Mentre gli edifici parevano sfiorare le nuvole bianche e la
gente inseguiva affannosamente i propri appuntamenti, una ragazza pareva
essersi fatta statua, in mezzo al ponte, slanciata come i grattacieli
circostanti, a osservare il vuoto: il suo sguardo non pareva esprimere alcuna emozione,
se non una vuota angustia, percepibile
appena nei suoi lucidi occhi indaco. Il crine sottile che scendeva dolcemente
sulle spalle le dava un’aria ancora più immobile, nonché una strana
impressione: era solita legarlo e sentirlo librarsi nell’aria, come un unico
scampolo di seta nera.
Da ogni parte si susseguivano rumorosamente impiegati che discutevano al
telefono e gloviali comitive di studenti
che si burlavano l’un con gli altri, ma pareva che lei non riuscisse neanche a
concepirli, per quanto assorta fosse nell’ascoltare il suo silenzio interiore.
Trillò il suo telefono: un messaggio da Haruka.
Akira, al club siamo tutte preoccupate per te!
Per favore, dacci tue notizie, vieni a trovarci!
Essendo la tua migliore amica, vorrei vederti felice, e
anche se non puoi più correre come prima,
ricordati che la nostra amicizia
continuerà,
e saremo anche più unite di prima!
Per favore, Akira, rispondici il più presto possibile…
La fanciulla rilesse quelle brevi righe per un numero
imprecisato di volte: non riusciva a comprendere bene una frase e già essa ne
aveva dimenticato il significato; il suo cuore le crepitava e chiuse gli occhi
cercando, invano, di non piangere. Cercò di digitare qualcosa nello schermo del
suo cellulare, ma non ci riuscì; lo spense e cominciò ad allontanarsi nel punto
in cui era ferma da minuti.
Al piede percepì ancora un lieve dolore ma lei, con un andamento quasi
zoppicante, continuò a camminare nella grande città gremita di gente ornata di
accessori opulenti e i cui telefoni parevano essere parte integranti delle loro
mani, la cui musica pareva un rumore indefinito e senza un preciso ordine,
dagli odori oleosi delle baracchine dei takoyaki. Fu una di quest’ultime che
attirò l’attenzione di Akira, che ne seguiva l’invitante, fragrante scia fino a
quando vi si fermò innanzi e vi svoltò col pesce dorato in mano. Già dopo un
morso si pentì del suo acquisto: troppo oleoso e pesante, l’avrebbe fatta
ingrassare, indubbiamente. Il giorno dopo si vedeva, alla bilancia, col il suo
impassibile ago che le segnalava mezzo grammo in più. Ora che non poteva più
smaltire i grassi correndo, come poteva rimanere magra, se non con una dieta
ferrea? Tuttavia finì il suo dolce e continuò a vedere impartecipe la vita
nella città: si fermò in una libreria, nonostante non le piacesse leggere, e vi
uscì dopo aver guardato velocemente gli scaggalo, la sala giochi davanti alla
quale riposò il piede dolente era troppo assordante per i suoi ritmi (come
facevano i suoi coetanei ad adorare questi luoghi?), osservò le frivole vetrine
di un negozio che le sue compagne adoravano (come facevano ad apprezzare questi
eccentrici vestiti che lasciavano così scoperte le membra?). Poteva lei tornare
una ragazza normale, con degli interessi comuni alle sue coetanee? Poteva lei,
Akira Tachibana, lasciarsi alle spalle l’atletica cristallizzandola in
un’agrodolce memoria dei tempi delle scuole superiori? Haruka poteva capire che
non poteva più vedere un atleta come prima?
Akira stessa poteva tornarle a parlare senza cadere in un baratro di tristezza
e continuare a parlarle come prima?
Il dolore al piede si accentuò: non riusciva a camminare senza zoppicare,
strenuamente si trascinò verso il parco e si appoggiò ormai esausta su una
panchina. Socchiuse gli occhi e sospirò, cercando di togliersi dalla mente
quelle sue paure: si era prefissata di non essere così sensibile come era, di
diventare forte e impassibile. Era giunto il momento di maturare, e di andare
oltre. Era in quello che dicevano fosse il miglior periodo della sua vita, nei
suoi diciassette anni, e non poteva permettersi di deprimersi per questo; ma
come poteva, se aveva perso il cuore della sua esistenza?
Alzò gli occhi dal piede verso il cielo, ora grigio e portavoce di una pioggia che
si prefiggeva burrascosa. Il rigoglioso giardinetto si svuotò dei suoi piccoli
abitanti e dei loro genitori, e la ragazza rimase sola.
Una goccia cadde sulla sua madida camicia della sua divisa, poi un’altra sulla
guancia, e un’altra ancora sul braccio la convinsero ad alzarsi faticosamente e
cercare un riparo; per un momento imprecò tra
sé per essersi allontanata
eccessivamente da casa e di essersi dimenticata l’ombrello a scuola, ma
stoicamente vagò, tra la tenue pioggerella, fino a trovare un accogliente
locale che avrebbe potuto ospitarla per un po’.
Appena lo raggiunse, vi sedette sul primo posto libero che vide e guardò la
pioggia battente sul vetro, trascinata dal vento, lasciando che il suo suono
facesse da sottofondo al suo fluire di pensieri ed eliminasse la fastidiosa
musichetta di sottofondo che avevano messo nel locale, fino a quando qualcuno
attirò la sua attenzione.
“Sarà dura aspettare la fine di questo temporale”
Akira sussultò. Alzando lo sguardo squadrò colui che aveva pronunciato questa
frase: era un uomo, sulla quarantina, il cui viso dava l’impressione di celare
una personalità gentile, dietro alle prime rughe che affioravano e agli occhi
spenti, comunque abbastanza espressivi da non farlo sembrare un automa. Tra le
mani teneva una tazzina di caffè, che immediatamente poggiò sul tavolo, innanzi
alla ragazza.
“Ma io non ho ordinato nulla…” ciancicò confusa, ma il signore non le permise
di finire la frase.
“E’ un omaggio della casa!”
“Grazie…” mormorò Akira accennando un sorriso e tenendo in mano la tazzina.
Bastò un attimo che la lingua potesse assaggiare il caffè che essa si ritrasse.
Si rivolse al garbato cameriere, che continuava a starle vicino, per vedere se
la sua cliente avesse avuto bisogno di qualcosa.
“Scusi” cominciò “Potrei avere un po’ di zucchero, per favore? I-Il caffè è
troppo amaro per i miei gusti”
“Ah, lo zucchero!” esclamò l’uomo intimorito dallo sguardo di lei e dal tono
monotono in cui pose la frase, ma si fece forza e applicò un trucchetto che
sapeva divertisse i più giovani. “Dove sarà mai lo zucchero, vediamo, ah, si…
un, due e… tre!” ecco che dalla sua grande mano apparve quasi per magia una
zolletta di zucchero.
Akira, per niente esperta di giochi di prestigio, ne rimase sinceramente
stupefatta tanto da far aprire i suoi occhi e la piccola bocca in
un’espressione di lieta meraviglia. Il suo sorriso si fece più smagliante, e
ringraziò vivamente quel gentile signore per la propria cortesia, e bevve tutto
d’un sorso il suo caffè! Ah, com’era delizioso quel liquido nerastro, mai ne
aveva bevuti di simili! Ah, com’erano gentili i camerieri in quel locale, come
in nessun altro posto! Com’erano tornate rosee le nubi prosciugate della
pioggia, sfiorate dalla morbida luce del tramonto. Per quanto era rimasta in
quel locale? Non importava; ringraziò ulteriormente il proprietario del negozio
e tornò finalmente a casa.
Incurante dei rimproveri della madre, Akira si accinse immediatamente in camera
sua, si sdraiò sul suo letto e cominciò ad ascoltare un po’ di musica. Tra le
dolci parole che ogni canzone librava nelle cuffiette, vi riconosceva quelle
del signore che fu così gentile con lei in quel pomeriggio. Come poteva
esprimere la propria gratitudine a quell’anima santa? Non era tenuto ad essere
così gentile con lei, giovane atleta costretta al ritiro ancor prima che la sua
carriera potesse iniziare, e percepì che i propri modi glaciali potessero aver
leso i sentimenti di quel povero uomo. Davvero voleva abbandonare per sempre
quella docile parte di sé per far totalmente spazio a quella che si stava
costruendo? No che non la voleva abbandonare, ma come doveva comportarsi con
Haruka e quelle ragazze così insistenti del club di atletica? Ormai la sua
carriera non poteva più decollare, qual era il senso di continuare a frequentare
quel gruppetto senza parteciparvi attivamente?
Sospirò e cominciò a pensare a quel signore. Nonostante l’età, a suo parere,
non era per niente un brutto uomo, con quelle spalle larghe la sua altezza
mastodontica, e quel suo carattere dolce e un po’ autoironico miglioravano
nettamente la sua immagine; sì, non era per niente male Chissà qual era il suo
nome, dove abitava, o se era sposato. Sussultò, era davvero arrivata fino a
questo punto? Socchiuse gli occhi e continuò a immaginarsi quell’uomo, dalla
vita sconosciuta e dagli interessi ancora più ignoti.
“Chissà da quanto tempo fa il cameriere” pensò sogghignando tra sé e sé,
dimenando le gambe e scostando lievemente le madide coperte“ Che il suo sogno
sia stato quello di diventare uno chef stellato? Impossibile, allora, che
lavori ancora in un ristorante per famiglie, o… o se stia attraversando un
periodo difficile e per sbarcare il lunario si divida tra qualche piccolo
lavoretto? O… O…”
Era diventata un’ossessione, quello sconosciuto, una fugace deviazione
al suo costante dolore nonché unico pensiero che riuscisse a farle continuare
le giornate senza il rammarico dell’atletica. Passava sempre davanti al
ristorante, prima di tornare a casa, senza però mai entrarvi, e dai lucidi
vetri vi scorse sempre, tra le persone che conversavano insieme o che la
guardavano straniti dalla sua presenza, la figura di quel gentile signore di
cui scorse altre sfumature di carattere che la fecero definitivamente
trasalire. Com’era adorabile quando chiedeva scusa ai clienti arrabbiati, o
quando inciampava nell’intento di servire egli stesso i gustosi piatti a delle
comitive di studente, oppure quando ascoltava imbarazzato i rimproveri della
capocameriera! Non si aspettava da lui quel lato così maldestro, e già lo adorava,
se lo immaginava tra le sue braccia, a consolarlo e a perdonarlo per tutte le
sue magagne, era forse innamorata di lui?
Certo che lo era, nei drama che era solita guardare distrattamente da quando si
era rotta il piede, un grande amore iniziava sempre con un pensiero fisso,
proprio come il suo.
Svoltò immediatamente e interruppe improvvisamente ogni pensiero: aveva letto
male o al ristorante cercavano dei camerieri? Si avvicinò e lesse più volte l’annuncio
attaccato alla porta dell’ingresso; agì impulsivamente, non poteva perdere
l’occasione di frequentarlo più sovente, di conoscere meglio gli anfratti della
propria personalità, o perché no, di starci assieme come una coppia dopo
essersi incontratia lungo. Si lisciò i
propri capelli corvini e si guardò nel riflesso del proprio telefonino: sì dai,
era presentabile, aprì la porta e cercò il direttore affinché ella fosse
assunta il giorno stesso.
Non le importava più dell’atletica, sarebbe rimasto un vecchio ricordo; non le
importava dell’evidente differenza di età che correva tra i due, sarebbe
bastato il proprio amore a giustificarla, grazie al suo lavoretto dopo la
scuola e con la gratitudine verso quell’uomo che seppe aiutarla in quel dì di
pioggia.