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Autore: Happy_Pumpkin    02/07/2009    1 recensioni
"Cantami ancora la Chanson d'Hiver"
Perché anche per chi ha il privilegio di essere immortale nulla è realmente eterno, soprettutto ciò che si ama.
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Autrice: Happy_Pumpkin
- Titolo: “Chanson d'Hiver”
- Tipologia: Originale
- Genere: Romantico, Malinconico
- Avvertimenti: One-shot
- Rating: Giallo
- Credits: Tutti i personaggi e le situazioni presenti sono frutto della mia fantasia, ogni somiglianza è assolutamente coincidente e non voluta. Immagino il vampiro come creatura bisognosa di sangue quanto noi necessitiamo di cibo; Rouge è oltretutto un essere fragile, diverso dagli altri vampiri, una sorta di errore di calcolo.




Chanson d'Hiver



<< Questa storia non ha età; galleggia in un mare indefinito, sospesa tra l'incerto e ciò che invece non lo è.
Mi accingerò a raccontare, lettori capitati per caso su queste pagine ingiallite dal tempo, le vicende di un vampiro particolare come mai ne vedrete in alcun libro esoterico.
Il nome di tale creatura era Rouge.
Non c'era un motivo preciso per quell'appellativo visto che egli aveva lunghi capelli biondi, talmente chiari da risultare persino opachi, e occhi azzurri come il ghiaccio. Chiunque ne incrociasse lo sguardo rabbrividiva perché vedeva la morte in quelle iridi dalla pupilla contratta.
La sentiva.
Rouge anelava la morte. Avrebbe voluto cessare di esistere senza dover soffrire troppo, scomparendo in un bel giorno assolato.
Perché lui, a differenza di tutti i suoi simili, non poteva sopportare l'odore del sangue: lo nauseava provocandogli un rivoltante senso di vomito. Bere quel caldo liquido rosso era come venire costretti a buttare giù la medicina più amara e disgustosa, guidati esclusivamente dalla consapevolezza di farlo per poter sopravvivere.
Rouge non riusciva a lasciarsi morire di fame: aveva provato, invano, a rannicchiarsi in un angolo buio di un castello in rovina, aspettando che la morte lo accogliesse; ma con viva lucidità si era reso conto di non meritarselo: passare giorni su giorni coperto di sporco, tormentato dalle fitte lancinanti di protesta del suo corpo denutrito, non era un bel modo di andarsene.
Così, dandosi del codardo, ogni volta si rialzava in piedi tremante, vagando tra i boschi in cerca di animali non troppo grandi per lui o di umani talmente sciocchi da rasentare il ridicolo.
Viveva aggrappandosi alla speranza di riuscire ad eclissarsi, cessando la sofferenza di doversi avvicinare al sangue che, pur detestandolo, paradossalmente lo teneva vivo; si sentiva un controsenso, un errore di calcolo nel grande sistema perfetto che era la sua specie.
Ma la propria triste esistenza fu destinata a cambiare in una notte di inverno, con la neve che a fiocchi soffici cadeva lenta dal cielo privo di stelle, accompagnata da un silenzio irreale.
Rouge camminava per inerzia con indosso uno sdrucito mantello nero, appoggiando una mano scarna al collo che bruciava per colpa del sangue appena bevuto – solo lo stretto indispensabile così da avere la forza di avanzare in cerca della sua morte perfetta, quella rapida e senza troppo dolore, talmente improvvisa da non rendersene nemmeno conto.
Poi, tra un passo e l'altro affondato nella coltre bianca, sentì all'improvviso il classico odore ferroso che tanto lo disgustava fino a fargli male.
L'odore del sangue.
Si portò un braccio davanti al volto magro, cercando di ignorare quell'essenza così forte che sembrava voler a tutti i costi penetrare nelle sue narici arricciate. Finché non fu costretto suo malgrado ad arrestarsi.
Vide una ragazzina stesa a terra con una gamba piegata in una posa innaturale e, stupito, sentì che stava cantando, nonostante avesse una voce tremante che a malapena le usciva da oltre le labbra viola. Era lì, minuscola, immersa nella neve dipinta attorno a lei di un sangue cremisi.
La gonna nera e ampia si estendeva come un manto scuro sulla superficie fredda, dando a quel corpicino congelato l'aria di una bambola perfetta caduta a terra dalle mani di un inesperto proprietario.
Rouge avanzò di qualche passo.
Avrebbe voluto andarsene, ignorare quella creatura così fragile, ma non ci riuscì perché si accorse che quest'ultima stava soffrendo come nessuno meriterebbe: lo vide dalla faccia esangue che cercava di tenere gli occhi aperti per non cedere al torpore del sonno; nonostante tutto il corpo fosse paralizzato dal freddo, le labbra continuavano in un moto appena accennato a tentare di produrre suoni.
Una canzone struggente su di una donna che aveva perso il marito in guerra ma, nella sua solitudine, continuava ad attenderlo.
La ragazzina aveva deciso di lottare, non si sarebbe fatta avvolgere dal seducente abbraccio della morte che le offriva la liberazione dal dolore. Rouge le si avvicinò e la raccolse da terra per custodirla tra le sue braccia, sorprendendosi di quanto fosse leggera; non meritava di morire, almeno non lei.
Troppo spesso la morte, signora ironica e crudele, lasciava in vita coloro che non lo volevano: senza alcun dubbio l'esistenza era fatta anche di dispetti e ingiustizie.
Rouge avanzò tra la neve, proteggendo col mantello quel corpo che presumibilmente doveva essere gelido; presumibilmente perché, in quanto vampiro, molte delle sensazioni umane gli erano precluse.
La ragazzina continuava debolmente a cantare, anche se i suoni erano talmente flebili da essere uditi solo a stretto contatto con lei, mentre gli occhi vitrei lottavano per restare aperti. Rouge la sentiva rabbrividire nel suo abbraccio immortale e, preoccupato, fissava di tanto in tanto quello sguardo perso nel vuoto.
Continuarono a quel modo per diversi chilometri finché non giunsero al villaggio più vicino, protetto da una palizzata in legno ed illuminato di tanto in tanto da qualche fiaccola crepitante.
Era sera tarda ma ancora si sentiva nell'aria gelida invernale l'odore del cibo, per quanto tutta la piccola cittadina fatta di umili case fosse avvolta nel silenzio più totale.
Con passo circospetto, cercando di ignorare la puzza di sangue incollata addosso alla ragazzina, Rouge passò oltre l'arco di pietra dirigendosi nella via principale malamente lastricata. I capelli scialbi che gli ricadevano sulle spalle, gli occhi azzurri vigili e le labbra viola assottigliate per la tensione: aveva un'aria decisamente patita ma non certo minacciosa.
Eppure gli uomini erano in ogni caso superstiziosi e diffidenti per natura, in particolar modo in posti sperduti come quelli.
Infatti quando, senza troppi complimenti, un tizio massiccio uscì di casa puntandogli contro un forcone Rouge sospirò, preparandosi psicologicamente ad intrattenere un dialogo che risultasse abbastanza convincente da non farlo passare per un vampiro.
“Chi sei e cosa stai facendo qui?” grugnì l'uomo.
“Questa ragazzina è ferita e ha urgentemente bisogno di un dottore.” rispose lui, adottando un tono di voce morbido.
Il signore, con indosso un maglione pesante dalle maniche rabboccate, si sporse leggermente in avanti, scostando appena il mantello per scrutare l'ospite tra le braccia pallide del vampiro.
Fece una smorfia e si grattò la barba, dicendo bruscamente:
“La casa del dottore è qualche metro più avanti girato l'angolo. Vedi di non creare troppi fastidi al villaggio, intesi?”
“Intesi.” confermò il vampiro cercando di sembrare rassicurante.
Così percorse ancora la strada, sentendo gli occhi della gente fissi su di lui intenti a spiarlo attraverso le finestrelle dalle tendine bianche, sperando che se ne andasse via al più presto dalle loro case. Gli umani erano persone davvero poco amichevoli.
Girato l'angolo intravvide una casetta piuttosto fatiscente isolata dalle altre, con appesi alle finestre quelli che avevano tutta l'aria essere vasi, sepolti dalla neve e logicamente privi di fiori che potessero ravvivare le malandate pareti di legno.
La casa del dottore.
Rouge bussò un paio di volte; dopo qualche secondo gli venne ad aprire un uomo sulla cinquantina, dalla barba non rasata di qualche giorno, le borse sotto gli occhi scuri e una folta massa di capelli neri striati di grigio.
Faceva ondeggiare tra la bocca un legnetto masticato con tenacia, mentre indosso aveva una maglia di un rosso acceso e larghi pantaloni che poco finemente tirava su quando gli cascavano.
“Problemi?” chiese in modo neutro.
Rouge, perplesso, lo fissò un istante per poi spiegare:
“Ho una ragazzina ferita e congelata. Deve aiutarla.”
L'uomo scoppiò inspiegabilmente a ridere: “Ovvio! Sono un dottore! – si grattò con fare imbarazzato la testa per poi affrettarsi ad aggiungere – Lasci, la prendo io.”
Rouge, con delicatezza, si assicurò che il suo personale pacchetto venisse consegnato senza riportare danni e a quel punto il dottore entrò. Invece il vampiro rimase immobile sulla soglia, privato di quel peso inerte e del suo sdrucito mantello nero.
Poco dopo il proprietario della malandata casa ricomparve presso la porta e chiese incerto:
“Scusi ma... lei non entra?”
“Io?” fece Rouge indicandosi un po' esitante.
“Certo! E chi altri se no? Venga, in una notte come questa non si dovrebbe mai stare fuori.”
Il vampiro mosse qualche passo, in difficoltà per quel gesto così umano nei suoi confronti, ed entrò tra quelle mura che sembravano reggersi in piedi per miracolo; entrò e si sentì bene, dimentico di tutto il resto.
La stanza non era molto grande: aveva un piccolo divano e, a lato, un tavolo in legno usurato, mentre nell'angolo vi era un camino in pietra con un bel fuoco scoppiettante. Era tutto semplice ma bellissimo... per la prima volta quel vampiro stanco si sentiva davvero a casa.
Questi sentì il dottore parlare da una stanza attigua così, muovendosi silenzioso, lo raggiunse entrando in una sala dotata di un lettino, una serie di strumenti chirurgici e una lampada ad olio piuttosto grande agganciata alla parete.
L'uomo stava esaminando con aria professionale la gamba sanguinante della paziente, ormai incosciente, poi sollevò lo sguardo e, abbassando un paio di occhiali sul naso, disse rivolgendosi a Rouge:
“Prima che possa operare bisogna evitare che la ragazza muoia assiderata: sia così gentile da prendermi il mucchio di coperte dal divano e sistemarle su di lei.”
Un po' stordito, in particolar modo per l'odore così vivo di sangue che impregnava quel luogo tanto da farlo star male, Rouge annuì agendo come il dottore gli aveva detto.
Nel giro di qualche di tempo la ragazzina riacquistò un po' di colore, pur mantenendo le labbra viola, mentre nel frattempo il medico era intento a tamponare con diverse bende la ferita. Rouge aveva intravisto un qualcosa di bianco spuntare dalla gamba sistemata in una posa innaturale: un osso sfuggito al controllo della carne.
Doveva fare male, davvero tanto male.
Il vampiro sbiancando si girò alla vista del sangue.
“Le fa impressione?” chiese il medico, allontanandosi per prendere diversi attrezzi operatori.
Pallido, Rouge si limitò a dire: “Diciamo che meno vedo il sangue meglio è.”
“Capisco. Succede a molti.”
“A dire il vero credo che il mio sia un caso piuttosto particolare.”
Il dottore alzò le spalle comprensivo, per poi poggiare una mano sulla spalla magra della creatura commentando: “Non si preoccupi. Penso io alla ragazzina, vedrà, se la caverà. Dovrei riuscire a sistemare il femore, ha subito una frattura piuttosto netta che si salderà facilmente coi mesi. L'unica cosa che mi preoccupa è la presenza di eventuali infezioni... ma non è questo né il luogo né il momento di parlarne. Impiegherò parecchio tempo, se desidera può riposare sul divano nel salotto, prenda pure la coperta stesa sopra. Sarà stanco suppongo.”
Rouge inclinò la testa lasciando le labbra leggermente aperte:
“Non è un disturbo?”
“Un disturbo? – l'uomo rise – Figurarsi, per così poco. Pensi a dormire piuttosto, ha l'aria di uno che debba tirare le cuoia da un momento all'altro!”
Ridendo lasciò lì Rouge e si diresse verso la piccola paziente, indossando un camice bianco e un panno in volto.
Il vampiro, silenzioso, si girò chiudendo con delicatezza la porta dietro di sé per poi fissare un istante quel salotto accogliente. Si passò una mano tra gli spenti capelli biondi, umidi a causa della neve, e senza dire una parola sollevò la coperta stesa sul divano, sedendosi su di esso.
Rimase qualche istante immobile, tenendo le mani pallide sulle ginocchia appuntite, poi impacciato si tolse gli stivali neri per sdraiarsi quasi con fare goffo, rannicchiandosi così da potersi sistemare abbastanza comodamente indipendentemente dall'altezza.
Coprendosi, rimase a guardare con gli occhi spalancati il fuoco crepitare poco distante da lui, quel fuoco che giocava danzando, esultando, lanciando lapilli che si spegnevano scomparendo tra le fiamme. Rouge non aveva bisogno di dormire né tantomeno di scaldarsi, però era bello per una volta non sedersi in un antro umido della foresta, costretto a ripararsi sotto qualche ramo quando la pioggia cadeva troppo forte e lui era infradiciato.
Era confortante trovare una casa calda ad accoglierlo senza fargli pagare il prezzo di essere un immortale vampiro.
Chiuse gli occhi azzurri, sperando che quella ragazzina che lo aveva portato fino a lì – facendogli assaporare l'odore di un ambiente amico – sopravvivesse.
Quando si sarebbe ripresa, decise, le avrebbe chiesto il nome e, sì, l'avrebbe pregata di cantargli ancora quella canzone che l'aveva tenuta sveglia tanto a lungo.

Ben presto spuntarono le prime luci dell'alba. Rouge, togliendosi la coperta, si alzò accorgendosi che del fuoco allegro della notte altro non era rimasto che un cumulo di braci.
A piedi scalzi si avvicinò all'unica finestra che, oltre le persiane ciondolanti, dava sulla strada disabitata. Rimase per un attimo a guardare fuori finché non lo sorprese la voce roca del dottore, il quale esclamò contento:
“Oh! E' già sveglio! Vuole?”
Gli porse una tazza di thé bollente. Rouge la fissò un istante per poi scuotere la testa:
“No, grazie. La ragazzina come sta? Si salverà?” nonostante tutto manteneva il solito tono di voce calmo.
“Ah già... certo, certo. Ho cucito e steccato la gamba... servirà un percorso di riabilitazione e probabilmente zoppicherà un po' ma... almeno sarà viva.” spiegò orgoglioso.
“E per quanto riguarda il rischio infezioni?” chiese il vampiro dopo aver tirato un impercettibile sospiro di sollievo.
Il dottore si grattò il mento pensoso: “C'era diverso pus... ho somministrato della penicillina: solo Dio potrà sapere se la ragazzina riuscirà a salvarsi in questi giorni.”
“Già... Dio.” mormorò Rouge incupito, guardando distrattamente fuori dalla finestra mentre i vapori del thé fluttuavano sopra le tazze, emanando tutto il buon profumo delle foglie in infusione.
“Se vuole parlarle assieme è sveglia. Un po' stordita ma sveglia.”
Rouge per qualche istante rimase muto, fissando il signore quasi con spavento.
Parlarle? L'idea di chiederle anche solo il nome gli era sembrata talmente remota da parere persino stupida, figurarsi andarle vicino e chiacchierare come se nulla fosse.
Ma nonostante la reticenza alla fine il vampiro annuì, entrando a passo prudente nella piccola sala operatoria dove giaceva, immobile, quella vita che lui aveva salvato.
La gonna ampia, o meglio, i brandelli strappati per poter operare, erano stati gettati in un angolo mentre l'odore di sangue rappreso investì in pieno Rouge che, suo malgrado, dovette portarsi una mano davanti al naso. Inevitabilmente però avvertì un senso di fame: non mangiava da ore, anche se gli faceva male era logico che il suo corpo protestasse.
La ragazzina dai ricci capelli neri spostò lentamente lo sguardo verso il nuovo arrivato.
Si fissarono: i curiosi occhi verdi di lei incrociarono quelli spaventati azzurri di lui.
“Sei stato tu a salvarmi?” chiese infine l'inferma in un sussurro traballante.
Rouge annuì, si avvicinò di qualche passo ma continuò a mantenere le distanze, non nascondendo una certa impressione disgustata; vide che la gamba malata era stata fasciata e ora, rigida, stonava per il bianco della steccatura sulla massa scura di coperte che avvolgevano il resto del corpo.
“Grazie.” disse infine la ragazzina, socchiudendo gli occhi per lasciarsi andare ad un bel sorriso sincero.
“Di nulla.” rispose Rouge in un soffio che vibrò oltre le labbra viola.
“Come ti chiami?” chiese lei improvvisamente e congiunse le dita magre in grembo, districandosi tra la massa di coperte.
“Rouge... Rouge e basta.” disse incerto.
“Bene, Rouge Ebasta, da ora in poi sarai il mio salvatore.”
Il vampiro non disse nulla, rimase immobile a fissarla in aperta confusione per quelle parole che mai più avrebbe sperato di poter sentire.
La ragazzina osservò pacata:
“Non mi chiedi il mio nome.”
“Volevo farlo.” ammise serio Rouge dopo qualche istante.
Lei scoppiò a ridere: “Sei un tipo strano tu! – facendosi più dignitosa aggiunse – Comunque mi chiamo Vivienne.”
“Capisco.” si limitò a dire la creatura.
Vivienne improvvisamente gli disse allungando appena una mano:
“Non devi stare così in piedi. Avanti, prendi una sedia e mettiti qui accanto a me... possiamo parlare un po' se vuoi...”
Era una proposta accennata, quasi intimidita, che ricevette a sua volta un impacciato assenso da parte del vampiro il quale, non avendo mai sperimentato il fare amichevole di un altro essere umano, si lasciò guidare da quella voce leggermente tremante.
Rouge prese una sedia in legno che scricchiolò quando si sedette e, con le mani appoggiate sulle gambe, rimase silenzioso a guardare la ragazzina aspettando che lei facesse qualcosa. Vivienne per un po' non parlò, osservando distrattamente il soffitto scrostato ed i riflessi della lampada ad olio.
Così i due rimasero immobili, persi nelle loro sofferenze e in ciò che negli anni si erano lasciati alle spalle: dolori ed esperienze diverse che però avevano inevitabilmente finito per farli incontrare.
Loro. Avvolti dalla penombra di una sala operatoria alla buona, impregnata di sangue e paura... la paura di chi, coricato su quel lettino, non sapeva se si sarebbe mai più risvegliato.
Infine, con fare pacato, si levò la voce di Vivienne che chiese:
“Rouge... hai una casa in cui tornare?”
Il vampiro la guardò per poi rispondere, fissando un punto lontano della camera:
“No, non più da tanto tempo ormai... nemmeno mi ricordo quale fosse.”
Lei si guardò le unghie con le sopracciglia aggrottate:
“Neanch'io io ho più una casa. Sono fuggita e lungo la strada il cavallo si è imbizzarrito facendomi cadere.”
“Perché  te ne sei andata?” chiese quasi con ansia il vampiro.
Perché qualcuno doveva lasciare la casa che lui invece da anni invano cercava?
Vivienne si rabbuiò e gli occhi verdi le divennero lucidi:
“I miei zii mi maltrattavano. Non voglio più essere picchiata perché non sono la loro figlia.” girò il volto appoggiandolo al cuscino, chiudendo gli occhi in un vano tentativo di controllare il tremito al labbro. Forse piangere non sarebbe stato così brutto.
“Ora però sarai al sicuro.” disse Rouge con una dolcezza che non gli apparteneva.
“E tu? Dove sarai?” domandò lei riaprendo gli occhi, scrutando il giovane pallido seduto impacciato sulla sedia.
“Non lo so – rispose questi onestamente, portandosi dietro le orecchie una ciocca dei lunghi capelli biondi – ma verrò a trovarti di quando in quando.”
“Non puoi restare per colpa degli altri?”
Rouge la guardò con dolore. Gli altri... già. O forse era lui l'altro, il diverso che tanto faceva paura.
“Esatto.”
Improvvisamente la ragazzina si sporse più avanti, prese tra le mani calde quella gelida di Rouge e la strinse come se volesse scaldargliela, impedendogli di allontanarsi dalla stanza. Il vampiro si irrigidì per quel contatto improvviso ma non ritrasse il braccio, rimanendo a bearsi inconsciamente di quella stretta piena di affetto.
“Allora io diventerò una dottoressa! – esclamò Vivienne guardandolo negli occhi con entusiasmo – così quando troverai qualcun altro da salvare lo porterai da me ed io potrò vederti ancora.”
Il vampiro sorrise e sfiorò con l'altra mano libera la guancia della ragazzina.
“D'accordo: allora faremo così.”
Vivienne sorrise arrossendo: “Se ti ammalerai sarai il mio paziente ed io ti curerò.”
Non poteva ammalarsi.
Non poteva morire.
Non poteva essere il suo paziente e nemmeno essere suo.
“Mi basterebbe solo che, quando starò tanto male, tu mi cantassi quella canzone che sussurravi.”
Lei si fece perplessa, sforzandosi di ricordare, finché non esclamò allegra:
“Certo! La Chanson d'Hiver! Me la cantava sempre la mia mamma...”
Sì, la canzone che parlava della neve, della donna in attesa di un uomo che non sarebbe mai tornato, e aveva fatto restare vivi entrambi.
Rouge rimase a lungo seduto a contemplare quel viso provato dall'incidente. Vivienne dopo un po' di tempo si era addormentata, crollando in un sonno tranquillo; il petto si muoveva al respiro regolare e i capelli neri, riccioluti ma inevitabilmente aggrovigliati,  racchiudevano il volto finalmente sereno.
Silenzioso il vampiro si alzò, sfiorò una ciocca scura – scostandola da davanti gli occhi chiusi della ragazzina – e se ne andò, richiudendo la porta dietro di sé.
Nel soggiorno incontrò il dottore seduto sul divano; gli disse semplicemente:
“Si prenda cura di Vivienne signor...”
Questi intervenne con un accenno di sorriso comprensivo: “Eckart. Jean Eckart. Ma se la ragazza non è parente sua allora di chi...”
“Di nessuno.” sussurrò il vampiro aprendo la porta.
Eckart annuì con aria severa. Lo strano uomo pallido e malato bisbigliò qualche parola di ringraziamento per poi andarsene, avvolto nella nebbia del primo mattino.
Il dottore dette un'occhiata alla sedia nell'angolo della stanza, notando che vi era gettato sopra il mantello nero appartenente allo straniero; si affrettò allora ad afferrarlo, uscendo di casa con i piedi affondati nella neve dove esclamò:
“Ehi, signore! Il mantello...”
Le parole si dispersero nella strada vuota.
Il misterioso proprietario di quel tessuto usurato era scomparso, eclissandosi nel bianco delle strade come se non fosse mai esistito.
Jean sospirò, rientrando in casa e grattandosi la testa sbuffando: ora, come se non bastasse, doveva persino occuparsi di una mocciosa proveniente dal nulla. Alzò le spalle, d'altronde essere una persona buona era un po' la sua missione di vita: se l'era proprio andata a cercare.


*°*°*°*


Mano a mano i giorni passavano ma il vampiro non dimenticò mai l'accordo stretto con l'umana.
Così, anno dopo anno, Rouge mantenne fede alla sua parola; si aggirava tra i boschi vicini al villaggio nutrendosi delle piccole prede che riusciva a cacciare: tanti erano i viandanti che si perdevano oppure si ferivano nel corso dei loro viaggi ed egli, senza alcuna eccezione, si impegnava a  soccorrerli conducendoli fino al villaggio.
La gente del luogo, per quanto lui fosse animato da buone intenzioni, lo scrutava pur sempre con sospetto: tutti, anche se stupidi, si erano accorti che quell'uomo smunto dai capelli biondi non invecchiava e, con indosso gli stessi sdruciti vestiti, da tempo continuava imperterrito ad aggirarsi silenzioso tra le loro strade.
Avevano paura dello straniero che si faceva chiamare Rouge perché, semplicemente, era diverso da loro. Ma il vampiro non prestava attenzione né alle voci che correvano su di lui né ai timori provati nei suoi confronti: non gli interessava.
Tutto ciò che per lui contava era Vivienne.
Vivienne che si era fatta grande, divenendo una giovane donna, coi capelli ricci raccolti e i luminosi occhi verdi che risplendevano ogni volta che lui compariva.
Imparando da Eckart, che le aveva fatto da famiglia e da maestro, era diventata una dottoressa in gamba, pienamente capace di sostituire il suo mentore quando, parecchi anni dopo, questi morì. Benvoluta da tutti, accudiva con amore quei pazienti malandati che spesso le facevano visita senza pretendere alcunché da loro.
Vivienne e Rouge però si parlavano poco, sfiorandosi le dita un istante prima che lei richiudesse la porta per occuparsi dell'ammalato di turno. Socchiudevano un istante gli occhi e poi tornavano a guardarsi, quasi con disperazione perché nessuno dei due sapeva quando si sarebbero potuti rivedere ancora.
Rouge, immutabile, aveva osservato in lontananza quella ragazzina cambiare trascorrendo la sua esistenza da umana: l'aveva vista passeggiare per il villaggio, fare le piccole compere quotidiane, occuparsi del prossimo e... sì, l'aveva vista anche innamorarsi. Di un uomo giovane, il figlio del fabbro, sempre pieno di attenzioni nei suoi confronti.
Li aveva scorti e lui, silenzioso, non aveva potuto fare niente nascosto nella sua ombra; contemplava quel sorriso radioso che tanto amava, sperando quasi di poterla raggiungere e ridere insieme a lei.
Una volta aveva addirittura pensato di rapirla e portarla lontano ma poi, alle porte del villaggio, si era fermato tornando a correre nella foresta, coi pensieri confusi che si accumulavano senza trovare ordine. Era giunto alla semplice conclusione che non poteva prenderla e privarla di tutto ciò che lei amava: non sarebbe stato giusto nei confronti di quella splendida ragazza.
Lo avrebbe odiato se non addirittura disprezzato e non poteva arrivare a questo, così si limitava a guardarla.
Vivienne invecchiava accontentandosi di incontrare, a volte dopo mesi, quel vampiro che anni fa l'aveva salvata e guardando fuori dalla finestra mentre il marito fischiettava, sistemando la legna accanto al camino, si domandava quando Rouge sarebbe tornato da lei.
Ogni tanto, contemplando allo specchio le prime rughe dell'età, passandosi un dito sulle incrinature della pelle al lato degli occhi, le veniva da chiedersi se Rouge l'avrebbe amata anche da vecchia.
Il tempo non poteva essere fermato: avanzava, ostinato, consumando le loro fragili vite.
Finché, una sera come tante, qualcuno bussò alla porta.
Sospirando Vivienne si asciugò su uno strofinaccio le mani ruvide per il lavoro, portandosi dietro le orecchie un ricciolo, e aprì rimanendo poi con la bocca spalancata.
“Rouge!” esclamò infine sentendosi mancare.
Il vampiro dai lunghi capelli biondi ed il volto emaciato era lì, sulla soglia, come al solito impacciatamente immobile. La donna guardò alle spalle della creatura, cercando di scorgere un'eventuale presenza di pazienti  da curare ma notò, con una certa apprensione, che non c'era nessuno.
Si fissarono e ancora, nonostante gli anni, nulla era cambiato in quegli sguardi.
“Verresti via con me?” le chiese Rouge in un sussurro dolce.
Vivienne si portò una mano alla bocca, gli occhi lucidi per quell'emozione così improvvisa, per quei sentimenti rimasti rintanati a lungo che emergevano con prepotenza facendole battere forte il cuore.
Lei balbettò con sguardo sfuggente: “Io... non so... ho i miei pazienti, la mia vita...”
Rouge disse accennando un debole sorriso:
“Lo capisco. Non voglio che tu rinunci a tutto questo – lei fece per aprire bocca ma il vampiro proseguì improvvisamente – vorresti... darmi un bacio?”
“Perché adesso? Perché non me lo hai chiesto prima?”
Allora le cose sarebbero state molto diverse.
“Perché solo ora ho capito di amarti come umano. Vedi – si indicò il petto – mi fa male in questo punto vederti lontana da me. Sei così vicina eppure, giorno dopo giorno, continui ad allontanarti sempre di più.”
Tu morirai e io invece, senza volerlo, dovrei restare ancora qui.
Sospirò.
Vivienne gli toccò una guancia pallida, accarezzandola con amore mentre sentiva il petto lacerarsi per quell'amore strano, quell'amore che era invecchiato con lei. Lentamente avvicinò le labbra a quelle violacee di lui che attendeva silenzioso.
Finché poi scorse, dietro di Rouge, la figura di suo marito.
La donna spalancò gli occhi eppure non fece nulla: non riusciva a muoversi, paralizzata dall'angoscia. Rouge alle sue orecchie le sussurrò dolcemente:
“Non preoccuparti...”
Nel silenzio del villaggio si levò forte la voce dell'uomo che esclamò infuriato:
“Dannato! Tu, mostro, non osare far del male a mia moglie!”
Per qualche istante nessuno si mosse.
Vivienne guardò istintivamente Rouge e lui la fissò di rimando senza ombra di preoccupazione: in quel preciso istante, nell'incrociarsi dei loro sguardi, si sentì il rumore dello scatto di una balestra; un suono secco, persino fastidioso.
Vivienne non distolse gli occhi da Rouge.
Infine, lentamente, il vampiro che detestava il sangue chiuse le palpebre; oscillò un istante, come una foglia cullata dal vento, per poi accasciarsi su sé stesso. Rimase disteso supino sul terreno innevato, i capelli biondi a contornare il pallido volto immobile dagli occhi azzurri spalancati a fissare il cielo.
Respirava appena, gorgogliando.
Vivienne era rimasta con gli occhi sgranati a fissare il vuoto, le braccia ancora tese in avanti per cercare di afferrare quel corpo scarno troppo sfuggente. Nonostante la vista appannata, scorse suo marito con in mano una balestra priva della freccia in legno, poi abbassò il volto e vide Rouge disteso a terra: aveva le gambe mollemente piegate mentre boccheggiava senza parlare.
Fu come rimanere folgorati.
Urlò.
Gettandosi a terra, imbrattandosi la gonna, congelandosi le mani immerse nella neve... finché, quasi a tentoni, non prese tra le sue mani quel volto emaciato, costringendo i vacui occhi azzurri a portarsi su di lei.
“Rouge! Rouge!” lo chiamò più e più volte.
“Allontanati!” esclamò il marito facendo per avvicinarlesi ma lei, furiosa, lo scacciò con un gesto della mano sbraitando:
“Non osare avvicinarti!”
Lui rimase paralizzato a guardarla chinarsi su quell'immondo essere che da anni si aggirava minaccioso per il villaggio. Non poteva capire... nessuno avrebbe potuto farlo.
Vivienne piangeva come una bambinetta qualsiasi, come se quelle rughe non le avessero portato l'esperienza che vantavano; accarezzava i capelli spenti di Rouge, sfiorandolo con quell'amore che aveva sempre temuto di dimostrare.
Infine il vampiro le prese lentamente una mano, portandosi l'altra al petto da dove spuntava la freccia in legno che lo aveva colpito dritto al cuore.
“Cantami la Chanson d'Hiver.
Vivienne sentì il labbro tremarle e un groppo in gola che le impediva persino di respirare: tanti anni fa gli aveva promesso che lo avrebbe curato e invece... che sciocca, ora che per la prima volta era un suo paziente lo stava lasciando morire davanti ai suoi occhi.
Ma almeno quello poteva farlo; ora che stava tanto male poteva cantargli la canzone che, da ragazzina, l'aveva tenuta in vita. Allora con la voce tremante, che si perse tra la neve e il cielo bianco, cantò singhiozzando anche se aveva il naso che le colava e gli occhi rossi dal pianto.
Rouge felice la osservava: la intravvedeva appena, la vista gli si faceva sempre più offuscata e ormai le orecchie percepivano a malapena i suoni, eppure... la giudicava bellissima. Con le sue rughe, con i suoi anni, con i suoi capelli che iniziavano a diventare grigi.
Quella creatura meravigliosa cantava per lui, dandogli il suo amore.
Il vampiro sussurrò infine, chiudendo gli occhi come se da lungo tempo aspettasse di poter dormire:
“Sono convinto che dopo la morte saremo tutti destinati a vivere ancora: allora vorrei rinascere uomo per poterti ritrovare un giorno. Sarai una bellissima farfalla e io ti terrò tra le mie mani, impedendoti di volare via.”
Vivienne continuò a cantare, appoggiandogli una mano sulla guancia.
Rouge era felice.
Emise un ultimo sospiro, sorridendo, cullato dalle mani fredde della donna che amava.
Silenzioso morì, quasi non volesse disturbare, mentre i primi fiocchi di neve si accumulavano sul terreno imbiancato.
La sua morte perfetta. >>


L'uomo sospirò, depositando la penna sullo scrittoio per poi soffiare sull'inchiostro così da asciugarlo.
Si stiracchiò pigramente, portandosi infine una mano davanti agli occhi azzurri, abbagliato dai raggi del sole che penetravano oltre le basse mura del giardino.
Sciolse con un gesto della mano affusolata la coda che legava i lunghi capelli biondi e rimase muto ad osservare il prato davanti a sé finché, dopo qualche istante, non vide una farfalla dalle splendide ali nere volteggiare davanti a lui, danzando ammaliante per farsi notare.
Sorrise.
Tese le mani in avanti e la farfalla, ondeggiando, si posò su di esse sbattendo appena le ali; allora l'uomo chiuse lentamente le dita attorno alla delicata creatura e le si avvicinò, sussurrandole con dolcezza:
“Eccoti... sei tornata da me, amore mio.”


   
 
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