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Autore: Mir7    12/03/2018    0 recensioni
Le cose qui stanno così da un bel po', ma qui nessuno sembra svegliarsi- mi spiegò. -Dopotutto che c'è di male ad amare? Che male c'è se in un mondo governato dall'odio, l'amore sopravvive? E poi, se prima o poi dovessimo rischiare la vita, non sarebbe meglio buttarsi e provare ad amare prima che sia troppo tardi piuttosto che rimpiangerlo per sempre?- guardava il cielo mentre esprimeva questi pensieri, più a sé stesso che a me.
Questa storia è il terzo titolo della serie Deitas, il seguito di "La mia nuova vita parte due"
Genere: Avventura, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gli Dèi, Mostri, Nico di Angelo, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Deitas'
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[Havery Lilith]

 

La “dittatura” andava avanti da sedici anni ed eravamo sempre più isolati dal resto del mondo. Mostri di ogni genere si facevano largo negli Stati Uniti d'America portando il terrore dall'anno duemiladiciannove. Ma io, Havery Underworld una ragazza americana, non avevo mai visto un mostro in vita mia, per quel che ricordavo. Ero cresciuta in una casa famiglia a Palmdale, vicino Los Angeles, in California. Non avevo i genitori, ecco perché ero costretta a stare in un alloggio per famiglie fino ai diciotto anni, se non fosse che una persona venisse a prendermi e si incaricasse di me. Scoccarono le sette di mattina così mi alzai dal letto, accesi la luce e mi avvicinai al muro opposto. C'era una finestra all'angolo sinistro che arrivava quasi al pavimento, un foglio attaccato al muro con qualche numero e dei segni. Sulla scrivania di legno chiaro, unita ad una piccola libreria con qualche libro al suo interno, avevo lasciato la mia cara pianola la sera precedente. L'accarezzai prima di prendere una penna e appoggiarmi al muro per scrivere sul foglio attaccato ad esso. -Ancora due anni... solo altri due- dissi mentre cancellavo il numero diciotto dal mese di marzo. Era il mio compleanno e compievo sedici anni.

Il conto alla rovescia era per la libertà, per andarmene finalmente dalla casa famiglia "Owens Family, dove tutti saranno accettati e rispettati". Non sopportavo di trovarmi lì, tutta la dolcezza della Signora Bonnie Owens mi aveva iniziato a dare la nausea. Non che fossi antipatica o indisposta, ma dopo tutti quegli anni di incomprensioni cominciai a sentirmi fuori posto. Aprii l'armadio poco distante dalla porta, presi qualche indumento e partii alla volta del bagno. Mi pettinai i lunghi capelli neri lisci e mi guardai allo specchio: avevo gli occhi marroni tendenti a scurirsi ma oggi sembrava tutto normale, la pelle chiara anti-abbronzatura faceva risaltare i folti capelli che mi incorniciavano perfettamente il viso tondo. Sceglievo apposta le sette di mattina per svegliarmi, in modo da avere mezz'ora per prepararmi e uscire. Non facevo mai colazione lì, preferivo starci il meno possibile. Quando capitava di rimanere più del dovuto gli sguardi della signora Owens mi riempivano di tristezza e cercavo di mancarli. Evitavo anche l'autobus per la scuola, sceglievo di andarci a piedi per restare sola con i miei pensieri. Non che pensassi a cose molto importanti, dopotutto passavo troppo tempo all'interno della mia testa e mi chiedevo le stesse cose da sedici anni: perché sono qui? Perché a differenza di tutti io non ho mai visto un mostro? Avrò qualche problema mentale o simile? Ma soprattutto, perché non ho i genitori?

Il panorama era sempre il solito. Le nuvole coprivano il sole, le strade erano deserte, le case grigie erano chiuse e il massimo che potevi incontrare erano dei bulletti che rubavano i soldi per il pranzo. Mentre camminavo pensierosa verso la scuola una moto mi si fermò di lato, schizzandomi di fango.

-Sta più attenta, stracciona- disse il passeggero che ripartì ridendo.

Era quasi sempre così. Io non avevo amici, o i pochi con cui riuscivo a socializzare dopo un po' di tempo si allontanavano intimoriti, e venivo definita stracciona per i vestiti cupi di seconda mano che avevo. Succedeva almeno una volta al giorno che qualcuno mi sporcasse i vestiti o se la prendesse con me. Quella volta me l'ero cavata con poco, qualche goccia infondo ai jeans grigi e qualcuna sul giacchetto nero. Quando giunsi davanti alla scuola un'altra moto si fermò davanti a me, questa volta sporcandomi interamente la maglietta grigio perla.

-E' il nuovo gioco del giorno?!- esclamai coi nervi tesi.

Il guidatore scese, si tolse il casco e mi consegnò una lettera. -Oh, scusa, non volevo- disse sincero sorridendomi gentilmente.

Alzai gli occhi verso di lui e notai che era poco più alto di me, sicuramente avremo avuto la stessa età. Aveva i capelli castani ricci e i suoi occhi marrone chiaro brillavano di una strana luce. Presi la lettera e la lessi dentro di me: parlava di una scuola dove vivere, studiare, allenarsi... si chiamava Istituto Combattenti, ma le persone lo conoscevano come Istituto Speciale per "Casi Strani". Era per lo più una leggenda in quanto nessuno era mai riuscito a trovarlo. Buffo che qualcuno volesse portarmi fuori dalla casa famiglia proprio quando avrei più voluto. Restituii la lettera al ragazzo e gli voltai le spalle.

-Molto divertente. Bello scherzo- dissi indifferente mentre mi avviavo verso l'entrata del liceo.

-Ma... che?- il ragazzo mi corse dietro piuttosto confuso dalla mia reazione. -Non è uno scherzo, è vero e...- provò a dire ma io non lo lasciai finire.

Non gli avrei creduto senza una prova tangibile, era fin troppo bello per essere vero. -Non potrei comunque andarmene, bisogna avere un autorizzazione da portare alla casa famiglia- esclamai secca fissandolo negli occhi. Entrai e cercai di dimenticarmi del ragazzo e di questo fantomatico Istitituto. Andavo alla Istanet High School, situata nella parte occidentale di Palmdale. L'edificio era grigio e tetro come le case per le vie. Mi avviai alla lezione di inglese, dove passai tutto il tempo a guardare fuori dalla finestra pensando dove sarei potuta andare prima di tornare a "casa". La biblioteca cittadina sarebbe stato il luogo perfetto dove svagarmi quindi decisi di trascorrere lì il resto della mia giornata. Forse la lettera di quel ragazzo era veramente la mia opportunità, ma non aveva nessuna autorizzazione quindi è logico pensare che fosse tutto uno scherzo di cattivo gusto. Giusto? Passarono altre due ore interminabili di noia in cui continuai a riflettere sull'eventualità che il riccioluto stesse dicendo la verità.

-Ah! Devo smetterla di fissarmici!- pensai alzandomi dal banchino quando suonò la campanella dell'ora di pranzo.

Mentre mi dirigevo in mensa mi sentii inseguita, così mi girai e per poco il ragazzo della lettera non mi sbatteva contro sorpreso che lo avessi notato.

-Ancora tu? Mi sembra di averti detto che...- iniziai spazientita ma lui mi parlò sopra. -Sono andato a portare l'autorizzazione del Direttore alla tua casa famiglia. Ecco cosa mi ero dimenticato, grazie per avermelo ricordato- sorrise soddisfatto -Havery Lilith Underworld, no? Stai dagli Owens, se non ha sbagliato indirizzo- pensò ad alta voce grattandosi la mascella.

Non capii contro chi inveisse il ragazzo però aveva azzeccato in pieno il mio nome e non credo che in molti si chiamino così. Potevo fidarmi e andare via con uno sconosciuto? Beh, aveva tutti i requisiti forse dovevo approfittarne.

-Okay ma ho degli oggetti da prendere alla casa famiglia...- tentai di far perdere tempo al ragazzo ma lui mi aveva anticipata. -Tranquilla, ho già preso tutto io così partiamo subito. Prima si arriva meglio è!- lo sconosciuto mi portò verso la sua moto rossa fiamme.

Aveva un'espressione preoccupata come se non dovesse trovarsi lì. Montai dietro di lui e mi aggrappai alla sua felpa arancione. Il ragazzo non partì subito: si era bloccato per poi partire come se niente fosse ed io non ne capivo il motivo.

-Comunque io sono Elijah ma gli amici mi chiamano Burn. Piacere- il fino ad allora sconosciuto ragazzo si presentò a metà viaggio.

-Direi che è inutile che mi presenti, visto che sai già il mio nome e cognome, però puoi chiamarmi Ave- gli risposi gentilmente. Il suo soprannome mi rimase impresso per il suo essere alquanto particolare. -E perché ti chiamerebbero Burn?- domandai incuriosita. -Beh... lo vedrai presto- esclamò accelerando divertito dalla mia curiosità.

Mi strinsi di più per paura di volare via e lo sentii ridere spensierato. Forse anche per lui quello era un momento di libertà assoluta. Eravamo in mezzo alle campagne e il vento soffiava leggero in contrasto con la moto di Elijah che vi sfrecciava attraverso. Ad un tratto la strada sterrata venne circondata da un fitto bosco costituito da alti alberi verdi e l'atmosfera che si respirava era magnifica. Il vento tra i capelli mi dava la sensazione di essere finalmente autonoma di fare ciò che volevo, anche se non sapevo bene se potessi fidarmi del ragazzo. Riflettei e capii che una possibilità andava data a tutti.

In pochi avevano la possibilità di entrare, e di conseguenza uscire, nell'Istituto per Combattenti alias "per Casi Strani". Mi vennero i brividi al pensiero: forse non era una buona idea andare in quel posto, chissà cosa ci facevano. Ogni volta che lasciavo le briglie sciolte alla mia mente era la fine per me. Finivo sempre per fare ragionamenti su ragionamenti, ad intrecciare idee su idee, ritrovando difficilmente la linea di pensiero iniziale. Mi concentrai su ciò che mi circondava per distrarmi dalle mie assurde riflessioni. La strada era dritta e occupata solo da qualche ramo caduto, ma non si riusciva ad intravedere il segreto del bosco finché non mi trovai di fronte. Un'enorme struttura di mattoni rossi terracotta si ergeva davanti ai nostri occhi: aveva una forma rettangolare ed era provvista di ampie finestre. Sembrava come se qualcosa di invisibile e quasi impercettibile dividesse il luogo dal resto della vegetazione che lo circondava. Ai lati del sentiero di sassolini che conduceva all'ingresso di regale di marmo bianco si estendeva un discreto giardino ben curato ricco di aiuole, fiori e cespugli, alcuni dei quali potati in strane forme. Su un cespuglio a forma di pegaso decorato con rose viola e rosse degli uccellini bianchi cinguettavano allegri. -Benvenuta a casa Ave!- esclamò Elijah allargando le braccia quando raggiungemmo la porta. -Sei sempre appartenuta a questo posto, o forse avresti potuto avere di meglio- Elijah mi accolse nell'edificio.

Le pareti di pannelli di legno scuro con le lampade d'oro davano un'impressione di eleganza e calore familiare. Due ragazze aspettavano davanti all'orologio a pendolo di fronte all'ingresso, ai due lati le scale principali portavano ai piani superiori. Si girarono verso di noi notando il nostro arrivo e corsero subito incontro al riccioluto. La loro espressione era un misto fra l'assassino e il disperato, si notava benissimo che fossero gemelle. Il colore degli occhi e dei capelli erano diversi fra loro ma le movenze e lo sguardo erano gli stessi. La ragazza a sinistra portava i capelli neri corti e gli occhi che osservavano Elijah erano grigi con un tocco azzurro cielo, invece sua sorella teneva raccolti in una coda i capelli bruni e guardava sconvolta il riccio attraverso i suoi occhietti blu. Senza avere il tempo di replicare Elijah venne preso in ostaggio dalle gemelle.

-Burn avevi promesso che avresti giocato a tennis con noi e Joshua oggi! Ormai non accettiamo un no come risposta, quindi muoviti!- lo trascinarono sulla scalinata destra. -Ehm... fatti un giretto, questa ormai è casa tua, arrivo fra poco- venni informata poco prima che lui scomparisse oltre il corridoio.

Sbuffai. -Almeno era un compleanno diverso dagli altri- pensai stringendo il mio zainetto. Salii le scale opposte a quelle dove erano andate le due gemelle in crisi di nervi e cominciai ad esplorare. Lungo il muro, ad intervallo con le lampade, erano appesi vari dipinti: illustravano alcuni paesaggi sereni con capanne circondate da alberi, in altri c'erano dei ragazzi che duellavano, ma quelli che mi piacquero di più furono dei ritratti. Tirai fuori dal giacchetto il mio unico accessorio: una catenina a cui era legata una pietra nera. A volte giuravo di vedere delle ombre muovervisi, ma era solo la mia fantasia. La strinsi a me quando scrutai il ritratto di un signore dai capelli lunghi fino alle spalle, mossi e color nero pece. Gli occhi scuri mi fissavano intensamente come se fosse lì. Distolsi la vista e continuai quando poco più in là un altro quadro m'attirò. Era una donna dal viso piacevole dai capelli ondulati castano lucido, coperti da un copricapo da guerra oro e rosso, la quale sembrava mi stesse linciando con lo sguardo serio e sicuro. Guardando quelle tele sentii una stretta nel petto come se stessi dimenticando qualcosa, o avessi sempre dovuto saperla ma non ne avessi avuto l'occasione.

Dalle immense finestre si vedeva il giardino nel retro della residenza ed era tutt'altra cosa rispetto a quello d'ingresso. Questo non era elegante e raffinato ma un'aula d'allenamento all'aperto! C'erano campi da pallacanestro, tennis e addirittura hockey da prato per divertirsi. Oltre le aree da gioco c'era quello che assomigliava ad un teatro all'aperto di media grandezza, un muro per arrampicarsi e persino una serra nelle immediate vicinanze. Andai avanti nel corridoio ed esaminai ogni stanza con la porta aperta. C'erano studi con scaffali pieni di libri in cui mi sarei potuta perdere, ma decisi che l'avrei fatto con calma più tardi per godermi il momento. Inoltre in un'altra stanza si trovavano dei sacchi da boxe e delle protezioni bianche e nere, accompagnate da sottili bastoni di metallo, utilizzati per una disciplina a me sconosciuta. Ipotizzai di essere finita in un ambiente piuttosto strano. Poco più avanti trovai una sala al cui centro era posto un pianoforte nero circondato da ampie finestre da cui entrava un'intensa luce solare. Lo sfiorai con la punta delle dita, mi tolsi lo zaino dalle spalle, e mi misi a sedere. Toccai i tasti delicatamente, era una sensazione magnifica per me. Dagli Owens potevo disporre della mia pianola così divenni autodidatta a suonare e a cantare, due attività che amavo molto fare e mi facevano sentire viva. Fermai le mani ed iniziai a far risuonare delle note che invasero la stanza ed il corridoio. Era una canzone che non avevo sentito da nessuna parte, ma l'avevo sognata una notte e il mattino seguente continuava a ripetersi nella mia mente all'infinito. Era come se fosse sempre stata dentro di me e avesse aspettato il momento giusto per sbocciare. Era una melodia sconosciuta ma al tempo stesso familiare.

-Long ago... inside a distant memory, there is a voice that says: “Do you believe a world of happy endings?” Even when the road seems long, every breath you take will lead you closer to a special place within your Neverever...- poi mi bloccai con la sensazione di essere osservata. Restai con le mani sul pianoforte, ma mi voltai verso la porta cautamente. Era Elijah in compagnia di qualcuno che non avevo mai visto. Un uomo vicino alla quarantina ben vestito mi scrutava dalla testa ai piedi con un espressione incredula.

-Forse non avrei dovuto fare come se fossi a casa mia e mettermi a suonare- pensai cercando di capire se l'espressione dell'uomo fosse negativa o meno.

Mi alzai di scatto iniziando a giocare con la mia collana per tranquillizzarmi, così ricambiai l'atteggiamento dello sconosciuto e lo esaminai. Aveva i capelli biondi sistemati accuratamente con il gel e i suoi occhi verdi prato luccicavano quasi lucidi. La giacca e i pantaloni blu esaltavano la sua figura slanciata.

-Scusi l'intrusione. Non volevo disturbare, mi sono lasciata prendere la mano- mi decisi a dire appoggiando una mano sulla cassa del pianoforte.

Notai che lui era come immobilizzato dai suoi pensieri, sembrava quasi non aver sentito le mie parole. Gli lanciai uno sguardo indagatore.

-Mi chiamo Havery Lilith Underworld, ma può chiamarmi Ave se vuole, signore- dissi avvicinandomi cercando di mostrare un lieve sorriso.

-Capisci ora perché sono uscito? Stiamo bene, non abbiamo corso alcun pericolo- esclamò Elijah sicuro di essere dalla parte della ragione.

Concordai con lui anche se non capivo cosa intendesse. Sapevo solo che lì forse sarei stata a casa e avrei conosciuto il mio passato, anche se non ci speravo troppo, avevo imparato che era meglio non illudersi.

-Non chiamarmi signore, ti prego- si sbloccò l'uomo dopo aver lanciato uno sguardo severo verso il ragazzo.

-Io sono il Direttore di questo posto, controllo e cerco di aiutare tutti. Mi chiamo Allen Moore, puoi venire da me per qualsiasi problema- continuò lui sorridendomi gentile.

Dalla reazione avuta quando mi ero voltata verso di lui capii che mi stava nascondendo qualcosa. Nel suo sguardo si celava un segreto importante ma decisi di accontentarmi per il momento.

-Io e te dobbiamo parlare Elijah. Accompagna la nuova arrivata in una camera, trovami Nathan e venite nel mio ufficio- concluse lanciando un ultimo sguardo serio al riccioluto ed uno amichevole verso di me per poi lasciarci.

-Allora... ti piace qui?- cominciò Elijah visto che dopo mezzo tragitto non ero ancora intenzionata a spiccicare parola. La stanza dove lui mi portò era sui toni del rosa, dal chiaro allo scuro e mi dava decisamente il voltastomaco.

-Che ne pensi?- insistette il ragazzo, ma ancora non ottenne risposta.

Sinceramente non sapevo ancora cosa pensare di quel posto e l'unica parola che mi veniva in mente era “strano”. Misi il mio zainetto grigio sulla sedia posta davanti alla scrivania e cominciai a tirar fuori i vari oggetti: qualche libro, i miei pochi indumenti, un diario e una penna. Al suo interno Elijah era riuscito persino a mettere la mia amata pianola. Straordinario! La scrivania era di mogano scuro e liscio, mi piacque molto quel particolare tanto che l'accarezzai per sentirne la superficie.

-Inoltre sei nuova, quindi ti serve una guida. A te va bene se la faccio io?- Elijah mi si avvicinò sorridente e speranzoso di ricoprire tale incarico.

Alzai le spalle: come se cambiasse qualcosa. Il moro mi osservò sistemare i libri sullo scaffale, sempre di legno scuro, tutto in assoluto silenzio. Non avevo gran voglia di parlare e inoltre non sapevo cosa dire, visto che dovevo ancora immagazzinare tutto quello che avevo visto e sentito. Le parole di Elijah mi riecheggiarono nella mente. “Sei sempre appartenuta a questo posto, o forse avresti potuto avere addirittura di meglio.” Cosa voleva dire? Perché questa realtà mi era stata negata? Sembrava conoscere molti più fatti di me di quanti ne conoscessi io. Lo guardai di sfuggita e notai che mi stava ancora osservando. -Grazie per quello che fai per me- mi decisi a parlare lasciando da parte la timidezza. Elijah sobbalzò. Probabilmente non si aspettava di sentire la mia voce.

-È un piacere, dopotutto...- si fermò come se stesse per dire qualcosa di proibito.

Lo guardai con aria interrogativa ma ero qui da troppo poco tempo perché potessero raccontarmi veramente come stessero le cose.

-Devo andare a cercare Nathan, ci si vede dopo! Sentiti libera di fare quello che vuoi- disse Elijah riprendendosi ed uscendo dalla stanza subito dopo.

Sola, finalmente sola. Quando avevo iniziato il giro di perlustrazione mi ero sempre sentita osservata, forse quella sensazione me la davano i ritratti, mentre nella mia nuova camera il muro era spoglio. Al lato sinistro della stanza c'era un letto matrimoniale a baldacchino di legno di quercia un po' rovinato, i tessuti era color rosa antico. Accanto alla porta c'era un cassettone verniciato di verde, nero e giallo, molto creativo l'ultimo proprietario, dopo la scrivania si trovava la porta del bagno privato.

L'ultima volta che Elijah mi aveva detto di fare quello che volevo mi ero sentita quasi una criminale dopo aver toccato il pianoforte. Decisi comunque di tornare alla biblioteca, dall'altra parte dell'edificio, almeno lì non mi sarei sentita fuori luogo. Prima non me ne ero accorta ma una custode girovagava per la stanza tenendo d'occhio tutti. Evitai il suo sguardo ed iniziai a far scorrere il mio lungo le file di libri. Ne trovai uno piuttosto interessante di nome “Oblivion” il cui interno, non appena lo aprii, rivelò il suo segreto: un quadernino nero alquanto anonimo era stato scritto quasi del tutto con una calligrafia in corsivo delicata ma scomposta. Sembrava essere un diario e la prima data indicata era il ventinove giugno duemilaquindici. Il primo pensiero che mi apparve nella mente fu che in quel periodo i mostri non comandavano sugli uomini, quindi avrei potuto leggere di come fosse la vita prima del duemiladiciannove. L'avrei tenuto come un tesoro all'interno del libro in cui l'avevo trovato in modo che nessuno sapesse della mia scoperta, o almeno così mi piaceva pensarla. Feci in tempo a leggere “il risveglio è stato stremante” quando un braccio mi circondò le spalle ed io chiusi il libro d'istinto.

-Eccoti qui! Ti piace leggere vedo- esclamò a voce alta una voce maschile alle mie spalle. Quando mi voltai notai che era un po' più alto di Elijah e per alcuni tratti mi ricordava il Direttore dell'Istituto: il colore degli occhi e l'espressione erano gli stessi. I capelli neri sistemati alla perfezione erano talmente lisci che sembravano morbidi come la seta. Aveva un buon profumo di... sole, se la luce avesse un odore lui ne possedeva gli aromi. Dietro di lui sbucò una vecchietta dai capelli grigi legati in una crocchia che puntava un righello verso il ragazzo.

-Non si parla ad alta voce, quante volte te l'avrò detto Nathan?!- esordì la signora che di tutto punto iniziò ad inseguire il ragazzo brandendo la sua arma scolastica.

Lui mi prese per mano e corremmo fuori dalla biblioteca, strinsi il libro a me e mi lasciai trasportare. Ci fermammo davanti ad una porta a vetro che portava al vasto giardino.

-Amo troppo quella donna!- esclamò lui ridendo non appena ci fermammo.

Ogni situazione che vivevo in questo posto mi rendeva confusa e il mio viso doveva averlo lasciava intuire.

-Oh giusto! Io sono Nathan Moore, il figlio del Direttore, e quella di poco fa è la nostra fantastica bibliotecaria Teresa. Hai potuto assistere alla dimostrazione del nostro amore- si presentò lui mettendosi una mano sul petto.

Mi fece l'occhiolino e mi invitò ad uscire fuori con un gesto della mano. Ora che lo osservavo meglio, vidi che i suoi occhi erano verdi come l'erba fresca al mattino, molto più belli visti sotto questa luce. Si mise le mani nelle tasche della felpa blu e camminammo fra i campi di gioco e allenamento. Tutti i ragazzi si voltarono verso di noi, puntando gli occhi su Nathan. Lui gli sorrise radioso salutandoli con la mano e sembrava molto a suo agio, come se ci fosse abituato. Svoltammo a destra fra un campo da pallacanestro e uno di tiro a segno. Nathan si avvicinò al mio orecchio.

-Ti svelo un segreto: non capisco perché mi fissino sempre tutti- mi sussurrò divertito per poi continuare a sorridere quando si allontanò.

Questa sua affermazione mi fece capire che forse lui non era così sicuro di sé quanto appariva.

-Allora! Sai perché ti trovi qui?- Nathan tornò a parlare ad alta voce adesso che la bibliotecaria era lontana.

La risposta giusta sicuramente non era perché uno sconosciuto mi ci ha portata, così scossi la testa. Ho sempre saputo e pensato di essere diversa dagli altri e sono stata giudicata “bizzarra” a volte, ma non capivo perché io potessi essere adatta all'Istituto per “Casi Strani”.

-Vuoi dirmi che non ti è mai successo niente di... ehm... speciale? O di singolare?- mi guardò incuriosito senza guardare dove stessimo andando.

Riflettei seria e mi venne in mente una scena precisa: attraverso lo specchio vidi i miei occhi cambiare da marroni a neri, uscii dalla stanza grigia e le persone intorno a me indietreggiavano come impauriti, emanavo un'aura oscura. Non avevo mai pensato effettivamente a quel giorno, perché presumevo fosse normale che la gente si allontanasse da me, dopotutto ero solo un irritante orfana. Presi come un'illusione o uno scherzo ottico il cambio di colore dell'iride. Raccontai un po' scettica l'episodio a Nathan. Non mi rispose ma tornò a guardare l'orizzonte alla ricerca di qualcosa o di qualcuno, poi sorrise.

-Sei proprio tu...- sospirò abbassando la testa.

Non capii a cosa si riferisse, una delle tante frasi che ancora non comprendevo, e forse non avrei dovuto neanche sentirlo. Ci avvicinammo al campo da tennis dove quattro persone stavano giocando. Al lato sinistro c'erano un ragazzo dai capelli rossi e la gemella dai capelli corti mentre al lato destro sostavano Elijah e l'altra gemella.

-Ragazzi, guardate chi vi ho portato!- esclamò Nathan allargando le braccia nella mia direzione per segnalare la mia presenza.

Come se un pallino nero e grigio non si notasse in mezzo a tutti quei colori. I tennisti si fermarono e vennero verso di noi.

-Sei la nuova arrivata!- dissero all'unisono le due ragazze.

Da vicino realizzai che erano più piccole di me. Erano molto belle ma i loro occhi non lasciavano trasparire ingenuità. Davano l'impressione che fosse difficile averla vinta con loro, bastava pensare alla sgridata che Elijah si era subito poco prima dalle due. Mi scrutarono con i loro sguardi indagatori.

-Cosa ha di speciale lei?- chiese la gemella dai capelli corti incrociando le braccia piuttosto dubbiosa.

-Sembri una ragazza piuttosto ordinaria- confermò l'altra gemella mettendosi le mani sui fianchi. Nathan fece tacere subito i loro dubbi e le tranquillizzò. -

Non fatele il terzo grado, è già abbastanza confusa. Lo scopriremo presto di cosa è capace- si mise tra di loro e le abbracciò sorridente.

Annuii poco convinta; la giornata stava diventando sempre più strana. Cosa dovrei saper fare secondo loro? Giocare a tennis? Ballare? Tirare a segno? Pettinare le bambole? Non ne avevo la più pallida idea. La ragazza con la coda fu la prima a convincersi delle parole di Nathan.

-Non vedo l'ora! Oh, che maleducate, non ci siamo ancora presentate. Io sono Margot Wilson e lei è mia gemella Alice- allungò la mano verso di me per stringermela entusiasta. La sorella invece non era molto sicura, e si limitò ad osservarmi. Forse non era molto loquace con le persone che non conosceva. La capivo perfettamente: essere catapultata in una realtà a me sconosciuta mi disorientava, mi stordiva, senza contare la mia timidezza con gli estranei. Elijah sapeva come far sciogliere quel blocco di ghiaccio che era diventata la sua amica, trovando anche una scusa per poter smettere di giocare a tennis.

-Hey, guardate chi sta arrivando! Wolfie, perché non vieni qui a giocare a tennis?- gridò il riccio. Ci voltammo verso un ragazzo molto alto che puntava verso di noi.

Aveva i capelli talmente biondi da poter apparire bianchi e i suoi occhi brillavano di un viola molto particolare. Indossava indumenti sportivi bianchi adatti per il tennis. Alice lo notò subito e guardò allarmata la sorella. Lei la rassicurò con lo sguardo, sembravano capirsi senza dover parlare. Il ragazzo passò in rassegna tutti noi con i suoi occhi attenti e si fermò su di me.

-Lei è nuova- dichiarò tranquillo.

-Sì, è arrivata proprio oggi!- annunciò Elijah felice.

-Mi fa piacere- il biondo storse il naso guardandomi dall'alto verso il basso, sembrava che non gli ispirassi molta simpatia. -Allora ti insegnerò subito una cosa. Ricordati che qui il nome è tutto un programma- esclamò con un sorriso scaltro.

Non ebbi il tempo di rifletterci su che Wolfie si concentrò sulle gemelle per giocare a tennis. Nathan si mise a fare l'arbitro lasciando Elijah e me da soli.

-Ti va di fare il giro dei laboratori?- mi chiese lui con un'espressione calma nel volto. Sembrò essere in pace con il mondo intero. Annuii ma subito dopo mille dubbi iniziarono a balenarmi nella testa. Sia la conversazione con le gemelle che quella con Wolfie mi avevano confuso ulteriormente le idee, era miracoloso che non mi fosse ancora venuto il mal di testa. Sperai che Elijah volesse aiutarmi a capire la situazione.

-Cosa voleva dire con “il nome è tutto un programma”?- tentai interrompendo la linea dei miei pensieri incasinati.

Stavamo ancora camminando nel giardino, se così si poteva chiamare, quando svoltammo improvvisamente a sinistra e passammo sotto ad un loggiato ricco di colonne decorate finemente.

-Sopra di noi c'è l'ufficio del Direttore, se avrai mai bisogno lui si troverà lì. Ha una magnifica vetrata per osservare che tutto vada bene e che non ci succeda nulla di grave- il riccioluto continuò e sembrò non avermi sentito. – In ogni caso, Wolfie voleva soltanto dire che qui alcuni di noi hanno dei soprannomi legati strettamente a ciò che sono, quindi il nomignolo non è un caso- mi spiegò gentilmente.

-Come il tuo, Burn?- domandai curiosa continuando ad avanzare.

Elijah annuì semplicemente facendo sobbalzare i suoi capelli. Nonostante questo suo chiarimento non riuscivo a capire su cosa si basassero certi soprannomi. Forse Elijah era stato soprannominato Burn perché non era capace di cucinare e bruciava tutto? Non ne avevo idea.

-Tranquilla, ti farò vedere presto di cosa sto parlando- mi sorrise lui notando la mia espressione confusa che faceva percepire il mio continuo disordine mentale. -Siamo arrivati- annunciò spostandosi leggermente verso destra per farmi vedere meglio.

Dietro il loggiato vi erano tre porte aperte che esponevano le stanze alla luce del sole. -Nella prima alla tua sinistra c'è il club di pittura, di fianco c'è il club di sartoria, mentre in fondo c'è quello di cucina- cominciò ad indicarmi le varie stanze con il dito indice. -Il capannone alla nostra destra, invece, include gli amanti della falegnameria e della meccanica. Io ne faccio parte- esclamò fiero mettendosi le mani sui fianchi.

Era una struttura alta, interamente in legno, con qualche finestra e decorata con addobbi ed ornamenti in legno, probabilmente creati dai partecipanti. Elijah riprese a camminare, tornammo nel giardino interno dirigendoci nella parte meridionale. Riconobbi l'anfiteatro e lo spazio per tiro con a segno che avevo visto dal secondo piano dell'edificio.

-Le lezioni di scherma si tengono al piano terra dell'edificio, mentre le lezioni di musica sono al secondo piano. Direi che sia evidente dove ci si allena a tiro con l'arco- rise lui passando di fianco ad alcuni ragazzi impegnati.

Tiro con l'arco? Un'altra cosa da aggiungere alla lista delle mie incomprensioni del giorno. Decisi di lasciare perdere sicura che prima o poi mi avrebbe spiegato cos'era questo tiro con l'arco di cui parlava.

-Nell'anfiteatro si svolgono le attività del gruppo di recitazione, nonostante a volte vengano interrotti da guerrieri in vena di combattere. Nella serra si tengono le lezioni di giardinaggio e botanica...- si grattò la testa come se si stesse dimenticando qualcosa. Io avrei già perso il filo del discorso se fossi stata in lui. Tutte quelle informazioni... era pressoché normale dimenticarsi qualcosa, non si poteva fargliene un torto. -Ah giusto! La lezione di storia si tiene dove preferisce l'insegnante. Li conoscerai presto, saranno contenti di conoscerti! Per quanto riguarda i pasti, le prime volte ti accompagnerò io, okay? Così è sicuro che non ti perdi, spero- si prese in giro ridendo.

Trovavo Elijah un ragazzo interessante, in un certo senso. Per quanto potessi conoscerlo dopo un solo giorno, sentivo di avere uno strano legame, come se fossimo collegati da qualcosa. Era troppo presto per comprendere tutto quello che avevo provato in quel giorno. Dovevo solo aspettare che qualcuno mi dicesse la verità, che qualcuno mi spiegasse perché mi trovavo lì. Io... avevo il presentimento che loro sapessero molto di più su di me, rispetto a quanto ne sapessi io stessa.

 

[Elijah]

 

-Ti giuro, amico, non capisco cosa mi stia succedendo- sbuffai buttandomi sul letto.

Poco distante Nathan stava giocando con il mini canestro attaccato al muro sinistro di camera nostra. Lui alzò un sopracciglio interrogativo continuando i suoi tiri. Misi le mani fra i capelli confuso. -Tu sai che io adoro dormire, no?- gli chiesi nonostante conoscessi la risposta.

-Sei alquanto strano, l'ho sempre pensato. Passi da voler dormire per ore ad essere la persona più attiva dell'Istituto- Nathan confermò ciò che stavo pensando.

-Ecco, il problema è che mi è venuto in mente di alzarmi all'alba per Ave- ammisi sconvolto.

Nathan smise di giocare e la pallina, ormai lanciata contro il muro, gli colpì la faccia incredula al ritorno. -Oh miei dei, questa cosa è sconvolgente- esclamò il mio amico scosso quasi quanto me.

-Non so cosa mi stia capitando, è strano- mi misi a sedere appoggiandomi alla testiera del letto incrociando le braccia al petto.

L'avevo portata all'Istituto perché sentivo che lei mi avrebbe capito, avendo quella grande mancanza in comune. Quindi perché mi sentivo così... diverso? Avevo riempito il vuoto dentro di me? Impossibile, quello spettava ai miei genitori. Mi avevano lasciato ai Moore, che al tempo aspettavano la nascita di Nathan, ad un mese dalla mia nascita. Gli volevo bene come se fossero la mia famiglia, ma non avrebbero mai potuto sostituire i miei veri genitori. Allen provava a farmeli conoscere tramite foto e parlandomene. Nathan era come un fratello per me, nonostante a volte fossi geloso della sua fortuna: crescere con la propria famiglia. Sapevo dell'esistenza di Ave grazie alle chiacchierate fra i coniugi Moore. Pensai fosse una buona idea, anche se rischiosa. Avevo rovistato negli archivi di Allen per prendere i documenti di rilascio della casa famiglia e cercare il fascicolo al nome di Havery Lilith... così avrei saputo dove trovarla. Reagii impulsivamente ed il giorno dopo mi precipitai di nascosto a Palmdale, circa quaranta minuti di distanza dall'Istituto. Era chiaro come il sole che Allen mi avrebbe scoperto e non gli sarebbe andata a genio la mia idea.

Il piano iniziale era tenerla nascosta fra gli umani per altri due anni, quando ormai il suo odore non si sarebbe più potuto mimetizzare fra la gente comune. Non mi importava più. Da quando avevo iniziato a sentire parlare di lei, percepivo come un legame tra di noi, di certo non mi sarei immaginato quel tipo di legame. Raccontai ciò che mi frullava nella testa a Nathan, era normale confidarci tra di noi e darci consigli, soprattutto se riguardavano le ragazze. Lui spesso mi rivelava di come non comprendesse perché tante ragazze gli si dichiarassero, perché si sentiva un ragazzo semplice, quasi banale, e gli importava di far impressione solo su una in particolare.

-Tu segui i tuoi sentimenti e andrà tutto bene- mi consigliò semplicemente Nathan mettendosi a sedere sul suo letto.

-Passi troppo tempo con Margot e sua madre- commentai tirandogli una botta con il mio cuscino foderato di rosso.

  
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