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Autore: fiammah_grace    02/03/2018    0 recensioni
[Resident Evil: code Veronica X]
"Seppur la non fisicità di Alexia, la sua presenza era rimasta come un alone costante nella vita dell’uomo che abitava oramai da solo quel vuoto castello.
Una costante fittizia, ma così viva e forte che a un certo punto lui stesso l’aveva resa reale continuando a dare un nome, un volto e un ruolo alla sua venerata e lontana sorella, muovendo uno spaventoso gioco di ruolo mentecatto in cui ella esisteva e non lo aveva mai lasciato.
Nulla avrebbe avuto importanza per lui. Avrebbe sacrificato ogni cosa al fine del benessere e del successo della sua Unica Donna, la sua Unica Regina. Persino se stesso.
Qualcuno tuttavia aveva osato disturbare la sua macabra attesa.
Claire Redfield. Il nome della donna dai capelli rossi che aveva invaso il suo cammino nel momento più prezioso. Il nome dell’infima donna che aveva sporcato l’universo perfetto di lui e Alexia, portando scompiglio nel suo territorio.
Quella formica che gli aveva dato del filo da torcere…persino troppo. Più di quanto potesse sopportare."

[Personaggi principali: Alfred Ashford, Claire Redfield]
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Alfred Ashford, Claire Redfield
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 18: improvvisazione teatrale
 
 
 

 
Una coltre di fumo denso avvolse nel suo bianco polveroso l’intera sala, che per un lungo istante fu annebbiata a tal punto da non vedere nulla.
Claire Redfield portò prontamente una mano davanti al viso, mentre i suoi occhi presero a bruciare infastiditi dal sottile ma fitto polverone.
Si sforzò di tenere aperte comunque le palpebre, conscia del fatto che qualcosa di grosso dovesse essere accaduto in quella stanza ed infatti non si sbagliò.

Poco distante da lei un corpo dalle mastodontiche proporzioni e dalla pelle giallognola e viscosa aveva appena buttato giù una porzione di muro e in quel momento si destreggiava fra i pesanti detriti, frantumandoli con il suo possente braccio elastico dagli artigli affilati come rasoi.
Questi spalancò gli occhi contornati dalla sua pelle cadente e cacciò fuori un urlo rabbioso e affamato, tipico di una creatura lasciata li dentro a marcire come scarto di laboratorio. Bramava ora soddisfare la fame di carne, il suo animalesco istinto di sopravvivenza non appagato da mesi o anni forse.
Il suo petto si gonfiò, pronto a lanciarsi contro le sue prede, tuttavia fu stroncato dal suono improvviso di un colpo di arma da fuoco che schizzò di rosso quel corpo. Seguì tempestivamente un secondo colpo che fece traballare il nemico, mettendo le dovute distanze dalla ragazza.
La rossa Redfield si voltò e vide Alfred col suo fucile da caccia imbracciato. Il suo sguardo, fisso sull’obbiettivo, era stranamente serioso; gli occhi di ghiaccio miravano solo e unicamente a quella creatura, mentre le braccia sostenevano forti quell’arma, non curanti che il calcio premesse esattamente sulla sua spalla ferita.
Egli avanzò incrociando un passo avanti all’altro, continuando a mantenere il bersaglio. Intanto la polvere calò del tutto e Claire poté tornare ad avere una visuale più ottimale del campo di battaglia.
Si accorse di essere lei quella più vicina al Bandersnatch dunque doveva approfittare subito della copertura di Alfred per mettersi al riparo.
Certo che era abbastanza sconvolgente dover passare così repentinamente da un tipo di problema ad un altro. Se prima stava puntando la sua arma contro l’Ashford, adesso doveva velocemente riaffiancarsi a lui e darsi da fare per sconfiggere quell’arma bio-organica.
Cacciò dalla cintura la 9mm e puntò nella stessa direzione del biondo pronta a dargli manforte.
In quello stesso istante però, l’artiglio estendibile del mostro fu più veloce ed arrivò a colpire una colonna posta proprio fra i due. Il pilastro cadde frantumandosi in grossi e pesanti detriti di marmo che costrinsero la Redfield a lanciarsi nella direzione opposta per non essere colpita.
Sebbene riuscì a mantenere la sua solita prontezza di spirito, il Bandersnatch sembrava insolitamente sveglio e si lanciò al suo inseguimento prima che lei potesse mettersi del tutto in piedi. Si appese a una trave sul soffitto e Claire non poté far altro che seguire quanto più attentamente possibile i suoi movimenti mentre spariva fra i detriti e le tante opere d’arte presenti nella sala con una velocità impressionante.
Quando riuscì a individuarlo era troppo tardi. Questi piombò praticamente davanti ai suoi piedi, mostrandole le sue fauci avide. Sentì di nuovo i colpi del fucile di Alfred colpire il mostro alle spalle e quello per lei fu il momento giusto per scappare e cercare al più presto un riparo lontano da quella creatura.

“Redfield, no..!”

 
Claire aveva purtroppo dimenticato le raccomandazioni spesso provocatorie di Alfred, ovvero che quel luogo era disseminato di trappole che lui stesso aveva progettato.
Il richiamo del biondo arrivò troppo tardi.
Il tempo che lei realizzasse cosa stesse accadendo che una grata si innalzò dal pavimento, separandola dal resto della sala. Per poco non venne addirittura trafitta dalle sbarre ferrose e acuminate che in un attimo si congiunsero con il soffitto. La ragazza indietreggiò tremante, non potendo credere di essere scampata alla morte per un soffio. I suoi occhi blu erano spalancati e tremavano, mentre il suo cuore batteva incessantemente.
Vide il Bandersnatch dall’altra parte della grata, per cui c’era almeno l’aspetto positivo di essersi messa in salvo da quella creatura. Tuttavia non era certo rassicurata dall’idea che Alfred fosse quindi da solo contro quella B.O.W. .
L’arma bio-organica infatti, infastidita dai colpi di fucile di Alfred alle sue spalle, si voltò completamente verso il biondo, aizzandosi velocemente contro di lui. Claire puntò la pistola, ma purtroppo la grata le impediva di sporgersi in modo da ottenere una visuale ottimale. In quel modo non sarebbe riuscita a mettere a segno nemmeno un colpo. Dovette quindi rimanere ferma nella sua posizione, pronta a sparare non appena il bersaglio fosse stato più alla sua portata; questo mentre scorgeva l’ex comandante di Rockfort lottare.
 
Clank
 
Un suono metallico attirò la sua attenzione.
Fu un rumore strano, vibrante, che percepì a stento; eppure talmente pungente da rendere sicuro che qualcosa ci fosse alle sue spalle.
La rossa si voltò lentamente e uno strano silenzio sembrò piombare tutto d’un botto. Sebbene dall’altra parte della sala fosse in corso lo scontro di Alfred contro il Bandersnatch, in quella porzione ove lei era intrappolata dalla grata fu come se si stesse per materializzare una dimensione a parte.
Non aveva ancora avuto modo di indagare sul luogo dove fosse bloccata e fu in quel momento che si accorse che c’era un piccolo corridoio lungo non più di sei o sette metri.
All’estremità di esso, illuminato dal fioco bagliore dei candelieri accesi, un’armatura scintillante era lì posta. Era come se la osservasse.
Claire strinse gli occhi incredula dall’improbabile dubbio che si stava figurando nella sua mente, ma fu quell’antica ferraglia a rispondere alle sue paure.
 
Clank Clank
 
“Non…è possibile….”
 
Claire stava vedendo con i suoi occhi uno dei suoi peggiori incubi.
Quell’armatura…
Una solida armatura di ferro, antica e inanimata, di quelle che molto spesso si vedono nei musei, nei luoghi di antiquariato, rappresentate nei quadri, nei film, e che molte volte destano nell’animo di chi le vede un senso di paura. Quasi come se, consapevoli che fossero state indossate dagli antichi cavalieri, i loro spiriti potessero esservi ancora racchiusi in qualche modo e potessero tornare ad animarle per proteggere le persone e i luoghi a cui immolavano la vita.
Quello che stava accadendo in quel momento davanti ai suoi occhi era questo: l’innocente paura di un bambino che si spaventa di passare davanti un’armatura antica perché pensa questa possa animarsi e colpirlo.
Era ovviamente una tipica angoscia infantile, del tutto sciocca e inammissibile; eppure era proprio davanti ai suoi occhi.
Quell’armatura… si stava muovendo.
I cigolii del suo ferro; la sua andatura disarmoniosa; la freddezza di quel metallo battuto; l’ascia pesante che brandiva fra i suoi guanti.
Si muoveva verso di lei. Lo stava facendo davvero.
Non poteva permettersi il lusso di smaltire lo shock, non c’era tempo per questo. Anche se scossa, dovette immediatamente alzare la pistola all’altezza del viso e sparare, sparare sperando che quella cosa, qualunque cosa fosse, cadesse a terra prima di raggiungerla.
Aveva un cancello alle sue spalle, non poteva scappare, e dall’altra parte comunque vi era un’altra arma prodotta dall’Umbrella.
Si trovava in una vera e propria trappola.
Inspirò profondamente dopodiché fece partire il primo colpo, il quale risuonò assordante sul ferro.
Claire non demorse, un solo proiettile non andato a segno era perdonabile.
Prese meglio la mira e cercò di individuare all’altezza della testa un qualsiasi spiraglio dove mirare. Tuttavia più cercava un punto dove il proiettile non sarebbe stato respinto dall’armatura vivente, più si rendeva conto di non sapere assolutamente dove attaccare. Stava lentamente cadendo nel panico. Le sue gambe presero a tremare.
Sparò un altro colpo, il quale rimbalzò come il primo, accompagnato dal terribile e funesto suono metallico del rimpallo.
Sebbene impegnato contro il Bandersnatch, Alfred Ashford si accorse di quello strano suono proveniente dal luogo dove era intrappolata Claire.
Non erano passati che pochi secondi da quando la ragazza era caduta in quella trappola, eppure dovevano essere bastati a far risvegliare l’armatura.
Il biondo si sentì molto seccato, eppure aveva avvertito la giovane di stare sempre al suo fianco.
Digrignò i denti con rabbia, mentre evitava l’ennesimo attacco del Bandersnatch, il quale gli piombò addosso con tutto il suo corpo approfittando della sua natura elastica che gli permetteva di eseguire acrobazie improbabili ad una velocità sovraumana.
Alfred approfittò di quell’inconveniente vicinanza per piantare nella sua bocca il fucile e fargli esplodere le cervella. Un sorriso sadico si dipinse sul suo volto, facendo apparire per un attimo lui come una fiera e la b.o.w. come una creatura mal capitata.
Infine…PAM.
Una grossa porzione di muro fu presto imbrattata dal sangue scuro e denso che prima scorreva nelle vene del mostro.
Alfred fu deliziato da quell’orrenda fine. Da quel mostro dal corpo deforme e viscoso, adesso con la faccia spappolata. L’orrore nell’orrore.
Una creatura terrificante e abominevole, resa ancora più deturpata dal suo proiettile mortale.
Non aveva tempo però per contemplarla.
Non si pulì nemmeno dal sangue schizzatogli addosso che lo avevano imbrattato, che subito si catapultò verso Claire.
Non era una situazione piacevole e una volta superata anche quell’ostacolo, già sapeva che non sarebbe stato facile proseguire.
Tuttavia era meglio affrontare un problema alla volta.
Si buttò contro la grata che lo divideva dalla Redfield e appena la vide subito la richiamò.
 
“Redfield!”
 
Claire si voltò e vedendolo col fucile puntato contro l’armatura uno strano tonfo al cuore la pervase.
Si appropinquò anche lei al cancello, afferrando le sbarre e stando a contatto con Alfred sebbene quel ferro li separasse.
Il biondo comandante la osservò  con la coda dell’occhio; spaurita, impotente, fragile… ella era accorsa e si era aggrappata a lui che in quel momento era il solo che poteva proteggerla. Era…strano.
Tuttavia non restò a pensarci molto. Sapeva inoltre di avere i proiettili contati, una ragione in più per mirare bene e buttare giù anche quell’altra B.O.W.
Osservò attentamente quella ferraglia dopodiché fece partire un colpo in un preciso punto della testa. L’armatura traballò questa volta, dando conferma che il proiettile fosse andato a segno. Alfred si rimise immediatamente in posizione di tiro e, dopo un attimo di assoluta concentrazione, fece fuoco di nuovo; e poi un altro ancora.
Claire alzò il viso verso di lui e poi portò lo sguardo di nuovo verso l’inarrestabile armatura. Era evidente che lei non sarebbe mai riuscita a colpirla con la sua 9mm.
Alfred sapeva perfettamente dove mirare quei punti vulnerabili che lei non avrebbe mai potuto conoscere. Apparentemente quella B.O.W. non aveva zone scoperte, quindi solo chi l’aveva progettata, o aveva partecipato alla sua creazione, poteva conoscerle.
Si sentiva indifesa, il suo cuore sembrava voler esplodere dal suo petto; la consapevolezza di non poter far nulla per salvarsi stava gettando il suo animo nel terrore più agghiacciante.
L’armatura, sebbene avesse movenze legnose e lente, possedeva quella mefistofelica freddezza verso la morte che solo un essere senza anima e corpo poteva trasmettere.
Quello che vedeva a oramai un metro da lei era un colosso ferroso e luccicante, con la sua lunga ascia macchiata di sangue incrostato, pronto a brandirla e tagliarla in due perfette metà.
Nonostante i colpi di fucile e i fugaci istanti in cui barcollava, essa era inarrestabile, non poteva provare dolore o paura. Era stata progettata per alzare le sue braccia ed eseguire il suo colpo.
Claire comprese che avrebbe colpito, non si sarebbe fermata. Doveva fare qualcosa, ma cosa?!
Alfred stesso sembrava essersi reso conto della situazione di pericolo e cercò di velocizzare i suoi attacchi il più possibile. Premette il grilletto e sbandò quando si accorse che la ricarica era finita.
Il panico a quel suono di scarico fece sbandare entrambi. In un istante, Claire vide frantumarsi la sua sopravvivenza. Osservò Alfred mentre, incastrato fra le sbarre, cercò nella casacca rossa una nuova ricarica, tenendo al contempo il pesante fucile da caccia in equilibrio. Egli non scappò, non cercò di mettersi al riparo verso l’attacco oramai imminente dell’armatura, che avrebbe inevitabilmente colpito anche lui sebbene fosse protetto dalla grata.
Invece lui era lì, mentre tentava il tutto per tutto per abbatterla, consapevole che fosse l’unico in grado di aiutarla.
Quel gesto umano da parte sua la colpì, non potette fare a meno di sentirsi profondamente grata verso di lui. Stentava quasi a crederlo.
 
“Aaah!”
 
Urlò Claire mentre la B.O.W. posizionò con insolita velocità le braccia verso l’alto. Quel movimento fu completamente diverso dagli altri, difatti riuscì a sollevare tutta l’ascia in pochissimi secondi; dopodiché la sua caduta verso il basso non fu che un battito di ciglia.
L’ascia velocemente colpì terra, spaccando la pavimentazione marmorea in un istante.
La rossa si incastrò nell’unico angolo fra quel corridoio e la grata ove potesse schiacciarsi, ma era la sua ultima via di fuga. Adesso l’armatura era di fronte a lei e il secondo colpo era inevitabile.
Questa rialzò il pesante arnese incastrato nei detriti come fosse un semplice spadino e si rimise nella stessa posizione di prima. La ragazza non riuscì nemmeno a chiudere gli occhi, rimase inerme, non essendoci un modo per capacitarsi che stesse accadendo davvero; che davvero avrebbe provato sulla sua pelle la terribile sensazione di essere oltrepassata da parte a parte da una lama affilata e inarrestabile.
Digrignò i denti e tutto divenne confuso, annebbiato. La sua mente si chiuse, preservandola da quei ragionamenti agghiaccianti con cui stava per fare i conti.
PAM
Un suono, un singolo suono.
Se ne susseguirono altri, decisamente troppo veloci per essere fuoriusciti da un’arma lenta come un fucile da caccia.
Invece si sbagliava; Alfred Ashford aveva ricaricato il fucile e stava sparando un colpo dietro l’altro che, a quella distanza, fece cadere a pezzi quella vile armatura.
La Redfield vide l’ascia che prima sorreggeva, cadere all’indietro assieme alle braccia ferrose che la sostenevano. Presto seguì anche il resto del corpo che si ridusse a un ammasso di pezzi di ferro inanimati.
Claire scivolò lentamente a terra, le gambe non la sorreggevano. Era… Era…
 
“Mostruosa ignobile creatura! Ah! Cosa credevi? Di surclassare il tuo…padrone! Follia! Marcirai nel mio inferno.”
 
Urlò Alfred adrenalinico, mollando un violento calcio ai pochi pezzi che poteva raggiungere dal cancello che lo divideva da quel sipario. La ragazza si voltò vacillante verso di lui, con gli occhi colmi di lacrime che rimasero lì senza scendere e che le conferirono un aspetto innocente che non poté fare a meno di colpire persino uno come l’Ashford.
Il biondo si ricompose e cercò di contenere quella sua gloriosa vittoria. Si impostò dunque e riassunse un’espressione seria e altolocata.
 
“Redfield, cosa ti avevo detto? Questo posto è disseminato di trappole, non avresti mai dovuto distanziarti così incautamente senza cercare il mio consenso. Sei la solita ragazzina immatura e arrogante; e pensare che dovresti solo prestare un vago ascolto alle mie istruzioni e tale ignobile permanenza in questo luogo sarebbe soltanto un’inconveniente passeggiata. Bah.”
 
Vaneggiò lui più per rompere il ghiaccio che per rimproverarla, stranamente. Tuttavia egli era troppo altezzoso per ammetterlo. La ragazza aprì la bocca tentennante, riuscendo solo a dire l’unica cosa che in verità poteva dirgli.
 
“G…Grazie.”
 
Alfred sgranò gli occhi. Le rivolse di scatto il suo sguardo e rimase nuovamente impietrito di fronte quegli occhioni blu colmi di lacrime. Rimase scosso e la sua espressione si corrucciò in una smorfia di disapprovazione. Un rimprovero piuttosto verso il suo spirito corruttibile dalla soavità di quella donna, che sapeva come smovere il suo animo marcio e abbandonato.
Claire notò il suo turbamento e si sentì in colpa per averlo messo a disagio, per questo si sforzò di rimettersi in piedi e superare velocemente lo shock.
I due furono quindi presto l’uno di fronte all’altro, divisi da quella inferriata invalicabile.
L’uomo dagli occhi vitrei stette in silenzio, con gli occhi stretti e la bocca serrata, con lo sguardo scuro e imperscrutabile.
Internamente stava scrutando quella misteriosa donna, confuso dalle milioni di domande che in realtà ogni momento affannavano il suo cuore.
In tutta risposta fece spallucce e si impostò con aria arrogante, mantenendo la sua posizione nobile e autorevole a tutti i costi; reazione che Claire comprese perfettamente conoscendo oramai il soggetto, ragion per cui stette ad ascoltarlo in silenzio, senza rabbia.
 
“Tsk, non illuderti che basti Redfield. Hai la fortuna di un gatto dalle duecento vite, ma prima o poi vedrai anche tu la spada di Damocle pendere sulla tua testa. Non pensare di poter sempre contare sulla tua sfacciataggine, mia cara. Hai me dalla tua parte e questo ti assicuro è tanto. Tuttavia il sottoscritto senza di te sopravvivrebbe ugualmente. Sulla tua sorte invece ho qualche dubbio.”
 
Il biondo, notando l’ambiguo silenzio della giovane, si azzittì. Taceva perché era mortificata o perché lo considerava pazzo ancora una volta? Tale dubbio lo divideva e lo struggeva. Non riusciva né ad accettare che lei lo deridesse, né che lo comprendesse o lo ascoltasse.
Alfred non riusciva a capire quella sensazione. Non riusciva ad odiarla per il suo solito disprezzo, o ad apprezzarla per la sua tenera comprensione.
Non riusciva ad essere felice.
Cosa lei volesse comunicargli con quel sorriso appena accennato e i suoi occhi dispiaciuti e limpidi era un mistero inaccettabile.
Era una trincea a lui invalicabile.
Schiarì la voce e cambiò drasticamente argomento.
 
“Redfield, necessito della tua attenzione ora.”
 
Claire notò la serietà del suo tono, stavolta più profondo e calmo.
 
“Come ti spiegai all’inizio, questo labirinto è stato progettato per proseguire in due. Ragion per cui esistono vari escamotage per separare i soggetti ivi coinvolti al fine di disorientarli e farli perire in queste anguste segreta. Non lasciare nell’oblio il tuo obiettivo, ossia i frammenti da localizzare nella porta posta nell’atrio.”
 
La Redfield annuì.
 
“Redfield.” Rimproverò lui. “Questo cancello non è rialzabile. Sei in una di queste trappole cui accennavo. Non è previsto che chi vi si imbatta malauguratamente sopravviva. Intesi? Questo si traduce in un mio e un tuo interesse. Ti fornirò tutte le indicazioni necessarie per non incombere nei futuri inganni che mireranno a cancellarti dalla faccia della terra. A tuo vantaggio hai la mia incombente memoria, a tuo discapito la tua incoscienza. Ricorda, per sopravvivere dobbiamo restare due.”
 
Disse glaciale.
 
“Ho messo nei guai anche te?”
 
“Non dire insolenze, ho già detto che sono io l’architetto, ragion per cui tali insidie possono colpirmi ma solo fino a un certo punto.”
 
“Allora…” lo interruppe lei, interdetta. “Perché mi aiuti? Potresti tranquillamente lasciarmi qui.”
 
A quelle parole i suoi occhi si abbuiarono e Alfred se ne accorse.
No, non aveva parlato così per provocarlo. Stavolta lo aveva avvertito chiaramente. Claire era seriamente preoccupata, seriamente ansiosa, seriamente insicura verso quanto accaduto.
Lei seriamente…pensava che lui avrebbe dovuto lasciarla li, sola, a combattere un nemico invisibile che non conosceva e non poteva prevedere.
 
“Claire…”
 
Sussurrò e nell’udire il suo nome di battesimo la rossa ebbe un sussulto.
Non era sicura ma forse era la prima volta che lo faceva.
Gli occhi di Alfred erano calmi e stranamente rassicuranti. Non sapeva come spiegarlo, ma le comunicarono conforto, come se volesse dire ‘non ti lascerò sola’. Sentì una forte stretta al petto.
 
“Normalmente avremmo dovuto solcare assieme il passaggio che…ho aperto prima che quella bestia ci attaccasse.” Sembrò stranamente titubante mentre aveva alluso al suo comportamento avuto in precedenza, prima del Bandersnatch. Claire tuttavia fece finta di non farci caso per non creare ulteriore imbarazzo. “Se io proseguissi nella direzione normale, tu non avresti più possibilità di procedere, or dunque rimarresti bloccata qui. Quindi io devo rimanere in questo luogo e aspettare che tu arrivi di fronte una statua costruita nella muratura. Ella sembrerà affacciarsi dalla parete, non faticherai a riconoscerla. C’è un sistema per farmi capire quando sarai giunta a destinazione. Basta che tu estrai una perla incavata in uno dei suoi occhi. Questo meccanismo fa sì che invece sia il mio percorso a bloccarsi e quindi potrai proseguire.”
 
“Aspetta.” Lo interruppe la giovane. “Cosa significa che si blocca il tuo percorso?”
 
Alfred scosse la testa. “Non turbarti, sbloccherai il mio percorso man mano. Basta che farai quello che ti dico…” le rivolse poi uno sguardo agghiacciante. “…se lo vorrai.”
 
La Redfield deglutì. Lui si stava forse affidando a lei? Era davvero così?
 
“Tu…stai dicendo che…”
 
Stavolta fu l’Ashford a interromperla, stizzito nell’ammettere quella circostanza.
 
“Non dire nulla, non mi interessa. Ti sto solo spiegando le circostanze, limitati a seguirmi attentamente.”
 
La rossa si ricompose. Lui non voleva quella risposta, ma perché? Non voleva che lei lo rassicurasse? Che gli dicesse che poteva contare sul suo aiuto?
Perché?
Ad un tratto le fu chiaro… mentre l’ereditiere degli Ashford continuava a spiegarle il percorso che avrebbe dovuto intraprendere per sopravvivere, lei si ritrovò a riflettere su quello strano super io che dominava quell’uomo.
Un tiranno spietato che gli impediva di accogliere la comprensione degli altri esseri umani. Alfred non poteva accettare di essere aiutato, né di essere capito, consolato…amato.
Egli preferiva non saperlo, fare affidamento su se stesso e basta. Non voleva contare su Claire. Non voleva illudersi sulla sua lealtà, non voleva farlo. Persino in quelle circostanze il suo animo era fragile e poteva essere ferito crudelmente. Il biondo era precipitato in un vortice di solitudine e di autolesionismo che non faceva che torturarlo continuamente.
In quell’ottica, accettare l’aiuto della Redfield avrebbe significato affidarsi a qualcuno, cosa che a lui era proibita. Lui che aveva scavato il suo cuore dal petto per relegarlo all’unica persona che aveva mai contato nella sua vita: Alexia.
Come una pugnalata, si sentì frustata da quella condizione. Avrebbe voluto sorridergli e dirgli che avrebbe pensato a lui, che c’era lei al suo fianco. Ma non poteva, perché facendolo l’avrebbe solo ferito ulteriormente. Questa fu la ragione per cui non disse nulla e si limitò a seguire le sue indicazioni e dimostrargli coi fatti che non l’avrebbe lasciato solo.
 
“La perla che estrarrai farà spegnere lo stoppino di un candeliere che è in questa sala, invece; da questo capirò dove sei. A quel punto sarò io a sbloccarti la via. Dovresti ricordare attentamente l’enigma -Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice stiletto?- .
Tienila a mente, perché dovrai ordinare dei quadri che raffigureranno esattamente queste situazioni. Una raffigura una faccia derisoria, una uno schiavo, poi un uomo ricco, un cuore calpestato, un giudice, un soldato, un eremita solitario. Tsk!”
 
Rendendosi conto da solo che la ragazza non avrebbe mai potuto tenere a mente tutti questi dettagli, sbuffò innervosito.
 
“Hai ancora il mio diario, giusto?”
 
“No, te l’ho restituito.” Rispose sorpresa, non comprendendo subito perché glielo stesse chiedendo. L’uomo intanto fece un’alzata di sopracciglia, poi scrutò nervosamente nelle tasche e in fine lo trovò, leggermente pieghettato nei bordi; tuttavia la copertina rigida aveva preservato le pagine all’interno. Claire lo vide sfogliarlo nervosamente, eppure era certa che un uomo come lui avrebbe trattato con più riguardo un cimelio tanto prezioso.
Sbarrò gli occhi quando, trovando delle pagine bianche, egli cominciò a scrivervi velocemente per poi tirare il foglio e consegnarlo alla ragazza.
 
“Tieni, ti ho scritto il versetto. E’ un inglese semplice Redfield, non penso di dovertelo anche tradurre con un linguaggio moderno.”
 
Claire prese fra le mani quel pezzo di carta, girandolo fra le sue dita come qualcosa di prezioso, impregnato dalle memorie e i dolori di quell’uomo folle e geniale di cui aveva letto. Corrucciò la fronte, domandandosi se quelle pagine al contrario avessero colpito più lei che non lui. Si sentiva persino in colpa per averlo costretto a stracciare una pagina da quell’oggetto ai suoi occhi così intimo e prezioso. Avrebbe voluto dirgli che non avrebbe dovuto, che non era necessario rovinare qualcosa di così inestimabile per lui, ma ebbe troppa paura di ferirlo per farlo.
Osservò meglio quel frammento. Nonostante frettolosa, la calligrafia di Alfred era elegante e molto leggibile, sembrava una scrittura d’altri tempi. Doveva avere una memoria e una cultura grandissima per riuscire a rievocare Shakespeare in un tale momento di difficoltà.   
Si ritrovò a far caso che il biondo era stranamente premuroso. Stava spendendo più e più parole per spiegarle cosa avrebbe incontrato. Non solo; anche il suo atteggiamento sembrava irrequieto, come fosse spaventato.
Claire ebbe il terribile sospetto che egli non fosse abituato a dipende da qualcuno e il fatto che la sua sopravvivenza dipendesse in parte da lei lo turbava. Lo faceva sentire fragile, insicuro… spaventato dall’idea di essere abbandonato a se stesso, tradito, di nuovo.
La Redfield tuttavia non l’avrebbe lasciato solo. Si sarebbe presto ricongiunta a lui e sarebbero usciti vivi entrambi da quel posto.
Alfred intanto continuava il suo monologo, aggiungendo dettagli su dettagli riguardo quel che lei avrebbe dovuto fare.
 
“Risolvendo l’enigma, otterrai un oggetto. Si tratterà di uno stiletto, Redfield. Penso capirai da sola che è uno degli elementi chiave che sbloccano il portone principale, quindi non perderlo. Prima di proseguire, ricorda di abbattere la porzione di muro adiacente queste incavature ove ordinerai i quadri in modo corretto. Oltre vi troverai una tastiera digitale il cui codice è 1971. Facendolo io potrò avanzare e sbloccarti più avanti il percorso, ma la mia parte non ti interessa.” Fece una pausa facendo mente locale sul suo da farsi. Claire notò i suoi occhi corrucciati e si impensierì.
“A quel punto avrai due strade davanti a te. La via della vita e della morte, due strade che comunque si congiungeranno. Lo stiletto fungerà da serratura e ti permetterà di avanzare oltre la porta che troverai dinanzi a te, qualunque sia la strada che deciderai di percorrere.
Dovrai far muovere un meccanismo in questa stanza. Troverai una scultura a cui dovrai togliere la pelle..”
 
“…ma che schifo.”
 
“Non si tratta di pelle vera, Redfield. Presta attenzione. Devi liberare il busto dal suo cuore. A quel punto calpestalo e dentro vi troverai la chiave per uscire da questo luogo.
Solo una cosa devi tenere ben a mente. Non tornare mai indietro, non dimenticare nulla, non raccogliere nulla. Molti elementi incuriosiranno la tua mente e stuzzicheranno la tua sete di conoscenza o di sopravvivenza. Non lasciarti sopraffare, né ingannare. Vai avanti per la strada che ti ho indicato e curati solo degli elementi che ti ho descritto. Se hai bisogno di una motivazione, ricordati che l’area dove sei bloccata è una trappola, andrai incontro un’ignobile morte.”
 
L’uomo si fece di nuovo pensieroso. La rossa lo vide stringere le dita sulle sbarre di metallo che li dividevano, dopodiché posizionò i suoi occhi vitrei dritti verso di lei. In seguito, rimosse il suo fucile da caccia e lo allungò verso la ragazza che in un primo momento esitò.
 
“Prendilo e basta, Redfield.”
 
Disse e si allontanò da lei.
 
Claire strinse il fucile fra le sue mani, mentre il suo cuore non aveva cessato un attimo di battere nervosamente.
Lo squilibrio di quell’uomo, le sue perversioni, la sua pazzia, le sue deviazioni e paranoie…e poi la sua cavalleria, la sua intelligenza, la sua prontezza. Egli era un Re che sapeva come proteggere la sua Regina. La sua pedina era nata per questo e sarebbe morta per quello scopo. Egli era il pezzo che sapeva muoversi ovunque sulla scacchiera, per permettere alla sua Regina di vincere e non rimanere mangiata dagli avversari.
La ragazza in quel momento si sentì proprio come essere protetta dal pezzo che dominava in maniera indiscussa la scacchiera, che le avrebbe aperto il percorso anche a costo di venire mangiato. Solo che nel caso degli scacchi Re e Regina si invertivano.
 
“A…Ashford!” tentennò lei. “Prendi almeno la mia pistola, non puoi rimanere disarmato.”
 
Alfred fece cenno di no con il dito mentre tetro si incamminava all’interno della sala.
 
“Non sono disarmato. Non lo sono mai.”
 
Detto questo si sedette a terra, sparendo quasi nella penombra. Claire lo intravedeva ancora grazie al fioco bagliore dei candelieri ancora accesi. Strinse gli occhi, sentendosi tacitamente grata. Infine si voltò e si addentrò anche lei nel percorso che l’attendeva. Gli parlò solo un’ultima volta.
 
“Ci sarò. Ci vediamo più avanti.” Aggiunse. “Fa attenzione anche tu.”
 
 
 
 
***
 
 


Sotterranei dei laboratori artici dell’Umbrella
Bivio - Claire
 
 
 

 
Quanto può pesare un attimo? Quanto può premere fino a schiacciare un sentimento che in realtà non esiste nemmeno, che è solo nella nostra testa. Tuttavia non cessa di essere presente e spinge, spinge, fino a pressare nel nostro petto, calpestando il cuore, comprimendo la nostra mente. Nulla genera più dolore di questo, nemmeno se una morsa fosse davvero ancorata sul nostro corpo. E’ un fantasma sottile, invisibile, capace di sparire in un istante se solo ci impegnassimo a non curarlo. Eppure puntuale è in grado di tornare, trovandoci anche se al buio, anche se soli, anche se abbandonati da tutti; e sa farlo proprio quando è il momento in cui crolliamo, come se l’odore di terrore che emettiamo lo agevolasse nel suo compito. Per cui più temiamo, più quel fantasma viene, pronto a trafiggere il nostro petto con i suoi artigli acuminati e insensibili, per afferrare il nostro cuore veementemente e stringerlo fra le sue dita. Stringerlo, ma non per spezzarlo. Stringerlo solo per farlo soffrire; solo per far sentire la sua morsa, per ricordare a quel corpo che quel peso è lì, ed è pronto per fargli male. Anche quando quel corpo non è del tutto al corrente del perché dietro tale agonia mentale.
Quando sono questi i sentimenti che ci accompagnano, possiamo solo corrucciare gli occhi, stringere le mani, alzare il viso e continuare, lasciando che quella mano si arrenda. Raramente invece ci interroghiamo su come alleviare quella presa. Preferiamo lasciarla lì a tormentarci, dimostrandogli che non abbiamo paura di essa, che siamo più forti.
In modo diverso quel fantasma martoriava entrambi i due giovani che si erano appena separati.
Claire Redfield, fuorviata dalla rocambolesca umanità che l’aveva avvicinata psicologicamente a una mente controversa come quella del losco comandante di Rockfort; così tanto da farle mettere in discussione ogni cosa, comprese le angherie subite, i suoi inganni, le sue torture, gli orrori cui aveva assistito. Ed adesso si ritrovava persino ad avanzare per lui, per aiutarlo a sopravvivere.
Ella aveva infatti ben compreso l’importanza del suo ruolo in quel momento. Quella morsa sul suo petto pressava sempre più, questo perchè non voleva fallire. Non voleva che Alfred morisse per colpa della sua incompetenza.
Il senso di responsabilità la crucciava, stringeva dunque fra le mani il fucile che lui le aveva donato; tastava la tasca del suo jeans prudente, per controllare che il foglietto con le sue istruzioni fosse sempre lì, al suo posto.
La paura di sbagliare, di non tener fede a quella promessa, era un tormento senza fine.
Il suo sguardo era dritto, imperscrutabile. Aveva fatto tesoro delle sue parole, sapeva che ogni cosa in quel luogo era stata creata per ucciderla. Per uccidere chiunque.
Tranne gli elementi che lui le aveva indicato.
Tutto il resto era morte.
Non. Doveva. Sbagliare.
Alfred Ashford dal suo canto aveva consegnato la sua vita nelle mani della rossa. Era da solo, seduto nell’atrio di quella nobile stanza circolare; magnifica, luminosa, ricca di preziosità e arte che rappresentavano la cultura e lo studio di una vita. Una stanza tanto inestimabile quanto un’opera d’arte eppure macchiata dal sangue e sporca della polvere che la battaglia del Bandersnach aveva sollevato.
Il contrasto fra magnificenza e distruzione. Fra sangue e bellezza. La carcassa molliccia e ripugnante accasciata al suolo, macchiata di un sangue ormai denso e scuro; i frammenti di armatura seminati attorno la grata dove si era separato con la Redfield; erano un mosaico che completava quel mondo bellissimo e drammatico.
Il biondo si ritrovò ad osservare intensamente quella visione trovandola insolitamente soave e appagante. Chiuse gli occhi abbandonandosi a quel piacevole dolore.
Quel malanno si stava lentamente propagando, in un’emozione che temeva eppure lo ammaliava. Questo perché sentiva il suo cuore battere lontano dal suo petto…detenuto però fra le dita di una Donna che Non Conosceva.
Batteva, lo chiamava, lo sentiva; un cuore spento ma non morto, cagionevole per il dolore patito. Tuttavia batteva, era vivo, e sapeva di essere lontano dal suo padrone. Colei a cui era affidato era troppo lontana per potervi vegliare.
Poteva gettarlo e poteva invece salvarlo.
Lui che era il principe di quel castello della morte, poteva soltanto stare solo, ad aspettare.
Non poteva fare altro.
La maestosità e deturpazione di quella sala era il contesto ideale per rappresentare quell’attesa. L’attesa verso il prossimo battito del suo cuore: sarebbe stato doloroso per il tradimento, oppure un sussulto piacevole che l’avrebbe alleviato?
 
Claire avanzò lungo il corridoio. L’odore umido e pungente del sottosuolo ove erano ubicate quelle segreta permeava le sue ossa, rendendo quasi insopportabile proseguire. Trovò contraddittorio solcare una pavimentazione marmorea e lucida, eppure essere in un ambiente più simile a una grotta. La logica spiegazione che riuscì a figurarsi fu che la costruzione di quel luogo non doveva mai essere stata completata. Oppure era coerente con la mente di Alfred, che si limitava ad “abbellire”, senza badare alla sostanza, lasciando che il vecchio consumasse il nuovo, coprendo un passato che tuttavia rimaneva visibile nonostante tutto.
Mentre la sua mente si soffermava su quelle riflessioni, il rumore di un coccio di vetro frantumato attirò la sua attenzione. Guardò in basso e si accorse di aver appena calpestato una vecchia cornice. Sforzò la vista e si piegò sulle ginocchia facendo per avvicinarsi a quella fotografia quando d’un tratto si bloccò.
La foto incorniciata dietro il vetro frantumato immortalava un ragazzino dai capelli biondi di sua conoscenza che, con lo sguardo serio eppure sereno, tipico di un piccolo adolescente, sembrò come richiamarla… richiamarla come avrebbe fatto il suo io adulto.
Riconoscere infatti l’Alfred bambino le riportò immediatamente in mente l’Alfred odierno, che pochi minuti prima l’aveva raccomandata di ignorare ogni elemento che avrebbe attirato la sua attenzione.
Quegli occhi, sebbene spenti da una fotografia, la richiamarono imperscrutabili. Ebbero la potenza di fare questo. Così la giovane raddrizzò la schiena e spostò il piede lentamente, in modo da non modificare la posizione di quell’oggetto, limitandosi a osservare semplicemente.
Alfred era vestito con un completo nero dal colletto ampio, consono a un certo tipo di abbigliamento degli anni ‘80. Era posto accanto a una figura adulta, molto probabilmente suo padre o un parente stretto. Egli aveva un’aria molto severa e nobile, eppure più umana di quel bambino dai capelli pallidi. Claire si sorprese di non vedere Alexia in quella foto. Di solito la bambina bionda era sempre presente in quei ricordi di famiglia. Eppure… eppure aveva ancora dei seri dubbi circa quella donna. Niente le avrebbe tolto dalla testa l’idea che la maggior parte dei quadri, articoli, ricordi in cui era rappresentata la scaltra e irraggiungibile sorella gemella di Alfred, fossero per lo più elaborati da lui stesso. In fin dei conti Alfred poteva facilmente apparire femmineo dal vivo, figuriamoci in una foto consumata dal tempo o in un quadro magari commissionato da lui stesso. Sarebbe stato molto facile ingannare chiunque e far credere dell’esistenza di quella donna.
Si chiedeva spesso quindi se mai un giorno ci avrebbe visto chiaro su quella storia.
Alzò lo sguardo e solo in quel momento si accorse che il corridoio dove stava avanzando già da un po’ stava per affacciarsi in un ambiente diverso. Quella cornice appena calpestata non era lì a caso, nel bel mezzo del nulla. Essa infatti era poco distante dalla moquette rossa che introduceva una lussuosa camera da letto.
Claire non era certo disabituata a trovare nel bel mezzo del nulla una stanza da letto, stranamente in quel luogo era abbastanza comune ed era capitato spesso, anzi.
Tuttavia stavolta non si trattava della camera dei gemelli Ashford, sebbene la struttura di base fosse simile. Era una stanza molto disordinata, ingombra di cianfrusaglie di ogni tipo, tipiche di una persona poco ordinata che non riponeva nulla al suo posto. Il letto era molto barocco, il legno intagliato che fungeva da base ricostruiva delle figure attorcigliate veramente singolari sebbene non riuscì a distinguere se riproducesse dei rami, dei fiori, o solo degli ornamenti tondeggianti. Il copriletto era gonfio e smesso, dal colore ingiallito dal tempo, ricamato con un motivo floreale. Fra le lenzuola erano nascosti vestiti, abbigliamenti intimi, persino bambole e animaletti di peluche. Alle spalle del letto vi era un enorme dipinto raffigurante un sentiero. A terra invece vi era un vistoso tappeto tappezzato di strane figure selvagge. Per lo più erano felini grossi e feroci in posizioni contorte, ma ciò che la turbò fu quando si accorse che alcuni di loro erano tagliati come a metà; erano animali deturpati e sfigurati. Era un disegno davvero di cattivo gusto che si rifiutò di guardare ulteriormente. Come poteva un’immagine simile essere stata scelta per una camera da letto?
Si concentrò dunque sul resto della stanza, attraversandola con fare prudente. L’armadio, le sedie, i mobili, erano tutti ingombrati da panni e gingilli inutili.
Claire ebbe come la sensazione che quella stanza fosse così proprio per attirare l’attenzione di chi l’attraversava. Chiunque avrebbe istintivamente preso fra le mani almeno qualcosa, anche solo per guardarlo da vicino. Lei non sapeva se persino uno straccio a terra avrebbe potuto innescare qualche trappola, ma sapendo del pericolo incombente badò bene di non correre quel rischio. Tuttavia era frustrante riflettere sul fatto che chiunque, di fronte tanta roba, sarebbe stato indotto in tentazione e avrebbe commesso bonariamente l’errore di spostare qualcosa.
La Redfield spostava lo sguardo da una parte all’altra, attenta a ciò che faceva. Si sentì strana nel dover guardare e passare. Vi erano dei fogli scritti sulla scrivania, come le pagine di un diario o qualcosa del genere. Dovette però sforzarsi di andare avanti. Sentiva che se si fosse avvicinata sarebbe successo qualcosa di brutto. Era come se quella stanza puzzasse di inganni.
Doveva resistere a quella tentazione di esaminare e vedere tutto. Doveva lasciare la stanza.
Dinanzi a sé trovò però la porta chiusa. Stava istintivamente per toccare il pomello quando una voce interiore la bloccò per tempo.
Ricordò le parole di Alfred, ovvero di non toccare nulla e che lui le avrebbe aperto il percorso. Questo comprendeva anche quella porta?
Claire si fece questo scrupolo e decise di fidarsi del suo istinto. Anche quella porta era un inganno. Doveva attraversare quella stanza senza modificare niente.
Si guardò dunque di nuovo attorno.
Il suo sguardò a un tratto andò finalmente a focalizzarsi su l’elemento giusto. Distinse fra gli ornamenti che riempivano quella stanza una figura che l’Ashford aveva descritto: la statua di una donna che sembrava affacciarsi.
Si chiese come aveva fatto a non notarla subito, inquietante com’era. In verità, con tutte quelle cianfrusaglie in giro, era facile che potesse sfuggire a un primo sguardo. Soprattutto perché era più distinguibile dal fondo della camera che dall’ingresso.
Era una figura che ricordava molto una dea greca, il materiale era simile al gesso e il suo sguardo era pulito e levigato; il suo sorriso accennato tuttavia inquietava l’osservatore, era come se volesse dirle ‘ti ho fatto uno scherzo’, sbucando da un angolo della stanza.
La rossa le si avvicinò e la osservò alla ricerca della perla che doveva trovarsi nella sua pupilla come le aveva detto Alfred.
In realtà faceva abbastanza spavento analizzare il viso così birichino di quella scultura. Faceva abbastanza paura a dirla tutta. Tuttavia non indugiò e cercò bene quel che doveva trovare assolutamente. Non faticò a notare che il bianco dei suoi occhi era appena un po’ diverso sull’occhio sinistro, la cui superficie a guardare bene sembrava di un materiale diverso. Così allungò le dita e, come aveva intuito facilmente, quella pupilla era proprio la perla di cui le aveva parlato Alfred.
Si girò dietro di sé, chiedendosi se a quel punto la porta alle sue spalle si sarebbe aperta.
 
 

***
 


 

Sotterranei dei laboratori artici dell’Umbrella
Bivio - Alfred
 


 
Del fumo dall’odore dolciastro uscì leggero dalle vie respiratorie del giovane e pallido signore di quelle tenebre. Soffiò apatico lasciando che il calore si propagasse nel suo torace, alleviando col suo bruciore le sue sempre più pesanti angosce. Alfred Ashford era riuscito a realizzare una sigaretta di fortuna con delle foglie che sapeva essere custodite in quella sala monumentale. Suo padre era un appassionato di sigari, nonché un grande studioso e conoscitore della sua storia, faceva quindi giungere foglie di tabacco di grande qualità da ogni parte del mondo per assaporarne e collezionarne le tipologie. Lui invece non era un grande fumatore, tuttavia in talune circostanze aveva approvvigionato dalla riserva di suo padre e negli anni più recenti aveva cominciato ad apprezzarne il gusto intenso e il loro forte profumo. Col tempo aveva imparato a conoscerli e aveva scoperto di preferire fabbricarli lui stesso, in modo da dosare la loro intensità; voleva che quel fumo bruciasse…bruciasse tutto dentro di lui, trascinando con sé l’inferno interiore che lo opprimeva. Per qualche istante mandava in fiamme ogni cosa, avvolgendo nella sua coltre di fumo quel cuore che non smetteva di soffrire.
Soffiò di nuovo, osservando i movimenti leggiadri e suggestivi del fumo che assumeva forme che in qualche modo evocavano sempre qualcosa.
Assorto in quel lungo momento che voleva affogare le sue ansie, il biondo vedeva dinanzi ai suoi occhi il volto innocente eppure determinato della Redfield.
I suoi pensieri non erano focalizzati su qualcosa in particolare. Pensava a lei e basta, nulla di più. Pensava ai suoi lineamenti, al suo sguardo, al colore delle sue iridi profonde, alla sua bocca definita, alla sua pelle chiara, ai suoi capelli scuri tendenti al rosso.
Un tonfo attirò la sua attenzione. Il diario personale che aveva conservato nella sua casacca era accidentalmente caduto a terra. Alfred lo osservò a metà insicuro, a metà sprezzante; anche il solo osservare quel ‘custode di pensieri e ricordi inaccessibili’ provocava un senso di sdegno dentro di lui. Era come se lo rinnegasse, come se non volesse ammettere di averne bisogno. Di aver bisogno di quei segreti che non amava confessare, ma che in quel libro avevano un corpo…e soltanto dando un corpo ai propri problemi è possibile risolverli.
Lentamente si piegò verso di esso prendendolo fra le dita, portando a col tempo il sigaro verso la sua bocca e ispirando. Le pagine andarono ad aprirsi proprio sui resti di quei fogli che furono tagliati; che lui stesso tagliò via.
A quel punto i suoi occhi di ghiaccio si fecero bui.
Quasi come una curiosa risposta del destino, lo stoppino della candela che aveva di fronte si spense. In quell’istante in cui la Redfield affollava i suoi pensieri, in cui cercava di strapparla via dal suo cuore, puntuale ecco che si mostrava di nuovo proprio nei suoi momenti cupi e solitari.
Se quel candeliere si era spento, era perché la ragazza aveva estratto la perla dalla statua, dunque spettava a lui intervenire adesso.
Fu affascinante immaginarla perfettamente nel contesto dove ella doveva trovarsi, quell’immagine lo estasiava perché lei era li per lui. Era li a giostrare con lui quella difficoltosa e inverosimile trappola mortale in cui entrambe le loro vite erano in realtà appese a un filo.
In una visione eccentrica e deviata, per Alfred era una sensazione nuova sapere qualcuno al di là delle mura ove lui vagava solitario. Qualcuno di cui inammissibilmente amava la presenza.
In quello stesso momento, le sue labbra si allungarono alle estremità in un velato e sincero sorriso.
Sorrise mentre si alzò dalla lucida pavimentazione marmorea per avanzare verso il meccanismo che avrebbe rispettivamente aperto il percorso a Claire, ma ineluttabilmente stroncato il suo. Era così che si lottava in quel mondo.
I percorsi erano stati progettati perché si alternassero, in modo che se la “coppia” fosse stata accidentalmente divisa, sarebbero morti non potendo collaborare l’uno con l’altro. Questo perché non si poteva sperare di vivere senza la propria metà.
Lui era l’architetto dietro tali macchinazioni, per cui sapeva le sue falle e le sue vie di fuga.
Tuttavia comunque doveva affidarsi alle mani e al cuore di Claire, perché per proseguire anche lui aveva bisogno di una “coppia”, anche lui rischiava la vita ora che era stato diviso dalla sua metà. Esattamente come voleva la sua “giostra”.
Doveva dunque ineluttabilmente aprire la via di Claire e sigillare la sua, era il solo modo per far sì che più avanti sarebbe stata lei a sbloccare l’uscita a lui.  
Sorrise quindi mentre decretava in quel momento una sua libera scelta di rinchiudersi per sempre in quelle mura se la giovane avesse miseramente fallito.
Sorrise sereno persino della possibilità della morte, di perire di fame e di sete, di dolore e noia.
Sorrise, perché pensava a lei.
Alla sua bella Claire Redfield.



 
***
 


 
Sotterranei dei laboratori artici dell’Umbrella
Bivio – Claire


 
Clank
 
Un debole, eppure nitido suono in quel silenzio lugubre e ingombrante, giunse all’orecchio della Redfield la quale non aspettava che quel segnale.
Se aveva udito giusto, la porta doveva essere aperta adesso, ciò voleva dire che aveva rispettato le regole di quell’enigma mortale di cui non conosceva nulla. Era scampata a una morte che non poteva nemmeno ipotizzare, se non avesse avuto l’aiuto di Alfred Ashford. Le sembrava strano pensare che in una situazione diversa poteva essere caduta in quella trappola senza sapere nulla e incombere in una morte inaspettata. Era un pensiero più devastante di quello che sembrava, l’essere coscienti, ma incoscienti di quel “a cosa era effettivamente scampata?”.
Più volte si era risposta che era meglio non pensarci. Era viva e stava proseguendo in quel labirinto della follia ove combatteva contro la distruzione ogni minuto; eppure non era facile non farsi prendere da quell’onesta paura. Paura di non essere sempre pronta, di non avere sempre le conoscenze e la fortuna necessaria per superare i pericoli nascosti ai suoi occhi.
Quella stanza ne era un crudele esempio. Un crudele esempio di inganno e di morte, celato fra le sontuosità e le eccentricità degli elementi che la ingombravano.
Vedeva quella statua affacciata come la metafora di Alfred stesso, di quell’uomo che ridendosela sotto i baffi, si chiedeva se la sua vittima occasionale sarebbe caduta nel tranello. Era un’immagine fastidiosa, disturbante, crudele.
Tuttavia quella stessa figura era quella che in quel momento era dalla sua parte al momento e l’aveva salvata.
Era difficile da accettare. Era difficile fidarsi totalmente. Era difficile…afferrare il pomello di quella porta e andare avanti.
Si sentiva sempre più imprigionata, sempre più indifesa.
Aveva paura, molta paura.
Allungò le dita con l’incertezza di aver fatto giusto, di aver risolto quell’enigma, con la consapevolezza che qualcosa di losco era celato in quella camera da letto e attendeva soltanto un suo piccolo passo falso. Le dita strinsero e girarono quel pomello d’ottone in un gesto quasi irrazionale, di chi ordina alla sua testa “non pensare, agisci”.
Quando questo girò normalmente e non accadde nulla, tirò un sospiro di sollievo.
Si voltò indietro un’ultima volta prima di proseguire.
Ricordò le parole di Alfred, ovvero che per proseguire lui doveva sbloccare la strada a lei, e lei…a lui. Quella scelta, purtroppo, spettava a lei.
Alfred era in quel momento solo, abbandonato al suo destino…che era nelle sue mani. Almeno così lui le aveva fatto credere.
Una parte di lei ipotizzava ovviamente l’ennesimo tranello da parte di Ashford, eppure la ragazza era un fascio di nervi. Perché voleva quella fiducia. Voleva che alla fine di quel percorso lui la guardasse negli occhi… sconvolto. Felicemente sconvolto.
Stranamente non desiderava che questo.
Spinse la porta e avanzò, ritrovando davanti a sé l’ennesimo corridoio angusto, stavolta illuminato da una curiosa e suggestiva luce blu.
Claire chiuse la porta dietro di sé e osservò l’ambiente. La luce proveniva da delle fiaccole che costeggiavano interamente le mura. Data la loro colorazione, era evidente fosse un fuoco artificiale, del gas. L’ambiente era anche particolarmente caldo, come fosse circondata da fornelli da cucina.
Stette ben attenta a dove mettesse i piedi o a qualunque cosa incombesse sul suo cammino. Non aveva dimenticato che non doveva assolutamente toccare nulla. La regola era valida fino alla fine di quel percorso.
Doveva tenerlo a mente.
Ripescò dalla tasca dei jeans il foglietto lasciatole da Alfred. Stando a ciò che le aveva detto, adesso toccava ai quadri da riordinare. Avrebbe trovato “le frustate e gli scherni del tempo”, “il torto dell’oppressore”, “la contumelia dell’uomo superbo”, “gli spasimi dell’amore disprezzato”, “il ritardo della legge”, “l’insolenza delle cariche ufficiali”, e “il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni”.
Era un enigma davvero altisonante, doveva riconoscerlo.
Se avesse conosciuto Shakespeare a memoria non sarebbe stato un problema. Tuttavia diciamo che il famoso verso “Essere o non essere, questo è il problema” era l’unico a lei familiare. La sua conoscenza si fermava lì, purtroppo.
A livello poetico lo conosceva, ma non così tanto da sapere a memoria l’intero soliloquio come Alfred.
Rilesse quindi quell’indicazione, felice di poter consultare una soluzione e non dover sforzarsi di farlo lei.
Si bloccò d’improvviso quando, alla fine del corridoio, a bloccare la strada era un enorme specchio, alto fino al soffitto.
Istintivamente scrutò la sua immagine: era sporca di polvere, terra e sangue; i suoi jeans erano strappati, la maglia visibilmente sgualcita, il viso sporco, i capelli erano raccolti ma in disordine. Passò una mano fra questi, consapevole di poter essere molto meglio di così, ma non si biasimò più tanto. Le occhiaie e l’espressione stanca erano lo specchio di quei lunghi giorni passati a vagare e lottare senza sosta.
Doveva farsi coraggio e continuare.
La luce blu alle sue spalle faceva risaltare il bianco della sua pelle e i suoi profondi occhi. Rimase a scrutarsi a lungo, riconoscendosi a stento. Era da così tanto che non si guardava da avere forse nostalgia di se stessa, di chi era.
Le mancava enormemente la sua vita.
Fu un naturale e giustificato momento di frustrazione. Gli occhi le bruciavano, i suoi denti digrignavano, cercando di trattenere la depressione. Strinse il fucile da caccia di Alfred, l’unica cosa che potesse abbracciare in quel momento.
Era sola, sporca, debole e stanca.
Era solo una ragazza di diciannove anni, cosa ci faceva lì? Cosa ci faceva a lottare con un fucile in mano? Cosa ci faceva una normale e semplice ragazza con un fucile in mano?
Tremò.
Era…davvero frustante…dover continuare a trovare una…motivazione…sempre…da sola…
Scosse la testa e asciugò gli occhi.
Osservò di nuovo se stessa attraverso quel riflesso, ricordando di non essere una semplice ragazza.
Lei era una combattente, lo era sempre stata. Se non avesse avuto delle vere e serie capacità non sarebbe mai arrivata viva fino a quel punto.
Quell’immagine era solo esteticamente minuta e fragile. La donna decisa e fiera che era dentro aveva una volontà e una forza inimmaginabile. Non era un modo per spronarsi ad andare avanti, non si stava prendendo in giro, era invece un giusto riconoscimento dei suoi meriti e doveva ricordarselo. Doveva smettere di sentirsi debole. Aveva ormai un lungo cammino alle sue spalle, ove non tutti ce l’avevano fatta come lei.
Non era facile portare un simile peso sulle proprie spalle e sapeva bene che persino per lei la morte poteva celarsi dietro ogni angolo.
Tuttavia Claire non voleva morire, non si sarebbe arresa, non avrebbe ceduto alla stanchezza del suo corpo. Esteticamente poteva sembrare sporca, fragile, sfiancata, ma la sua mente era ancora vigile e attiva…e questo era tutto. Doveva conservare la sua lucidità ad ogni costo.
Spostò dunque lo sguardo dal suo riflesso per concentrarsi sul resto.
La strada era bloccata da quel vetro e non poteva proseguire.
Si voltò indietro, osservando le torce bluastre. Magari nascondevano qualche meccanismo?
Non era certa di volerlo fare, l’Ashford si era fortemente raccomandato di non toccare nulla. Qualsiasi elemento in quell’ambiente era un inghippo per intrappolare lei…e anche lui.
Se Claire avesse fallito, anche Alfred sarebbe rimasto imprigionato.
Le dita erano tese verso quella fiaccola, ma non trovava la volontà nemmeno di sfiorarla, spaventata dall’idea di errare. A malincuore decise di desistere e formulare altre ipotesi prima di proseguire, tornò dunque davanti lo specchio che bloccava la via.
Se Alfred l’aveva posizionato alla fine del corridoio, doveva esserci un perché; era un’ubicazione davvero strana, era lampante che bloccasse un passaggio o comunque fosse lì per nascondere qualcosa.
Aguzzando meglio la vista, si accorse che non aveva sbagliato; al di là dello specchio era possibile scorgere qualcos’altro oltre al riflesso, era come se…come se vi fosse qualcosa.
In quel momento si accorse che non era solo un’impressione ma un effetto ottico! Quello specchio non era uno specchio, ma solo un vetro molto lucido e riflettente.
Probabilmente erano proprio le luci molto accese e bluastre di quel corridoio che creavano quell’effetto facendolo apparire uno specchio. Questo voleva dire che la strada proseguiva, non era un vicolo cieco.
Doveva solo trovare il modo di spostarlo senza toccarlo.
Scrutò meglio cosa si intravedesse al di la di questo; il riflesso era molto forte per cui la vista faticava davvero molto, tuttavia, una volta abituata, era abbastanza nitida l’ombra di una candela che irraggiava da un angolo e la pavimentazione che proseguiva oltre lo specchio; non si vedeva molto altro.
Il tempo per indugiare era finito, era ora di agire.
Decise di puntare il fucile verso il vetro e sparare. Fu un piccolo e tenue gesto…e in meno di un secondo la strada che prima era bloccata si trasformò in una serie di frammenti rotti.
Metà di quello specchio era ridotta in frantumi e, soprattutto, niente pareva averla attaccata.
Stette attenta a non ferirsi passando fra i pezzi scheggiati. Lo scricchiolio del vetro sotto i piedi si propagava in quel lugubre silenzio mentre lentamente si ritrovò finalmente dall’altra parte, di fronte il nuovo enigma da risolvere.
Stavolta l’ambiente era molto più caldo; delle candele sparse un po’ ovunque illuminavano in modo flebile la stanza. La cosa strana erano dei manichini buttati a casaccio, come se fossero stati riposti in quel luogo frettolosamente. Erano infatti inclinati e danneggiati.
Vederli le ricordò la “casa delle bambole”, forse era lì che Alfred aveva conservato i pezzi inutilizzati. Ad ogni modo dei manichini in un posto così cupo avevano un che di diabolico.
Sapeva di dover cercare un riferimento al soliloquio shakespeariano, ma non era facile in quel trambusto. Solo dopo aver cercato in lungo e in largo si accorse che l’unico elemento che potesse tornarle utile era qualcosa nascosto fra i manichini.
Era una sorta di…teschio, forse?
Era ovviamente restia se seguire l’istinto o no, fatto stava che l’odore di vecchio e di muffa, nonché l’oppressione di essere ormai da un bel po’ in quella stanza senza sapere che fare, non la mettevano certo a suo agio.
Solo quella sorta di teschio deforme le sembrava richiamare un po’ quella distensiva morte che metteva fine alle umiliazioni e alle sofferenze umane di cui parlava Shakespeare.
Si domandò perché Alfred non le avesse specificato di dover interagire con qualcosa di simile, era un dettaglio che la metteva enormemente in dubbio, scrupoloso com’era stato.
Si avvicinò, piegandosi verso quella figura, sperando che scrutandola da vicino le suggerisse qualcosa. Quel che non poteva aspettarsi era che questa sentì il suo odore e quando Claire fu a pochi centimetri da essa, vide quegli enormi bulbi scuri e vuoti alzarsi orribilmente verso di lei, spalancando le sue fauci dentate. Senza nemmeno accorgersene, questa avvinghiò le dita ossute eppure energumene sul suo cranio, stritolandolo e portandola di fronte a sé. Fu un’immagine agghiacciante.
Un urlo soffocato uccise i timpani della Redfield, che sentì la sua sanità mentale andare in tilt di fronte quella figura spaventosa. Questa si eresse in piedi e si rivelò essere più possente di quel che sembrava. Non era solo un teschio, era un intero mostro dalla pelle talmente sottile e rinsecchita da sembrare scheletrico. Vista nella sua interezza, l’ossatura non era quella di un essere umano, la testa ingannava le sue dimensioni reali. La creatura era enorme, possente, vigorosa.
Chissà che diavolo di forma doveva avere prima di invecchiare e putrefarsi in quel modo, visto che nonostante le ossa da fuori e il colore giallastro restava così mastodontica.
Il suo odore era nauseante, doveva essere lì a marcire da mesi, se non anni.
Claire poteva sentire la fame e la disperazione che emanava, lei non era che il desiderato pasto di una creatura fabbricata e lasciata in quel sotterraneo a marcire.
Si ritrovò sollevata da terra fra le sue grinfie, mentre quel teschio invecchiato la scrutava pur non avendo più occhi, se non quelle enormi orbite vuote.
Istintivamente chiuse gli occhi, non reggendo quella faccia veramente mostruosa. Puntò il fucile dinanzi a sé e sparò; sparò senza sosta, ricaricando un paio di volte senza pensare al dolore.
Il mostro mollò la presa, così lei cadde a terra, trovando la salvezza almeno fino a quel momento.
Alzò gli occhi verso quella creatura, notando le voragini che avevano aperto i colpi sul suo corpo, tuttavia non scorreva nemmeno una goccia di sangue in quel tessuto ormai consumato.
Si rimise velocemente in piedi, sentiva le gambe tremare.
Quella massa era enorme, ma quel corpo era vecchio. Si chiedeva se potesse quindi abbatterlo o doveva scappare, e in fretta!
La bestia ruggì di nuovo, al che Claire non ci pensò due volte a passare di nuovo attraverso il vetro rotto e guadagnare terreno. Stavolta non potette strisciare lentamente per non graffiarsi. Sentì ogni singola scheggia graffiare il suo corpo e le sue vesti. Strinse gli occhi cercando di tenere almeno il viso in salvo, ma l’avere quel mostro alle sue calcagna non l’aiutò a concentrarsi.
Con la coda dell’occhio vide quell’essere distruggere quella stanza. I manichini erano in mille pezzi, così come i pochi elementi che l’arredavano.
Meno male che Alfred si era raccomandato di non toccare nulla, pensò fra sé, sperando che per colpa di quel mostro non avesse buttato al vento ogni possibilità di salvarsi.
Tuttavia doveva salvarsi la vita in “quel” momento, prima di tutto.
Una volta passata oltre, corse verso la fine del corridoio e si posizionò in ginocchio.
Prese bene la mira e aspettò di avere a tiro il nemico, che famelico riuscì a individuarla anche senza vista o olfatto. Era raccapricciante vedere come quello scheletro si muovesse nonostante non potesse in nessun modo farlo! Doveva essere una B.O.W. senza alcun dubbio.
Era spaventoso cosa quel virus fosse capace di fare, quanto potesse tenere in piedi persino una creatura ridotta orribilmente in quel modo. Senza organi interni, né muscoli, né qualsiasi tessuto ne potesse permettere oggettivamente la vita.
Non appena lo ebbe minimamente a tiro, BAM, premette il grilletto e ricaricò. Seguì un altro colpo e un altro ancora.
Claire mirò alle sue gambe, in modo da rallentarlo, poi alla massa, ed infine alla testa.
Doveva capitolare a un certo punto…doveva!!
A un certo punto lo ebbe a una gittata troppo vicina, decisamente vicina. Non poteva utilizzare nemmeno il binocolo montato sull’arma, poiché la b.o.w. era praticamente di fronte a lei. Usò quindi il fucile come un fucile a pompa e sparò…sparò pregando che quello fosse l’ultimo colpo.
Esalò così l’ultimo respiro…urlando a pochissimi centimetri dal suo viso. Capitolò e infine sprofondò a terra inerme.
Il tanfo terribile che emanava quell’alito disperato le rivoltò lo stomaco, costringendola a vomitare.
Le sue viscere si contorsero violentemente, esigendo di liberarsi da quell’estremo disgusto.
Aveva le lacrime agli occhi, si sentiva venir meno.
Claire asciugò la bocca e tremante si voltò verso il mostro, stavolta davvero morto.
La carcassa era sopra di lei, le bloccava le gambe.
Aveva avuto così bisogno di rigettare da non scostare nemmeno quell’orribile cadavere da dosso. Si mise in piedi e traballante cercò di riprendersi, ma soprattutto di andare via al più presto.
La testa girava vorticosamente. Era oramai sull’orlo della sopportazione, lo stress accumulato la faceva sentire fredda e vacillante.
Tornò nella stanza e si affacciò dentro; osservò con preoccupazione il disastroso macello creato dal mostro, terrorizzata dall’idea che avesse toccato qualcosa che non doveva essere mosso.
Il suo sguardo era totalmente confuso e affranto, non sapeva davvero che fare.  Non sapeva nemmeno su cosa focalizzarsi.
Era tutto un disastro di detriti, di resti di quei pochi arredi che prima erano presenti; ora ingombravano il pavimento, ricoperti da un grigio e denso strato di polvere alzatosi dopo l’impatto.
Il suo sguardo si spostò ove erano ammucchiati i manichini. Adesso che erano stati scaraventati tutti per aria, era stato liberato il passaggio e poteva scrutare quella zona. Braccia dalle mani affusolate e dita contorte indicavano in vaghe direzioni, a seconda di dove erano cadute. Busti, gambe e teste componevano una figura umana del tutto errata e scomposta, gravando sull’atmosfera già abbastanza inquietante. Era come se quello squilibrio rappresentasse la sua stessa confusione mentale, non riusciva nemmeno a guardarle, terrorizzata dall’idea di finire mentalmente a pezzi, come loro.
Quella terribile e spaventosa paura di impazzire.
Una testa era esattamente davanti a lei, in posizione erta sul pavimento.
Una posizione decisamente curiosa. Come era potuta rimanere in piedi dopo quel trambusto? Era anche decisamente lucida, pulita, come se il risveglio di quella terribile e funesta b.o.w. non l’avesse nemmeno scalfita. Era probabilmente l’unico oggetto non solo in ordine, ma anche pulito e senza alcun segno del tempo.
Il volto era quello del tipico uomo con i capelli pettinati all’indietro, intagliati nel legno lucido. Un tipo di disegno tipico dei manichini maschili.
Eppure più lo osservava, più le ricordava Alfred Ashford.
Forse glielo ricordava per via dei tratti così delicati e neutri, era facile che una figura del genere gli rassomigliasse in fondo. Il folle castellano aveva un volto molto fine e androgino, forse…proprio come un manichino.
Non era poi tanto difficile assimilarlo a quell’immagine. Aveva però dell’inquietante che quella testa fosse l’unica cosa che non fosse stata mossa dal mostro.
Era forse…davvero Alfred?
Claire lo circumnavigò, non avvicinandosi troppo ma nemmeno distogliendo gli occhi.
Quella testa attirava la sua attenzione, ma lei doveva andare avanti e rigare dritto. Doveva seguire esattamente cosa le aveva detto l’Ashford di fare.
Proseguì, addentrandosi oltre e dopo aver raggiunto il fondo di quell’angolo della stanza, notò una botola ai suoi piedi. Guardò alle sue spalle, scrutando gli altri angoli. Non c’era null’altro che potesse fare. Afferrò la grossa maniglia arrugginita e la tirò su con veemenza. Non doveva essere usata da secoli, era veramente ben incastrata. Digrignò i denti e dopo qualche tentativo lo strato di polvere che la teneva bloccata cedette e così poté sollevarla.
Si affacciò ma l’unica cosa visibile era la piccola scaletta a pioli che portava al piano di sotto. Era completamente ricoperta di polvere pruriginosa e ragnatele.
In circostanze normali non avrebbe nemmeno osato guardare un’entrata simile, eppure aveva già un piede sul gradino, pronta a penetrare in quell’antro angusto.
Era buio, non vedeva praticamente nulla. Per scendere quelle strette scalette dovette muoversi meccanicamente, sperando che non mancasse alcun gradino o non vi fosse alcuna insidia.
Sbandò quando, per calare giù il piede, ritrovo al di sotto il terreno pianeggiante. Aguzzando la vista, effettivamente le scale erano finalmente finite, non se n’era resa conto minimamente.
Alzò il viso e intravedeva ancora la stanza soprastante, non era scesa poi molto in profondità. La distanza sembrava essere più vasta proprio per il suo incedere lento per via dell’oscurità, ma a fatti era scesa di tre o quattro metri al massimo.
Si spostò dunque, girandosi attorno e sperando di vedere una fonte di luce al più presto.
Mentre camminava, improvvisamente si accorse di aver urtato qualcosa. S’immobilizzò spaventata e in quello stesso istante un focolare si accese illuminando finalmente l’ambiente.
Claire tirò un sospiro di sollievo quando vide finalmente dinanzi a sé l’enigma di cui le aveva parlato Alfred.
Sul fondo di quell’antro vi era un muro di pietra, sul quale erano appesi dei quadri molto antichi e consumati. Ritraevano diverse scene, ognuna che rimandava al soliloquio dell’Amleto, esattamente come le aveva detto l’architetto di quel teatro degli orrori.
Stette ad osservarli ad uno a uno, chiedendosi se li avesse fatti dipingere apposta o li avesse accuratamente cercati per il mondo pur di valorizzare il suo perverso eppure affascinate gusto del terrore.
Odiava che una parte di sé trovasse del fascino nel notare la cura maniacale che quell’uomo aveva dimostrato, nonché l’enorme sensibilità e cultura verso la storia e l’arte. Era terribile che invece avesse sfruttato tali qualità meravigliose per…per quello.
Per soddisfare la sua ira, la sua rabbia, la sua solitudine. Per godere della paura, del dolore, della crudele e spietata sofferenza della morte.
Perché il destino era stato così crudele nel condannare una mente così ingegnosa, libera, profonda, ad una pazzia così densa da rovinare la sua stessa bellezza?
Era come prendere un quadro bellissimo e maledirlo, sporcarlo, gettarlo in pasto alla depravazione.
Avrebbe tanto voluto rimetterlo in ordine e valorizzarlo…valorizzarlo come meritava. Si chiedeva soltanto se non fosse troppo tardi.
Forse avrebbe voluto portarlo via con sé con la forza e farlo rinascere…
 
Portare via Alfred Ashford da Alexia…
 
…poteva farlo?
 
Scosse la testa e reperì il foglietto dalla tasca.
Doveva posizionare delle placche numerate sotto i quadri e metterli in ordine.
Prima di completare l’enigma però ricordò che doveva aprire la strada ad Alfred.
Doveva esserci un tastierino nascosto dietro a una porzione di muro. Non sapeva come riconoscere il punto ma non poteva rischiare di andare avanti senza prima essersi assicurata di aver messo in salvo chi le aveva dato i mezzi per arrivare fin lì.
Costeggiò dunque l’intero muro, picchiettandolo e aspettando di sentire un rintocco vuoto.
Quando trovò un punto idoneo, usò il calcio del fucile per abbatterlo e questi cedette senza troppi problemi. Evidentemente era ricoperto solo da un po’ di calce.
Fu lieta di intravedere subito il tastierino digitale che lui le aveva menzionato. Buttò giù con le mani quel che rimaneva ancora attorno al dispositivo, dopodiché posizionò le dita su di esse ricapitolando il numero da digitare. Un numero che aveva avuto ben modo di memorizzare…1971…
La data di nascita dei gemelli Ashford.
Sbirciò di nuovo il foglio lasciatole da Alfred, tanto per controllare, eppure sbandò quando si accorse che non era stato appuntato quel numero. Cos..cosa? Perché non l’aveva scritto?
E se erroneamente avesse memorizzato la combinazione errata?
Come aveva potuto essere così incosciente?
In quello stesso momento pensò………………..lui…l’aveva messa alla prova?
Aveva messo a rischio la sua vita pur di sapere se lei si fosse ricordata di lui?
Il suo cuore sussultò.
Una parte di sé provo turbamento, voleva che lui contasse su di lei, era pronta a rappresentare quel…quel…
 
Quell’essere una persona differente.
 
Claire non era una persona come le altre.
 
Alfred aveva conosciuto solo egoismo, violenza, abbandono, tradimento, solitudine.
 
Lei sapeva di poter essere qualcuno di diverso per lui.
Nonostante le facinorose e cruciali circostanze che avvolgevano di tenebre la vita immorale di Alfred Ashford, la ragazza era riuscita a connettersi a una parte di lui.
Non sapeva bene come, non poteva giustificare i suoi comportamenti e le sue deviazioni mentali, né lo avrebbe fatto, però aveva intravisto la sua umanità…e come invece doveva evitare di fare, era arrivata fino in fondo.
 
Cosa vi aveva trovato?
Un ragazzo solo, triste, abbandonato.
 
Lei quell’uomo lo aveva visto. Sapeva della sua esistenza. Sapeva dei suoi dolori.
 
Poteva aiutarlo? Non lo sapeva.
 
Qualcuno sarebbe mai stato disposto ad aiutarlo?
Fin ora nessuno lo aveva fatto, per questo lui era caduto.
 
Era un’enorme responsabilità decidere di essere quel qualcuno. Quel qualcuno che avrebbe combattuto contro la razionalità e lo spirito di sopravvivenza, andando contro la logicità e il sennò.
Questo pur di posare una mano sulla sua spalla e sussurrargli parole di conforto.
Pur di dirgli…
 
“Non sei solo.”
 
Sulla guancia di Claire scivolò una lacrima. La ragazza sbarrò gli occhi incredula. Non si era nemmeno accorta di aver cominciato a piangere.
Si asciugò velocemente.
Era terribile sapere cosa significasse sentirsi abbandonati.
Era terribile immaginare di non aver mai avuto nessuno al proprio fianco per ventisette lunghi anni.
Non si trattava solo di Alexia. Alfred Ashford era solo da molto prima. Lui era stato considerato fin dalla sua nascita un “errore”. Un “sovraccarico” dell’intelligenza della reincarnazione di lady Veronica.
Nessuno l’aveva mai considerato. Nessuno lo aveva mai accettato.
Eppure lui esisteva. Lui era vivo. Lui era un grande genio mancato, che pur di gridare al mondo la sua esistenza e il suo valore, aveva inscenato quel palcoscenico insanguinato.
Con quale arroganza Claire poteva farsi avanti e essere quel qualcuno che non gli avrebbe voltato le spalle? Come gli avrebbe detto che poteva ancora cambiare e ricominciare tutto?
Tuttavia se non lei, chi l’avrebbe mai fatto?
Chi, incontrandolo, sarebbe mai riuscito arrivare al suo stesso livello di conoscenza?
Le circostanze che l’avevano portata a entrare nel suo mondo erano irripetibili. Chiunque avrebbe puntato una pistola e l’avrebbe semplicemente arrestato o ucciso.
L’Ashford era totalmente fuori controllo, irreparabilmente deviato.
Se non per lei…
Claire…era forse l’unica persona al mondo… a distanza di quindici anni dalla fantomatica ibernazione di Alexia…a credere in lui. A guardarlo con occhio umano.
 
Questo…
Le faceva paura.
 
Le faceva paura perché avere accanto un uomo come lui era arduo, ed era pericoloso.
Egoisticamente avrebbe dovuto pensare solo a sé stessa, a scappare; a trovare Steve e fuggire da quel dannato posto.
Tuttavia…
 
Tuttavia voleva portare anche Alfred con sé.
Portarlo via come uomo.
Portarlo fuori quale prigioniero di quel posto.
Perché anche su di lui vigevano le forti e robuste catene dell’Umbrella, anche se in modo diverso.
Una prigione mentale da cui non sapeva se poteva tirarlo fuori; ma non poteva nemmeno abbandonarlo così.
Doveva salvarlo.
 
Alfred non cercava alcuna salvezza. Lui voleva morire in quel posto. Non era poi tanto dissimile dagli zombie che combatteva.
Loro erano famelici di carne viva, insaziabili e funesti. Bramavano soltanto di nutrirsi, di sopraffare coloro che incombevano sul loro cammino pur di saziarsi di una fame che non avrebbero mai soddisfatto.
Lui invece voleva solo proteggere Alexia, attendere il suo risveglio. Voleva aiutarla a essere una vincente, a realizzare i suoi desideri fino a ridursi lui stesso in follia. Lei che era la sua unica Luce. Lei che era la sua unica Regina. Era insaziabile di lei, di un amore che non lo avrebbe mai soddisfatto però.
Perché in realtà, se si guardava allo specchio, egli era solo. Era sempre e comunque solo.
 
Era Lei la persona che avrebbe fatto la differenza nella sua vita?
 
Oppure lui…l’avrebbe uccisa?

1…Bip, 9…Bip, 7…Bip, 1…Bip

Una volta inseriti i numeri, il tastierino emise un suono e una spia verde s’illuminò. Il codice era corretto, poteva proseguire.
Riordinò i quadri assegnando una piastrella ad ognuno di questi seguendo l’ordine recitato nell’Amleto, al che su ognuno di essi calò una tenda color amaranto e si fece spazio una pedana ove era adagiato lo stiletto che toglie gli affanni.
La Redfield lo prese fra le mani, e a quel punto il muro cominciò a tremare fino a inabissarsi nella pavimentazione.
Trovò così davanti a sé due percorsi.
Alfred le aveva detto che poteva scegliere tranquillamente la via che preferiva.
Suggestive ed inquietanti erano però le incisioni che contornavano la parte superiore di entrambi i percorsi, ove l’uno era denominato La via della morte, l’altro La via della via.
Claire deglutì e senza perdere troppo tempo optò per La via della vita. Era un tantino più incoraggiante, almeno.
Infilò lo stiletto nella serratura, il quale scivolò dentro di essa rispondendo perfettamente al meccanismo.
Fece il primo passo avanti, aprendo la porta e iniziando il nuovo cammino.
Talvolta si voltò indietro, aspettandosi che il passaggio si chiudesse dietro di sé, cosa che però non avvenne.
Era probabile dunque che entrambe le strade restassero aperte proprio per indurre in tentazione l’indesiderato ospite, in modo che più facilmente cadesse in qualche tranello.
Alfred le aveva raccomandato anche di non tornare mai sui suoi passi una volta intrapresa una strada. Una tentazione difficile da superare quando si avevano davanti due strade.
Come se quelle mura avessero potuto ascoltare i suoi pensieri, udì improvvisamente il suono di un carillon…un suono a lei familiare.
Si trattava del motivetto che spesso aveva sentito a Rockfort Island e che faceva da sfondo a molti enigmi riguardanti gli Ashford.
Poteva definirla una sorta di ninna nanna dei gemelli Ashford, o almeno era una sinfonia assimilabile a quel tipo di musica.
Era molto dolce e profonda, eppure le aveva sempre trasmesso un non so che di triste.
Sbandò quando, a metà del percorso intravide una porta semi aperta, dalla quale fuoriusciva un tenue bagliore di luce. Istintivamente sbirciò dentro mentre passava e il suo sguardo cadde immediatamente su una sedia a dondolo che oscillava, ove era adagiato qualcuno di spalle. Era una camera da letto, si intravedeva il camino, un letto, delle bambole…e la donna ivi seduta aveva dei lunghi capelli biondi. Il suono proveniva da lì; era lei che lo stava ascoltando.
Per un attimo, la Redfield si fece prendere dall’istinto e si approssimò alla porta ponendosi a pochi centimetri di distanza dall’uscio semi chiuso. La luce proveniente dall’interno rigò parte del suo viso. Non poggiò nemmeno le dita sulla porta, né osò avvicinarsi di più; si limitò ad osservare la scena e a farsi cullare da quella nostalgica melodia, seguendo il movimento della sedia che oscillava. Infine tornò sui suoi passi, consapevole del grande rischio in cui poteva incombere se avesse deciso anche solo di muovere un passo in quella stanza.
Mentre Claire si faceva sempre più lontana, dall’altra parte di quell’uscio la sedia smise di oscillare. La trappola…non era stata innescata.
La ragazza arrivò alla fine del percorso. Alla sua sinistra trovò l’uscita anche dell’altra strada, quella della Morte.
In verità non ci pensò nemmeno a percorrere anche quel sentiero. Era troppa la paura di sbagliare, troppa la tensione dietro ogni suo singolo gesto. Aveva preso molto alla lettera le parole del biondo.
Inoltre sapeva cosa presto avrebbe dovuto fare e l’idea la ripugnava abbastanza; sperava soltanto di aver immaginato in modo esasperato ciò che le aveva preannunciato Alfred.
Questo perché l’ultimo ostacolo che le restava…era il Cuore.
Doveva calpestare un cuore affranto. Liberarlo dal suo dolore.
L’ambiente man mano si fece sempre più insolito, andando a rassomigliare a una struttura più attuale. Le pareti erano ammuffite e sporche, ma aveva come l’impressine di essere in una zona più simile a un laboratorio.
Lo capì dalla struttura indubbiamente invecchiata, tuttavia ordinata e ampia, costruita con i materiali tipici di quel tipo di settore.
Ovviamente si ritrovò poi davanti una porta con su scritto “Obitorio”.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa in quel momento pur di non entrare.
Usò di nuovo lo stiletto per entrare, dopodiché avanzò. Scese pochi gradini e si ritrovò in un’orribile stanza colma di buste e sacchi neri, più o meno riempiti. Un corpo semi mummificato era adagiato su uno dei lettini di acciaio.
Si pietrificò quando notò che aveva una veste militare e che quel che rimaneva dei suoi capelli radi era di un color platinato molto delicato.
Fu un’immagine che la turbò enormemente.
La giacca era rossa, con i tipici decori militari; i pantaloni di un bianco sporco; uno spadino da ufficiale era incastrato nella sua cintura; ma soprattutto la sua espressione sofferta, tipica di un corpo morto abbandonato lì da anni.
La bocca spalancata e piena di ragnatele, gli occhi oramai infossati e la pelle così rugosa da non permetterle alcuna identificazione.
Eppure era ben distinguibile l’ossatura.
Osservò infine la capigliatura ingrigita, pettinata all’indietro.
Che fosse davvero una “bambola” oppure no, quella era la perfetta versione mummificata del folle e maniaco Alfred Ashford.
Come poteva avere un gusto così…meschino! Persino con sé stesso.
Aveva davvero fatto costruire un fantoccio simile solo per cavarne il cuore e violentare non solo la persona sfortunata che avrebbe dovuto compiere tal gesto, ma proprio se stesso!
Non poteva credere a quanto Alfred fosse spietato con sé, oppure…a quanto si divertisse nel giocare con i suoi stessi sentimenti; i suoi stessi dolori.
Più che toccare la mummia, quel che tormentava il suo cuore era proprio torturare idealmente quella persona.
Non voleva fargli del male, era proprio il contrario di ciò per cui stava lottando in quel momento.
Sapeva che era tutto finto, si trattava solo dell’ennesimo tranello per uscire viva da quel posto.
Però…però quell’uomo rappresentava un dolore mentale e fisico che ora lei ben conosceva.
Conosceva il peso degli affanni provati da quel cuore. Un cuore marcio, ormai carico di odio e di disprezzo.
Eppure lasciato lì a marcire………tristemente dimenticato.
Dimenticato fra i dolori, le attese, gli inganni di una vita tremendamente ingiusta e solitaria.
Dunque era a lei che spettava liberarlo da quel cuore?
Far penetrare il coltello nel suo petto e squarciarlo, al fine di togliergli quel prezioso eppure dannato pezzo; che da gioie e dolori; speranze e delusioni; sincerità e menzogne; che da vita e da morte.
Le sue mani tremavano. Il suo spirito le urlava “No”, non voleva nemmeno toccarlo.
Non voleva farlo, era…era disumano. Nemmeno Alfred meritava di essergli cavato il cuore pur di smettere di soffrire.
Toccò i bottoni placcati in oro e li fece delicatamente scivolare attraverso la fessura dell’abito. Così fece anche per la camicia ingiallita che portava sotto, fino a che non l’aprì lasciando scoperta la gabbia toracica.
A quel punto sfilò dalla cintura il coltello da cucina che conservava ancora e con una veemenza che non avrebbe mai voluto essere costretta ad avere, infilzò quel corpo.
Essendo una mummia, i tessuti erano completamente secchi e asciutti. Sembrava come intagliare un durissimo cartone. Per Claire fu disgustoso dover far leva e riuscire ad aprire il torace, strappando via la pelle e penetrando al suo interno.
Sperava che davvero non fosse un corpo vero, ma soltanto una bambola ben costruita. L’odore era in verità insopportabile, ma non poteva fermarsi. Non ora che era arrivata alla fine.
Incassò il coltello e segò l’epidermide con movimenti veloci sperando che cedesse. Infine riuscì a fare abbastanza pressione da spalancare in quasi due perfette metà la gabbia toracica.
Il tanfò che venne fuori le fece venire le lacrime agli occhi, costringendola ad allontanarsi un momento. Aveva le viscere da fuori dal ribrezzo.
Riuscì a non vomitare e così si affacciò di nuovo verso quel corpo, volendo prelevarne subito il cuore e lasciando quella stanza al più presto.
Diede un’attenta occhiata e lo scorse immediatamente. Uno scrigno di porcellana finemente decorato, dal colore rossiccio…e a forma di cuore.
Claire lo tirò verso di sé e finalmente la soluzione all’ultimo enigma era fra le sue mani.
Doveva soltanto frantumarlo per raccogliere la chiave al suo interno.
Mentre lo adagiò a terra, pronta a darvi un deciso colpo col tacco della scarpa, mille dubbi e pensieri trafissero la sua mente.
Mille esitazioni, domande, incertezze, e consapevolezze...

Infine innumerabili frammenti si sparpagliarono sul pavimento, accompagnati dal suono vitreo di quello scrigno ormai ridotto in pezzi.
 
 
[…]















 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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