi pronostici, Koala non assunse un’espressione scettica, non sorrise con scherno come faceva sempre quando Ace faceva una stronzata e poi tentava di giustificarsi né commentò con sarcasmo.
Semplicemente continuò a fissarlo prima di incrociare le braccia sotto il seno e constatare: «Quindi non ti sei davvero accorto di niente.»
Ace sbatté le palpebre, preso in contropiede. «Di che parli?»
Di tutte le abitudini con cui Law aveva contagiato Koala, il silenzio saputo era decisamente quella a cui Ace non riusciva proprio ad abituarsi. La guardò riassemblare la cassetta del primo soccorso, lasciando indietro le bende, senza nemmeno contemplare l’ipotesi di insistere, tanto sapeva che era fiato sprecato.
«Devi andare in ospedale.» sentenziò inaspettatamente Koala, mentre rimetteva a posto la valigetta arancione.
«Che?!»
«Guardati la mano.»
Confuso, Ace abbassò lo sguardo sul proprio palmo. «Merda.» commentò quando vide che la benda era già in larga parte intrisa di sangue.
«Non si ferma.»
«Questione di qualche minuto.» insistette il moro. «Sono in grado di finire il servizio.»
«Ace stai perdendo un sacco di sangue.» ribatté Koala, le mani sui fianchi. «Lo finisco io il servizio alla carne, tanto con i dessert mi ero portata avanti e Pudding può finire da sola.» si offrì con un sorriso incoraggiante.
«Lo sai…» cominciò Ace con quel suo fare da “la so più lunga di te”. «…non dovresti incoraggiarla così tanto a fare da sola o rischi di venire scavalcata dalla tua allieva. E questo non può succedere. Se Zeff ti lascia a casa, perderò qualsiasi interesse a venire a lavorare qui e s… off!» mugugnò quando uno strofinaccio lo raggiunse in pieno viso.
«Pudding è molto dotata e ci mette un grande impegno ma per quando sarà pronta a diventare chef pâtissier, io e te avremo già aperto il nostro ristorante. Ma questo potrà accadere solo se ora vai in ospedale a farti medicare perché altrimenti sarò costretta a mandartici io a calci così forti nel deretano che finiranno per procurarti anche degli irreversibili danni cerebrali.»  
«Mio dio…» mormorò Ace, con un’espressione di indignata paura. «Sei un mostro. Ora capisco perché Sabo tornava a casa in lacrime quando uscivate insieme.» la prese in giro, riuscendo quasi a farla ridere.
Quasi.
 «In ospedale, Ace! Ora!»
 
§
 
Gli ospedali non gli piacevano. Odoravano di garze sterili, tristezza e patate bollite con troppo poco sale.
Ancor meno degli ospedali gli piaceva l’attesa negli ospedali e il rischio concreto di restare bloccato lì fino a sera e fare tardi all’appuntamento con Perona. D’altra parte, il pronto soccorso era pieno e la sua ferita relativamente grave. Anche se un pochino cominciava a sentirsi debole, non sarebbe certo morto dissanguato quindi le probabilità di cavarsela in fretta erano decisamente poche. Solo, avrebbe voluto capire quanto lunga sarebbe stata l’attesa.
Mise su il suo miglior ghigno seduttore mentre si avvicinava alla giovane infermiera che stava al banco dell’accettazione, impegnata a riordinare un plico di carte talmente consistente che a lui veniva mal di testa solo a guardarle, figuriamoci catalogarle.
«Ehilà!» salutò, posando la mano sana sul bancone e appoggiandosi con il gomito, in una posa un po’ svaccata.
 L’infermiera sollevò il capo per guardarlo con preventivo scetticismo. Ace la studiò per un istante. Lunghi capelli scuri ondulati, occhi di un blu scurissimo e denso, viso spruzzato di lentiggini. Sarebbe potuta essere sua sorella ma non era un pensiero su cui indugiare visto che puntava ad irretirla per ottenere le informazioni che gli interessavano.
«Sì?»
«Ah, non voglio cercare di passare davanti a nessuno eh!» mise subito in chiaro Ace, continuando a sorridere e sollevando per un attimo la mano. «Non me lo sognerei mai, insomma sono consapevole che ci sono un sacco di persone che hanno la precedenza. Solo mi stavo chiedendo…» chinò di più il busto, con fare cospiratore, avvicinandosi all’infermiera per quanto lo consentisse il bancone. «…non si riuscirebbe a fare una stima di quanto potrebbe volerci per il mio turno…» lanciò una rapida occhiata alla targhetta appuntata sul camice lilla. «…Ishley?»
Ishley, con l’aria di una che aveva assistito a quella scena un migliaio di volte e che di fatto aveva davvero assistito a quella scena un migliaio di volte, si mise ben dritta e appoggiò la schiena alla sedia munita di rotelle, fingendo di riflettere mentre picchiettava sulla superficie liscia con le unghie. «Dunque vediamo. Se vuole posso andare a chiedere al dottor Beckmann quanto ci vuole per finire con il trauma cranico del tamponamento a catena che è arrivato poco fa. Oppure potrei sollecitare il dottor Akagami perché si dia una mossa con il bambino dalla spalla lussata o chiedere alla dottoressa Shirop di lasciare che sia uno degli studenti del primo anno a occuparsi della pericardiocentesi d’urgenza in modo da accorciare i tempi per lei. Che ne dice?» propose con un tono ben più gioviale di quel che si sarebbe aspettato.        
«Lo può fare davvero?» chiese Ace dopo un attimo di sincero stupore.
«Ovviamente no.» ribatté l’infermiera tornando improvvisamente seria e spaventandolo un po’.
Tutto quel pungente sarcasmo e bipolarismo gli ricordavano tanto…
«Ace?»
«Law!» esclamò entusiasta, quando l’amico entrò nel suo campo visivo. A dirla tutta lui non sembrava così felice di vederlo ma, a parte che Law non era mai particolarmente espansivo, era più che legittimo il suo malumore viste le condizioni deliranti del pronto soccorso. Oltretutto, non doveva essere neppure troppo in forma a giudicare dalle occhiaie ben più marcate del solito.
«Che hai combinato?» domandò il medico, corrugando le sopracciglia e scrutando l’amico alla ricerca di qualcosa fuori posto.
Ace sollevò la mano ferita davanti al volto e portò l’altra alla nuca, con un sorriso un po’ colpevole sul volto e Law lo fissò ancora qualche secondo prima di sospirare e fargli cenno di seguirlo. «Ish, ci penso io a lui, cinque minuti e libero l’ambulatorio. Portuguese D. Ace.» avvisò l’infermiera che rispose con un “Okay” e un pollice alzato, senza staccare gli occhi dalle carte.
Stranamente silenzioso, Ace lo seguì lungo il corridoio e dentro all’ambulatorio quattro. Si sentiva a disagio e non era certo un mistero il perché ma, al tempo stesso, era anche sollevato perché Law non sembrava assolutamente intenzionato a brandire nessuna ascia di guerra, il che, doveva ammetterlo Ace, non era poi così inaspettato. Law poteva anche essere un fratello iperprotettivo ma era soprattutto un uomo maturo e intelligente.
Si accomodò dove Law gli fece segno e attese che anche lui gli si sedesse di fronte, armato di tutto il necessario per disinfettarlo e suturarlo, prima di allungare il braccio sul lettino posto tra loro. Con mani esperte, Law svolse il bendaggio ormai cremisi che aveva fatto il lavoro per cui era stato applicato, ovvero non gocciolare il sangue a terra e contenere nei limiti del possibile l’emorragia.    
«Com’è successo?» chiese, inforcando gli occhiali da vista per esaminare la ferita.
«Ho afferrato il coltello dalla parte della lama.» Law gli lanciò un’occhiata di sottecchi, tradendo per un attimo la propria incredulità. «Ero distratto a parlare con Koala.» si giustificò il cuoco e, non fosse stato a diretto contatto fisico con lui, Ace non si sarebbe accorto che Law aveva sobbalzato appena a quelle parole.
Più rabbuiato di prima, Law abbassò di nuovo il capo e prese a dedicarsi con cura alla ferita. Il silenzio assoluto scese nell’ambulatorio mentre Law ricuciva con chirurgica precisione il palmo di Ace e Ace contava attento tutti i punti di sutura che Law gli stava dando. Non poteva fare il figo se non sapeva esattamente quanti punti gli avevano dato.
Come promesso a Ishley, in cinque minuti la mano di Ace era nuovamente avvolta in un bendaggio che non aveva niente da invidiare a quello di Koala, tranne che per il candore della garza, non più minacciata dalla copiosa emorragia.
Ace aprì e richiuse un paio di volte la mano indolenzita dall’anestesia locale, ascoltando distratto il ticchettare della tastiera mentre Law compilava a PC il suo foglio di dimissioni. Il rumore della stampante che si metteva in moto lo riscosse e si affrettò a infilarsi il giubbotto di pelle. Non voleva approfittare della sua disponibilità più di quanto non avesse già fatto.
«Ecco qui. Tienila pulita e disinfettata e cambia il bendaggio ogni giorno. Torna tra due settimane per togliere i punti, non dovrebbe restarti una grossa cicatrice.»
«Peccato. Stavo già pensando a come vantarmene.» scherzò Ace ma decise di lasciar perdere quando Law si limitò a lanciargli un’occhiata atona. «Beh io… vado eh! Grazie ancora, amico.» lo salutò Ace, avviandosi verso la porta.
«Amico?»
Ace si immobilizzò, colpito dal tono quasi disgustato di Law. Certo di aver sentito male, si girò verso di lui ma l’espressione del medico gli fece salire il cuore in gola.
Che gli prendeva?
Certo, Law non era un fan di quel genere di effusioni ma era già capitato che lo chiamasse così in passato e non l’aveva mai presa male.
«Beh, siamo amici no?» cercò di glissare con un sorriso nervoso Ace.
«Ah non lo so.» mormorò glaciale Law, ficcando le mani nelle tasche del camice. «Tu tratteresti la sorella di un tuo amico come una pezza per i piedi.»
Ace deglutì a vuoto, il sangue congelato nelle vene per l’ingiusta ed eccessiva accusa.
Avrebbe dovuto aspettarselo. Anche se Law era maturo e intelligente, avrebbe dovuto aspettarselo.
«Io non l’ho trattata come…»
«Fa lo stesso, non mi interessa.» tagliò corto Law mentre già sistemava tutto il materiale che aveva usato per medicarlo. «Quando prendi l’appuntamento per togliere i punti, cerca di fartelo dare con un medico che non sia io. Non ho alcun interesse a rivederti.» lo informò, lapidario.
Ace si sentì mancare il pavimento sotto i piedi. Anche se da fuori non si sarebbe mai detto, Law era uno dei suoi migliori amici. Law, d’altra parte, sembrava il classico lupo solitario che di amici non ne aveva nemmeno l’ombra ma la realtà non sarebbe potuta essere più lontana dall’apparenza.
Anche se nell’ultimo periodo si erano allontanati, erano sempre stati molto vicini, persino quando la crisi era iniziata, prima che Law se ne andasse di casa, Ace non gli aveva mai negato il proprio appoggio e, dopo la separazione, era stato Law a non cercarlo più dello stretto necessario per mantenere il rapporto, con il preciso intento di non metterlo in difficoltà nei confronti di Koala.
Ma forse Ace si era sempre sbagliato. Perché dal punto di vista di Ace, i migliori amici non ti scaricano per aver intrapreso una relazione finita male con la loro adulta e senziente sorella. Magari si arrabbiano, ti picchiano, ti minacciano di farti lo scalpo ma non ti scaricano come se fossi solo un peso morto e fastidioso.
A meno che quegli amici non facciano di nome Trafalgar Water D. Lawrence, certo.
Dimentico della ferita appena ricucita, ignaro che l’effetto dell’anestetico stava già sparendo, Ace strinse i pugni e non sentì nulla, se non qualcosa tendersi nel suo petto fino a spezzarsi.
«Hai proprio una bella faccia tosta.»
Fu il turno di Law di voltarsi verso di lui, sorpreso dal suo tono.
«Scusa?»
«Con che coraggio mi tratti di merda a questo modo?»
Law serrò la mascella, unico segno che la calma che stava mostrando era solo apparente. «Forse ti sei dimenticato che ti sei portato a letto mia sorella per quattro settimane solo per…»
«Sì e l’ho lasciata perché mi sono accorto che lei si stava prendendo e io no!» scoppiò Ace. «L’ho lasciata prima che raggiungesse il punto di non ritorno! E ci sono stato pure di pezza!»
In due falcate, Law era di fronte a lui, i visi vicinissimi e la voglia di afferrarlo per il colletto della maglia e appenderlo al muro. «Non avresti nemmeno dovuto provarci con lei, tanto per cominciare. Non lo hai mai fatto per sincera attrazione e non provare a ribattere. Non trattarmi da idiota, so benissimo che cercavi solo qualcuno per dimenticarti di Perona.»
«E pensi che invece Lamy fosse così stupida da non sapere che ci stavamo solo divertendo?»
«Tu glielo hai chiesto se lei voleva solo divertirsi?»
«Tu hai chiesto a Koala se voleva divorziare?»
Fu come se qualcuno avesse risucchiato tutto il calore dalla stanza. Law mandò giù pesantemente e prese un profondo respiro per mantenere ferma la voce. «Questo non c’entr…»
«Certo che c’entra!» ruggì Ace, allontanandosi di scatto, per paura di perdere il controllo e dargli un cazzotto. «Porco Roger, Law! Koala è una sorella per me e tu non hai idea, non immagini neppure quanto male le hai fatto! Ma sai chi è andato a raccogliere i cocci la sera che le hai portato le carte dell’avvocato senza nemmeno parlargliene? Io! E ti auguro di non vedere mai, mai Lamy nelle condizioni in cui era lei quella sera perché ti giuro che è un fottuto incubo!» proseguì indefesso, ormai un fiume in piena. «L’hai rotta dentro. Ma io sono venuto per caso a cercarti per dirti che eri uno stronzo e di non farti vedere mai più? Ne avrei avuto tutto il diritto ma non l’ho fatto! Sono rimasto anche amico tuo, non ti ho tagliato fuori, non ti ho mai dato la colpa! E tu vieni a fare la paternale a me perché ho avuto una relazione di solo sesso con tua sorella che era per altro d’accordo? Sai che c’è? Non ti preoccupare. Sono solo contento di non dover aver più niente a che fare con un pezzo di merda come te. Buona giornata.» ringhiò sottovoce prima di uscire dall’ambulatorio con l’andatura di un toro pronto a incornare. La testa gli rimbombava per l’ondata di adrenalina e non seppe neppure come e quando aveva raggiunto l’uscita, finché non si ritrovò all’esterno dell’ospedale.
Imbestialito, tirò un pugno al muro con la mano sana, per poi appoggiarvisi con la fronte, il respiro grosso e il corpo scosso dai tremiti. A puttane, era andato tutto a puttane.
Pen era entrato in un loop depressivo da “non diventerò mai un fotografo”, Lamy aveva litigato con Bonney e Bonney con Koala, Killer era l’ombra di se stesso, lui aveva chiuso la porta in faccia a una delle persone a cui più teneva sul pianeta e Perona… Perona si era sposata. E Ace sapeva, anche se si era illuso e raccontato che c’era ancora una speranza, sapeva che l’incontro di quella sera non avrebbe cambiato niente.
Perona voleva vederlo per un po’ di conforto, forse anche fisico, anzi sicuramente anche fisico, ma non avrebbe lasciato Robb. Lo sapeva, come sapeva che l’indomani si sarebbe svegliato alle sette in punto, che il suo compleanno era il primo gennaio e che Babbo Natale non esisteva. Lo sapeva e basta.
E sapeva che Perona non lo avrebbe detto nemmeno quella volta.
La vista un po’ offuscata, abbassò lo sguardo sulle proprie mani, una bendata e l’altra no. O almeno, così sarebbe dovuto essere.
Si accigliò e sbatté le palpebre per spannare gli occhi. Che diavolo…
Li chiuse e li riaprì ma niente. Entrambe le sue mani erano libere da bende, non c’era traccia di punti di sutura o cicatrici, al posto del suo giubbotto di pelle un paio di polsini bianchi, inamidati e dall’aria costosa.
Cosa stava…
«Ace è tutto a posto?»
Sobbalzò colto alla sprovvista e si girò verso un ragazzo dai capelli rossi, se possibile ancora più disordinati dei suoi, che lo fissava a pochi passi di distanza. Strano vederlo senza la sua inseparabile Reflex al collo.
«Pen?» mormorò stupito e stava già per chiedergli cosa ci facesse lì quando si rese conto che quel “lì” non era il “lì” a cui si sarebbe riferito nel porre quella domanda. Non si trovava fuori dall’ospedale. Anzi, non si trovava affatto fuori bensì in una stanza chiusa. Indubbiamente la sala di un ricevimento nuziale che doveva ancora avere inizio.
«Ace? Amico, ti senti bene?»
Scioccato, Ace tornò a guardarlo un istante prima di riabbassare gli occhi sulle proprie mani. Fissò incredulo ciò che stringeva tra le dita e un brivido lo scosse.
«Ora mi stai seriamente facendo preoccupare.»
«Sto bene!» si riscosse di colpo, sollevando il capo di scatto. «Sto bene, davvero. Tu vai pure, ti raggiungo tra un attimo.  Devo fare una cosa, prima.»
«O-kay.» mormorò Pen, alquanto stranito. «Per qualsiasi cosa io sono qui comunque.» gli ricordò mentre lo  superava. Era già praticamente sulla soglia della sala quando un pensiero improvviso lo riportò sui propri passi. «Oh ehi amico io… ci tenevo ancora a ringraziarti per l’ospitalità e tutto il resto sai… Io non sapevo proprio dove altro andare e…»
Ace lo fissò a occhi sgranati. Non era possibile eppure…
«Pen!» lo fermò, alzando solenne una mano. «Non dirlo nemmeno. È ancora casa tua.» ripeté a memoria, trattenendo il fiato in attesa della risposta di Pen, che non lo deluse. 
«Ah… va bene! Datti una mossa!»
Una doccia di sollievo lo innaffiò da capo a piedi. Non riusciva a capire come fosse successo. Ma era ben conscio di doverne approfittare.
«Sì. Arrivo subito.» ribadì senza nemmeno guardarlo, concentrato sugli otto segnaposto che teneva in mano, vergati con elegante calligrafia.
Law, Sugar, Bonney, Koala.
Lamy, Killer, Ace, Pen.   
Ace lanciò un’occhiata verso il tavolo tondo a pochi passi e piegò le labbra in un ghigno. «Okay. A noi due.»
 
 
    
   
 
   
  
  
 

 
 
 
 
 
 
  
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