A Fran, l’altra mamma
di questa storia.
Stanza Quindici.
Parte Prima: una
coincidenza.
CAPITOLO
I: La promessa che avevano fatto.
«Xìfos, ma tu resterai per sempre mio
fratello?».
I due bambini si guardano, il più grande ha
un grosso sorriso sulla faccia sporca di fumo e gli occhi lucidi brillano come
emanassero luce propria. Si è accorto della paura nella voce dell’altro bambino
e farebbe di tutto per cacciarla via.
«Certo, Nux! Noi saremo fratelli per sempre!»
«E anche Puròs e Prom? Sempre sempre?»
Il più piccolo è sul punto di piangere, tira
su col naso e lotta contro le lacrime – è un bimbo grande lui, quindi non
piange, non può piangere. Quello che ha chiamato Puròs gli si avvicina: ha
l’aria seria e sembra un adulto sebbene sia di un anno più piccolo di Xìfos e
tiene la mano al quarto bambino del gruppo perché non si perda nella confusione
che c’è fuori l’orfanotrofio ancora in fiamme.
«Per sempre», ripete ed è solenne e il
piccolo annuisce: quando si tratta di Puròs, Nux sa che può fidarsi – lui non
dice mai bugie.
«Mi è venuta un’idea!»
Il sorriso che Xìfos rivolge ai tre bambini è
di quelli che solitamente precedono le grida della signorina Dafne e che a Nux
piacciono tanto perché significano che suo fratello ha fatto qualcosa di molto
divertente.
Il bambino si toglie dalle spalle lo zaino
con le poche cose che è riuscito a salvare prima di correre via dalla sua
stanza e ne tira fuori un sacchetto con degli aghi ed una boccetta di
inchiostro scuro. Gli occhi dei quattro bambini luccicano mentre osservano quel
piccolo tesoro e per qualche istante spariscono le fiamme dell’incendio,
l’orfanotrofio distrutto e la terribile e soffocante sensazione di non avere
più una casa.
Checché
potessero dirne gli altri specializzandi, Ignis Scientia non aveva alcun
problema con i turni che gli venivano assegnati in ospedale. In quanto
specializzando, spesso e volentieri finiva oltre l’orario normalmente stabilito
e il più delle volte doveva occuparsi di pazienti o mansioni poco piacevoli, ma
faceva tutto con calma e professionalità, imparando anche dalle più piccole
cose, memorizzando e andando avanti. Quello ormai era il suo terzo anno di
tirocinio in pronto soccorso ed era ormai del tutto deciso a proseguire la
specializzazione di traumatologia, ragion per cui doveva essere sempre pronto a
qualunque tipo di emergenza, per intervenire nel migliore dei modi possibili.
«Chissà
perché ho pensato che oggi sarei potuto arrivare prima di Scientia», borbottò
con una certa confidenza Marcus, suo collega fin dai tempi dei corsi
universitari, passando accanto al ragazzo e raggiungendo il proprio armadietto
per cambiarsi ed indossare il camice.
«Sarebbe
sufficiente che tu arrivassi in orario, Opuntia. Oggi ci sei andato pericolosamente vicino», gli fece notare
Ignis, senza smettere di sistemare i propri vestiti e con la voce più atona che
potesse avere.
«Sono
le otto! Stamattina sono in orario!»
si lamentò l’altro specializzando, gesticolando in modo esagerato.
«Otto
e due minuti», ci tenne a precisare Ignis e, chiudendo lo sportello in ferro
battuto, lo guardò piegando appena il capo «E non sei ancora pronto», aggiunse,
prima di andare via. Sentì vagamente Marcus lamentarsi, ma anche quella era
diventata una routine dei suoi anni di specializzazione.
In
fin dei conti, ammise a se stesso mentre camminava verso il pronto soccorso,
Opuntia non era una cattiva persona e in qualche modo la frequentazione
abituale gli aveva permesso di affezionarsi a lui, quanto meno come collega.
Esclusi il suo ritardo cronico e la sua capacità di parlare (e gesticolare)
sempre troppo, restava un buon specializzando e presto sarebbe stato un buon
medico. Aveva cuore, Marcus, e questa
cosa Ignis doveva riconoscergliela fino in fondo.
«Scientia,
Opuntia, Aurum: voi siete con me per il giro delle cartelle cliniche
stamattina. Una volta concluso tornate al pronto soccorso e rendetevi utili».
La
voce del medico strutturato mise in riga i ragazzi e Cindy, che era uscita
dallo spogliatoio insieme ad Ignis, nascose un sorriso quando Marcus li
raggiunse trafelato e con ancora il camice sbottonato. Il medico lo guardò severo
ma abituato a quella scena e poi semplicemente girò i tacchi, prendendo a
camminare con un sospiro.
«Spero
che la signora della 401 stia meglio stamattina – quando l’ho lasciata ieri
sera non aveva una bella cera» mormorò Cindy pensierosa.
«Di’
la verità, Cin, tu speri soprattutto che il figlio della signora sia venuto a
farle visita!» la punzecchiò Marcus, sogghignando e guadagnandosi una brutta
occhiataccia da Ignis che li precedeva di mezzo passo.
«Se
non sorridi morirai giovane, amico mio»,
si lamentò ancora lo specializzando, facendo sì che l’altro roteasse gli occhi
al cielo senza commentare.
«Il
fegato della signora Coriax non era in buone condizioni già da prima di
arrivare qui, Aurum», sussurrò in modo serio Ignis, rivolgendosi alla ragazza
«Ma il corpo umano resta una macchina affascinante e per certi versi
misteriosa, quindi la speranza-».
Scientia
smise di parlare, perché lo strutturato aveva superato la stanza 401 e s’era
voltato a guardarli con un’espressione scura in volto. Non ci fu bisogno di
chiedere per capire che cosa stessero trattenendo quei lineamenti e tuttavia la
prima cosa che gli specializzandi avevano imparato, facendo quel lavoro, era
che la morte bisognava sempre riferirla ad alta voce, perché era il solo modo
che avevano per renderla reale.
«È
deceduta non più di due ore fa – emorragia interna, non è riuscita neanche ad
arrivare in sala operatoria», spiegò, senza distogliere lo sguardo dai tre
specializzandi e fermandosi soprattutto su Cindy.
La
ragazza perse un po’ di colorito e aprì la bocca per commentare senza però
riuscire ad articolare alcun suono; non era la prima volta che succedeva, non
era la prima volta che perdeva un paziente di cui si stava occupando, eppure
ogni volta sembrava non servire a nulla l’esperienza che aveva già accumulato e
la notizia la colpiva come un secchio d’acqua gelata addosso, lasciandola
intorpidita e sconvolta.
«Dobbiamo
continuare il nostro giro», la incoraggiò Ignis, stringendole leggermente la
spalla con una mano - avrebbe dovuto abbracciarla? Conosceva Cindy più o meno
dallo stesso tempo di Marcus e voleva bene anche a lei, moltissimo; eppure, un
contatto così intimo in qualche modo lo rendeva nervoso.
Anche
l’altro specializzando accanto a loro pareva non avere idea di come reagire a
quella notizia e, alla fine, i tre ragazzi ripresero semplicemente a camminare
alle spalle del loro strutturato senza più parlare. Sebbene le avesse
sconsigliato di farlo, Ignis era consapevole di quanto Cindy si fosse
affezionata alla donna: era stata una sua paziente dal momento in cui era
entrata in pronto soccorso e in qualche modo fra le due s’era instaurata una
certa connessione. Era certo che quella morte l’avrebbe lasciata sconvolta per
diverso tempo - dopotutto, aveva reagito emotivamente anche lui, quando aveva
dovuto affrontare una situazione simile per la prima volta.
«Alle volte penso che avrei dovuto fare il
meccanico come il vecchio Cid», era solita dire Cindy, alla fine di
una giornata pesante «Gli esseri umani
sono macchine complesse, ma non puoi farli ripartire semplicemente sostituendo
una batteria».
Quando
ebbero finito il giro delle cartelle cliniche, gli specializzandi tornarono al
pronto soccorso, a disposizione di qualunque emergenza potesse arrivare: non
era passata che poco più di un’ora, eppure quella aveva già tutta l’aria di
essere una giornata difficile.
«Scientia!
Emergenza in arrivo!» annunciò una delle infermiere, anticipando di qualche
istante l’ingresso una barella che varcò velocemente le porte scorrevoli del
pronto soccorso.
Ignis
si avvicinò in fretta ai paramedici che scortavano il paziente e li seguì nella
stanza indicata dalla donna, per poi dirigere il trasferimento del ragazzo
privo di sensi dalla barella al letto d’ospedale.
«Maschio,
circa vent’anni, già privo di coscienza quando siamo arrivati sul posto,
pressione sessanta su ottanta, polso cinquanta. Segni di disidratazione e
possibile denutrizione. Ha diversi lividi ed escoriazioni su gran parte del
corpo, ma quello immagino che sia abbastanza normale…», snocciolò
uno dei due uomini, abbassando la voce sul commento finale.
Lo
specializzando lo guardò con un’espressione genuinamente confusa, non riuscendo
a capire a cosa si stesse riferendo; durò qualche istante, il tempo di
trattenere la propria domanda sulle labbra senza dargli fiato, poi Ignis prese
a trafficare con una soluzione salina, cercando la vena sul braccio destro del
paziente ancora privo di coscienza e inserendo con praticità l’ago. Quando lo
collegò ai monitor, s’accorse che i valori si stavano stabilizzando: la
pressione restata bassa, ma i battiti erano nella norma.
Proseguendo
nell’esaminare il corpo del ragazzo, ad ogni modo, si accorse che il paramedico
aveva avuto ragione: una lunga serie di ecchimosi copriva gran parte
dell’addome, che tuttavia al tocco non pareva rigido – la maggior parte dei
segni era recente ma del tutto superficiale e questo fece sospirare Ignis,
rassicurato.
«Prenoterò
una TAC, la farà non appena avrà ripreso conoscenza - pare che ad un primo
esame non ci sia nulla di rotto, ma questi lividi non mi fanno stare del tutto
tranquillo», concluse, sotto gli sguardi dei paramedici - trattenevano qualcosa
che, Ignis lo sapeva, a lui non era altrettanto evidente e da cui la sua
ignoranza lo escludeva, ma ancora una volta non chiese, lasciando che andassero
via senza aggiungere altro.
Restò
quindi solo nella piccola stanza del pronto soccorso, a compilare i pochi dati
che aveva per la scheda clinica. Ignis fissava gli spazi bianchi del modulo
prestampato e mentre saltava quelli che non poteva compilare per mancanza di dati,
si trovò a pensare a quanto poco sapesse del ragazzo che aveva davanti. Certo,
ne poteva descrivere i capelli biondi e le lentiggini che gli coprivano leggere
gli zigomi ed il viso, sebbene fosse dai lineamenti delicati, non lasciava
dubbi sul fatto che fosse maschio; ma a parte queste poche cose, non sapeva
altro: il corpo muto che aveva davanti ad Ignis dava un senso di lontananza,
intangibilità, quasi come se, allungando la mano verso di lui, si sarebbe
dissolto lasciando solo le coperte calde.
Lo
specializzando si riscosse, chiedendosi da dove venisse tutto quel
sentimentalismo: qualcosa nel giovane paziente che aveva davanti lo aveva
toccato: non avrebbe saputo dire né in che modo, né cosa fosse, ma se ne
sentiva disturbato. Lasciò la stanza con decisione, come si stesse allontanando
da un pericolo.
«Ho
saputo che ti stai occupando di un bel addormentato», scherzò Marcus, sedendosi
accanto ad Ignis e di fronte a Cindy - pranzare insieme era un’abitudine che
bene o male portavano avanti da quando avevano cominciato tutte le volte che
qualche emergenza non li tratteneva altrove.
«Che
cos’ha?» chiese la ragazza, interessata - era stata impegnata per tutta la
mattina con un’ustione di terzo grado ed il gossip non l’aveva raggiunta, ma le
pareva un ottimo modo per staccare la testa dai brutti pensieri.
«In
realtà nulla di serio: era disidratato e un po’ denutrito quando è arrivato, e
ha diversi segni su tutto il corpo, lividi ed escoriazioni, ma a parte questo
sembra stare bene», spiegò con concisione Ignis, prima di
tornare alla sua insalata.
«Allora
perché sei tanto preoccupato?» lo incalzò Cindy – c’era quanto meno da
riconoscerle che sembrava stare meglio rispetto a quella mattina, sebbene Ignis
si sentisse improvvisamente esposto dalle sue parole. Dopotutto, però, era
sempre stato un libro aperto per quella ragazza.
«I
lividi sono estesi. Sull’addome è più la pelle che ha a chiazze violacee che
quella dal colorito normale. Credo abbia subito un qualche abuso», confessò,
con un sospiro.
Marcus
lo guardò sorpreso, prima di passare lo sguardo su Cindy ed attendere con
evidente indecisione. Ma stavolta la ragazza non sapeva davvero a cosa si
riferisse il collega e non colse i suoi segnali, facendo in modo che l’urgenza
di Opuntia crescesse ancora di più.
«È
maggiorenne?», tornò a chiedere ad Ignis, ignorando l’altro collega.
«Non
aveva documenti con sé, quindi non posso esserne sicuro, ma mi è sembrato di
poco più giovane di noi… Vorrei aspettare che si risvegli prima di informare le
autorità».
Il
terzo specializzando non riuscì a più a contenersi.
«Possibile
che nessuno di voi abbia capito?» sbottò quasi risentito pur senza avere un
reale motivo per esserlo «Non si tratta di violenza: quello lì è uno dei
ragazzi che lavorano alla casa chiusa».
Cindy
lo guardò sgranando gli occhi: come aveva fatto a non pensarci? Dopotutto, non
era la prima volta che al pronto soccorso si presentava qualcuno coinvolto quel
giro e i segni erano più o meno sempre gli stessi: denutrizione,
disidratazione, di tanto in tanto qualche segno sulla pelle, spesso febbre.
Ignis
sembrò perdere colore: quel ragazzo lavorava in una casa chiusa? Non avrebbe
dovuto essere sorpreso, eppure lo sconosciuto a cui aveva prestato soccorso
pareva così giovane, così innocente che associarlo ad una simile occupazione
gli parve assurdo. E poi… poi c’era ancora quella strana sensazione che aveva
provato guardandolo, quel senso di pericolo, come se gli mancasse il fiato,
come se stare alla sua presenza potesse metterlo a disagio. Era forse per
questo? Era perché inconsciamente aveva capito che quel ragazzo si prostituiva?
Ignis non era persona da giudicare in base a pregiudizi, non s’era mai fatto condizionare
da preconcetti e dicerie altrui… Tutta quella faccenda lo stava turbando più di
quanto solitamente permettesse di fare al suo lavoro.
«Ad
ogni modo, ho prenotato una TAC e ho mandato un campione di sangue in
laboratorio, così da avere un quadro completo della situazione. Certo,
aiuterebbe se il ragazzo fosse sveglio, ma in mancanza di questo…»
Cindy
annuì e per la seconda volta nella giornata cadde il silenzio fra i tre
specializzandi. Anche Marcus pareva avere perso la capacità di movimentare la
situazione con qualche stupida battuta delle sue e probabilmente Ignis non lo
avrebbe sentito parlare in ogni caso, preso com’era dai suoi pensieri: il volto
lentigginoso del giovane sconosciuto non voleva saperne di lasciarlo in pace.
Quando
finì il suo giro pomeridiano, fu naturale per lui tornare alla stanza in cui
aveva lasciato il giovane sconosciuto: le gambe si mossero ancora prima che la
mente avesse davvero deciso di passare
di lì e controllare le sue condizioni ed Ignis non vi si era opposto –
dopotutto, fingere di non essere interessato al ragazzo sarebbe stato stupido.
Mentre camminava, le parole di Marcus gli tornarono alla mente. Forse sarebbe
stato opportuno fare qualche test anche per le malattie sessualmente
trasmissibili e controllare che fosse in salute, forse le sue prime decisioni
erano state fin troppo ingenue e da manuale e sarebbe servito un approccio più specifico.
Improvvisamente pensò che avrebbe dovuto seguire lui stesso il consiglio che
aveva dato a spesso a Cindy, di non farsi trascinare giù dai pazienti che aveva
in cura.
«Lei davvero non capisce, io non posso stare
qui».
Una
voce che Ignis non conosceva attirò la sua attenzione: proveniva dalla stessa
direzione verso cui stava andando e, si accorse mentre si avvicinava, dalla
stessa stanza in cui aveva prestato le prime cure al ragazzo.
«Ci
sono dei problemi?» chiese entrando – nascose il sollievo che provò nel vedere
un po’ di colorito sul volto del paziente e gli occhi, azzurri, che lo fissavano,
vivi. Non sarebbe stato professionale, ed Ignis sapeva che la professionalità
di un medico poteva fare la differenza.
«Stavo
semplicemente dicendo al suo collega che non posso stare qui, che devo andare
via quanto prima», ribadì con una certa urgenza il ragazzo, cercando di
rimuovere l’ago che lo collegava ancora ad una sacca di soluzione salina.
«Fermo,
fermo aspetta», si espose Ignis, allungando una mano a fermare la sua – la
pelle pareva ruvida ed era fresca al contatto «Lascia stare la flebo, facciamo
le cose con ordine».
Gli
occhi grandi del ragazzo lo guardarono sorpreso: lo specializzando si chiese cosa avesse detto
di tanto strano e fu sollevato nel constatare che, quantomeno, il suo
intervento era servito a dissuaderlo dal continuare.
«Perché
non ci dici come ti chiami, per prima cosa?»
La
risposta arrivò dopo qualche istante di esitazione in cui gli stessi occhi
avevano cercato una via d’uscita muovendosi nella stanza e poi arrendendosi
irrimediabilmente.
«Prompto.
Mi chiamo Prompto».
Una
strana morsa all’altezza della bocca dello stomaco fece sussultare Ignis che la
ignorò senza riuscire a spiegarsene la ragione. Non essere stupido, non è il momento di farsi prendere dai ricordi: sei
con un paziente.
«Io
sono Ignis Scientia. Sai che ti trovi all’ospedale di Lestallum, Prompto…?» si
fermò, non sapendo come continuare.
«Solo
Prompto», si affrettò stavolta a rispondere il ragazzo – improvvisamente pareva
a disagio e le mano stringevano la sottile coperta, che ancora copriva in parte
il suo corpo, quasi avessero bisogno di cercare un appiglio perché lui non
cadesse.
«Solo
Prompto», ripeté con accondiscendenza Ignis, segnando il nome sulla cartella
clinica. «Sei stato male, capisci? Non puoi semplicemente andare via, sei sotto
la nostra responsabilità».
«Non
sono mai stato altra responsabilità se non di me stesso», ribatté Prompto – ed
Ignis avrebbe giurato che ci fosse improvviso astio nei suoi occhi. «A meno che
non debba considerarmi un vostro ostaggio, voglio andare via. Vi-vi ringrazio
per avermi aiutato, ma ho cose da fare, posti in cui essere».
«So
che lavori in una casa chiusa…»
Col
senno di poi, Ignis pensò che avrebbe fatto meglio ad evitare di menzionare la
professione del ragazzo con tanta leggerezza, dal momento che il semplice astio
che aveva intravisto fino a quel momento nei suoi occhi, si tramutò in rabbia
feroce, quasi lo sguardo di Prompto potesse bruciare.
«E
quindi?» lo sfidò senza però dire altro – lo specializzando poteva chiaramente
vedere lo sforzo che stava facendo il ragazzo per trattenersi dal continuare a
parlare: aveva preso a tremare.
«Quindi»,
cercò di continuare nel modo più composto e professionale «Non è certamente un
mistero che le condizioni in cui vivi non siano delle migliori. Quando sei
arrivato non avevi un bell’aspetto: quello che chiedo è solo qualche giorno di
riposo ed osservazione, dopodiché sarai libero di andare dove vorrai».
Prompto
stette ad osservarlo per qualche istante: lentamente il fuoco nei suoi occhi si
spense, sostituito da un guizzo di malizia, che non sfuggì ad Ignis.
«Conosco
ben altri modi in cui passare i giorni di osservazione»,
disse senza pudore «E, davvero, se è tanto interessato alla mia salute, può chiedere di me alla casa di piaceri di Ardyn
Izunia, in qualunque momento».
Prompto
restò a guardare Ignis per qualche istante dopo aver smesso di parlare, senza
lasciar andare i suoi piccoli occhi verdi, tanto da costringere lo
specializzando a distogliere lo sguardo, in evidente imbarazzo. Il ragazzo,
allora, rise, estremamente divertito da quella vittoria, e prese a sfilarsi
l’ago della flebo, per poi scendere dal letto – essendosi ripreso da poco,
però, la testa gli girò con una certa violenza e fu costretto ad aggrapparsi
all’infermiere ancora in stanza con Ignis.
«Controllavo
i vostri riflessi», scherzò senza perdere il sorriso, ma muovendosi poi con più
cautela. «Davvero, non faccia quella faccia, dottore», continuò, guardando
Ignis che aveva assunto un’espressione preoccupata «Sono i pericoli del mestiere
– e i clienti più soddisfatti sono quelli che ti lasciano sfiniti», concluse
con un occhiolino.
Lo
specializzando lo seguì poco convinto mentre Prompto si rivestiva con una certa
fretta e, raccolti i pochi oggetti personali, si avviava alla reception per
chiedere il modulo di dimissioni.
«Insisto
perché resti almeno per questa notte», dissi ancora, mentre un’infermiera
passava al ragazzo un modulo prestampato con una certa indecisione.
Per
un istante Prompto guardò Ignis intensamente, cercando di in lui qualcosa che
andasse oltre la compostezza del carattere o il senso del dovere che richiedeva
quel genere di lavoro; quando trovò della vera preoccupazione fra le sfumature
di verde di quegli occhi, capì che doveva allontanarsi.
«Ed
io le ripeto che sa dove trovarmi, dottore»,
rispose, firmando velocemente il foglio e facendo l’occhiolino stavolta
all’infermiera, prima di uscire dal pronto soccorso ancora non del tutto
stabile sulle proprie gambe.
«Non
potevi fare altro, dolcezza», cercò di rassicurarlo l’infermiera, «Ne ho visti
tanti di quei passerotti entrare ed uscire da queste porte, nessuno di loro
resta».
Ignis
guardò la figura allontanarsi e stette a fissare l’uscita anche dopo che questa
era scomparsa da tempo.
Il
resto del pomeriggio era trascorso calmo all’interno del pronto soccorso, cosa
che paradossalmente aveva irritato Ignis; fra una cartella da riempire ed un
vecchio paziente da controllare, infatti, il ragazzo aveva avuto fin troppo
tempo per pensare a Prompto. Ciò che più lo innervosiva, aveva realizzato, era
il non riuscire a controllare le proprie emozioni - in qualche modo sentiva di
aver stabilito un improvviso contatto con un ragazzo che aveva visto soltanto
per una mezza giornata e che probabilmente non sarebbe più tornato in ospedale e
nonostante tutto si sentiva come in costante allarme, quasi fosse egli stesso
ad essere in pericolo.
Smettila di comportarti come un ragazzino,
si disse con stizza, mentre sistemava ancora qualche scartoffia. Perché era
tanto difficile accettare il fatto che quel ragazzo fosse andato via? Lo
specializzando davvero non si spiegava che cosa gli fosse preso e più la sua
logica falliva e sentiva l’ansia montare all’altezza del petto, più si
innervosiva.
«Cos’hai,
Scientia?» gli chiese in maniera seria Marcus, affiancandolo mentre camminava
in corridoio.
«Niente»,
cercò di liquidarlo Ignis - davvero non aveva alcuna voglia di sopportare il
suo umorismo da quattro soldi in quel momento.
«I
tuoi genitori non t’hanno insegnato che non si dicono le bugie?»
Marcus
si morse la lingua un secondo dopo che la frase ebbe lasciato le sue labbra e
aspettò che un’occhiataccia del collega lo fulminasse, consapevole di essersela
meritata. Ignis si fermò per un istante a guardarlo, ma poi tirò dritto senza
commentare – probabilmente quel trattamento fu una punizione anche peggiore.
Opuntia sospirò, allungando il passo per raggiungerlo.
«Sai
cosa intendevo dire… non… non aveva nulla a che fare col fatto che-», balbettò
con evidente disagio.
Ignis
tornò a guardarlo senza però fermarsi: il viso non tradiva alcuna emozione,
neanche la rabbia che Marcus, invece, si sarebbe aspettato.
«Non
aveva a che fare con i genitori biologici che non ho mai conosciuto o con
quelli adottivi che sono venuti a mancare due anni fa, dico bene?» chiese col
tono più atono che la sua voce poteva permettergli.
Lo
specializzando sospirò, calando la testa – dopotutto, doveva aspettarsi una
risposta del genere.
«Aveva
a che fare col fatto che non sai dire bugie, Ignis», mormorò, continuando a seguirlo e sperando di non aver
fatto troppi danni. Non era la prima volta che una battuta simile gli scappava
in presenza del collega e puntualmente l’imbarazzo che seguiva la pessima
uscita durava almeno per qualche giorno: Marcus, in fondo, era più sensibile di
quello che si sarebbe detto a prima vista e certamente ricordare ad Ignis che
aveva perso – per due volte – i suoi genitori non era qualcosa che faceva di
proposito. Semplicemente, non sapeva tenere a freno la lingua: era uno dei suoi
più grossi difetti.
«Sono
solo stanco, Marcus», minimizzò
Ignis, sperando che averlo chiamato per nome fosse sufficiente a far capire al
collega che non era particolarmente offeso dal fatto dalla sua involontaria
mancanza di tatto che non stava male per quel motivo. Di certo non era dipeso
da lui se Ignis, dopo una prima volta da bambino, ora che era appena entrato
nell’età adulta s’era ritrovato di nuovo ad essere orfano. Era semplicemente
andata così – faceva male, dannatamente male, ma il ragazzo sapeva che andava
accettato, che non c’erano altre soluzioni.
Non
disse più nulla finché entrambi non ebbero raggiunto i rispettivi armadietti
nello spogliatoio. Ignis si cambiò in silenzio, registrando appena che anche
Cindy li aveva raggiunti: avrebbe voluto chiederle come si sentisse, ma la
morte della signora Coriax a lui pareva essere successa una vita fa. Marcus
aveva ragione: non sapeva mentire e dissimulare ciò che provava neanche a se
stesso e non aveva modo di superare il totale disorientamento in cui, anche a
distanza di diverse ore, i capelli biondi e gli occhi azzurri e le lentiggini
olivastre di Prompto lo avevano gettato.
«A
domani», salutò, casualmente «Fate buon ritorno a casa».
Ignis,
però, non si diresse verso casa. Guidò per diversi isolati senza avere una meta
precisa in mente: si lasciò ispirare dalla radio che aveva acceso come
sottofondo e dalla luce fioca dei lampioni che illuminava la città – il ragazzo
non s’era mai reso conto davvero di quanto fossero vive le strade nella
penombra artificiale della notte: erano piene di persone che camminavano
distratte, in gruppo o da sole, e da lontano apparivano disorientate quanto lui
e ben più rumorose.
Non
fu così sorpreso quando si rese conto che, alla fin fine, una meta l’aveva
comunque inconsciamente scelta – non aveva idea di quanto fosse tardi, ma ad un
certo punto si accorse di essere poco lontano dal “Moulin Rouge”, la casa di
piaceri dove lavorava Prompto. Ignis parcheggiò la macchina senza però
scendere, poggiando la testa sul volante. Che cosa stava facendo? Aveva davvero
intenzione di entrare semplicemente per chiedere notizie di quel ragazzo? Si
sentiva patetico e spossato.
Scese
dopo diversi minuti, sebbene non volesse, sebbene avesse deciso che non era una
cosa saggia da fare. Mentre camminava, si accorse che la fauna del posto era
completamente diversa da quella che aveva riconosco pochi isolati prima: adesso
a camminare c’era pochissima gente che si muoveva più o meno svogliatamente
sempre nello stesso punto, come in attesa. Erano quelli che, in quell’ambiente,
chiamavano lucciole selvatiche – uomini e donne che, per un motivo o l’altro,
non potevano permettersi di entrare in qualche casa chiusa e che quindi
cercavano clienti per strada, con la speranza di poterli attirare offrendo loro
prezzi più vantaggiosi.
Ignis
evitò un paio di donne ed un ragazzino, fin troppo piccolo per quel mestiere, e
cercò di guadagnare l’ingresso della casa con una certa ansia – non era
stupido, sapeva come andavano certe cose ed era consapevole del marcio che a
Lestallum come in tutte le altre città si nascondeva dietro i palazzi, la legge
e la prosperità di Lucis, eppure quel posto lo metteva a disagio perché lo costringeva
a guardare negli occhi la realtà, a sentirne l’odore a tastarne quasi il
sapore. Il suo intero corpo provava repulsione e allo stesso tempo si sentiva
avvolto dalla lascivia che aleggiava nell’aria.
«Buonasera»,
lo salutò all’entrata una ragazza che poteva avere più o meno la sua stessa
età.
Ignis
la fissò per qualche istante, senza poter fare a meno di indugiare sugli abiti
succinti che lasciavano intravedere le sue forme e quando tornò al suo volto,
lei stava ancora sorridendo, il volto piccolo contornato da lisci capelli
scuri.
«È
la sua prima volta al Moulin Rouge?» chiese con gentilezza, sporgendosi dal
bancone che la sperava dal ragazzo. Ancora una volta Ignis non fu in grado di
parlare, ma annuì appena.
«Mi
sembra alquanto disorientato», rise la ragazza decidendo di lasciare
momentaneamente la sua postazione per fare strada all’ospite «Io sono Corinna.
Venga con me, voglio mostrarle il posto in cui si trova».
Ignis
si lasciò guidare in quella che doveva essere una specie di sala d’attesa o hall
per ospitare dei clienti indecisi: uno strano profumo di fiori riempiva l’aria,
ma non era come il ragazzo l’aveva immaginato – credeva che avrebbe trovato
stanze in penombra, fumo denso e senso di claustrofobia, mentre ciò che aveva
avanti era un ambiente in qualche modo raffinato, con molta luce ed un
bell’arredamento.
«La
discrezione è la sola regola di questo posto. I nostri clienti badano al
proprio piacere e a nient’altro. Capisce che cosa intendo?»
Mentre
camminavano lungo la grossa sala, Ignis cercò di non fissare nessun viso per
troppo tempo: c’era sicuramente gente rispettabile fra i clienti di quella
casa, gente la cui vita pubblica avrebbe potuto essere compromessa se qualcuno lo
avesse accusato di darsi a simili piaceri. Era così che funzionavano quei
posti, non ne era sorpreso.
«Solitamente,
chi è indeciso, chi vuole provare qualcosa di nuovo o semplicemente è qui per
la prima volta, può fare la propria scelta attraverso questi album
fotografici», continuò la ragazza, prendendo posto con Ignis su un divanetto,
davanti al quale un tavolino basso di vetro recava diversi libroni in pelle di vario
colore. Lo specializzando pensò che doveva essere come con le cartelle cliniche
dei propri pazienti: le si studiava per conoscere bene la persona con cui si
doveva avere a che fare. Cacciò in fondo allo stomaco il senso di fastidio e
finalmente parlò.
«In
realtà, io starei cercando Prompto…»
Corinna
parve illuminarsi all’improvviso ed Ignis individuò con precisione la sfumatura
d’ambra che colorava i suoi occhi – con quella strana espressione felice, la
ragazza pareva ancora più giovane e più bella.
«Quindi
ha già una preferenza! Avrebbe dovuto dirmelo subito, non l’avrei fatta
aspettare tanto! Questa sera Prompto è libero, lo faccio chiamare!»
Ignis
avrebbe voluto spiegare che non si trattava di questo, che non era lì per
godere dei servizi della casa, ma solo per assicurarsi che il ragazzo stesse
almeno un po’ meglio rispetto a come lo aveva trovato quella mattina, ma Corinna
era già sparita dietro una porta dall’altro lato della stanza e il ragazzo
restò da solo a fissare il bel mobilio di cui si componeva quel posto. La
stanza aveva diverse cristalliere in legno chiaro ed un lampadario scendeva dal
soffitto, luminoso e pieno, senza per questo essere pacchiano. Nonostante
tutto, non poteva fare a meno di essere ancora sorpreso dalla bellezza del
posto.
«Prego,
venga con me».
Una
ragazza che non era Corinna si palesò davanti ad Ignis: aveva all’incirca lo
stesso abbigliamento dell’altra ragazza, sebbene di una tonalità diversa di
colore, ma il volto tradiva la sua età più matura mentre i lunghi capelli
biondi facevano da forte contrasto col taglio corto di Corinna.
Senza
commentare, Ignis la seguì oltre la porta da cui la prima ragazza era sparita e
si ritrovò di fronte ad una rampa di scale che portava ai piani superiori della
struttura, dove ovviamente c’erano le stanze.
«Corinna
si scusa, ma la sua mansione per la sera è all’ingresso, per accogliere i
clienti. La prega di salutarla, però, prima di andare via», disse la ragazza –
qualcosa nel tono della sua voce metteva a disagio Ignis: le sue parole non
avevano nulla della cordialità di Corinna o della gentilezza con cui lo aveva
trattato e parevano, piuttosto, far parte di un qualche copione che lei
recitava in maniera ripetitiva e stanca.
«Prompto
la aspetta nella stanza cinque, mi ha pregato di dirle di cominciare ad entrare
e che sarà pronto subito».
Sebbene
il disagio fosse ormai palpabile, Ignis s’accorse che la ragazza non lo avrebbe
lasciato finché non fosse entrato nella stanza, quindi si rassegnò a non
chiarire il malinteso ed entrò, chiudendosi la porta alle spalle. Dopotutto,
anche quello era un modo per vedere Prompto, probabilmente il più facile che
aveva in un luogo del genere e semplicemente avrebbe chiarito con lui la
situazione, prima di andare via.
La
stanza che gli si presentò davanti era, secondo lo stesso gusto della hall del
piano terra, finemente arredata e forse solo leggermente più spoglia: un grosso
letto matrimoniale occupava la maggior parte dello spazio sul muro di sinistra,
affiancato da un comodino; di fronte un piccolo mobile sempre di legno
completava il mobilio, mentre nell’aria aleggiava un odore più leggero ma della
stessa fragranza di fiori che aveva sentito quando era entrato.
La
prima cosa che fece Ignis fu aprire le finestre per prendere una boccata
d’aria. Guardando la strada quasi deserta da lì, il ragazzo si trovò a pensare
che se qualche ora prima qualcuno gli avesse detto che quella notte si sarebbe
trovato in una delle stanze del Moulin Rouge, probabilmente lo avrebbe guardato
con l’aria più scettica di cui era capace e gli avrebbe detto di non
infastidirlo con simili assurdità. Eppure, ora poteva godere del panorama che
l’altezza offriva e dell’aria fresca dell’ora tarda.
«Buonasera».
La
voce di Prompto lo riscosse dai propri pensieri e Ignis si voltò di scatto, non
avendolo sentito entrare. Per qualche istante vide qualcosa passare negli occhi
del giovane ragazzo, un misto di emozioni che non riconobbe perché troppo
veloce e che alla fine si assestò sulla sorpresa e sul divertimento.
«Alla
fine ha davvero accettato il mio invito!» Prompto somigliava a Corinna nel suo
puerile entusiasmo ed Ignis cominciò a chiedersi se quell’allegria improvvisa
non fosse un modo per nascondere altro «Davvero non ci speravo».
«In
realtà, volevo soltanto sapere come ti sentivi, visto che sei voluto andare via
così presto». Per riflesso incondizionato, Ignis si sistemò meglio gli occhiali
sul naso, facendoli aderire quanto più possibile al viso.
Prompto
inclinò la testa di lato, nascondendo le braccia dietro la schiena e
ondeggiando – sembrava un bambino agli occhi dello specializzando, sebbene dovesse
aere solo qualche anno in meno a lui, e di nuovo la sensazione che fosse troppo
giovane per una simile occupazione gli chiuse lo stomaco.
«Capisco!»
asserì il ragazzo, facendosi avanti «È il tipo di dottore che viene a
sincerarsi di persona della salute dei propri pazienti. Davvero… premuroso…».
C’era
una malizia tale nelle sue parole che fece arrossire Ignis, sebbene non fosse
alla sua prima esperienza. Deglutì, mentre Prompto era sempre più vicino ed il
suo profumo, forte e pungente in contrasto con l’aroma vago della stanza, parve
entrargli dentro quasi fosse un afrodisiaco. Non sarebbe mai andato a letto con
lui, aveva una moralità che gli impediva di fare una cosa del genere, eppure
mentre il ragazzo gli poggiava le mani sui fianchi e lo conduceva verso il
letto Ignis lo lasciò fare senza riuscire a dire niente.
Si
trasse indietro solo quando Prompto provò a baciarlo, scostando la testa di
lato e facendo sì che le labbra del ragazzo finissero sul suo collo,
sfiorandolo appena e facendogli il solletico.
«Dico
sul serio, sono solo interessato alla tua salute…» mormorò a voce bassa, quasi
non gli fosse possibile parlare.
Prompto
rise appena, mentre con le labbra risaliva la curva del suo collo.
«Non
hai alcun bisogno di giustificarti qui, Ignis»,
sussurrò, lento, sensuale, facendo correre un brivido lungo la schiena dello
specializzando «Posso essere tutto quello che vuoi e fare tutto quello che
vuoi. Scegli come condurre il gioco o dammi le regole per condurlo da me».
Il
ragazzo si staccò da Ignis, lasciando che questi si sedesse sul letto e
guardandolo dall’alto dei pochi centimetri che li separavano in quella
posizione, per poi cominciare a spogliarsi: aveva addosso una camicia ed un
panciotto chiaro che sbottonò con lentezza senza staccare gli occhi dal suo
cliente, dall’amante di quella sera. Quando si fu liberato anche della camicia,
il petto nudo e glabro colpì Ignis: quando lo aveva esaminato, era stato il suo
occhio analitico di dottore ad osservarlo con perizia, mentre adesso che poteva
semplicemente guardarlo ne riconosceva la bellezza, nonostante i lividi e il
fatto che fosse magro abbastanza perché le ossa sporgessero sotto la pelle.
Fu
in quel preciso istante, mentre Prompto stava calando nuovamente su di lui e
Ignis pensava ad un modo che non fosse troppo brusco per fermarlo e ribadire
che, davvero, non aveva alcuna intenzione di passare la notte con lui, che lo
vide. Inizialmente fu un dettaglio sfocato sul corpo chiaro del ragazzo, ma col
passare degli istanti divenne sempre più chiaro e così denso di significato che
Ignis sentì girare la testa e mancare l’aria. Senza permettere al ragazzo di
stendersi completamente su di lui, gli prese con una certa forza il polso
sinistro, tirandolo su mentre anche lui si alzava. Vide un lampo di spavento
negli occhi di Promtpo, che sparì quasi subito, mentre la sua presa restava
salda.
«Allora
la tua gentilezza è solo un’illusione», lo sentì dire, ma la sua voce era un
suono lontano e il significato della frase quasi gli sfuggì: tutto ciò che
contava era il piccolo tatuaggio che aveva nell’interno del braccio, poco prima
dell’ascella, una X seguita da una V. Terribilmente familiari.
Gli
occhi di Ignis passarono ripetutamente dal tatuaggio al volto di Prompto di
nuovo al tatuaggio, in un corto circuito che non aveva soluzione. Da parte sua,
il ragazzo non capiva che cosa fosse successo e la presa forte sul suo polso
cominciava ad innervosirlo.
«Mi
stai facendo male», sussurrò istintivamente, sebbene sapesse che non bisognava
dire una cosa del genere se non era davvero davvero in pericolo – non era
qualcosa che piaceva sentire ai clienti di solito, a meno che non gli fosse
espressamente chiesto di giocare quel ruolo.
Ignis
deglutì a vuoto un paio di volte prima di lasciarlo finalmente andare. La testa
continuava a girargli ed un senso di vomito s’era impadronito del suo stomaco: adesso
il profumo di Prompto mischiato a quello della stanza gli dava la nausea e
tutto ciò che voleva era uscire a prendere aria.
«Vado
via», disse balbettando.
«Aspetta!
Se ho fatto qualcosa di sbagliato, ti prego dimmelo – non c’è alcun bisogno
di…»
Il
tono supplichevole nelle parole di Prompto rischiò di far gridare Ignis dalla
rabbia. Il ragazzo mantenne la calma con una forza che non sapeva di avere e
scosse la testa, cercando di tenersi ancora un momento lucido, di non pensare,
di non pensarci.
«Non
hai fatto nulla di sbagliato – pagherò per tutta la sera e dirò di essere stato
bene. Ma devo andarmene». Ora erano le sue stesse parole a farlo stare
malissimo.
Ignis
corse fuori dalla stanza, giù dalle scale e lungo la hall senza più voltarsi
indietro. Arrivò al bancone iniziale, dove riconobbe Corinna che lo accolse con
il suo solito sorriso – ora anche quello gli pareva falso, pronto a infrangersi
come cristallo al primo contatto.
«Ti
prego, dimmi quanto devo per la serata con Prompto», disse con urgenza, mentre
vedeva l’espressione sul viso della ragazza cambiare radicalmente. Tuttavia lei
non gli fece domande: doveva essere stata istruita in quel modo.
«Mi
raccomando, dica che sono stato bene, che Prompto… ha fatto tutto come doveva»,
aggiunse, dopo aver pagato, ed uscì di corsa, ignorando la gente che ancora era
per strada e raggiungendo la propria macchina. Gli pareva fosse passato un
secolo da quando l’aveva lasciata.
Soltanto
quando si fu allontanato di diversi isolati dal Moulin Rouge, Ignis si permise
nuovamente di respirare a pieni polmoni. Una volta salito in macchina, tirò su
i finestrini della vettura, chiudendosi dentro, e prese a gridare con tutto il
fiato che aveva in gola, le lacrime che gli rigavano il viso e una mano serrata
intorno al braccio sinistro, nello stesso punto in cui aveva visto il tatuaggio
di Prompto.
***
Prompto
era abituato a fare visite a domicilio: era ormai da almeno un paio di anni che
gli avevano permesso di uscire dalla casa quando i clienti più facoltosi
chiedevano un incontro nella propria abitazione piuttosto che al Moulin e, a
voler essere sinceri, al ragazzo non dispiaceva. Alcuni dei suoi colleghi
avevano paura: sostenevano che andare a casa di un cliente fosse più
pericoloso, che fra mura che conoscevano
gli uomini, soprattutto, si sentivano più liberi di fare tutto ciò che
volevano, il che includeva far loro del male. Prompto non era d’accordo – lui i
clienti più pericolosi li aveva incontrati al Moulin, compreso quello che
appena qualche giorno prima gli aveva lasciato dei segni ancora ben visibili
sull’addome e la sensazione di dover sparire, di non essere degno neanche di
vedere la luce.
Uscire
fuori, percorrere qualche strada che non fosse quella del solito isolato e
vedere la vitalità sana della città erano cose che sapevano mettere Prompto di
buonumore, quindi quando quella mattina gli era stato detto di aver ricevuto
una richiesta a domicilio per il pomeriggio, era stato ben lieto di lasciare la
sua stanza e cambiare aria. Lo infastidiva ammetterlo anche solo a se stesso,
ma era ancora scosso dalla notte precedente: la sensazione di pericolo che
aveva avvertito quando il suo ultimo cliente – Ignis, Ignis Scientia, gli ricordò la mente – lo aveva afferrato
per il polso guardandolo con orrore era qualcosa che non riusciva ancora a
scrollarsi di dosso, sebbene avesse visto e gli fosse stato fatto di peggio.
Qualcosa in quel volto lo aveva terrorizzato ed era stato tutto talmente veloce
che Prompto s’era ritrovato in un attimo da solo e spaesato.
Quando
quella mattina lo aveva raccontato, Delia aveva detto che era colpa
dell’assenza di Ardyn. Prompto l’aveva guardata male ed aveva continuano a
mangiucchiare la fetta di pane che era riuscito a prendere per colazione – la
donna si sbagliava: la momentanea assenza di Izunia non aveva nulla a che fare
con la sensazione di insicurezza che aveva provato, sebbene fosse certo che
quando il loro capo era in città le cose fossero più sicure. Ardyn era un uomo
particolare – violento e crudele quando voleva esserlo, ma allo stesso tempo
dolce e premuroso con ciò che gli apparteneva. Se avesse scoperto del cliente
che aveva picchiato Prompto e del fatto che era finito al pronto soccorso, forse
Lestallum avrebbe avuto un ricoverato in più in terapia intensiva.
Il
ragazzo sospirò, sgranchendosi le braccia e continuando a passeggiare: era
uscito con tutto l’anticipo che aveva potuto permettersi così di poter godere
del sole di quel pomeriggio caldo – se avesse avuto una macchina fotografica,
probabilmente non avrebbe fatto altro che immortalare il colore del cielo in
quelle ore o i riverberi stanchi che il sole lasciava sulle case e per le
strade.
Superò
distrattamente una delle piazzette della città e cercò di orientarsi,
guardandosi intorno come uno scolaretto in gita, le mani dietro la schiena e i
piedi che non sapevano trovare requie. Quando finalmente riconobbe il nome
della strada che corrispondeva all’indizio lasciatogli, vi si incamminò con una
certa celerità, sospirando quando infine raggiunse il civico giusto. Era
davanti ad una bella casa, di quelle che la modernità non aveva ancora
intaccato e parevano trattenere ancora un alone di passato tra le tegole e gli
infissi in legno – probabilmente, chi vi abitava doveva essere al di sopra
della semplice borghesia, il che spiegava anche perché potesse permettersi un
servizio simile.
Prompto
cercò di calmare la sua curiosità e di entrare nella parte – insegnargli come
condurre quel gioco, come essere provocante e remissivo, desiderato, era stato
difficile: i primi tempi Prompto avrebbe semplicemente voluto che i clienti lo
lasciassero in pace, che facessero quello che volevano di lui e andassero via,
senza considerarlo, senza dargli peso. Delia lo aveva preso sotto la sua ala e
gli aveva insegnato a separare se stesso da ciò che era quando stava con un
cliente, a trasformarsi per sopravvivere. Ora Prompto riusciva quasi sempre a
gestire la situazione che aveva davanti – dopotutto, aveva fatto esperienza
negli anni che aveva trascorso al Moulin Rouge e adesso era abbastanza grande
da sapersela cavare.
Bussò
al campanello sistemandosi i capelli con le dita e sperando che la passeggiata
non gli avesse arrossato il viso. Si preparò ad uno dei suoi migliori sorrisi
d’accoglienza quando sentì i passi avvicinarsi alla porta ed fu sul punto di
salutare con gentilezza, inclinando la testa di lato, quando riconobbe l’uomo
che lo aprì. E si sentì mancare il fiato.
Ignis
Scientia era davanti a lui. Prompto fece un passo indietro.
«Non
andare via», gli chiese quello, senza muoversi, forse esitando – in realtà, in
quel momento, andare via era la sola cosa che veniva in mente di fare a
Prompto, sebbene le sue gambe fossero pesanti e l’intero corpo quasi bloccato
sul posto da una morsa gelida. «Volevo solo scusarmi per ieri… Ti va di
entrare?»
Il
ragazzo lo guardò mentre gli voltava le spalle e faceva qualche passo dentro
casa. Restò ancora qualche secondo a fissare la sua figura, poi si decise ad
entrare: dopotutto, ricordò, non aveva molta scelta – era un cliente, non
poteva di certo tornare al Moulin senza essere stato pagato semplicemente
perché s’era rifiutato di entrare in casa.
Ignis
gli fece strada fino al soggiorno e si sedette su una delle due poltrone,
facendo segno a Prompto di accomodarsi dove voleva. Il ragazzo cercò di non
sembrare troppo sorpreso mentre prendeva posto sul divano, di fronte a lui: si
aspettava che sarebbero andati direttamente nella stanza da letto, dal momento
che quel tizio non gli pareva il tipo di persona che aveva idee strane riguardo
al sesso; eppure, mentre lo osservava torturarsi le mani, Prompto cominciò a
pensare che il sesso non c’entrasse davvero molto. Voleva parlargli.
«Ieri
sera… Devo averti spaventato e mi spiace tantissimo, perché non volevo». Ignis
non lo guardava negli occhi e Prompto non aveva altra possibilità se non quella
di ascoltarlo. «Ero davvero solo venuto per sapere come stavi, non mi aspettavo
di…»
Il
ragazzo non riuscì a trattenere uno scoppio di risata, che però bloccò
all’instante.
«Scusami»,
disse, sporgendosi in avanti e cercando di guadagnare un po’ di controllo su
una situazione che davvero con capiva «Ma devi essere davvero molto ingenuo per
entrare nella stanza di una casa di piaceri e non aspettarti che la persona da
te richiesta provi a soddisfare le tue voglie», disse col più calmo dei toni.
Ignis
tirò su la testa e stette ad osservarlo senza dire niente – Prompto non poteva sapere
che, nella sua mente, lo specializzando stava cercando di far coincidere il
ricordo di un bambino di quattro anni un po’ spaventato, con quello del ragazzo
provocante ed adulto che aveva davanti, fallendo miseramente. E che più falliva
più stava male, senza avere alcuna possibilità di scacciare il groppo che aveva
alla gola e il senso di colpa. Voleva parlargli, voleva dirgli così tante cose,
ma non sapeva da dove cominciare.
«Io…
c’è un motivo se ho reagito così. Prompto…»
Ma
il motivo restava incastrato fra le labbra sottili di Ignis e Prompto poteva
vedere con chiarezza lo sforzo che stava facendo l’altro per restare calmo e
spiegare tutto tenendo a bada le emozioni. Poi, d’un tratto, lo specializzando
si alzò in piedi e prese a sbottonarsi la camicia con una certa urgenza – per
la seconda volta, una strana sensazione di delusione avvolse per qualche
istante il petto di Prompto, come quando, la sera prima, aveva riconosciuto nel
suo cliente il giovane dottore che lo aveva curato al pronto soccorso. Era
stupido, si disse, stupido ed insensato pensare che, per una volta, avrebbe
potuto stabilire con qualcuno un rapporto che andasse al di là del proprio
lavoro, eppure c’era qualcosa in Ignis che lo attirava, che lo risvegliava dal
torpore degli anni passati al Moulin Rouge.
Ci avrà semplicemente ripensato,
si disse, mentre si alzava a sua volta, guardandolo mentre questi si sfilava
con cura la camicia e la poggiava dietro di sé. E tu devi stare al gioco.
Ma
quando Ignis si avvicinò a lui e Prompto lo osservò cercando di capire se
avesse intenzione di baciarlo come i novellini o prenderlo con forza,
semplicemente lo specializzando allargò il braccio sinistro, mostrando
nell’interno, quasi sotto l’ascella, un piccolo tatuaggio che Prompto conosceva
bene: una X seguita da una V. Gli mancò il fiato.
«Perché non possiamo semplicemente scrivere
il numero quindici?» chiede un po’ imbronciato Nux – ha solo quattro anni, ma
non gli piace non capire. «La nostra stanza ha il quindici scritto con i
numeri, non così», si lamenta.
Puròs lo guarda sorpreso, mentre accanto a
lui Xìfos armeggia con l’ago reso incandescente dalla fiammella dell’accendino
con cui l’hanno sterilizzato.
«Perché se usiamo i numeri antichi saremo in
grado di riconoscerci a vicenda guardando questi tatuaggi, anche se ci
separeranno, anche quando saremo grandi», spiega per l’ennesima volta, eppure
Nux non pare convinto, fissa la X già tracciata sul braccio di Puròs e la V che
ora il più grande sta disegnando punto dopo punto e non sembra soddisfatto di
ciò che vede.
«Fa male?» chiede invece Prom, con vocina
sottile – lui ha paura degli aghi. In realtà, ha paura di molte cose, come il
buio o il mostro sotto il suo letto; forse ora che l’orfanotrofio in cui
vivevano è stato divorato dalle fiamme ha paura anche di quelle. Ma non lo
dice, perché vuole essere grande e forte come Nux e come gli altri. Perché, in
fondo, ha paura anche di essere lasciato indietro.
«Pizzica un po’», ammette Puròs,
sorridendogli con gentilezza «Ma non è nulla e dura pochissimo. Guarda: Xìfos
ha praticamente già finito con me!»
«Dobbiamo fare in fretta», incalza questi,
mentre fa segno al secondo che può alzarsi e con la mano dice proprio a Prom di
farsi avanti «Non devono scoprirci prima che tutti e quattro i tatuaggi siano
finiti». Parla come se fosse nel bel mezzo di una cospirazione o di un piano di
battaglia per rubare il grande tesoro dei pirati: per Xìfos ogni cosa è
un’avventura ed è sempre divertente seguirlo quando giocano. Questo però è un
diverso dal solito gioco: è più triste.
Prom tira su col naso e si siede, non prima
di essersi fatto promettere da Xìfos che farà piano e cercherà di non fargli
troppo male. Nux si avvicina e gli prende la mano.
Prompto
fissava il tatuaggio di Ignis senza capire: la mente si rifiutava di realizzare
ciò che l’istinto aveva già riconosciuto, perché poi non avrebbe saputo che
cosa fare con una simile informazione. Alzò lo sguardo sul volto di Ignis e
scoprire i suoi occhi lucidi non servì se non a farlo agitare ancora di più –
no, no, no, non poteva essere vero, non poteva essere come quello sconosciuto
voleva fargli credere.
«È
una cosa così meschina da fare, quasi malata», sussurrò arrabbiato «Perché hai
copiato il mio tatuaggio? Non hai idea di cosa significhi per me e-».
«Certo
che lo so, Prom», lo interruppe Ignis
e per la prima volta la sua voce era sottile e tremava, incerta «Perché per me
significa lo stesso».
Prompto
lo fissò senza più riuscire a respirare: non voleva ancora crederci perché
farlo, lasciarsi andare ad una speranza tanto dolce, sarebbe equivalso ad
esporsi alla più rovinosa delle cadute se poi fosse stata delusa. Ma la sua
mente s'era messa ormai in azione ed ora, come aveva fatto poco prima quella di
Ignis, cercava su quel viso i dettagli di un passato quasi cancellato, che mai
Prompto avrebbe pensato di dover richiamare alla memoria. E li trovò. E lo
riconobbe. Prompto non vedeva quel tatuaggio da che aveva cinque anni, da che
Puròs era stato adottato ed era completamente sparito, pur avendogli promesso
invece che gli avrebbe scritto ogni giorno, che almeno loro due non si
sarebbero persi. Lui aveva aspettato ed aveva pianto e lo aveva odiato – poi,
semplicemente, era diventato grande.
«Lo
avevi promesso», balbettò, le prime lacrime le gli sporcavano la voce «Avevi
promesso di scrivermi con così tante parole, Puròs».
Prompto
si gettò tra le braccia di Ignis con uno slancio tale che quasi fece cadere lo
specializzando e prese a colpirlo con deboli pugni sul petto, mentre le lacrime
bagnavano la pelle di Ignis e il calore di quel corpo che aveva amato con tanta
innocenza da piccolo ora gli chiudeva lo stomaco per il dolore.
«Ti
ho odiato così tanto quando mi hai lasciato da solo», mormorò ancora il più
piccolo e lentamente i colpi persero la propria forza, finché le braccia non
strinsero Ignis in un abbraccio. Lo specializzando lo tirò definitivamente a sé
come se non volesse mai più lasciarlo andare, come se quel contatto riparasse a
tutti gli anni in cui erano stati lontani, a tutto il dolore che avevano
affrontato da soli.
«Hai
ragione. Mi dispiace tanto, Prom, mi dispiace tantissimo», si scusò, piangendo
con lui.
Quando
si furono calmati, non riuscirono a lasciarsi andare e si stesero sul divano
l’uno accanto all’altro – Prompto aggrappato al suo petto ed Ignis con una mano
fra i suoi capelli: non era imbarazzante quell’intimità perché erano tornati ad
essere bambini, all’età in cui s’erano dovuti separare.
Parlarono
delle loro vite, come se potessero essere riassunte in un solo pomeriggio.
Prompto raccontò di essere diventato grande nel nuovo orfanotrofio in cui
avevano portato lui ed Ignis dopo l’incendio e che quando, verso i quattordici
anni, aveva capito che nessuno sarebbe venuto per lui e che ormai non era più
un bambino, semplicemente era andato via. Se n’era pentito molte volte,
soprattutto nei primi tempi, quando la fame era stata tanta e non aveva avuto
un posto in cui stare; poi, Delia, una delle ragazze di Ardyn, lo aveva trovato
e lo aveva portato al Moulin – da quel momento, la sua vita aveva avuto qualche
certezza in più, sebbene fosse stata difficile, sebbene Prompto avesse dovuto
imparare ad essere adulto da subito.
«Non
avrei mai voluto che tu… che tu avessi questa vita, Prom», disse alla fine
Ignis, stringendolo un po’ di più «E so di non poter fare nulla per quegli
anni, ma ti prometto-».
Promtpo
lo zittì con un sussurro e gli chiese di parlare di sé. Ignis si vergognò quasi
a raccontare di come i coniugi Scientia lo avessero accolto nella loro casa,
gli avessero impartito una ferrea educazione e fatto di lui un ragazzo
responsabile e giudizio, avviato alla carriera medica con tutti gli elogi del
caso. Quando erano morti, lui aveva continuato a vivere da solo nella casa che
loro gli avevano offerto e aveva cominciato il tirocinio, seguendo la strada
che loro gli avevano tracciato sin da piccolo. Con il senso di colpa che gli opprimeva
il petto, aveva confessato di non essere stato forte abbastanza, da piccolo,
per opporsi al loro divieto di scrivere a Prompto e che solo col tempo aveva
capito che i suoi genitori volevano tagliare qualunque ponte lo legasse a quel
passato perché diventasse un rispettabile cittadino d’alta società. Quando
Ignis era stato abbastanza grande da poter fare ricerche per conto suo, Prompto
aveva già lasciato l’orfanotrofio e lui non era stato in grado di
rintracciarlo.
«Nux
e Xìfos? Hai cercato anche loro?» chiese Prompto – sentì chiaramente il corpo
di Ignis irrigidirsi contro il suo e si tirò su per vedere meglio la sua
espressione. Ignis, invece, si scostò da lui, mettendosi seduto.
«Li
ho cercati», disse e di nuovo la voce era solo un sussurro «Ma quando sono
stato all’orfanotrofio di Insomnia in cui li avevano mandati dopo l’incendio, i
vecchi registri li riportavano come dispersi. Mi hanno detto che c’è stato un
incidente durante il loro trasferimento: la macchina su cui viaggiavano è stata
trovata in fiamme».
Prompto
non riuscì a trattenere un lamento strozzato, mentre il dolore lo avvolgeva e
per la prima volta si accorgeva di aver davvero perso due dei suoi fratello. Si
strinse nuovamente contro il petto di Ignis, piangendo ancora qualche
silenziosa lacrima.
_________________________
Non nascondo di avere un po’ di sana ansia mentre pubblico il primo capitolo di questa long. Sarà perché è passato del tempo dall’ultima volta che ne ho scritta una tanto lunga (e complessa) o forse perché ci sto davvero lavorando tanto – e da tanto – su questa storia da essermici davvero affezionata. Volevo aspettare ancora un po’, ma poi mi sono accorta che oggi è giusto un anno da che ho scritto le prime parole e quindi ho approfittato della ricorrenza per farmi coraggio e pubblicare.
Ringrazio tutte le persone che mi hanno sopportata mentre scleravo riguardo ai vari dettagli del plot (soprattutto Fran che mi ha tenuto la manina man mano che costruivo la storia e lo fa ancora adesso) e spero che possa piacervi almeno un po’! Che altro dire? Nel prossimo capitolo vedremo come se la passano Nux e Xìfos aka Noctis e Gladio (sì, ho banalmente usato i corrispettivi in greco antico dei loro nomi in latino, tranne che con Prompto, perché non volevo cambiasse nome non essendo stato adottato).
Grazie a tutti per l’attenzione e al prossimo aggiornamento!
Alch.