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Autore: Generale Capo di Urano    24/02/2018    1 recensioni
★ Iniziativa: Questa storia partecipa al “Rainy Time” a cura di Fanwriter.it! ★
Gli occhi di Ekaterina erano gonfi, non riusciva più a distinguerne la figura e forse era un bene – si sentiva tremare, e non era il freddo, non erano le gocce impietose che le colpivano le braccia carnose e pallide.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Nyotalia, Turchia/Sadiq Adnan, Ucraina
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Iniziativa: Questa storia partecipa al “Rainy Time” a cura di Fanwriter.it!
Numero Parole: 861 (circa)
Prompt/Traccia: Lacrime che si confondono con la pioggia


NDA
Sinceramente, non lo so. Doveva essere solo una storia su due personaggi che amo e con una coppia su cui desideravo tanto scrivere - all'inizio, doveva anche essere più lunga, con una trama un po' più consistente. L'iniziativa mi ha spronato a scrivere, ma la mia mente ha voluto aggiungere qualcosa in più e, francamente, ho quasi paura a pubblicare - paura di non aver dovuto trattare un certo tema, di essere irrispettosa. Eppure, non mi sembra sbagliato.
Credo che a un certo punto sia semplicemente venuta fuori la donna socialmente incazzata che è in me. 



kadın (turco): donna
nichego ne proizoshlo (russo): non è successo nulla

 
 

Kadın

 

Si era alzato un urlo di donna, nel vicolo gremito di gente, non appena il capannello accucciato in un angolo si era fatto leggermente da parte per rivelare l’oggetto delle proprie attenzioni – un urlo acuto e straziante, che rivelava qualcosa di più dell’orrore suscitato da una visione raccapricciante e improvvisa, un urlo disperato e sconvolto capace di far stringere il cuore a chiunque potesse udirlo. Altre persone erano accalcate poco lontano, con gli occhi curiosi e gli ombrelli colorati che si scontravano tra loro, chiedendosi l’un l’altro cosa fosse accaduto; un uomo, un gigante bianco e massiccio alto più di un metro e ottanta, aveva gettato il proprio e si era fatto largo tra la folla per raggiungere e trattenere la sorella che strillava ancora come una dannata e allungava le braccia verso il corpo irriconoscibile abbandonato a terra in mezzo al crocchio di sconosciuti sconvolti e preoccupati.

«Katjusha! Katjusha, nichego ne proizoshlo! Katjusha!»

Cercò di coprirle gli occhi, quella si divincolò, gridò un nome, in qualche modo riuscì a liberarsi dalla stretta delle sue braccia e a crollare accanto alla figura buttata in un angolo e lì rimasta – nessuno aveva osato spostarla, nemmeno toccarla, anche solo guardarla costava ribrezzo e paura. La donna accarezzò quello che doveva essere stato un volto, mani scure gelide e inermi, pianse e le proprie lacrime bollenti si confusero con le gelide gocce di pioggia che le bagnavano il volto e le inzuppavano il vestitino corto e leggero, da festa, forse persino nuovo.

Le sue dita strinsero l’unico pezzo di stoffa che le permetteva di ritrovare nel cadavere fermo a terra la persona che amava – una macchia viva che contrastava con il colore carminio del sangue rappreso che ricopriva il corpicino, lo hijab rosso e strappato che ancora nascondeva un poco le morbide ciocche scure, anch’esso impregnato di pioggia e sangue; baciò il suo volto che un tempo doveva essere bellissimo, colpito e rovinato da una violenza anonima, la chiamò prima urlando e poi sussurrando, nessuno osò accostarsi a lei. Neppure Ivan tentò di nuovo di allontanarla, distolse lo sguardo e si limitò a minacciare con una semplice occhiata i curiosi che tentavano di avvicinarsi.

Ayse Adnan aveva venticinque anni, amava il calcio e la libertà e, Inshallah, sarebbe diventata un ottimo medico di lì pochi anni.

 

Le sue labbra avevano il sapore della cannella e del chiodo di garofano, la sua pelle era sempre calda e profumava di casa. Le piaceva la compagnia, il chiacchiericcio della gente in piazza e l’odore dell’incenso, non sopportava i gatti.

Adorava ridere e strizzarle per scherzo le maniglie dell’amore. Le diceva che era bella.

Era forte quando la vedeva piangere e sapeva essere fragile e delicata come un tulipano. Amava Dio. Era splendida come il sole e libera come l’aria.

 

Gli occhi di Ekaterina erano gonfi, non riusciva più a distinguerne la figura e forse era un bene – si sentiva tremare, e non era il freddo, non erano le gocce impietose che le colpivano le braccia carnose e pallide. Qualcuno portò un ombrello a coprirle entrambe: era una ragazza, non la conosceva, teneva gli occhi abbassati. Non riuscì neppure a ringraziarla con lo sguardo, tanto le lacrime le offuscavano la vista, singhiozzò per non urlare nuovamente.

Udì i sussurri delle persone, non li capì, non le importò. Avvolse con le braccia quei fianchi esili e riuscì a portare il suo capo al seno, dove amava stare, accarezzò debolmente quella schiena che non poteva più avvertire il suo tocco, baciò quella fronte gelida come il marmo; le sistemò lo hijab, le strinse una mano, le sue labbra tremarono. Qualcuno la sfiorò, con timoroso riguardo, tentò di coprirla e farla alzare.

«Signorina, noi dovremmo…»

Gridò, pianse e si gettò su di lei, come per impedire loro di portargliela via.

 

«Non permettere mai più che ti chiamino così. Non permettere mai più che ti mettano le mani addosso. Non permettere mai più che ti dicano cosa dovresti essere. Se vivi in un mondo di gente stupida non è mica colpa tua…»

«Vorresti dirmi che non hai mai pensato, mai, neanche per un secondo, che io fossi una troia?»

«Se fare quello che ti piace fare significa essere troia allora, cavolo, siamo tutte delle zoccole patentate. Adesso rimetti quella gonna e andiamo a ballare… e aiutami con il mascara, che ancora non ho imparato.»

 

Aveva una risata sguaiata che gli altri definivano fastidiosa, ma l’avrebbe ascoltata per ore. Era una principessa ed era il soldato che Katjusha aspettava, ogni giorno, tra i meli e i peri in fiore – sulla ripida sponda del fiume.

 

Qualcuno disse di aver visto un uomo armato dal volto pallido correre in una strada vicina; qualcun altro parlò di un ragazzo dal volto e l’accento straniero, qualcuno accusava e qualcuno scuoteva le spalle.

 

Non si seppe mai se la sua colpa fossero i suoi tratti orientali o la sua intelligenza, se fosse la sua forza, se fosse perché portava il velo, perché amava la libertà o perché amava una donna.

Ayse Adnan aveva venticinque anni e non le piaceva la pioggia; amava il buon cibo e i vestiti variopinti e non sarebbe mai potuta diventare un medico.


 

   
 
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