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Autore: Nina Ninetta    25/02/2018    2 recensioni
Yumiko ed Eri, due donne, una trentenne e una quindicenne, una madre e una figlia, catapultate dall’altra parte del Mondo, costrette a ricominciare tutto d’accapo, a confrontarsi con una cultura completamente diversa, lontane anni luce dal loro Paese d’origine: il Giappone. Ma Yumiko quel nuovo Paese lo conosce già in un certo senso, ha imparato a conoscerlo attraverso i racconti del padre di Eri.
N.B. Il titolo è tratto dalla canzone di Malika Ayane “E se poi” così come i titoli di ogni capitolo saranno presi da frasi del medesimo testo.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 14

Amore amore amore, è quello che so dire, ma tu mi capirai


 
Quella mattina non fu la sveglia a destare dal mondo dei sogni la piccola Eri, bensì il suo cellulare che le annunciava di aver ricevuto un nuovo messaggio. La ragazzina cercò a tentoni il telefonino sopra il comò alla sua sinistra, lo trovò e per poco non lo fece cadere urtandolo con il polso. Lo afferrò in tempo, dicendosi che doveva smetterla di poggiarlo così vicino all’orlo o presto sarebbe stata costretta a chiederne uno nuovo a sua madre. Con la vista ancora appannata dal sonno vide che il mittente del messaggio era Kingsley Rodriguez e come d’incanto fu perfettamente vigile e sveglia. Il suo fidanzato – le faceva ancora uno strano effetto riferirsi a lui con quell’appellativo, ma non riusciva a dargliene uno diverso, infondo che male c’era? Era stato il ragazzo stesso a prendere quella decisione, si appartenevano, le aveva detto, io sono tuo e tu sei mia, aveva affermato fra un bacio e l’altro. Il ragazzo aveva scritto pochi caratteri in cui si raccomandava di aspettarlo davanti ai cancelli di scuola e di non portare troppi libri nello zaino. Concludeva il messaggio con TI AMO scritto in maiuscolo. Neanche a quello la ragazza giapponese si era ancora abituata, ma non aveva avuto il coraggio di farglielo presente, un po’ perché temeva che lui smettesse di dirglielo/scriverglielo; un po’ perché avrebbe potuto fraintendere le sue parole e pensare che non ricambiava i sentimenti; un po’ perché in fondo in quegli istanti le batteva sempre forte il cuore. Lo tranquillizzò rispondendogli che l’avrebbe trovata al luogo indicato, quindi consultò l’orario rendendosi conto che la sveglia avrebbe suonato solo dopo un quarto d’ora, minuto più minuto meno. Si  trascinò in cucina ove notò sua madre Yumiko addormentata profondamente sul divano. Le scostò una ciocca di capelli dal viso, accorgendosi che non si era lavata via il trucco, e le acconciò meglio la coperta sulle spalle. Nonostante le temperature si fossero addolcite parecchio in quegli ultimi giorni, era un gesto che le veniva spontaneo e lo eseguì in maniera meccanica.
Preparandosi la colazione – lette con orzo e biscotti di soia – Eri pensò che quel lavoro fosse troppo pesante per sua mamma, che se avesse deciso di cambiarlo lei avrebbe appoggiato la decisione. Inevitabilmente si ricordò dell’incontro con Oscar e di come Yumiko le avesse dato risposte vaghe o addirittura nulle. Si versò il latte nella tazza, vi aggiunse un paio di cucchiaini d’orzo e si sedette al tavolo, in sottofondo il respiro regolare di sua madre. Kingsley le aveva raccontato della scena a cui aveva assistito in casa propria fra il suo papà adottivo e l’amico di Ricardo, Oscar. Per ore non era riuscita a dimenticare l’espressione sul volto del ragazzo francese e si era ritrovata ad odiare quell’uomo anche se non l’aveva mai conosciuto personalmente. Quando Rodriguez parlava di suo padre si irrigidiva e le sembrava di star seduta vicino ad un’altra persona, diversa da quella che la carezzava e la faceva sentire in una specie di favola. Una volta Eri aveva sbottato con un:
«Che gran figlio di mignotta!» E se ne era pentita immediatamente, notando lo sguardo incredulo di Kingsley. Si era scusata, imbarazzata e mortificata, ma lui scoppiato in una risata fragorosa, abbracciandola e posandole un bacio sul capo.
Kingsley Rodriguez soffriva l’influenza del padre come la neve con il sole, allora un giorno la piccola asiatica aveva provato a suggerirgli di usare la storia dell’amante come contropartita o quanto meno per difendersi dalle continue prepotenze dell’uomo. Il ragazzo aveva spiegato che non temeva tanto il fatto di affrontarlo o le minacce di mandarlo a lavorare in fabbrica, né tantomeno quella di rispedirlo a calci nella fogna da cui l’aveva pescato, bensì lo spaventava il pensiero di allontanarsi da lei.
Immersa in quei pensieri che ballonzolavano da un estremo all’altro della mente, come una pallina di ping-pong, Eri non si rese conto del tempo trascorso: stava ancora mescolando il latte e i biscotti erano rimasti intatti nel piattino, di quel passo rischiava di perdere il bus mandando all’aria i piani di Kingsley. Affrettò tutte le operazioni successive e praticamente saltò sul veicolo pubblico appena prima che l’autista chiudesse le porte. Fece l’intero viaggio con il cuore a mille, non più per la corsa, ma per l’ansia di scoprire cosa aveva in programma il compagno di classe. Eri lo attese trepidante, mangiucchiandosi le unghie, nessuno badava a lei davanti ai cancelli dell’istituto, però si sentiva come una persona in difetto, una ladruncola la cui reale identità poteva essere scoperta da un momento all’altro. Per fortuna, prima che ciò accadesse, Kingsley si materializzò davanti a lei, quasi dal nulla, la baciò velocemente sulle labbra, poi la prese per mano e la trascinò con sé. Le domande di Eri risultarono vane, l’unica risposta che ricevette dal ragazzo fu un semplice:
«Seguimi.»
«Come se avessi un’altra scelta.» Ironizzò distrattamente la ragazza.
Rodriguez fermò la loro corsa svoltando l’angolo, all’incirca dove Yumiko attendeva Eri all’uscita di scuola e dove la lasciava quando l’accompagnava ai corsi, un fatto che negli ultimi giorni accadeva sempre più di rado. Al posto della Toyota Yaris però c’era uno scooter, il francese estrasse un telecomando dalla tasca dei jeans e disattivò l’antifurto, le frecce del veicolo si illuminarono ad intermittenza, poi lui vi montò sopra e inserì le chiavi per metterlo in moto. Eri corrugò la fronte, elencando tutti i motivi per cui sarebbero dovuti essere a scuola. Kingsley la interruppe dicendole di salire a bordo e convincendo la ragazza con la promessa di avere qualcosa da mostrarle, una specie di regalo.
 
Kingsley Rodriguez guidò fino a casa propria, godendosi la dolce sensazione del corpo di Eri premuto contro la schiena. Non entrò nella tenuta del ministro spagnolo dall’ingresso principale, ma girando intorno al muretto di cinta e nascondendo lo scooter in un cespuglio decisamente troppo folto. Di nuovo prese Eri per mano e la tranquillizzò quando questa gli chiese spiegazioni, quindi entrarono nella proprietà attraverso un’apertura nella recinzione. La giapponese stava per chiedergli se per caso non fosse stato lui stesso l’autore di quell’escamotage da rapinatore, ma il ragazzo la zittì con un cenno. Accovacciati fra gli alberi da frutto, Rodriguez studiò la zona circostante e, accertatosi che la via fosse libera, corse fino a raggiungere la parete esterna della casa, sempre tenendo Eri per mano. Le disse di aspettare lì, di non muoversi almeno che non scorgesse qualcuno arrivare da lontano, a quel punto sarebbe dovuta tornare fra gli alberi e nascondersi come meglio poteva:
«Mi stai mettendo paura» e con queste parole Eri non voleva esagerare. Kingsley sorrise divertito, come di fronte ad una bambina spaventata da un tuono, le prese il viso fra le mani e le stampò un bacio a fior di labbra, ribadendo il concetto espresso pocanzi, poi si allontanò, muovendosi come un vero furfantello che sta per intrufolarsi in casa altrui.
Rodriguez si nascose appena in tempo o la governate l’avrebbe visto, quando questa si fu allontanata a sufficienza sgattaiolò in casa e corse su, facendo le scale a due, chiudendosi nella sua camera da letto con un lungo sospiro. La prima parte del suo piano era riuscita alla perfezione, ma non aveva tempo da perdere. Prelevò dall’armadio una vecchia coperta a quadri grande quanto un letto matrimoniale che aveva chiesto alla stessa Rosita il giorno precedente, ovviamente mentendo. Contro ogni sua aspettativa la donna gliel’aveva consegnata senza fare domande, anzi, addirittura scusandosi per le toppe cucite qua e là, ma era vecchia di anni. Kingsley l’aveva ringraziata, aggiungendo che era perfetta: gliene avrebbe fatta ricevere una nuova, a spese di suo padre s’intende.
Aprì la finestra e vide dall’alto la testolina nera di Eri, si muoveva avanti e indietro strizzandosi le mani e lanciando occhiate a destra e a manca. La chiamò con un fischio, ma lei non si voltò a guardarlo, provò ancora, finché la ragazza riuscì a capire da che parte provenisse il suono. Alzò lo sguardo, sempre più confusa, Rodriguez le mostrò la coperta e -senza darle il tempo materiale per comprendere cosa stava per fare - la lasciò cadere di sotto. Attese che Eri la raccogliesse da terra e lo guardasse nuovamente per farle segno di aspettare un altro istante. La raggiunse diversi minuti dopo e la trovò con quell’ammasso di lana scura fra le braccia, era dannatamente bella anche con i lunghi capelli corvini scompigliati e l’espressione accigliata. Ridacchiò e lei sembrò infastidita più che mai da quel suo fare misterioso, gli gettò la coperta addosso e lo additò, pronta a dirgliene di tutti i colori, però Kingsley glielo impedì con un lungo bacio, quindi le sussurrò di portare pazienza ancora un po’: mancava davvero poco al suo “regalo”. Arrotolò l’ingombrante coperta come meglio poteva e la guidò mano nella mano verso una costruzione in legno che Eri aveva già notato e che si rivelò essere ciò che aveva ipotizzato: una stalla.
 
Nei pressi di questa non c’era praticamente anima viva. Lui aprì le porte che si mossero con un cigolio sospetto, quindi entrarono nel fresco della struttura. Lì dentro c’era meno luce che fuori e inizialmente Eri vide ben poco, solo quando gli occhi si furono abituati alla penombra contò quattro scompartimenti per animali, all’apparenza vuoti. Si era fermata all’entrata, ancora non riusciva a vedere il nesso sorpresa/coperta di lana/scuderia. Il ragazzo le carezzò i capelli, dicendo che il suo regalo era a pochi passi ed Eri fu sul punto di controbattere di voler andare via, quando udì una specie di squittio.
«Che cos’è?» Chiese a lui che di nuovo la invitò a seguirlo e così fece. Si affacciarono nel secondo scompartimento a destra e quello che la ragazzina vide la commosse fino alle lacrime.
Un cucciolo di cavallo stava bevendo il latte dalla sua mamma e se all’inizio non li aveva notati era perché la femmina se ne stava comodamente sdraiata a leccare il pelo del figlio. Eri non aveva mai visto un cavallo da vicino e d’improvviso si ricordò dell’ultimo tema in classe, svolto solo la settimana precedente. La traccia chiedeva di scrivere di un desiderio provato da bambino ma che non si era mai avverato. Le lacrime si facevano sempre più insistenti.
«Ha solo un giorno.» disse Kingsley al suo fianco e non ricevendo risposta né alcun altro segno continuò. «Ho pensato che ti avrebbe fatto felice.» Si grattò il capo, si era immaginato un’altra reazione, più entusiasmante, più gioiosa e invece…
Eri l’abbracciò quasi piangendo, non credeva si potessero versare lacrime di gioia, ecco un’altra cosa che aveva visto accadere solo nei telefilm e che stava succedendo proprio a lei:
«Grazie, grazie, grazie!» A quella reazione il ragazzo si sentì sollevato, la sua sorpresa non era passata indifferente. «Posso accarezzarlo?»
«Ci proviamo» rispose lui che batté un paio di volte la mano contro la porticina in legno per attirare l’attenzione del cavallino. «Ehi, bello, vieni qui. Qui bello, qui» l’animale lo raggiunse incuriosito e muovendosi su zampe sottili e traballanti. «Deve ancora imparare a camminare bene.» Spiegò ad Eri. «Ecco qui bello, bravo. Bravo.» Il cucciolo di cavallo si lasciò carezzare il muso a lungo ed Eri pensò che fosse un vero peccato non poter raccontare a sua madre Yumiko di quell’esperienza senza precedenti.
Da fuori udirono il ronzio di un motore e le coccole al piccolino cessarono in un baleno. Il veicolo si fermò proprio davanti l’entrata della stalla, i due ragazzi potevano scorgerne l’ombra imponente. Senza pensarci due volte Kingsley afferrò Eri per un polso e la trascinò in fondo alla stalla, nascondendosi nell’ultimo scompartimento a sinistra, dove c’era un mucchietto di paglia. Qui si sdraiò con la ragazza al suo fianco e coprì entrambi con la coperta. Questa l’aveva presa per un’altra idea, ossia quella di passare la mattinata in riva al laghetto artificiale ai confini della sua stessa tenuta, a bearsi dei dolci raggi solari, invece ora si stava rivelando un’utilissima arma di difesa, ammesso che l’uomo sul trattore non li avesse scovati ugualmente. Si ricordò che la cavalla riceveva una doppia razione di fieno al mattino poiché doveva allattare, era stato davvero sciocco a non tenerlo in conto nel suo piano che fino a quel momento si era rivelato perfetto.
Con il fiato corto udirono il motore del veicolo farsi più stridulo quando il contadino entrò nella stalla lasciando le ante del portone spalancate, ascoltarono i suoi passi sul terreno fangoso e salutare i due cavalli chiamandoli “stronzetti” mentre dava loro il fieno, aveva una voce gutturale a causa delle tante sigarette. Eri si irritò, quasi fu sul punto di balzare allo scoperto come uno di quei giocattoli a molla chiusi nelle scatole, solo per dirgli che anche se sono animali sono molto più sensibili di tante persone e che lui e i suoi simili ne erano la prova vivente. Kingsley fu lesto a fermarla, tappandole la bocca con un palmo prima che potesse farli scoprire.
Non era la prima volta che stavano così vicini, nossignore, eppure il cuore di lui aveva un battito particolare, diverso, che aveva provato rare volte, quasi di paura. Eri si accorse del suo cambiamento, lo capì dallo sguardo e d’improvviso vide la situazione da un altro punto di vista. Erano sdraiati di fianco, ma da quando lui le aveva chiuso la bocca con la mano le era quasi addosso, la coperta lasciava filtrare ben poca luce dalla già poca illuminata stalla, e soprattutto erano del tutto soli. L’uomo era andato via, oramai il brusio del trattore si era ridotto ad un rimbombo lontano, gli unici testimoni erano mamma cavallo e il suo pargoletto, ma difficilmente sarebbero riusciti a confessare quello a cui avevano assistito. Con una lentezza esasperante Kingsley calò le labbra su quelle di Eri, entrambi abbassarono le palpebre solo un attimo primo del bacio, fissandosi negli occhi fino all’ultimo istante. Il tocco fra le bocche inizialmente fu lento, eppure persero la cognizione di ogni cosa – del luogo, del tempo, del pericolo – in un lampo. La ragazza si aggrappò ai capelli di lui, afferrandosi ai ricci scuri dietro la testa, spingendolo sempre più contro la propria bocca; Kingsley le aprì il giubbotto tirando giù la cerniera, poi le accarezzò la gamba fasciata dai fuseaux scuri, pian piano salì fino alla coscia, infilandosi al di sotto della maglia e questa volta Eri non lo fermò, troppo persa nelle sensazione che stava provando.
Successivamente, ripensando a quell’assurda giornata e a quello che era accaduto nella stalla, Eri non sarebbe riuscita a ricordare il momento esatto in cui avevano iniziato a liberarsi dei propri abiti. Una sola cosa le rimbombava nella testa, e cioè il momento in cui era rinsavita, ormai in biancheria intima, e gli aveva confessato con le guance infuocate che non era mai stata con nessuno:
«T-ti devo dire una cosa» aveva esordito cercando di tirare via le labbra di lui dalle proprie e arrestando l’escursione della sua mano sul suo corpo. «I-io non sono mai andata a letto con nessuno» si era fermata un attimo, Kingsley teneva la fronte contro quella di Eri, tutti e due boccheggiavano con il fiato corto. «Cioè, lo so che questo non è un letto, ma non sapevo come rendere l’idea…» Lui aveva abbozzato un sorriso e anche se non c’era troppa luce per vederlo, Eri lo aveva intuito comunque.
«Piccola Eri, anche per me è la prima volta e voglio che sia con te.»
Ecco le parole che avevano scacciato ogni dubbio, ogni timore, ogni vergogna dall’animo della giapponese. Peccato che una volta passata l’euforia e l’eccitazione fosse scoppiata a piangere come una bambina, senza riuscire a dare una spiegazione plausibile al ragazzo, al quale non era rimasto che tenerla fra le braccia, scusandosi all’infinito e rassicurandola sul fatto che era del tutto normale sentirsi così.
Eri fu sul punto di chiedergli perché lui non piangesse allora, perché fosse l’unica a vergognarsi per quello che aveva fatto e a credere di aver fatto una cosa schifosamente sbagliata. E, soprattutto, perché continuava a sentirsi in colpa nei confronti di sua mamma.
 

 

 
Yumiko si svegliò di soprassalto, con il cuore che andava a 100 chilometri all’ora. Una strana sensazione di paura le attanagliava la bocca dello stomaco e la gola. Proprio in quel momento Eri stava facendo l’amore con il suo fidanzatino Kingsley Rodriguez.
La donna si scostò la coperta di dosso e si guardò intorno spaesata, come se quello non fosse il suo appartamento. Gli eventi della nottata appena trascorsa l’assalirono senza un ordine cronologico preciso, accavallandosi e confondendosi. L’ultimo pensiero fu che il suo capo – o ex capo? Le dimissioni erano andate distrutte, ma lei aveva ancora intenzione di cercare un altro lavoro? – dormiva nella propria camera da letto.
Raggiunse il bagno e studiando la propria immagine allo specchio quasi urlò. Il mascara si era sciolto e ne aveva traccia fin sulle guance, il fondotinta era andato via a zone lasciandole macchie qua e la. Si lavò per bene, optando alla fine per una doccia veloce e indossando qualcosa di comodo, ma non troppo sciatto, in fondo lui era a due passi.
Ricardo Salas si svegliò con in sottofondo il dolce scrosciare dell’acqua. Il naso gli pulsava ed era come se qualcuno gli stesse stringendo la testa con una mano gigante. Pensò che innanzitutto avrebbe dovuto prendere qualcosa per l’emicrania e farsi una doccia. Si mise seduto, beandosi della frescura delle mattonelle del pavimento quando vi posò le piante dei piedi. Sorreggendosi il capo con un palmo notò i vestiti piegati sulla poltrona, le scarpe allineate una di fianco all’altra e poi quello che cercava: il borsone con i vestiti puliti.
La camera da letto di Yumiko e il bagno erano praticamente uno di fronte all’altro, i due ragazzi aprirono le porte in contemporanea, trovandosi faccia a faccia. Si fissarono per un po’ senza trovare le parole adatte per giustificare ciò che avevano vissuto ore addietro, poi iniziarono insieme il loro discorso sconnesso, parlando l’uno sull’altra, una, due, tre volte, fino a sorridersi per l’evidente imbarazzo che provavano entrambi. Ricardp la indicò con la mano:
«Prima tu.» Disse.
«Come ti senti?»
«Ho un forte mal di testa» rispose lui onesto, toccandosi nuovamente le tempie e socchiudendo gli occhi per un attimo, Yumiko ebbe il tempo di far scorrere lo sguardo sul corpo del ragazzo, il torso nudo che aveva spogliato lei stessa quando lo aveva messo a letto era abbronzato e percorso da diversi tatuaggi. Possibile che la sera prima non li avesse notati? Doveva essere stata davvero stanca. Ricardo riaprì gli occhi e lei riportò lo sguardo in alto, colta in flagrante.
«Potrei fare una doccia se non-»
«Certo, certo.» Yumiko non gli permise neanche di concludere la frase. Lui ringraziò con un cenno del capo e un sorriso, avanzò verso di lei che si scostò per lasciarlo passare, letteralmente schiacciandosi contro lo stipite della porta per non sfiorarlo. Per un attimo le sembrò che lui si fosse fermato, forse aspettandosi che alzasse la testa, ma Yumiko non lo fece e lui si chiuse in bagno.
La donna rimase con lo sguardo perso nel vuoto e il cuore che continuava a galoppare fino a quando udì l’acqua della doccia iniziare a cadere, solo allora si scosse temendo che Ricardo uscendo dalla toilette potesse trovarla lì davanti, come una specie di maniaca da film horror.
Si recò in cucina e mise a bollire dell’acqua, notando la tazza sporca di latte e orzo di sua figlia. Oramai sembrava essersi rassegnata a prendere i mezzi pubblici per andare a scuola, una cosa che Yumiko aveva aspettato da quando si erano stabilite in Spagna, eppure ora un pochino la dispiaceva. Non ricordava l’ultima volta che lei ed Eri avevano fatto quelle belle e lunghe chiacchierate che sempre avevano contraddistinto il loro rapporto, mettendo in risalto i pochi anni di differenza che le separava. Ecco uno dei motivi per cui avrebbe cercato un altro lavoro che non la impegnasse così a lungo.
La porta del bagno si aprì con un cigolio, lasciando fuoriuscire una nuvola di vapore e quasi immersa in questa, come una sorta di miraggio, la figura di Salas, con un asciugamano trattenuta da una mano all’altezza della vita. Le lanciò uno sguardo, ma Yumiko distolse immediatamente l’attenzione da quella visione da poema epico, mentre le sembrava di sentire quel vapore caldo bruciarle le guance.
Come diamine le era venuto in mente di portarlo a casa?
Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, se non si dava una calmata rischiava di fare la figura della scema e di passare per una ragazzina, proprio lei poi che aveva quattro anni in più ed era mamma. Già, era mamma. Ecco un’altra cosa di cui avrebbe dovuto discutere con lui. Per ora però l’unica cosa su cui si doveva concentrare era sforzarsi di apparire il più naturale possibile, sorridere come se non fremesse dalla voglia di sapere cosa ne sarebbe stato di loro – ammesso che ci fosse un “loro” – e non si sentisse imbarazzata come un’adolescente alle prime armi. Anche se in un certo senso era un po’ così. L’ultimo uomo che aveva baciato e che l’aveva toccata a quel modo era stato Joaquin Morales. Aveva sì avuto altri appuntamenti, ma non erano mai andati oltre una cena formale, un tè o una passeggiata al parco. Yumiko stava pensando a tutte quelle cose mentre sceglieva dalla dispensa il gusto della tisana da preparare e sistemava due tazze sul tavolo, biscotti, brioche, cereali. Sentì i passi di lui e lo accolse con un sorriso tremante stampato in faccia e due bustine di tè in mano:
«Yumiko» la chiamò.
«Preferisci tè verde o frutti di bosco?» L’ultima parola in realtà neanche riuscì a concluderla. Il tono di voce le si affievolì fino a scomparire del tutto, il suo superiore era ancora a torso nudo, i capelli scuri brillavano bagnati, i jeans senza cintura gli cadevano lasciando scoperto l’elastico grigio dei boxer. Di nuovo Yumiko si concentrò per non farsi distrarre dai tatoo che correvano lungo il braccio sinistro. Si chiese se avessero un significato.
«Yumiko» la chiamò ancora lui e lei sbatté le palpebre come cadendo dalle nuvole. «Mi sono svegliato senza maglia e senza cintura e ho trovato questo biglietto nella tasca dei jeans sporchi» glielo mostrò, si trattava del foglietto che aveva scritto in macchina “DORMO – BACIO – BELLO”. «Adesso non ricordo proprio tutto di questa notte, solo dimmi che hai approfittato di me…»
«Come approfittato? Oh no, no, no!» La ragazza fece un passo avanti, muovendo le mani, le bustine di tisana oscillarono come due pendoli.
«Che peccato.» Con tre ampi passi le fu addosso, afferrandole il viso e baciandone la bocca con veemenza. La donna orientale lasciò la presa sulle buste di tè che planarono sul pavimento come piume, lente e silenziose, mentre lei gli si aggrappava alle spalle nude. Provò una lieve fitta al livello dei reni finendo contro il ripiano in marmo della cucina.
«Scusa.» Sussurrò Ricardo a fior di labbra, senza smettere di baciarla.
«Perdonato.» Rispose Yumiko, intanto che il fischio del bollitore si faceva assordante,  cercò e trovò a tentoni il pomello del gas per spegnerlo, poi schiacciò entrambi i palmi sull’addome di lui prendendo a spingerlo ma senza allontanandolo da sé, bensì seguendolo passo dopo passo come in una specie di valzer all’indietro, fino a raggiungere la camera da letto, dove Ricardo Salas vi aveva passato la notte. Quest’ultimo chiuse la porta con un colpo di tacco e un attimo dopo era già sdraiato sul letto a ridosso della giapponese. Per un istante si guardarono negli occhi e capirono che se avessero indugiato ancora lei si sarebbe tirata indietro, dicendogli che non se la sentiva, che il fantasma e il ricordo del suo ex fidanzato deceduto libravano nell’aria. Ricardo prese a stuzzicarle le labbra, mordicchiandole e lambendole con la lingua, fino a quando Yumiko non ce la fece più e la sospinse fin dentro la propria bocca, mentre le mani di lui iniziavano a spogliarla degli abiti. Dal canto suo la ragazza tentò di slacciargli i bottoni dei jeans, ma le mani le tremavano come foglie, svestita si sentiva ancor più spaurita e perduta. Stava per dirgli che forse non era il caso, non era il momento giusto, che avrebbe fatto meglio a tornarsene a casa sua, quando sentì il calore del suo palmo posarsi sul proprio dorso e il tremore un pochino si placò. La guidò nell’impresa di sbottonargli i pantaloni, uno due tre bottoni dopo l’altro. Yumiko si lasciò sfuggire una risatina nervosa:
«Per me è come se fosse la prima volta.» Disse con la voce tremante. «Devi avere pazienza.»
«Nessun problema» le sussurrò lui entrandole dentro. Piano. Dolcemente. Lei trattenne un gemito serrando le labbra. «Nessun problema» ripeté lui, serio.
 Yumiko si accese una sigaretta. Era la prima volta che fumava in camera da letto dopo aver fatto l’amore. Aspirò a fondo, quindi il fumo uscì in una nuvoletta grigia. Era seduta con le spalle contro lo schienale imbottito, il lenzuolo bianco la copriva fin sul seno nudo. Ricardo Salas teneva il capo adagiato sul suo grembo, si era tirato le coperte all’altezza del bacino e la osservava dal basso, intrecciando e giocherellando con la mano libera di lei. Improvvisamente le pareva più bella. Non che non lo fosse stata fino ad un istante prima, ma ora che in un certo senso era sua le sembrava più bella, notando anche particolari che gli erano sfuggiti fino a quel momento. Come ad esempio il neo sotto l’occhio sinistro, più o meno dove iniziava lo zigomo. E gli occhi, non erano castani come aveva sempre creduto, a tratti parevano grigi, altre volte sembravano avere qualche striatura di verde. Erano splendidi. Si portò la sua mano alla bocca e ne baciò l’interno. La donna giapponese abbozzò un sorriso tenero, scrollando la sigaretta nel posacenere, poi aspirò ancora.
«Lo dirai a tua sorella?» Yumiko ebbe un tuffo al cuore, avrebbe dovuto dirglielo che Eri non era la sua sorellina, sapeva che più passava il tempo e più sarebbe stato difficile raccontargli la verità. Salas si affrettò a formulare meglio la domanda, credendo che l’espressione sul viso della ragazza dipendesse da quella richiesta. «Cioè, non è che devi dirle quello che abbiamo fatto, ma solo che abbiamo una storia.»
La donna giapponese sorrise, deviando la risposta alla domanda diretta di lui:
«Quindi abbiamo una storia …» Ricardo si girò nel letto, sistemandosi alla bell’è meglio sul corpo mingherlino dell’orientale, la quale spense il mozzicone schiacciandolo con un dito nel posacenere, quindi gli carezzò la nuca, solleticandogli la base del collo, sfiorandogli i tatuaggi sul braccio. Anche lei avrebbe voluto farsene uno quando era più giovane, ma sua madre, la sua okaasan, si era sempre opposta, dicendo che quelli con il corpo dipinto erano degli ingrati: imbrattavano la propria pelle non avendo cura di quello che era stato dato loro in prestito, giacché dopo la morte avremo dovuto cederlo al prossimo.
«Certo che abbiamo una storia. Oppure avevi intenzione di uscire con altri all’infuori di me?»
«Questo me lo devi dire tu che sei sempre circondato da decine di belle ragazze ogni sera.» Salas rise. «Da libero posso fare quello che mi pare, non credi? Le cose cambiano nel momento in cui sono impegnato ...» il ragazzo lasciò la frase sospesa, avvicinando il volto a quello di lei, le labbra erano a tanto così dal toccarsi, i respiri si fondevano. «Ti va un secondo round?»
 
Yumiko decise di confessare a Eri della sua storia con il proprio superiore solo dopo alcuni giorni e, come si era aspettata, sua figlia fece salti di gioia, supplicandola di invitarlo a cena il prossimo venerdì, durante il suo giorno libero insomma. Ricardo si presentò all’invito con due fasci di fiori, uno più piccolo per la ragazzina e uno più grande per Yumiko. Eri lo abbracciò, sussurrandogli all’orecchio di essere davvero contenta per lui e per la sua mamma, glielo disse in giapponese e quando lo spagnolo le chiese di tradurre lei si rifiutò. Per la piccola orientale l’importante era averglielo fatto sapere, se non conosceva il giapponese erano fatti suoi, non la riguardava. Durante la cena Eri non smise neanche per un attimo di studiarlo e di chiacchierare a raffica, pensando che se non fosse innamorata persa di Kingsley avrebbe potuto tranquillamente prendersi una cotta per quel ragazzo dal carattere frizzante. E, cosa assai più importante, sua madre era tornata a sorridere, ma a farlo per davvero. Quando sorrideva adesso le brillavano gli occhi e sembrava ringiovanita di dieci anni.
Dopo cena, mentre Yumiko era intenta a lavare i piatti, Eri adocchiò Ricardo accomodato sul divano davanti alla tv e decise di raggiungerlo. Non aveva dimenticato l’incontro al bar e lei voleva capire chi fosse realmente Oscar o perlomeno cosa li unisse. Gli si sedette di fianco scambiandosi un sorriso, in televisione si stava disputando una partita di pallone:
«Sei un tifoso?»  Gli chiese Eri, sebbene di calcio ne capisse quanto un film in tedesco.
«Non proprio. Sono un tifoso del calcio in generale. Diventare un calciatore famoso era il mio sogno nel cassetto da bambino, sai?» Le fece l’occhiolino e la giapponese ripensò al proprio sogno, quello che aveva scritto nel compito in classe - vedere da vicino un piccolo puledro. Quello che Kingsley aveva esaudito in poche parole.
«Senti Ricardo…» volse lo sguardo sul campo verde in tv mentre lui si girava ad osservarla, sembrava imbarazzata «… lei non sa niente di Kingsley» disse poi, indicando con il pollice Yumiko che di spalle continuava a detergere le stoviglie sporche.
«Ok» rispose semplicemente il ragazzo ed Eri lo guardò con uno scatto.
«Ok?» Ripeté, strappandogli un sorriso.
«Si, ok. Glielo dirai quando vorrai, non spetta a me farlo, giusto?»
Si, era giusto. La ragazzina provò un grande senso di gratitudine, si chiese se ad avere un padre si provasse proprio quella sensazione di complicità, la certezza di poter contare su qualcuno all’infuori della mamma.
Yumiko li raggiunse sul divano, sprofondandovi con un sospiro, distrattamente domandò di cosa stessero parlando ed entrambi risposero all’unisono:
«Di niente.» Si guardarono sorridendo di sottecchi. Yumiko aggrottò la fronte, credendoci poco. Con sua madre di mezzo Eri fu costretta a rinunciare all’interrogatorio su Oscar, ma non le dispiacque più di tanto: era sicura che avrebbe avuto altre occasioni per farlo.
 
La situazione continuò su quella scia di tranquillità per una quindicina di giorni, poi un lunedì mattina, mentre Yumiko e Ricardo se ne stavano a letto dopo aver consumato il primo rapporto della giornata, il cellulare di lei squillò. Quando notò che a chiamarla era l’istituto di sua figlia non sapeva precisamente cosa aspettarsi, di certo non si era immaginata che la preside in persona le stava telefonando per dirle che Eri Joaquin Morales mancava da scuola da circa dieci giorni e che sua madre era pregata di recarsi presso l’istituto quella mattina stessa.
 

 
 
 
 
  
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