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Autore: AintAfraidToDie    22/02/2018    10 recensioni
«Allora cosa vuoi, Sherlock?» quasi un sibilo, in realtà un po' fioco.
Adesso John lo guarda intensamente e la sua mascella quasi trema, rimbalzata da denti abituati a scontrarsi l’uno contro l’altro durante notti di terrore e di dolore.
Sherlock respira. Respira ossigeno e polvere, paura e coraggio.
«Voglio che tu venga a vivere qui insieme a Rosie.»
[Johnlock]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La ballata di John Watson.

 

 

Il filtro della sigaretta brucia leggermente, nel momento in cui Sherlock lo riappoggia in prossimità delle proprie labbra: l’incandescente brace di tabacco e sostanze tossiche ha ormai raggiunto e cancellato il trafiletto contenente la ben nota marca di cicche; un’ulteriore inspirata e tutto quel che arriverà direttamente ai suoi polmoni sarà plastica, o forse pura diossina.

John produce col proprio volto una smorfia grottesca di completo disappunto, osservandolo da poca distanza, e si sistema nervosamente nella poltrona per mezzo di movimenti stizziti: inizialmente accavalla la gamba sinistra, poi la distende quasi completamente contraendo il quadricipite; infine piega il ginocchio destro e tutto il suo polpaccio scompare quasi magicamente sotto la corrispettiva coscia. Non c’è sicuramente la necessità di essere grandi osservatori per riuscire a comprendere che oggi John H. Watson è particolarmente irrequieto.

«Allora?» borbotta, continuando a muoversi. «Mi hai chiesto di venire qui per guardarti fumare?» aggiunge, scricchiolando le dita delle mani soltanto con l’ausilio di scatti delle ossa; tic, tic, tic. «Sai che odio il fumo, Sherlock, ed odio te che mi fumi bellamente in faccia.»

Sherlock lo guarda; la cicca ancorata saldamente in mano, la vestaglia blu che indossa leggermente sganciata e calante in prossimità del petto: i suoi occhi si socchiudono appena, mentre mormora un “ovviamente no”.

«Allora spengi quella dannata sigaretta, per piacere» scandisce fermamente il dottore; una pronunziazione che pare più un ordine, piuttosto che una gentile richiesta.

Sherlock non risponde, sul momento: osserva di sbieco il mozzicone tuttora fumante che stringe tra le dita ed il movimento che la sua mano compie con l’obbiettivo di spengerlo, per poi gettarlo all’interno del posacenere in alabastro che Mycroft gli ha regalato lo scorso Natale.

«È la mia ultima sigaretta» lo dice con l’arto ancora impegnato nello spegnimento; un processo semplice e teoricamente immediato che però sembra durare ore intere: ma è così che deve essere, crede. È la sua personale sigaretta del coraggio, in fondo. Ma John, ovviamente, tutto ciò non può neanche lontanamente immaginarlo.

«Non ci credo» è infatti la risposta immediata del dottore, che subito abbozza un sorriso scettico, alzando soltanto un angolo della bocca. «Quante volte hai pensato o detto questa frase?» le sue mani continuano a scricchiolare provocando suoni secchi e rimbombando esageratamente in vuoti conversazionali fin troppo lunghi.

Sherlock si sistema nella sua poltrona; un unico movimento netto, la coscia destra che va a sovrastare l’altra: adesso sono occhi negli occhi.

«L’ho detto molte volte, non posso darti torto. Spesso solamente con l’obbiettivo di farti contento; ma stavolta sono convinto, ed è la verità» il suo discorso è veloce, lineare: Sherlock mantiene un tono di voce basso, mentre gli occhi di John iniziano a vagare nel nulla.

I suoi capelli oramai totalmente grigi permeano nella loro perfetta composizione ingellata; la sua mano destra però li percuote comunque, indirizzando la piega più volte e sempre nella solita direzione.

«Congratulazioni, allora» scandisce con evidente sarcasmo, mordendosi poi leggermente il labbro inferiore. «Vuoi che organizziamo una festa?»

«No, John» è la risposta istantanea di Sherlock che per una volta rimpiange; rimpiange quella sigaretta finita. La sigaretta del coraggio.

«Allora cosa vuoi, Sherlock?» quasi un sibilo, in realtà un po' fioco.

Adesso John lo guarda intensamente e la sua mascella quasi trema, rimbalzata da denti abituati a scontrarsi l’uno contro l’altro durante notti di terrore e di dolore.

Sherlock respira. Respira ossigeno e polvere, paura e coraggio.

«Voglio che tu venga a vivere qui insieme a Rosie.»

 

***

 

Sherlock Holmes ha inevitabilmente compreso di non sapere più molte cose, per colpa e per mezzo degli eventi intercorsi durante l’ultimo periodo della sua esistenza. Sicuramente, proprio senza alcun dubbio, non sa come sia possibile il fatto che John abbia accettato la sua improvvisa proposta. La logica e la razionalità, infatti, non potevano che fargli capire tutt’altro: i movimenti di John potevano essere accomunati a nervosismo e mal sopportazione, le profonde occhiaie e lo scricchiolare sinistro di ogni sua articolazione si traducevano in insonnia ed incubi; il suo tono di voce, gutturale e basso, urlava in realtà rabbia a gran voce. John Watson non era evidentemente più a suo agio, posizionato in maniera scomposta ed impaziente in prossimità della sua poltrona al 221B di Baker Street, quel preciso giorno non troppo lontano.

Eppure si era trasferito. Eppure.. 

Sherlock lo guarda; può farlo adesso, nel presente, davvero. John è impegnato nel cullare dolcemente sua figlia, girovagando a vuoto nell’area del loro salotto, oramai pieno di giocattoli e biberon sparsi qua e là. A stento in lui riconosce ed individua quell’uomo che ha visto ridere in maniera sprezzante, di rimando alla sua proposta di convivenza. Quello stesso uomo che, dopo interi minuti passati a produrre un’assurda quanto isterica risata, si era zittito improvvisamente e lo aveva osservato con uno sguardo mortalmente serio.

«Non fumerai davvero più?» aveva mormorato ed i suoi occhi erano lucidi, le sopracciglia un po' aggrottate: sembrava in procinto di piangere e Sherlock avrebbe voluto abbracciarlo, ma non sapeva se gli era permesso farlo.

«Non fumerò più» si era quindi limitato a dire, sorreggendo lo sguardo di John in maniera intensa.

«Giuralo, Sherlock» lo aveva incalzato e, ancor prima che la pronunziazione fosse terminata, un forte assenso da parte del diretto interessato era immediatamente arrivato  in risposta.

«Lo giuro» gli aveva detto, ma non bastava. «Lo giuro» aveva ripetuto.

John aveva sospirato. John si era passato di nuovo una mano fra i capelli perfettamente pettinati, accavallando due o tre volte di seguito le gambe. Aveva poi scrocchiato tutte le ossa delle falangi ed aveva contratto in automatico la mascella, umettandosi le labbra visibilmente secche.

«Va bene» aveva infine sillabato. Semplicemente un “va bene”.

 

Difficile, davvero difficile, il comprendere John Watson. Sherlock ci prova; lo fissa, lo analizza, lo studia. Lo osserva mentre addormenta sua figlia, tenendola delicatamente poggiata sul proprio petto: un piccolo fagotto di appena cinque mesi, avvolto da una leggera coperta rosa tenue. Lo guarda, sì, lo guarda sempre: ma la verità è che non capisce.

Quel che conta è che John sia qui; ecco quel che ripete a se stesso oramai da quattro settimane e dieci giorni. Anche se il cuore gli fa male, gli fa male ogni dì, seppur ad ore diverse; ma da quel dolorino pungente non può scappare. È proprio in prossimità del petto, quell’area sfigurata dal buco; il buco provocato dal proiettile che Mary gli ha sparato addosso: una cancrena oramai più estesa, che sembra avergli infettato gli organi interni; a volte crede che anche il suo cervello ne sia uscito inevitabilmente compromesso. La realtà dei fatti è che ultimamente Sherlock Holmes si è riscoperto debole: non di un’effimera debolezza fisica, ma piuttosto debole d’animo. Debole di cuore.

“Potrei avere un infarto”, è quel che vorrebbe dire a John Watson, tuttora intento nel coccolare la piccola. Un John che lentamente ondeggia dandogli le spalle in pochi metri quadrati, intonando una cantilena deprimente; perché le canzoni per neonati devono essere sempre così dannatamente tristi?, vorrebbe aggiungere, mentre il suo organo cardiaco pulsa in maniera frenetica. La cassa toracica sembra realmente espandersi, mentre il suo respiro si mozza. Se ne sta appollaiato sulla sedia, intirizzito e fermo, ed intanto John continua a cantare.

 

“Arise, arise, arise and tell to me

What thou has done with the babe I saw and heard weep by thee?

I put him in a tiny boat and cast him out to sea

That he might sink or swim, but he’d never come back to me..”

 

Le parole raggiungono i suoi orecchi quasi sottoforma di sussurri lontani e per un attimo, soltanto per un solo singolo attimo, Sherlock chiude gli occhi e si lascia trasportare dalla litania. Abbassa le palpebre  ed il dolore improvvisamente scompare; ogni cosa sparisce, trasportata via dalla rassicurante voce di John. Inizia quindi a dondolarsi impercettibilmente, seguendo il ritmo della ballata, ed è calore reale e tangibile quello che pian piano comincia ad irradiarsi nel suo petto, mentre una solitaria lacrima percuote la sua guancia sinistra. Una lacrima che invece è fredda, gelata, e che sembra scivolare dal dotto lacrimale a rallentatore, sradicando ancor più profondamente il pungente dolore. Ma la voce si arresta, all’improvviso e malamente, e Sherlock non vuole, davvero, ma è costretto ad aprire gli occhi.

John lo fissa. I suoi bulbi oculari spalancati e sorpresi lo scrutano inerti; nessun battito di ciglia, perlomeno non nel lasso di venti secondi circa. Il volto della bambina, adesso completamente esposto, è sereno e rilassato: Rosie apprezza le ballate deprimenti, è ovvio. Sennò il suo papà non le intonerebbe così frequentemente.

Il tempo si dilata, durante quest’istante: è come se ogni cosa si pietrificasse, stabilizzandosi in un’immobilità innaturale e quasi mistica; li riesce quasi a scorgere, i milioni di granelli di polvere sospesi nell’aria del loro salotto. E lo spera, lo spera vivamente: fa’ che anche John sia immobile; prega scioccamente una sua personale divinità del destino immaginaria del momento. Fa’ che non mi abbia visto.

Ma John sbatte le palpebre e questo attimo eterno e perfetto può forse dirsi finito. Anzi, semplicemente lo è.

«Sherlock..» John esita fiocamente. È spiazzato, sbigottito, incredulo. Decine di sensazioni trapassano il suo volto e Sherlock, in questo preciso momento, si sente leggermente sollevato: talvolta riesce ancora a capirlo, in fondo. Saltuariamente può considerarsi ancora quel Dio della deduzione che in passato il dottore tanto idolatrava, tutto sommato.

Vede John stringere la bambina un po' più intensamente; le ossa delle mani scricchiolano e Rosie mugola un versetto contrariato. Gli occhi di suo padre tornano quindi in un attimo a posarsi su di lei: un misto di preoccupazione e di timore si manifesta immediatamente sul volto di John; tale status si quieta subito dopo aver constatato l’espressione serena ancora caratterizzante il visino addormentato della piccola. Il dottore rilassa la presa, comunque, un istante prima di posare il corpicino a giacere nel box posizionato in prossimità della parete destra della stanza.  

«Sherlock..» è un altro mormorio inconsistente; un’invocazione che Sherlock vorrebbe poter smettere di udire. No, non ha voglia di ascoltare; non ha proprio alcun senso l’ostinarsi nel ripetere il suo nome come se volesse dire chissà cosa.

“Perché piangi?” ecco quel che John Watson dovrebbe invece chiedergli, spingendolo ad alzarsi dalla sua scomoda seduta ed asciugandogli la guancia con l’ausilio dei polpastrelli.

“Non devi piangere” dovrebbe poi continuare, senza aspettarsi alcun tipo di risposta al primo quesito. Sherlock apprezzerebbe il suo sguardo, in quel determinato momento: due occhi sicuramente carichi di dolcezza, quella stessa tenerezza che ogni giorno John riserva a sua figlia; e potrebbe sicuramente anche avvertirla nel suo tocco, in quelle mani che hanno curato le sue ferite fisiche e morali infinite volte, donandogli un senso di protezione mai sperimentato anteriormente. In fondo c’era sempre e solo stato il niente, prima di John Watson.

“Non c’è nessun motivo per il quale piangere, Sherlock” dovrebbe sillabare ancora e ancora, il suo John. Fregandosene del suo silenzio, intrappolandogli il volto tra le mani e guardandolo dritto negli occhi. Senza esitazioni, privo di tentennamenti, con il suo sguardo caldo e con la sua pelle perennemente bollente. I suoi capelli profumati, la barba un po' ispida: John dovrebbe baciarlo, infine ed infatti. Un bacio tenero, niente di troppo passionale; in tutto ciò non ci sarebbe fretta, né alcun tipo di urgenza.

Non ci sarebbero fantasmi intenti nell’alitare sui loro colli, all’interno del loro salotto: presenze evanescenti, ma tuttavia tangibili; eppure tempo fa, un tempo che oramai pare passato remoto, Sherlock apprezzava i fantasmi. Non aveva paura di loro poiché li capiva; se li capisci, pensava fermamente, poi trovano la pace. Anche io l’avevo trovata, riflette di sfuggita nel presente reale. Ma alla fine l’ho persa.

Sono un fantasma, lo crede, lo sente. Lo avverte osservando John che rimane saldamente ancorato al box di Rosie, incapace di accennare anche solo un singolo passo verso di lui. Lo capisce da quella sua mano destra stringente la maniglia esterna del recinto per bambini; le dita si contraggono ritmicamente e lo scricchiolio delle ossa pervade tutto l’ambiente. Dio, quant’è irritante. Quanto fa male.

Sherlock, banalmente, se ne rende  conto riflettendo su tutte le azioni che John dovrebbe compiere ma che invece, purtroppo, non fa. Il dottore rimane immobile, orribilmente pietrificato; ed anche se prima desiderava la sua staticità, adesso tale visione è soltanto in grado di far ripartire il sordo dolore in prossimità del suo cuore.

«Sherlock..» ripete ancora mentre lo occhieggia da lontano. Sempre così lontano.

È solo il silenzio, poi, quel che lo accompagna nel suo alzarsi dalla sedia velocemente, ricomponendosi appena la vestaglia ormai sgualcita. Soltanto silenzio, sì, ed il ticchettare delle ossa dell’uomo che dovrebbe abbracciarlo, che dovrebbe baciarlo, che dovrebbe amarlo. Sherlock gli dà le spalle, adesso, e riflette ancora su tutto ciò: su quel che John Watson dovrebbe fare. Su quel che John dovrebbe dire.

«Sherlock.»

Ma John, semplicemente, non fa niente. Neanche quando codardamente  fugge all’interno della sua camera, chiudendosi con slancio e forza voluta l’uscio alle spalle. John non dice niente, già; non può farlo.

Non può proprio fare niente, pensa, lasciandosi malamente cadere sul letto. Sospira, poi, mentre sente le fitte nel petto che si acuiscono pian piano. Vorrebbe sinceramente fumare, ma non lo farà: ha giurato. Ha giurato a John, ha giurato per John.

Ma seppur John sia in quella casa, con sua figlia. Con i giochi sparsi sul divano, decine di libri poggiati come al solito sulla scrivania. I tremendi maglioni ordinati perfettamente nell’armadio e quell’enorme aggeggio per sterilizzare i biberon sempre posto in prossimità del lavello. La foto di Mary sul comodino e la dispensa sempre ben rifornita. Con il profumo del suo dopobarba aleggiante nell’aria e le sue ossa scricchiolanti.

Seppur tutto questo; a malincuore e con estremo dolore, forse il dolore più grande di tutta la sua intera esistenza, Sherlock lo pensa: la verità è che John non c’è.

John non c’è, perché tuttora non mi ha perdonato.

Forse.. forse non lo farà mai.

 

***

 

È notte ed una mano accarezza la guancia di Sherlock con lentezza. Lì per lì non gli interessa affatto capire se è la realtà, o se magari tale sensazione derivi da un sogno particolarmente vivido tipico del perenne status di dormiveglia che recentemente caratterizza sempre le sue nottate: la percezione comunque è piacevole, così piacevole, troppo piacevole. Non vuole che finisca. Non deve finire.

È un tocco particolarmente delicato: due dita gli si poggiano sulla tempia destra e si soffermano su tale area, per poi scivolare a rilento sul suo zigomo; polpastrelli singolarmente caldi e ruvidi, che seguono la linea della sua mascella in maniera precisa e si vanno infine a posare sul mento. Esitano per un attimo in prossimità delle sue labbra, ma non osano. Riprendono il loro percorso dalla tempia, poi, in una ripetizione di gesti che va avanti da almeno dieci minuti. Magari mezzora. Due ore, forse.

Non lo sa. Sa che non vuole aprire gli occhi, in compenso, ma sa anche che molto probabilmente è necessario farlo. Il respiro accelera, mentre la sua mente formula tale pensiero.

«Non li aprire» è un ordine secco, perentorio, ma a suo modo dolce. John Watson è quindi disteso nel letto accanto a lui, occupato nell’accarezzargli il volto, ma ben attento nel mantenere tutto il resto del suo fisico a debita distanza; a stento Sherlock riesce a percepire il suo calore corporeo e fallisce miseramente nel dedurre se egli sia posizionato sotto le coperte o sopra il lenzuolo. Il contatto si limita a quelle due dita; indice e medio, suppone. Comunque non alza le palpebre, piacevolmente colpito anche solo da ciò.

Non parla. In realtà non sa che dire; non sa proprio cosa sillabare, in risposta a John ed a quei polpastrelli ora impegnati nel levigare la sua fronte. Il buio, nella sua mente, regna sovrano e l’unica reazione fisiologica percepibile è quella del suo respiro che accelera nel momento in cui John inizia a sfiorargli il naso; le dita passano poi sul pomo d’adamo e lo schema di tocchi finora adottato si può dichiarare ufficialmente concluso. John gli tasta delicatamente la carotide, in seguito, soffermandosi nell’area per almeno un minuto; il silenzio è spezzato soltanto da profondi respiri e dalla moltitudine di domande che gli iniziano a vorticare nel cervello: sarà totalmente disteso oppure parzialmente seduto? Indosserà il pigiama o magari soltanto i boxer? Vorrà uccidermi o..

«Il tuo battito è davvero accelerato.»

.. baciarmi?

Che constatazione ovvia, John; potrebbe tranquillamente dirgli. Ma non lo fa, anche se sarebbe il solito, anche se così sarebbe Sherlock, quello Sherlock che John ha conosciuto, con il quale ha convissuto, con cui ha litigato, condiviso avventure, guai e drammi. Quello Sherlock del quale spesso si è preso cura, per il quale ha preparato ogni qualvolta colazione, pranzo e cena; lo Sherlock che John ha sgridato, odiato e picchiato a sangue. Uno Sherlock che, almeno in parte, in realtà non esiste più.

«Sei cambiato» è il sussurro di John, questa volta più vicino; sente il suo fiato tiepido in maniera estrema, proprio in prossimità del suo orecchio destro. È come un sibilo bollente che dal suo canale uditorio inizia un percorso all’interno del corpo intero; scorre lentamente attraverso le sue vene, si mischia al suo stesso sangue ed infetta ogni cosa con quel piacevole calore caratterizzante. Infine arriva al cuore ed il colpo che assesta è forte, violento ed inatteso. Sherlock geme appena, soffocando un singulto in gola con forte determinazione. John, in risposta, rimuove le dita dal collo ed in un attimo arriva a poggiarle sul suo occhio destro; gli tocca delicatamente la palpebra ancora abbassata: una leggerezza particolare, quasi come se egli stesse avendo a che fare con un qualcosa di davvero fragile.

È strano. John Watson gli accarezza la palpebra e Sherlock Holmes si sente il cuore in procinto di scoppiare; ma non di dolore, né di tristezza. Semplicemente di gioia.

«Ti devo chiedere scusa, Sherlock» continua a parlare, John, ed il suo corpo è ancora distante, ma la consistenza dei suoi polpastrelli ruvidi è sempre più nitida ed adesso riesce ad avvertire anche il suo odore: John sa prettamente di Rosie, questo è certo; dell’ammorbidente biologico che usa per lavare a secco le sue tutine, in primis. C’è anche un sentore di borotalco, quella polvere densa e bianca con cui sempre la ricopre dopo ogni bagnetto.

«Scusa» sospira, o forse respira soltanto un po' più pesantemente. La mascella scricchiola e i denti strusciano; ma le dita no, non provocano alcun rumore. «Scusami.»

Vorrebbe dire qualcosa, Sherlock; vorrebbe sinceramente urlare a John che non ha alcun motivo per il quale chiedere scusa. “Perdona me!”, vorrebbe invece esclamare; rizzarsi, mettersi in ginocchio ed invocare richieste d’amnistia in prossimità dei suoi piedi scalzi. Baciarli pure, magari.

Ma John continua ad accarezzarlo; adesso gli tocca i capelli, finalmente con l’ausilio dell’intera mano: i movimenti sono circolari, mentre gli occhi di Sherlock si mantengono volontariamente chiusi. Uno stato di elevato assopimento gli invade la mente nel medesimo istante in cui avverte il viso del dottore improvvisamente più vicino; il suo fiato sul collo e l’arto ancora impegnato nello smuovere i capelli con il sicuro fine di esporre ulteriore cute. Le labbra di John si posano sulla sua mascella; e lo sente, lo sente davvero, il suo cuore che batte all’impazzata.

«Sherlock, io..» è il basso mormorio di John contro le sue labbra pietrificate; labbra in realtà già dischiuse: una bocca immobile che però brama, brama e ancora brama. Non sa che cosa; forse un tocco, magari soltanto una parola. Una grazia. Una salvezza. «Io ti..»

Un rumore metallico ed artefatto percuote all’improvviso l’aria, espandendosi nello spazio e rimbombando su ogni parete: il pianto di Rosie, inizialmente accennato, aumenta di volume e d’intensità nel lasso di attimi ed accompagna il distacco graduale ma inevitabile di John.

«Devo andare» lo sente dire con tono titubante mentre avverte distintamente il suo innalzamento dal letto; Sherlock ha ancora gli occhi chiusi, ma non fatica nell’immaginarselo al di là delle sue palpebre abbassate: lo osserva quindi mentre armeggia in prossimità del comodino alla ricerca dell’interfono; poi si allontana ed infine esita sull'uscio, quasi come se fosse avvolto da un tepore estraniante che Sherlock stesso avverte in maniera tangibile. Un urletto più acuto della bimba lo risveglia però da tale status, spingendolo a varcare velocemente la soglia della porta e socchiudendosela gentilmente alle proprie spalle.

Solo a questo punto Sherlock Holmes riapre gli occhi.

La stanza è incredibilmente buia, ma non si sforza affatto nell’abituare lo sguardo a tale oscurità; non gli interessa, non ha importanza. Acuisce soltanto l’udito, concentrandosi sul pianto oramai lontano della bambina. Sorride, poi, nell’ascolto quasi impercettibile dei dolci sussurri di John.

 

“Arise, arise, arise and tell to me

What thou has done with the babe I saw and heard weep by thee?

I put him in a tiny boat and cast him out to sea

That he might sink or swim, but he’d never come back to me..”(1)

 

Egli intona ancora, ripetutamente; ed è davvero una mesta melodia, troppo triste ed afflitta per essere razionalmente funzionale nell’addormentare i bambini. Ma allo stesso tempo, Dio, è così bella.

Richiude inconsapevolmente gli occhi, mentre la voce di John continua a bisbigliare la canzone, strofa dopo strofa. Sherlock avverte il proprio respiro farsi regolare ed i suoi muscoli rilassarsi in maniera inesorabile; si sforza, ci prova, ma il suo intento di non lasciarsi di nuovo ipnotizzare da tale ascolto fallisce miseramente. Si addormenta, quindi.

Si addormenta cullato dalla triste ballata di John Watson.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

 

(1) “Ballad of Mary Hamilton”, Joan Baez.

 

Salve a tutti, eccomi di nuovo qua! Dopo la mia personale “Saga della Gelosia”, vi presento la seconda parte della “Saga della Tristezza”. Come avrà capito chiunque abbia letto un po’ dei miei lavori su Sherlock, io scrivo principalmente a periodi: ho avuto un gran bel momento porn (che in realtà mi manca alquanto e che spero sinceramente di rispolverare dai meandri della mia mente perversa!:P), sono intercorsa nel cambio di genere che mi ha dato grandi gioie creative, ho sfogato la mia follia con scritti deliranti ed adesso sono completamente sprofondata in quella landa desolata che è l’introspezione tristissima post S4. Dopo la OS incentrata su John e senza la presenza di Rosie, ho deciso subito di voler scrivere la controparte di Sherlock, ma in realtà anche quest’ultima mi è scivolata quasi completamente su John: come mai il dottor Watson ultimamente mi sta facendo quest’effetto? Suppongo perché il fascino del tormento e delle complicazioni ha sempre quel qualcosa che stimola le mie meningi, ammaliandomi completamente. E la domanda che mi sorge spontanea in testa praticamente di continuo è sempre la solita: com’è possibile che John non si sia accorto del cambiamento che Sherlock ha attuato su se stesso? Come può disprezzarlo così profondamente, senza comprenderlo affatto? Ecco, tali pensieri hanno solleticato la mia creatività ed hanno dato vita propria alle mie due ultime OS. Che poi, ad essere sincera, mal sopporto tutto ciò: preferirei scrivere cosucce un po’ più allegre e narrative; ma all’ispirazione non si comanda, non c’è via di fuga. Comunque spero che la storia vi possa esser piaciuta, nonostante tutto, e che nel finale abbiate colto quel lieto fine che concretamente non c’è. Ma nella mia testa esiste, ve lo giuro.

Grazie, davvero, e se vi fa piacere lasciarmi un commento per esprimere ciò che pensate a riguardo sappiate che è più che ben accetto! Anche delle infamate per la troppa depressione che sta dilagando in questi miei scritti. :)

Un saluto a chiunque abbia letto,

 

AintAfraidToDie

 

  
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