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Autore: My Pride    02/07/2009    10 recensioni
Mi aveva detto “Addio” e aveva sorriso con tristezza, con la tragica certezza nel cuore che io non sarei più tornato da quella mia battaglia. Uno sfiorarsi di mani, un incontro di sguardi. Un bagliore rosso come il sangue che ci aveva avvolti nel suo silenzio.
Quel giorno il tramonto era esattamente come quello che stavo osservando adesso che avevo lentamente riaperto gli occhi. Bellissimo.
[ Monaco di Baviera, 1924 ~ After Shanbara wo iku mono ]
[ Seconda classificata al contest «A contest fot the images» indetto da Roy Mustung sei uno gnocco ]
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Edward Elric, Roy Mustang | Coppie: Roy/Ed
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
- Questa storia fa parte della serie 'Monaco di Baviera, 1924'
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Sunset to Munich [And your memories come with me]
[ Seconda classificata al contest «A contest fot the images» indetto da Roy Mustung sei uno gnocco ]

Titolo: Sunset to Munich [And your memories come with me]
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 3017 parole ]
Personaggi: Edward Elric, Roy Mustang
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale

Rating: Arancione
Avvertimenti: Shounen ai, Movieverse, What if?

Prompt: 1° Argomento: Momenti della giornata › Tramonto



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



Finally here once speak to me
I want to feel you, I need to hear you
You are the light that’s leading me to the place
Where I find peace again...
-Everything, Lifehouse-

    Da quel giorno erano passate esattamente due settimane.
    Avevo ormai preso l’abitudine di farmi quella piccola scarpinata dall’altra parte della città per raggiungere quel localino dove mi aveva portato la prima volta, con la speranza di poter almeno godere di quegli attimi fuggenti passati con lui. Mi aveva persino riservato un tavolo tutto mio, segnandolo in continuazione come prenotato per evitare che altri occupassero il mio posto, e quel suo gesto così semplice mi aveva intenerito. Non era niente di così importante, certo, ma per me valeva più di qualsiasi altra cosa. Mi dava quell’effimera illusione che nulla fosse poi così diverso da quanto ricordavo e che, sebbene fossi in un mondo che non mi apparteneva, mi concedesse l’utopia che il ragazzo che ogni giorno osservavo a lavoro fosse il mio Colonnello. Il Roy Mustang che avevo sempre amato.
    In un primo momento, quel giorno, avevo persino dimenticato di presentarmi. Avevamo parlato del più e del meno per ore, gustando dolci su dolci come fossimo amici di vecchia data che si incontravano dopo tanto; ad un certo punto, però, era scoppiato a ridere. Io, consumando l’ennesima rosa al cioccolato, l’avevo guardato con un sopracciglio inarcato, chiedendogli distrattamente che gli fosse preso. E lui, con inaudita tranquillità, aveva adagiato la schiena contro la sedia, stringendosi con altrettanta calma nelle spalle prima di lasciarmi basito con una frase buttata così: “Ora che ci rifletto non so nemmeno il tuo nome.”
    Ero subito arrossito, lasciando cadere per l’ennesima volta la forchetta; scusandomi più volte, poi, gli avevo finalmente detto come mi chiamavo. L’avevo dato per scontato, purtroppo. Lui lo conoscevo e, nel piccolo mondo che in quel momento mi ero creato come corazza, avevo stupidamente creduto che anche lui conoscesse me. Che idiota che ero stato. Tutt’ora ci pensavo, seduto a gambe accavallate e con il solito dolce dinnanzi a me.
    Osservavo con devozione Roy, intento a prendere le ordinazioni degli altri clienti, mentre di tanto in tanto agitava il fidato taccuino su cui segnava le note.
Quando portava i pasti ai rispettivi tavoli abbandonava la matita dietro l’orecchio, perdendo giusto qualche minuto a scambiare convenevoli con i clienti abituali. Quel sorriso, quel modo di fare... anche quell’aria da scalmanato diciannovenne mi attirava come una calamita.
    La cosa mi faceva un certo effetto, se proprio dovevo essere sincero.
Ero abituato al Roy Mustang strafottente e pieno d’ego, allo spocchioso Colonnello con il sorriso sghembo, all’uomo che avrebbe sfidato l’esercito stesso e i suoi meschini bassifondi per riuscire a diventare Comandante e cambiare una Nazione. Quello che stavo osservando così minuziosamente, invece, era un ragazzo come tanti, un ragazzo iscritto in una semplice università e che lavorava per pagarsela.
    Mi sfuggì un sospiro e distolsi lo sguardo per concentrarmi sul mio piatto, le orecchie colme delle chiacchiere divertite dei presenti. L’atmosfera che si respirava era ormai diventata familiare, per me. Conoscevo la metà dei nomi di quelle persone e spesso intavolavo con alcuni di loro qualche discorso, giusto per passare il tempo mentre Roy lavorava. Giocherellai svogliato con la glassa che ricopriva quella rosa al biscotto e pan di spagna, portandomi di tanto in tanto alla bocca la cioccolata che restava incollata alla forchetta. Ero così intento che quasi non mi accorsi che lui si era avvicinato al mio tavolo, portandomi anche qualcosa da bere.
    «Ecco qua, la miglior birra di tutta la Germania», scherzò, poggiando il boccale schiumante sul legno. «Giuro che questo l’ho offerto davvero io, stavolta».
    Mi venne da ridere e alzai lo sguardo verso il suo viso, arcuando un sopracciglio come se volessi prenderlo involontariamente in giro. «La birra sul dolce?», chiesi sarcastico, vedendolo grattarsi distrattamente una guancia con l’indice.
    «Volevo portarti della grappa, ma il grande capo non me l’ha permesso», si giustificò, facendo un cenno in direzione del bancone, dove il suo datore di lavoro ci gettò, proprio in quel momento, una veloce occhiata ammonitrice.
    Stavolta non mi trattenni e scoppiai a ridere sonoramente, facendo involontariamente uno stupidissimo paragone. Nel mondo al di là del portale era lui a scoccare occhiate simili ai suoi sottoposti.; in quello in cui ero adesso, invece, si trovava a dover metter conto delle proprie azioni a qualcuno ancor più in alto di lui, se volevamo metterla su quel piano.
    A quel mio scoppio d’ilarità si imbronciò, facendo il finto offeso e scuotendo la testa. «Viene ripagata davvero male la gentilezza, al giorno d’oggi», ironizzò pacatamente, ma vidi che si stava formando anche sulle sue labbra, l’accenno d’un sorriso.
    Ridacchiai ancora un po’, prendendo però il boccale prima di soffiar via la schiuma senza assaggiare la birra, invitando lui a sedersi. Dato uno sguardo intorno, si azzardò a scansare la sedia, prendendo posto accanto a me prima di allungare distratto una mano per afferrare la forchetta che avevo lasciato; come se fosse la cosa più normale o naturale da fare, se la portò alle labbra, leccando via quel poco di glassa che vi avevo lasciato sopra. E arrossii di botto senza volere. Una volta su tre lo faceva sempre, ma non mi ero mai azzardato a chiedergli il perché.
    «Mmh», fece compiaciuto, abbandonando nuovamente la posata nel piatto. «Da quando ti ho conosciuto credo d’essere diventato più bravo a farli». Lo disse senza modestia, ricordandomi ancor di più il Colonnello.
    Assunsi un’aria un po’ triste, affrettandomi a nasconderla svelto per evitare che la vedesse. Ogni qual volta scorgeva il mio viso malinconico e afflitto, mi chiedeva in continuazione che cosa avessi, o addirittura cosa avrebbe potuto fare per tirarmi un po’ su di morale; io, però, mi stringevo sempre nelle spalle e gli dicevo che non doveva preoccuparsi, rimediandoci soltanto qualche occhiata ancor più apprensiva. Certe cose non cambiavano affatto. Restava sempre la stessa preoccupazione. Quella preoccupazione che vedevo adesso impressa nei suoi lineamenti morbidi e decisi.
    «Qualcosa non va?», mi chiese d’un tratto, risvegliandomi dai miei pensieri.
    Sbattei più volte le palpebre, concentrando la mia attenzione sul boccale che non mi ero accorto di aver cominciato a stringere in entrambe le mani. Ero forse diventato pensieroso senza rendermene conto? Probabilmente avevo anche aggrottato la fronte, visto che mi squadrava con un cipiglio crucciato. Mollai la presa sentendo un formicolio alla mano sinistra, sforzandomi di sorridere. «E’ tutto okay, stavo solo pensando», mentii quasi, vedendolo ancor più ansioso.
    «Quando fai quella faccia mi preoccupo sempre», borbottò, chinando il capo. «Mi viene spontaneo».
    Alla sua affermazione sorrisi. In un angolo nascosto del suo io, forse, viveva ancora il mio Roy. I pensieri, le emozioni... seppur le esperienze fossero diverse, quelle semplici cose restavano. Mi venne istintivo sporgermi verso di lui per rassicurarlo con un bacio, fortuna che non lo feci e che mi trattenni in tempo. Ero difatti ad una spanna dal suo viso, sarebbe bastato alzare di poco lo sguardo per riuscire a sfiorargli in un contatto fuggevole e casto le labbra. Se l’avessi fatto, però, spiegarlo sarebbero state un altro paio di maniche.
    Incrociai le braccia sul bordo del tavolino e guardai altrove, facendo finta che la mia completa attenzione fosse minuziosamente rivolta alla clientela lì presente. «Tra quanto finisci, oggi?», gli chiesi con noncuranza, cambiando svelto discorso.
    Pur senza abbandonare il cipiglioangosciato che gli si era dipinto in volto, lui si alzò e prese il piatto in cui avevo lasciato il dolce prima di lanciarmi un’occhiata. «Cinque minuti al massimo», mi informò, rivolgendomi un piccolo sorriso confortante. Si accalcò poi nella ressa di quella piccola locanda, scomparendo ben presto nello stanzino che utilizzavano come cucina.
    Una volta ci ero entrato. Il suo datore di lavoro aveva protestato non poco, certo, ma Roy non gli aveva badato più di tanto, conducendomi lì senza tanti giri di parole. Anche se piccola, era una stanza molto calda e confortevole. C’era tutto ciò di cui si aveva bisogno, sia per preparare normali pasti che per i dolci che spesso e volentieri mi regalava. Alcuni ne portavo persino ad Alphonse. Mi chiedeva sempre dove li comprassi, perché erano squisiti, ma quello, gli rispondevo, era un mio piccolo segreto. E lui non insisteva più di tanto, per mia fortuna.
    Attesi lì seduto che Roy tornasse, giocherellando un po’ con la lunga coda in cui erano legati i miei capelli mentre continuavo a far scorrere lo sguardo in giro. Ci mise più tempo del previsto, ma quando mi raggiunse aveva un bel sorriso dipinto in volto.
    «Devi tornare subito a casa?», mi chiese con quella calda voce.
    Stavo per rispondere si, che dovevo andare perché mio fratello mi attendeva, ma poi ci ripensai. Scossi la testa convinto, rivolgendogli a mia volta un sorriso mentre mi alzavo in piedi. Per una volta, Alphonse se la sarebbe cavata qualche ora in più senza di me. «Un po’ di tempo posso anche perderlo», asserii tranquillo, recuperando il mio cappotto. «Come mai questa domanda?»
    Lui si strinse nelle spalle, quasi non ci fosse una vera motivazione.  «Mi andava di passeggiare un po'», fece semplicemente. «Per te ci sono problemi?».
    Scossi nuovamente la testa, sincero. Avevo bisogno d’un po’ d’aria, in fondo. Svagarmi un po’ m’avrebbe fatto sicuramente bene. «Nessun problema», lo rassicurai, vedendolo sorridere maggiormente. Quel sorriso così radioso accentuò il taglio dei suoi occhi, rendendoli più a mandorla di quanto già non fossero.
    Roy fece un gesto lento e aggraziato con una mano, agitandola poi con movenze cadenzate verso l’entrata della locanda, come se volesse invitarmi a precederlo. Sorrisi anche io a quella sua galanteria, azzardandomi a dargli un amichevole pugno sulla spalla.
    «Non c’è bisogno di fare il cavaliere con me», lo ammonii in tono giocoso. «Mica sono una ragazzina, io».
    Ridacchiò in silenzio, scuotendo appena la testa. «Ecco un altro tentativo di gentilezza andato in fumo», si ritrovò a borbottare in tono spassoso, facendomi cenno di seguirlo mentre era lui, adesso, quello che si avviava alla porta. Lo seguii con il cuore un po’ più leggero, varcando la soglia prima di infilarmi svelto il cappotto.
    In strada, mi accostai maggiormente a lui, vedendolo con le mani in tasca e con quel solito e bellissimo sorriso ad illuminargli il volto diafano. I suoi capelli erano un po’ scompigliati per il lieve venticello che si innalzava, e quel nero pece era mescolato tra riflessi infuocati per la luce morente del giorno. Passammo nei pressi della zona residenziale, dove le persone ancora presenti tra le strade si affrettavano a raggiungere casa o, semplicemente, si godevano come noi quella giornata passeggiando serenamente prima del calar del sole. L’aria era frizzantina e densa, e un piacevole odore si alzava dal fiume che scorreva sulla nostra sinistra, luccicante dei colori dorati e rosati del cielo al tramonto.
    Allontanandomi un po’ da lui, mi poggiai a braccia incrociate al parapetto di legno che divideva la strada da quello specchio perfetto, perdendomi nel contemplarlo. Dalla parte opposta si estendeva quello che sembrava un parco, dagli alberi multicolori per la stagione in cui ci trovavamo. Intravidi una panchina, proprio poco lontano dalla riva del fiume. «Ci vuole molto per raggiungerlo?», domandai senza voltarmi, limitandomi solo ad allungare un braccio oltre il sostegno per additare quel luogo che, in poco, mi aveva affascinato.
    Roy mi posò una mano sulla spalla sinistra, facendomi voltare la testa nella sua direzione con un certo dispiacere. Ma lui non stava guardando me, stava indicando un punto poco distante da dove ci trovavamo, con quel sorriso sghembo ad illuminargli il volto. «C’è un ponte proprio lì», mi informò, più per dovere che per altro dato che l’avevo appena notato. Senza perdere un minuto di più e senza nemmeno darmi il tempo di realizzare la situazione, mi prese svelto una mano per condurmi laggiù, adattando la sua andatura alla mia.
    Superammo un paio di persone che andavano nella direzione opposta alla nostra, attraversando poi il ponte sotto il quale fluiva, con un gorgoglio sommesso e rilassante, il Danubio. Ancora mano nella mano, raggiungemmo la nostra meta, popolata di coppiette che si attardavano ancora ad osservare i bei colori infuocati di quel tramonto. Solo quando ci fermammo ci rendemmo conto della stretta che ci legava e, guardandoci negli occhi nel medesimo istante, arrossimmo di botto, separandoci velocemente. Guardai altrove con finta non curanza, sentendo invece lui tossicchiare un po’, nervoso.
    «Ehm... che dici, ci sediamo?», chiese grattandosi dietro il collo, come per celare il suo imbarazzo.
    Gli lanciai solo una veloce occhiata, ficcandomi le mani in tasca. Ero stato io a voler raggiungere quel posto, tanto valeva godere almeno di quella piacevole brezza che si innalzava dal fiume. «D’accordo», acconsentii svelto, vedendolo con la coda dell’occhio avviarsi per primo. Lo seguii senza emettere fiato, anche perché non avrei saputo cosa dire. Si era creata una sorta di bizzarra atmosfera, fra noi, e anche quando prendemmo posto, non sapemmo come romperla.
    Cominciai a rigirarmi distrattamente i pollici e a guardare le poche foglie ingiallite che ruzzolavano fra gli steli d’erba presenti anche attorno alla panchina, più per non guardare lui che per vero e proprio interesse. Sostenere i suoi occhi scuri, in quel momento, mi risultava più difficile di mille altre cose. Il perché non riuscivo a capirlo, ma probabilmente era dovuto al fuggevole contatto che avevamo avuto poco prima.
    Sospirai, perdendomi ad osservare quei colori così accecanti che si riflettevano placidamente a pelo d’acqua. Anche i profili delle case si confondevano con le lievi increspature che si creavano con l’innalzarsi della brezza leggera, lasciando in me quasi un senso d’appagamento e pace.
    Chiusi gli occhi quasi inconsciamente, smarrendomi nel gorgogliante sussurrare che udivo.
Era stato esattamente in un tramonto come quello che tutto era finito. Mi aveva detto “Addio” e aveva sorriso con tristezza, con la tragica certezza nel cuore che io non sarei più tornato da quella mia battaglia. Uno sfiorarsi di mani, un incontro di sguardi. Un bagliore rosso come il sangue che ci aveva avvolti nel suo silenzio. Quel giorno il tramonto era esattamente come quello che stavo osservando adesso che avevo lentamente riaperto gli occhi. Bellissimo.
    Una lacrima mi ruzzolò lungo le guance. Tirando su con il naso, mi portai una mano al viso per asciugarmela distrattamente, ma qualcuno mi precedette. Sentii le dita leggere di quel ragazzo accarezzarmele di sfuggita, e mi voltai a guardarlo con gli occhi arrossati. Lui sorrideva, quello stesso sorriso triste e distante che avevo visto sul volto del Colonnello.
    «Non piangere Acciaio», mi sussurrò lieve, e il mio cuore perse un battito a quelle sue parole. Mi trassi indietro d’istinto, vedendolo sbattere perplesso le palpebre. Il suo viso, adesso, era quello di sempre. Lo stesso che aveva avuto sin dal primo momento che l’avevo visto. «Ho detto qualcosa di male, Edward?», chiese, accigliato e non poco. «Se ti ho messo a disagio mi dispiace, non volevo».
    Fui sul punto di alzarmi e dirigermi verso il ponte per ripercorrerlo e tornare a casa, ma non lo feci, ritrovandomi invece a rilassarmi un po’ nonostante il pulsare ritmico del mio cuore. Un abbaglio. Un comunissimo abbaglio. Avevo soltanto udito ciò che volevo ascoltare, ecco cos’era accaduto. Scossi brevemente la testa, massaggiandomi le palpebre con due dita. «Nay, scusami», mi affrettai a dire, sentendo un lieve tremito nella voce. «Mi era parso che tu... beh, ecco... che tu avessi detto qualcosa di strano. Tutto qui».
    Non era un granché come spiegazione, ma in quel momento era la cosa più sensata che ero riuscito a dire. Spiegarlo meglio sarebbe stato impossibile.
    Roy inclinò leggermente la testa di lato prima di farsi coraggio e avvicinarsi un po’ di più a me, scivolando quasi leggiadro sulla panchina prima di poggiarmi una mano su una spalla. «Sei sicuro di sentirti bene?», mi domandò ancora, preoccupato, e a quel punto, cedetti. Chinai il capo e scossi la testa, sentendo un fastidioso formicolio agli angoli degli occhi. Lui si agitò subito, quando mi lasciai sfuggire un mezzo singhiozzo. Una sua mano si posò sul mio capo con un leggero tremito. «Ehi, Edward, che cos’hai?»
    Non riuscii a rispondergli, limitandomi a tenere la testa bassa e lo sguardo puntato a metà sul colore ormai cremisi del fiume. Parole dolci che mi ferivano, domande accorate che pugnalavano il mio petto. Avrei voluto dirgli di smetterla, di non chiedermi più nulla e di lasciarmi in pace. E tutto perché quel suo essere così accorato mi faceva stare solo più male. Restai solo in silenzio, chiuso in me stesso e nei miei più disparati pensieri, mentre quella mano aveva preso ad accarezzarmi con lentezza i capelli, nel tentativo forse di donarmi conforto.
    Non piansi, o almeno non mi lasciai andare ad un vero pianto liberatorio, ma mi lasciai andare ad un piccolo sfogo fatto di parole sconnesse e qualche singhiozzo. Quasi non me ne accorsi quando mi attirò a sé. Dilatai gli occhi, con il viso ormai affondato nel suo petto mentre lui mi sussurrava qualche nenia in tedesco, mescolando le parole con un’altra lingua che io non compresi. Stava cercando di calmarmi, e ci stava pian piano riuscendo, tanto ché abbassai le palpebre e strinsi convulsamente la sua camicia tra le mani.
    Roy sussultò, un po’ colto alla sprovvista, ma non si ritrasse né cercò di scansarmi da sé. Si limitò solo a cingermi i fianchi con un braccio mentre con l’altra mano prese ad accarezzarmi la schiena, nel tentativo di affievolire i miei singhiozzi. Gli fui grato di quella premura, seppur non riuscissi ad esprimerlo a parole.
    «Colonnello», mormorai con voce rotta, sentendo a malapena un altro suo sussulto. Inondati della calda luce del tramonto che volgeva al suo termine, continuai a versare lacrime. Quelle lacrime a cui non mi ero lasciato andare in quel giorno lontano.
    «Sono qui», sussurrò ancora nella mia testa, con la stessa voce ovattata di sempre, e mi ritrovai a sorridere con un velo di tristezza.
    Ero con lui, adesso, ma sarebbe stato il tuo ricordo a camminare con me. Avanzando e crescendo insieme, per sempre.











Commento:
Sniiiiiff… -me si soffia il naso- che dire… commovente – peccato che io non pianga mai xD e che sia solo una frase da circostanza xDD – comunque sia, SERIAMENTE, è meravigliosa…
Bellissima, davvero…
Mi hai fatto battere il cuore, l’ho letta con vero piacere… e ti ringrazio, ringrazio di cuore!, per aver scritto una cosa tanto bella e adorabile. La grammatica era perfetta se non per quella cavolo di “d” attaccate alle preposizioni semplici ma… sai che ti dico? Chi se ne frega! E’ bellissima così com’è… perfetta, così com’è.
La scena del tentato bacio mi ha mozzato il fiato e… e… poi il finale… fantastico, fantastico! E’ una storia davvero splendida… complimentosi. Come originalità, ovviamente, va super-bene, perché ti sei collegata, oltretutto, alla precedente storia del Cioccolato… io… cavolo, sono senza parole, davvero!!
Lo stile, naturalmente, è fantastico…
Brava, brava e ancora brava! ^^

- 9,4 punti alla grammatica;
- 9 punti all'originalità;
- 9,5 punti per lo stile;
- 9 punti per l'utilizzo dell'elemento immaginoso;
- 5 punti al giudizio personale

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