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Autore: Passione_letteraria    08/04/2018    1 recensioni
"Ma lui vi è necessario per poter contemplare continuamente il vostro eroico atto di fedeltà e rinfacciare a lui la sua infedeltà. E tutto ciò per orgoglio. Oh, vi svilite, vi fate umiliare, ma sempre per orgoglio..." Fyodor Dostoyevsky
Ultimo capitolo della Trilogia russa. Concludo tornando alla terra, alle radici del dolore di una perdita. Abbiamo attraversato le strade per volgere lo sguardo alla luna, ma la nostra vita è qui, sotto i nostri piedi. La nostra vita è nella terra.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Victor Nikiforov, Yuuri Katsuki
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Trilogia russa'
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Sento una risata pazza, isterica, una stanza piena di tetano, e il corpo che era nero diventa fosforico.

Risata pazza, pazza, proprio incontrollabile, e quel corpo che mi ride in faccia, ride in mezzo a quelle labbra fini, una risata che increspa la lucida, levigata superficie del volto.

Madre di tutte le troie e madre dell’uomo, gran puttana e ragno che ci rotoli nella nostra tomba insaziabile, strega della risata che mi spacca in due! Io guardo in quel cratere sprofondato, mondo perduto e senza tracce, e sento suonar le ore, manifesto mai stampato perché pioveva, guerra combattuta per portare avanti la causa.

Da questa ferita scura, mai richiusa, quel pozzo di abominio, quella culla di città piene di folla nera dove la musica delle idee affoga nel grasso freddo delle utopie strangolate è nato un pagliaccio, un essere diviso fra bruttezza e bellezza, fra luce e caos, un pagliaccio che quando tiene gli occhi bassi od obliqui è Satana in persona e quando li alza vede un angelo burroso.
In quel corpo vorrei entrare fino agli occhi, per farli stravolgere ferocemente, cari, pazzi, metallurgici occhi. E quando gli occhi si stravolgeranno allora io sentirò le parole di Victor, le sentirò rotolare pagina dopo pagina nei suoi libri, con minutissima osservazione, con mattissima disperazione, con tutti i sottotono della miseria, ora toccati leggermente, spiritosamente, ora gonfi come una nota d’organo fino a che il cuore scoppia e non resta altro che una luce accecante, bruciante, la luce radiante che trasporta i semi fecondi delle stelle.

Quando abbasso gli occhi su questa fottuta tomba di puttana sento tutto il mondo sotto di me, un mondo che barcolla e precipita, un mondo usato e levigato come il cranio di un lebbroso.
Se ci fosse un uomo che osasse dire tutto quel che ha pensato di questo mondo, non gli resterebbe un piede di terreno su cui stare in piedi. Quando un uomo si fa avanti, come Victor faceva, il mondo gli crolla addosso e gli rompe la schiena. Ma ne restano in piedi sempre troppi, di colonne, troppa umanità perché fiorisca l’uomo. La sovrastruttura è una menzogna e le fondamenta sono una paura trepidante.
Se rimane soltanto una ferita aperta, deve sgorgare, anche per non produrre altro che blatte e pipistrelli e homunculi.
Tutto si raccoglie in un secondo, che è o consumato o non è. La terra non è un arido altopiano di salute e di agi, ma un gran uomo disteso col torso di velluto che si gonfia e grava d’onde oceaniche; geme sotto un diadema di sudore e di pena. Nudo e sessuato rotola fra le nubi nella luce violetta delle stelle.
Tutto di lui divampa in un ardore furioso. Victor è come un cervo a volte, un cervo che è caduto nella fossa e attende con il cuore in tumulto che strepitino i cembali e latrino i cani. Amore e odio, disperazione, pietà, rabbia, disgusto – che cosa sono fra le fornicazioni del pianeta? Cosa è guerra, malattia, crudeltà, terrore, quando la notte presenta l’estasi dei suoi occhi cerulei? Cos’è questa pulsa che mastichiamo nel sonno se non il ricordo dei baci passati?

Mi diceva Victor, nei momenti d’esaltazione: «Tu sei un grand’uomo», e anche se mi lasciò qui a morire, anche se mi mise sotto i piedi una gran fossa di vuoto, le parole che giacciono al fondo dell’anima mia balzan fuori e illuminano le ombre sotto di me.
Io sono uno che si era perduto nella folla, che le luci spumeggianti hanno abbagliato, uno zero che ha visto ogni cosa attorno a sé ridursi a beffa.
Camminavo fra le alte costruzioni verso il fresco del fiume e vidi le luci balzare come razzi tra le costole di scheletri. Se veramente ero un grande essere umano, come diceva lui, allora che senso aveva quella mia idiozia bavosa? Io ero un uomo con un corpo e anima, avevo un cuore non protetto da una volta d’acciaio.

Avevo momenti di estasi, cantavo di lui, delle sue gambe e delle isole che scompaiono dalla vista. Ma nessuno sentiva. Lo vedevo guardarmi dall’altra parte del tavolo con gli occhi coli di dolore; la pena introversa gli schiacciava il naso, era leggero come un cadavere che galleggiava. Le sue dita sanguinavano di dolore e il sangue si mutava in bava. Con l’aria umida venne il rintocco delle campane e lungo le fibre dei miei nervi le campane suonavano incessanti e le loro lingue mi premevano sul cuore e risuonavano con ferrea cattiveria. Strano che le campane risuonino così, ma più strano ancora questo esplodere del corpo, questo uomo mutato in notte e le sue parole verminose che rodono il materasso.

Tutto quel che qui si riferisce cammina con piedi immaginari lungo le parallele di morte orbite; tutto quel che è visto con occhiaie vuote erompe come erba in fiore.

Dal nulla emerge il segno dell’infinito, sotto le spirali sempre insorgenti affiora lentamente il buco aperto. La terra e l’acqua uniscono numeri, un poema scritto col sangue e più forte dell’acciaio o del granito. Per la notte sterminata la terra ruota verso una sconosciuta creazione.
Forse siamo condannati, non c’è speranza per noi, per nessuno di noi, ma se è così lanciamo un ultimo urlo di agonia e di sangue aggrumato, uno strillo di sfida, un grido di guerra! Basta coi lamenti! Basta con le elegie e le trenodie! Basta con le biografie e le storie e le biblioteche! Che il morto mangi il morto.
E noi vivi danziamo sull’orlo del cratere, un’ultima danza di morte. Ma che sia una danza!

“Amo tutto ciò che scorre” disse il grande Milton. Sì, dicevo a me stesso, anch’io amo tutto ciò che scorre, tutto ciò che ha in sé tempo e divenire, che ci riporta al principio dove non c’è mai fine. Amo le parole degli isterici che si riversano come dissenteria e rispecchiano le immagini morbose dell’animo, anche il flusso liquido che si porta via il seme infecondato. Il grande desiderio incestuoso è scorrere all’unisono col tempo, fondere la grande immagine dell’aldilà con quella dell’hic et nunc. Un desiderio fatuo, suicida, reso stitico dalle parole e paralizzato dal pensiero.

Non darmi il vino rosso, non darmi l’anjou… dammi lui… lui mi appartiene!

Son con la schiena al muro; non posso ritrarmi più indietro. Per ciò che riguarda la storia sono morto. Se è rimasto qualcosa più in là, dovrò balzare indietro. Ho trovato Dio, ma è insufficiente. Ho perso Victor, io sono morto spiritualmente. Moralmente sono libero. Il mondo da cui mi sono staccato è un serraglio.

Erompe l’alba su di un mondo nuovo, una giungla in cui gli spiriti magri vagano con artigli aguzzi. Se io sono una iena, sono una iena magra e affamata: vado a ingrassarmi.
 
   
 
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