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Autore: gattina04    20/04/2018    0 recensioni
Kathleen non è una ragazza come tante: sottoposta alla pressione di una famiglia che le chiede sempre troppo, ha un passato che non riesce a lasciare andare. Lei sa cosa vuole, sa qual è il suo sogno, ma ci ha rinunciato già da tempo per l'unica persona a cui sente di essere ancora legata.
Trevor invece è schietto, deciso, con un passato fin troppo burrascoso, che vorrebbe solo dimenticare. Trevor vuole voltare pagina e per questo si ritrova in un mondo, in una scuola, dove è completamente fuori posto.
Come potrà una ragazza legata al passato trovare un punto di contatto con un ragazzo invece che farebbe di tutto pur di recidere quel legame?
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La mia storia è pubblicata anche su WATTPAD
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo 21
 
Erano passati venti giorni dal funerale di James; venti giorni in cui ero stata lontana da Trevor ad eccezione dell’ora di biologia, venti giorni che avevano fatto veramente schifo. Al dolore per la morte di mio fratello si era sommata la mancanza di Trevor che, nonostante tutto, si faceva sentire prepotentemente. Non rimpiangevo la mia scelta di stargli lontano, anzi sapevo che era una decisione saggia ed il fatto che quel distacco mi pesasse significava che c’era ancora qualcosa da salvare. Io tenevo a lui e l’amavo, mi era chiaro, dovevo solo andare per gradi. Non lo tenevo a distanza per punirlo o per ripicca, era per riuscire a trovare la vera me. Dovevo capire prima di tutto chi potessi essere senza mio fratello, da sola nel mondo, e solo dopo avrei potuto stare con lui. Era per me che lo stavo facendo ed era una delle prime decisioni egoistiche della mia vita.
Ovviamente mi dispiaceva di averlo isolato; in fondo i miei amici erano anche i suoi e non volevo assolutamente che Evan o Paul si schierassero da una parte o dall’altra. Per questo molte volte convincevo i ragazzi a pranzare con lui a mensa, mentre io e Lea ce ne andavamo con i nostri vassoi a mangiare sul prato, iniziando a scaldarci al bellissimo tepore primaverile. Sebbene noi due fossimo in pausa, non era giusto che Trevor rinunciasse agli altri suoi amici e sapevo, anche se lui non l’avrebbe ammesso facilmente, che voleva molto bene ad Evan quasi da considerarlo il suo migliore amico. Forse lui era davvero il primo migliore amico maschio che avesse avuto, per quanto Evan potesse rientrare nella categoria.
Per questo nei venti giorni trascorsi lontana da lui cercai di concentrarmi su altro, in modo da capire come poter gestire il mio futuro ora che gli uomini che avevano sempre influenzato le mie scelte non avevano più presa su di me. Era naturale che il problema dell’università restasse e che diventasse giorno dopo giorno sempre più palese. Queen aveva già ricevuto le sue lettere di ammissione, tre belle buste grandi da tre delle più prestigiose università d’America e per me invece non sarebbe arrivato nulla. La metà di aprile era già passata e la scusa di un eventuale ritardo postale suonava sempre più ridicola. Se avessi inviato le mie domande per tempo come ogni studente intelligente dell’ultimo anno, avrei già dovuto avere le mie risposte.
Mio padre non era così stupido e al momento poteva anche fingere di non vedere o capire, ma più passavano i giorni, più sapevo che avrei dovuto parlargli. Non volevo dirglielo affrontando l’argomento direttamente, ma non mi restava molta scelta. Proprio per questo decisi che quel fine settimana ne avrei approfittato per chiudermi nello studio con lui e parlargli approfonditamente della questione. Sapevo che avrebbe urlato, che io avrei pianto, avrei implorato il suo perdono e speravo che poi mi avrebbe dato una mano o almeno un consiglio per gestire tutto quel pasticcio. In fin dei conti, anche se credevo di essere maturata molto nell’ultimo periodo, ero sempre la solita ragazzina che aveva ancora bisogno dell’aiuto dei genitori.
Per questo quel venerdì mattina mi alzai con la consapevolezza che presto avrei svelato la verità alla mia famiglia, dando loro una delusione e un ulteriore motivo di preoccupazione. Mi dispiaceva ma me l’ero cercata ed era il momento di dire la verità. Non avevo altra scelta.
Immaginate invece la mia sorpresa quando quella mattina, scendendo per colazione, trovai tutta la mia famiglia riunita intorno al tavolo in mia attesa. Ora che Queen aveva terminato gli allenamenti con le cheerleader, le nostre levatacce all’alba erano finite e quindi eravamo abituate a fare colazione con nostro padre; lui che leggeva il giornale rivolgendoci al massimo un “buongiorno” di cortesia era ormai diventata una routine. Tuttavia il fatto che mia madre fosse già in piedi nella sua vestaglia firmata era un evento da considerarsi del tutto straordinario. Mancava solo mio nonno a completare quel quadretto famigliare.
Ed immaginatevi ancora di più la mia sorpresa quando vedendomi iniziarono ad applaudire senza nessun motivo valido. Dovetti sbattere le palpebre un paio di volte per rendermi conto realmente della scena che avevo davanti. Se non fossi risultata ridicola mi sarei data un pizzicotto per assicurarmi di essere sveglia; con molta probabilità stavo ancora dormendo e quello era uno dei miei strani sogni. Tutto regolare allora.
«Che succede?», domandai perplessa, osservandoli con gli occhi spalancati.
«Sono fiero di te Linny», dichiarò mio padre, invece di rispondermi. Mi guardò con uno sguardo così orgoglioso da mettermi quasi in soggezione. Non c’era nessun motivo valido per guardarmi in quel modo, soprattutto a quell’ora di mattina. Beh di sicuro dopo quel fine settimana avrei potuto scordarmi quello sguardo per almeno un decennio.
«Io non capisco», ammisi scuotendo la testa e guardandoli come se fossero impazziti tutti quanti.
«È passato il postino prima», mi rivelò Queen. La guardai ancora più confusa: se secondo lei quell’affermazione avrebbe dovuto aiutarmi si sbagliava di grosso.
«Continuo a non capire». Queen sbuffò come se fossi particolarmente ottusa o ancora mezza addormentata; ma di certo non ero nell’una nell’altra, erano loro che non si stavano per niente spiegando.
«Sono arrivate Kathleen», esclamò mia madre.
«Le lettere dall’università», concluse mia sorella rivolgendomi un ampio sorriso.
«Eh?». Per un attimo pensai di aver capito male, ma le parole di mia sorella non lasciavano spazio a dubbi. Che si trattasse di uno scherzo? Forse avevano scoperto tutto e volevano vedere come avrei fatto a tirarmi fuori da quel pasticcio. Era forse un modo per farmi confessare? Che Queen avesse sempre saputo e che avesse deciso che la mia farsa era durata fin troppo? Che si stessero semplicemente prendendo gioco di me?
«Certo sono arrivate con un po’ di ritardo rispetto a quelle di tua sorella», continuò mio padre. «Ci sono stati dei problemi postali; ti ho visto molto preoccupata in questi giorni, in parte sono sicuro fosse per questo».
«Io…». Non sapevo bene cosa dire visto che continuavo a non capire. Come diavolo aveva fatto Queen a convincere i nostri genitori a mettere su quella scenetta? Dovevo confessare e pregar loro di smettere con quella pantomima?
«Sono quattro buste, belle grandi Kathleen», proseguì mia madre. «Per questo tuo padre mi ha svegliata non appena l’ha viste».
«Su forza Linny vieni a vedere?», mi incitò Queen. Tuttavia io restai immobile, come pietrificata, con la bocca spalancata e un’espressione a dir poco sconvolta disegnata sul volto.
«Su andiamo». Visto che non mi muovevo mia sorella venne da me e mi tirò verso il tavolo per la mano costringendomi a seguirla.
Là in bella mostra, sul legno lucido, c’erano davvero quattro lettere dallo spessore piuttosto consistente. Erano ancora sigillate e sembravano riportare timbri e intestazioni diverse. Era davvero un lavoro troppo perfetto e accurato solo per indurmi a confessare.
«Su avanti prendile, aprile!», sbottò Queen in evidente attesa. Sembrava davvero emozionata mentre io non ci stavo proprio capendo più nulla.
Tuttavia nonostante la mia confusione feci come mi aveva detto. Ne presi una a caso e lessi ciò che c’era riportato sopra. Il logo della Brown spiccava in bella mostra, insieme all’esatto indirizzo di una delle più prestigiose università del mondo; il mittente era chiaro e autentico, e quando lessi il destinatario stentati a credere ai miei occhi. Quella lettera era indirizzata a me, esattamente a “Kathleen Hannah Jefferson”, non potevano esserci dubbi al riguardo, né tantomeno errori di persona perché tutti gli altri dati – indirizzo, codice postale, città – erano esatti.
Forse avevo davvero sbagliato a non tirarmi quel pizzicotto, forse stavo davvero sognando e presto mi sarei svegliata ritornando alla cruda e dura realtà. Tuttavia perché non assecondare quella meravigliosa utopia? Era il miglior sogno che potessi fare.
Con mano tremante strappai la busta ed estrassi la lettera contenuta al suo interno.
«Leggi ad alta voce», si raccomandò mia madre, esibendo un’inaspettata euforia.
Spianai i fogli e feci come mi aveva ordinato. «Signora Kathleen Hannah Jefferson, con la presente siamo lieti di informarla che è stata ammessa al…». Mi fermai stentando a credere a quelle parole.
«Lo sapevo, lo sapevo», proruppe Queen rivolgendomi il suo sorriso migliore.
«La Brown, è davvero un’ottima università Kathleen», commentò mio padre.
«Su aprine un’altra», mi incoraggiò mia madre.
«D’accordo». Come un automa presi un’altra busta, questa volta proveniente dalla Columbia University. Il logo e l’indirizzo erano diversi, ma il destinatario era lo stesso così come il contenuto della lettera.
«Signora Kathleen Hannah Jefferson, con la presente siamo lieti di informarla che è stata ammessa…». Questa volta non riuscii a finire la frase perché Queen e mia madre emisero un grido di gioia.
«Anch’io sono stata ammessa alla Columbia», proruppe mia sorella, «anche se Princeton resta comunque la mia prima scelta».
«È un sogno», mormorai trovando che quella potesse essere l’unica spiegazione plausibile.
«Certo che non è un sogno Linny», rise Queen, «è tutto vero. Sei molto richiesta a quanto pare; di certo quale università non ti vorrebbe con una media alta e un curriculum scolastico come il tuo?».
«Io non capisco», balbettai sentendo quasi la testa girare.
«Beh non c’è molto da capire», intervenne la mamma. «Su avanti apri questa». Mi passò un’altra lettera, questa volta proveniente da Stanford. Beh per essere un sogno era piuttosto strano perché non avevo mai pensato di frequentare un college come Stanford, in piena California. Nelle mie domande ero certa che avrei optato magari per Princeton, l’università di nostro padre, o forse Harvard anche se non me la sarei sentita di andare allo stesso college di James.
Nonostante tutto scartai anche quella lettera, ritrovando esattamente lo stesso responso. «Ammessa».
«È fantastico», rise mio padre. «Anche se non credevo fossi una ragazza da California. Non la conosco come le altre, ma penso che ci siano ottime facoltà anche là».
«Avanti questa è l’ultima». Mia sorella mi passò la lettera ancora intatta ed io la presi sentendomi stordita.
Le mie dita tremarono riconoscendo il logo stampato sopra. «Yale…».
«Già Yale», concordò lei rivolgendomi un sorriso. Beh se avessi davvero inviato le domande e quello non fosse stato solo un sogno, Yale sarebbe stata la mia prima scelta.
«Avanti Kathleen», mi incoraggiò mia madre con un sorriso. «È grande come le altre, significherà pur qualcosa».
Ricacciai indietro il magone che avevo in gola e strappai la busta con un gesto deciso.
«Ammessa», dichiarai dopo aver letto le prime righe.
Non feci caso alle grida di gioia della mia famiglia perché il mio sguardo e la mia mente erano concentrati su quell’unica parola stampata. “Ammessa”. Era davvero il più bel sogno che potessi fare e l’idea di svegliarmi e di tornare alla realtà mi faceva venire le lacrime agli occhi.
«Sto sognando», ripetei di nuovo sentendo la mia voce tremare.
«No scema. Certo che no, è tutto vero». Queen mi passò una mano tra i capelli e mi guardò con un sorriso convinto e rassicurante.
«Non è possibile», mormorai, guardando prima la lettera che avevo in mano poi il resto della mia famiglia.
«Certo che è possibile Linny». Il sorriso di mio padre sembrava a dir poco incredibile. «Quattro lettere di ammissione, una in più di tua sorella. Sono così fiero di te».
«La nostra Linny è un genio», convenne mia madre.
«Non può essere…», ribadii sentendo gli occhi lucidi.
«Oh andiamo Linny». Queen mi tirò un pizzicotto sulla mano, facendomi scattare e facendo quasi cadere la lettera che ancora stringevo tra le dita. «Lo vedi, sei sveglia? Perché ti sorprendi tanto? Ero sicura che ti avrebbero ammessa ovunque avessi fatto domanda».
Guardai mia sorella stentando a credere al dolore che avevo provato poco prima: Queen mi aveva fatto male, mi aveva davvero fatto male. Quindi o c’era la concreta possibilità che fossi impazzita del tutto o quella era davvero la realtà. In qualche modo, senza che potessi capire come, quella era la verità ed io ero appena stata ammessa a quattro delle più prestigiose università d’America.
Realizzando finalmente quella realtà, tutte le mie difese crollarono e un fiume di lacrime mi travolse in pieno, facendomi iniziare a singhiozzare come una bambina.
«Ehi che stupida». Queen mi abbracciò lasciando che mi sfogassi sulla sua spalla.
«Non dovresti piangere Linny», intervenne mia madre. «Dovresti fare i salti di gioia».
«Evidentemente era più preoccupata di quanto avessimo pensato», constatò Queen accarezzandomi la testa. Altro che preoccupata, tutto quello era un miracolo. Piangevo perché era così assurdamente impossibile, sembrava un sogno meraviglioso e invece era davvero ciò che stava accadendo.
«Sono vere…», singhiozzai, «sono… sono davvero vere! Sono stata ammessa?». Mi staccai da mia sorella per guardarla negli occhi.
«Sì Kathleen. E indovina un po’? James sarebbe così orgoglioso di te».
Il sorriso che si disegnò sul mio volto, anche se rigato di lacrime valeva più di mille parole. Non capivo come né perché, ma all’improvviso avevo un futuro, un’università – più università a dir la verità – che mi aspettava e delle opzioni tra cui scegliere. Sarebbe dovuto essere sbagliato sentirmi così felice, così immensamente grata e riconoscente a chiunque fosse il responsabile di quel miracolo, ma era esattamente come mi sentivo. Perché era evidente che qualcuno aveva interferito e che quella prorompente felicità non fosse merito mio.
«James sarebbe davvero molto orgoglioso», ribadì papà, «e tutti noi lo siamo».
«Grazie», mormorai voltandomi a guardarlo.
«Sono un po’ offeso dal fatto che tu non abbia fatto domanda a Princeton», scherzò bonariamente, «credevo fosse tra le tue opzioni».
«Credo che Linny l’abbia scartato per non essere influenzata da nessuno all’università», rispose mia sorella prima di me. «Dico bene?».
«Già», mi limitai ad affermare, visto che decisamente quella decisione non era mia. Però in effetti era vero: al collage non sarei stata la “figlia di…” o la “sorella di…”, sarei stata solo Kathleen.
«Posso accettarlo», concordò lui con un sorriso. «Qualunque delle quattro sceglierai, sarà un’ottima scelta».
«Queen, perché non porti tua sorella a fare colazione fuori?», suggerì mia madre. «Così puoi chiamare i tuoi amici Linny e dare loro la bella notizia».
«È un ottima idea», proruppe l’altra. «Su forza vai a darti una sciacquata al viso e a prendere la borsa». Mi trascinò fuori dalla stanza senza neanche aspettare che rispondessi.
Fu solo quando salii sulla Honda al posto del passeggero e lei mi consegnò le mie quattro lettere, che nella fretta mi aveva impedito di prendere, che sentii il bisogno di essere sincera almeno con lei. Dovevo sapere se era in parte merito suo, se lei aveva sempre intuito tutto e si era comportata da perfetta sorella maggiore.
«Queen non sono stata io ad inviare le lettere», dichiarai capendo però quanto le mie parole potessero sembrare assurde.
«Cosa?». Mi guardò non comprendendo ovviamente a cosa mi riferissi.
«Queen io non ho fatto domanda a nessun college», affermai. «Per questo credevo che fosse un sogno, è impossibile che quelle siano le mie lettere di ammissione».
Per un attimo pensò che scherzassi, ma poi probabilmente osservando la serietà della mia espressione si convinse della verità di ciò che stavo dicendo.
«Davvero?». Il suo sguardo si rattristò anche se di poco.
«Sì, io non volevo lasciare qua James; sono stata stupida e quando me ne sono resa conto il termine di consegna delle domande era già scaduto».
«Oh Linny». Potevo sentire nel suo tono la tristezza mista al rimprovero.
«Lo so che ho sbagliato e non sapevo come fare a dirlo a papà». Mi fermai un attimo prima di rivolgerle la domanda di cui già sapevo la risposta. «Quindi non sei stata tu ad inviarle?».
«No Kathleen non sono stata io, ma è evidente che qualcun altro lo ha fatto. Devi davvero ritenerti molto fortunata ad avere qualcuno che tiene a te così tanto». Fortunata mi sembrava un termine anche troppo riduttivo per indicare quel miracoloso cambio di scena. Era ovvio che avevo più di un angelo custode dalla mia parte e sicuramente uno di questi era qualcuno di molto vicino. Sospettavo di sapere chi fosse anche se temevo tutte le implicazioni che ci sarebbero state una volta ottenuta la mia conferma. Quel gesto era così grande e così potente da avere il potere di cambiare tutto.
 
Sfortunatamente non riuscii a vedere Lea ed Evan prima delle lezioni della mattina. Non poterono raggiungermi per colazione e per ciò mi accontentai di interrogarli all’ora di pranzo. Dire che le ore volarono sarebbe stato riduttivo: ero in un mondo ovattato, in una bolla felice in cui non sapevo ancora come avevo fatto ad entrarci. Le lezioni, i professori, tutto il mondo circostante potevano anche andare al diavolo, in fin dei conti ero appena entrata in quattro università fantastiche. Io, Kathleen Jefferson, che fino al giorno prima credevo di dovermi prendere un anno sabbatico o al massimo di poter frequentare l’università statale, adesso dovevo scegliere tra la Brown, la Columbia, Stanford e Yale. Era un miracolo, il mio miracolo personale!
Fu per questo che non appena mi sedetti al tavolo della mensa, di fronte a Lea, Evan e Paul, sbattei davanti a loro le mie quattro lettere senza neanche salutarli.
«Siete stati voi?», domandai sentendo un nodo allo stomaco.
«Ma ciao», rispose Lea, alzando un sopracciglio.
«Cosa sono?», chiese Evan addentando un pezzo di pizza.
«Quattro lettere di ammissione all’università».
«Oh mio Dio Linny! Sono arrivate anche a te? È fantastico», esultò Lea illuminandosi.
«Che università?», domandò Paul sporgendosi per vedere.
«Yale, Stanford, la Columbia e la Brown», risposi in automatico senza prestargli troppa attenzione.
«E sei stata ammessa a tutte quante?».
Mi girai verso di lui fulminandolo con lo sguardo. «Sì». Non era quello l’importante. Era ben altro ciò che volevo capire: volevo sapere a chi di loro dovevo la mia eterna gratitudine. Una parte di me sperava che fossero stati loro per non dover pensare all’altra eventualità. Erano i miei migliori amici e non avrei mai potuto sdebitarmi, ma avrei avuto una vita intera per tentare di ricambiare.
«Sei grande!», proruppe Evan, prima che potessi dire altro.
«Siete stati voi?», ripetei guardando sia lui che Lea negli occhi.
«È meraviglioso Linny, è davvero incredibile», commentò lei con l’evidente intento di cambiare argomento.
«Siete stati voi?», chiesi di nuovo inchiodandoli entrambi  con lo sguardo.
«A fare cosa?», intervenne di nuovo Paul.
Non lo ascoltai e guardai i miei migliori amici con occhi imploranti. «Io non ho mandato nessuna domanda, non ditemi che non lo sapevate o che non lo avevate in qualche modo intuito. Quindi vi prego, ditemi la verità perché è tutto troppo bello per essere vero ed io devo davvero sapere chi ringraziare. Siete stati voi, non è vero?». Avrei davvero voluto credere che la loro risposta potesse essere affermativa, ma una parte di me sapeva già che non lo sarebbe stata.
«Non proprio», rispose Lea con un sorriso.
«L’abbiamo solo aiutato», continuò l’altro.
Mi portai la mano alla bocca ricadendo goffamente sulla sedia. «Oddio». Quella era la conferma all’ipotesi che da quella mattina aveva preso forma nella mia testa.
«Ci ha detto quello che stavi facendo», proseguì Lea, «o meglio ciò che non stavi facendo e ci ha chiesto di dargli una mano. È stata una sua idea Linny, tutto è stata una sua idea. Noi l’abbiamo aiutato solo in delle piccole cose, ha fatto tutto lui».
«Avevamo promesso di non dirti niente», mi rivelò l’altro. «Ci ha fatto promettere di non dirti niente».
«È stato…». Non riuscii a pronunciare il suo nome perché non sapevo come sentirmi a riguardo. Anche Paul era ammutolito ed ebbe il buon senso di restarsene zitto.
«Sì è stato Trevor», concluse Evan per me. Quello che aveva fatto era incredibile, era la cosa in assoluto più assurda, meravigliosa, sorprendente e altruistica che potesse fare. E non riuscivo ancora bene a rendermi conto dell’implicazioni che ciò comportava.
«Lui vuole che tu insegua i tuoi sogni», continuò Lea, «e sapere che li stavi buttando via lo ha fatto arrabbiare, ci ha fatto arrabbiare».
«Lo so e mi dispiace». Non avevo scuse e ne ero consapevole.
«Sei stata molto stupida», proseguì Evan, «una cretina totale e mi sorprende che ti abbiano ammesso non in una ma ben in quattro università così prestigiose».
«Hai ragione», affermai rivolgendogli un dolce sorriso.
«Beh in fin dei conti non è stata lei a compilare le domande», ci fece notare Lea, «quindi tecnicamente non è proprio lei che hanno ammesso».
Le feci una linguaccia ma subito dopo le strinsi la mano che aveva appoggiato sul tavolo.
«Comunque», proseguì. «Trevor sapeva che non avrebbe potuto farti cambiare idea in tempo, per questo ne ha parlato con me ed Evan. Linny so che vi siete lasciati e che in questo momento state provando a stare lontani, ma se vuoi ringraziare qualcuno quel qualcuno non siamo noi. È solo per lui se hai quelle lettere tra le mani».
Annuii chiudendo gli occhi e facendo un profondo respiro: ecco appena svelato il nocciolo della questione.
 
Dato che il mio futuro universitario era salvo, presi la sensata e repentina decisione di saltare le lezioni del pomeriggio per riflettere con calma. Da quella mattina erano cambiate molte cose, erano successi così tanti capovolgimenti che mi girava la testa. Da essere senza futuro ero passata ad averne quattro diversi; dal sentirmi disperata ero arrivata ad essere al settimo cielo, da figlia reietta ero diventata l’orgoglio di famiglia. E avrei voluto attribuirmi il merito di tutto quanto, ma la verità era che dovevo tutto a Trevor. Aver compilato quelle domande, anche contro la mia stessa volontà, in un momento in cui ero così ottusa da non vedere i miei errori, era un gesto talmente importante da farmi riconsiderare tutto quanto. Era una prova d’amore così grande da non riuscire neanche a capacitarmene.
Io lo amavo da morire, ancor prima di quella mattina avevo capito quanto grande fosse il mio amore. Ma adesso a quello si era sommata la gratitudine e il pensiero di tenerlo ancora lontano mi sembrava assurdo. Avevo detto che volevo del tempo per imparare di nuovo a fidarmi di lui, ma non appena avevo scoperto ciò che aveva fatto avevo capito che non ce n’era bisogno.
Non era solo la gratitudine ad accecarmi. In fin dei conti dopo aver sentito la verità, dopo aver ascoltato la sua storia ed aver raccontato la mia, avevo capito le motivazioni che l’avevano spinto; mi ero resa conto che probabilmente a parti invertite avrei preso le sue stesse decisioni. Gli avevo chiesto del tempo perché era successo tutto così in fretta – Boston, Cassie, la morte di James – ed io dovevo abituarmi. Non ero perché gli ero grata che tornavo da lui, ma sapere ciò che aveva fatto mi aveva aiutato a capire che non aveva senso restargli lontano. Potevo fidarmi di lui e con lui potevo scoprire il mio futuro, il nostro futuro.
Fu per questo che nel tardo pomeriggio, dopo aver riportato mia sorella a casa, presi le chiavi della Honda e mi diressi verso casa sua. Era quasi il tramonto quando accostai la macchina davanti al suo portone; il sole era accecante e fui costretta a scendere parandomi gli occhi con una mano.
Mi fermai  di fronte alla porta e presi un profondo respiro, non sapendo bene cosa gli avrei detto o da che parte avrei cominciato.
Stavo per suonare il campanello, quando delle voci e delle risate riecheggiarono dal cortile sul retro, facendosi via via sempre più vicine. All’improvviso Trevor comparve correndo reggendo Linda sotto un braccio e facendo degli strani versi con la bocca, mentre l’altra rideva come una matta. Sorrisi vedendolo giocare con sua sorella e sentii il cuore battermi ancora più forte nel petto.
Trevor scorgendomi in piedi davanti a lui si fermò di scatto e mi fissò incredulo. «Kathleen…».
«Katy!», esultò Linda vedendomi e dimenandosi tra le braccia del fratello. Lui la rimise a terra senza distogliere per un istante lo sguardo da me e rimanendo come pietrificato con la bocca spalancata per la sorpresa.
Linda al contrario di lui mi corse incontro per abbracciarmi con la sua solita euforia. «Che bello vederti! Sei venuta a giocare con noi?».
«Beh non proprio», ammisi scompigliandole i capelli. «Volevo parlare con tuo fratello».
«Non importa ci parlerai dopo, ora che sei arrivata Trevor potrà far fare l’astronave anche a te». Sorrisi e guardai Trevor alzando un sopracciglio. Era questo quello che stava facendo, con tutti quegli strani versi?
Lo vidi arrossire leggermente prima di rivolgersi alla bambina. «Ehi peste, perché non vai a vedere a che punto è tua mamma con la cena?».
«Ma…», fece lei per protestare.
«Se mi fai parlare con Katy adesso, domani giocherò con te a qualsiasi cosa tu voglia».
Linda si illuminò e tornò di corsa verso l’entrata sul retro. «Affare fatto».
«Lo sai che potrebbe chiederti di giocare con le bambole?», gli feci notare, ricordando ciò che amavo io all’età di Linda.
«Correrò il rischio, per parlare con te ne vale la pena». Sorrisi della sua risposta e mi avvicinai a lui, che non si era mosso di un millimetro.
«Non ti ho vista oggi a biologia», affermò come per rompere il ghiaccio. Ma io non gli prestai ascolto e  tirai fuori dalla borsa le quattro lettere che mi trascinavo dietro da quella mattina.
«Tieni», affermai porgendogliele e non perdendo tempo. «Volevo mostrarti queste».
«Cosa sono?». La sua espressione da stupita divenne confusa; alzò il sopracciglio con il piercing mentre le studiava e allungava la mano per prenderle.
«Sono quattro lettere di ammissione», dichiarai. «Quattro lettere dell’università, quattro risposte positive».
Lui abbassò prima lo sguardo sulle buste per poi rialzarlo incredulo sul mio viso. «Oh mio Dio! È fantastico, ti hanno presa! Non ci posso credere, è meraviglioso, sono così felice per te!». Dalla sua espressione potevo capire che lo fosse davvero.
«Perché non me l’hai detto Trevor? Perché non mi hai detto quello che avevi fatto?».
«Beh non mi avresti mai permesso di farlo altrimenti», rispose con sincerità.
«Si questo lo so. Ma perché non me l’hai detto neanche dopo?». Perché non aveva vuotato il sacco quando ero scoppiata a piangere sulla sua mustang dandomi della cretina?
«Perché non volevo darti false speranze», ammise. «Non ero sicuro di averle compilate bene, non ero sicuro che ti avrebbero ammessa, che fossero arrivate in tempo. Non sapevo se i saggi che ti avevo rubato potevano andar bene, se quello che avevo scritto su di te potesse essere preso in considerazione».
«Quello che hai scritto su di me?». Sbattei le palpebre cercando di seguire il filo del suo discorso.
«Beh Lea mi ha detto che avere delle lettere di referenze a volte aiuta, soprattutto per le università prestigiose. Di certo non potevamo chiederle noi ai professori al tuo posto, per questo ho scritto qualcosa io».
«Tu hai scritto…?». Stentavo a credere a quelle parole. Lui aveva scritto qualcosa su di me, qualcosa di assolutamente convincente stando ai fatti. Doveva ad ogni costo farmelo leggere!
«Non è niente di speciale Kathleen, solo quello che penso su di te». Si stava sminuendo ed io ero senza parole.
«Io non so che dire, non so come ringraziarti».
«Non devi Katy. Non devi ringraziarmi, tu meriti di andare in quelle università, io ho solo compilato un paio di domande. Queste….». Si fermò giusto il tempo di restituirmi le buste, permettendomi di rinfilarle in borsa, e per guardarmi negli occhi. «Queste sono la prova di quanto tu sia speciale e di che futuro meraviglioso e ricco di opportunità ti aspetta».
Lo guardai non riuscendo a credere a quanto potesse dimostrasi buono e gentile. «Trevor…».
«Volevo solo che avessi tutto, volevo darti tutto». Furono quelle parole o forse l’intensità con cui le disse che mi fecero reagire senza la minima esitazione. In meno di un secondo annullai la poca distanza che c’era tra noi e lo baciai. Portai le braccia intorno al suo collo e mi strinsi contro il suo petto alzandomi sulle punte dei piedi; assaporai il sapore delle sue labbra mentre lui le dischiudeva dopo un attimo di stupore. Era incredibile quanto un gesto così semplice come un bacio mi fosse mancato; eppure non riuscivo a capire come avevo fatto a stare senza i suoi baci, senza le sue mani posate sulla mia schiena, senza il suo piercing al labbro che strusciava dolcemente sulla mia pelle. Era il mio Trevor e mi era mancato da morire.
Dopo un momento lui si staccò, ma io non avevo nessuna intenzione di lasciarlo andare. Mi rituffai sulle sue labbra come se non bevessi da giorni e lui fosse un bicchiere di limpida acqua fresca. Fu quando però lui si staccò di nuovo e le sue mani risalirono su lungo le mie braccia per afferrarmi i polsi che capii che c’era qualcosa che non andava.
«Aspetta Katy». Mi slegò dolcemente dal suo collo e indietreggiò di un passo in modo tale da potermi guardare negli occhi. «Fermati ti prego».
Il suo sguardo era talmente criptico da non farmi intuire che cosa lo trattenesse.
«Non ti sto baciando perché mi sento in debito con te», azzardai credendo che quella fosse l’ipotesi più probabile per quella sua remora. «Non è per via dell’università».
«Lo so Kathleen», affermò e il suo sguardo si fece impercettibilmente più triste.
«Ti amo Trevor, nonostante tutto o forse proprio per tutto quello che è successo: io ti amo». Era la pura e semplice verità.
«Ti amo anch’io Katy ed è per questo che quello che sto per fare rende le cose ancora più difficili».
Lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi e lo fissai cercando di non pensare a dove volesse andare a parare con quell’affermazione; tuttavia il suo tono e la sua espressione erano alquanto esplicative.
«Cosa stai facendo Trevor?». La mia voce tremò nel chiederlo perché ciò che leggevo nel suo volto era qualcosa a cui non ero preparata.
«Ci ho pensato molto in questi giorni Kathleen, questi giorni senza di te che sono stati un inferno, ma mi hanno aiutato a capire molte cose. Non credo che dovremo stare insieme Katy, non adesso per lo meno».
«Cosa?». Stentavo a credere alle mie orecchie, ma era ciò che aveva appena detto.
«Lasciami spiegare ti prego e senza interrompermi, perché quello che sto per fare è una delle cose più difficili che abbia fatto nella mia vita e se tu continui a fermarmi e a ribattere, ho paura che non avrò il coraggio di portarla al termine».
«Trevor…», tentai.
«Ti prego, ti chiedo solo questo». Se non fosse stato per il suo tono, il suo sguardo mi avrebbe convinto comunque. Per questo nonostante fosse l’ultima cosa che volessi, incrociai le braccia al petto e aspettai la sua assurda spiegazione.
«Non credo che dovremmo stare insieme», iniziò, «anche se ti può suonare assurdo e anche a me sembra assurdo. Kathleen, tu sei sempre stata considerata da tutti come la piccola Linny, la sorellina di James; tutti ti hanno sempre vista così e alla fine hai finito per considerarti tale anche tu. Poi hai conosciuto me e sei passata da essere la sorellina di James e di Queen, ad essere l’amica, la ragazza di quello nuovo, del teppista. Sei passata da una cosa all’altra e non ti sei mai fermata a pensare a chi tu sia realmente; io lo vedo, Evan e Lea lo vedono, persino tua sorella lo vede, ma non tu. Tu non scorgi le potenzialità che tieni nascoste dentro di te, non sai ancora chi sei o che saresti in grado di essere chiunque tu voglia: sono certo che potresti diventare la più grande scrittrice, così come la più grande scienziata, o potresti andare nello spazio o fare qualsiasi altra cosa. Io sono certo che tu eccellerai in qualsiasi campo finirai per scegliere nel tuo futuro. Io ne sono sicuro ma non tu e ho bisogno che tu lo scopra, che tu lo capisca, che tu apra gli occhi su te stessa. Per questo, se restiamo insieme, ho paura che finirei per tapparti le ali, tu finiresti per ricadere nella tua solita parte ed è vero che forse grazie anche a me hai iniziato a credere più in te stessa, ma la strada che devi fare è ancora tanta. Io ho bisogno che tu vada al college e che faccia le tue esperienze; ti ho detto che volevo che tu avessi tutto, ma quel tutto non posso essere solo io».
Capivo il suo discorso e lo amavo ancora di più per ciò che aveva detto. Era anche per quello che gli avevo chiesto del tempo, per trovare la vera me; tuttavia ripensandoci mi sembrava assurdo che lo scoprire me stessa non potesse coincidere con lo stare insieme a lui. Trevor aveva appena espresso una delle motivazioni che mi ripetevo da venti giorni, eppure non mi sembrava più tanto convincente. La vera Kathleen, quella che dovevo ancora scoprire e trovare, poteva benissimo avere un ragazzo meraviglioso come lui; anzi sarebbe stato un incentivo per rendermi migliore.
Anche se mi aveva chiesto di non interromperlo, non potevo restarmene lì senza dire una parola, senza nemmeno tentare di fermarlo. «Trevor capisco ma…».
«Aspetta non ho finito», mi interruppe con un gesto della mano. Chiuse gli occhi per un secondo per poi tornare a guardarmi. «Devi andare all’università Katy, è per questo che ho spedito quelle domande. Tu devi andare al college e accorgerti di quanto sei speciale. Là non sarai più Linny, sarai solo Kathleen e ci saranno decine di persone che vorranno essere tue amiche, così come ci saranno decine di ragazzi che vorranno uscire con te. Perché credimi chiunque sia dotato di un minimo di cervello vorrà uscire con te e tu devi farlo e devi dare loro una possibilità. E alla fine troverai qualcuno di talmente furbo e intelligente da innamorarsi perdutamente di te e da decidere di non lasciarti più andare via, e anche tu ti innamorerai di lui e sarai felice».
«Io non voglio innamorarmi di nessun altro», protestai sentendo le lacrime agli occhi. «Io voglio solo te».
«Lo so che oggi non capisci e che la pensi così, ma se stiamo insieme ciò che ti porterò via finirà per separarci ed io non voglio che tu finisca per odiarmi Katy. Se restiamo insieme lo farai, magari senza accorgertene, ma mi odierai ed io non lo posso sopportare».
«Non è vero Trevor, apprezzo il gesto, ma non sarà così, te lo prometto».
«Ascoltami Kathleen». Mi afferrò le mani prendendo un altro profondo respiro. «Forse questo riuscirà a convincerti anche se non riuscirai a capirmi comunque. Ne ho bisogno anch’io; sono passato dall’essere un drogato ad uno che tenta di sopravvivere e di disintossicarsi; poi ho conosciuto te e tutta la mia vita ha iniziato a girarti intorno, perché credimi in questo momento tu sei tutto. Ma anche io ho bisogno di capire chi sono; mi sono sentito colpevole per tanto tempo e adesso devo capire chi posso diventare. Devo imparare a cavarmela da solo, a dipendere solo da me stesso ad agire per me e non in base a ciò che tu vorresti, a ciò che farebbe il ragazzo che penso che tu possa amare. Non so se sono riuscito a spiegarmi».
Ci era riuscito eccome, forse avevo capito meglio quella parte di tutto il resto. Dovevamo diventare adulti, scoprire noi stessi e crescere inseguendo i nostri sogni. Tuttavia mentre io pensavo che saremo cresciuti insieme, per Trevor quello non era possibile. Stava buttando via il nostro amore credendo che ci avrebbe distrutto, che ci avrebbe trascinato a terra, mentre in realtà ero certa che sarebbe stato tutto il contrario. Potevamo imparare insieme, essere insieme, stare insieme ed essere felici, perché in quel momento non vedevo altre opzioni per raggiungere la felicità e spazzare via tutto il dolore che mi aveva fatto compagnia nell’ultimo mese.
«Trevor io capisco ciò che vuoi dire», iniziai ma mi fermai subito, intuendo che ciò che avevo appena affermato era una bugia. «No, non è vero io non capisco».
«Kathleen…».
«No, ti prego adesso lascia parlare me», lo fermai con la voce incrinata. «Tu credi che stando insieme finiremo per ostacolarci a vicenda, ma non sarà così. Possiamo crescere insieme, possiamo aiutarci…».
«Kathleen quello che finirò per portarti via sarà molto di più di ciò che potrò darti».
«Non è vero», singhiozzai, non sapendo come riuscire a fargli cambiare idea. Ormai sembrava aver già deciso, il problema era che non mi aveva neanche consultato. Aveva stabilito tutto lui e a me non restava che accettare la sua idea. Io restavo lì umiliata e rifiutata dopo avergli donato di nuovo il mio cuore.
«Non voglio ferirti, non vorrei mai farti stare male». Tentò di accarezzarmi il braccio ma io mi scostai non appena le sue dita sfiorarono la mia pelle.
«Ma è quello che stai facendo», ribattei. «Mi stai spezzando il cuore, di nuovo».
«Vorrei non doverlo fare, perché credimi sto spezzando anche il mio». Alzai lo sguardo e potei scorgere il dolore anche sul suo volto, ma non aveva importanza perché era lui che se l’era autoimposto.
«Dici che lo stai facendo perché mi ami, ma il tuo non è amore ma masochismo. Perché diavolo non vuoi essere felice? Noi possiamo farcela, non ci stai dando nemmeno una possibilità».
«Kathleen guardami negli occhi e dimmi la verità: se io fossi il tuo ragazzo, se noi stessimo insieme… dimmi che non influenzerei le tue scelte al college, dimmi che prenderesti le tue decisioni a prescindere da me».
«Beh è ovvio che le prenderei tenendo in considerazione anche te…».
«Appunto Kathleen», mi fermò prima che potessi continuare. «Sei la persona più altruista che io abbia mai conosciuto, ma adesso basta. Devi pensare solo a te, mettere te al primo posto, considerare il tuo futuro non in base agli altri. Non devi andare ad una università dell’Ivi League solo perché te lo dice tuo padre o…».
«È per questo che hai compilato la mia domanda per Stanford?», lo interruppi.
«Sì anche per questo. Come non ho mandato la domanda ad Harvard perché sapevo che per te sarebbe stato troppo difficile per via di James, né a Princeton perché quella è stata l’università di tuo padre e probabilmente sarà quella di tua sorella, e so che non vuoi nessuna forma di nepotismo».  Mi conosceva quasi meglio di me stessa e l’idea che volesse mandare tutto a monte mi faceva arrabbiare e mi feriva ancora di più.
«Comunque Katy non è questo l’importante», continuò. «Devi scegliere per te, devi essere libera di farlo, il nostro rapporto non farebbe altro che legarti, io non farei che frenare i tuoi sogni e le tue potenzialità».
«Perché tu non vedi quello che sei realmente!», ribattei esasperata. «Dici che io non vedo le mie potenzialità, che non sono oggettiva nel giudicarmi ma tu fai lo stesso. Non sei più un drogato, non sei un cattivo ragazzo: sei buono, gentile e altruista, sei dolce e attento e non te ne accorgi neanche; ti sminuisci ogni volta, considerandoti peggiore di ciò che sei e non vedi quanto vali».
«Ed è proprio questo il punto Katy. Dobbiamo scoprire chi siamo prima di stare insieme, credere in noi stessi e non perché altre persone credono in noi. Non ti sto dicendo addio per sempre Kathleen, ma non ti posso neanche chiedere di aspettare perché non sarebbe giusto. Tu devi fare le tue esperienze e io devo fare le mie, senza legami, senza nessun fantasma del passato. E se scoprirai che colui desideri non sono io dovrai sentirti libera di seguire il tuo cuore».
Scossi la testa ma non parlai. Come potevo spiegargli che non avrei mai cambiato idea?
Lui sembrò leggermi nel pensiero. «Cresciamo Katy, i gusti cambiano, i desideri cambiano. Potrai voler fare una scelta diversa e a me andrà bene per quanto mi si possa spezzare il cuore adesso».
«Hai già deciso tutto», mormorai con voce rotta. «Hai scelto per me anche se io sono contraria».
«Adesso mi vedi come il cattivo, come lo stronzo, lo capisco. Ma un giorno mi ringrazierai Katy, so che lo farai. Un giorno capirai la mia scelta, anche se ti ci vorrà del tempo».
«Beh di sicuro oggi non capisco», ribattei. «Hai ragione per me non stai facendomi un favore, sei di nuovo lo stronzo che mi sta spezzando il cuore. Avevi detto che avresti fatto di tutto per riconquistare la mia fiducia, per tornare insieme e adesso, che ti sto offrendo tutta me stessa su un piatto d’argento, mi getti via; mi rifiuti campando in aria delle scuse assurde sul nostro futuro. Non mi stai buttando via per qualcosa di concreto, ma per ciò che pensi accadrà e questo è da pazzi».
«Kathleen mi dispiace tanto».
«Non dispiacerti», replicai ricacciando indietro le lacrime. «Se questo è il tuo passo per diventare un uomo migliore, complimenti. Per adesso ciò che sei riuscito a fare è frantumarmi il cuore in mille pezzi ed io sono stata talmente stupida da permettertelo di farlo per ben due volte». Mi voltai di scatto e mi allontanai da lui risalendo in macchina e lasciandolo lì da solo come aveva deciso e preteso di stare.
Aveva messo in chiaro le sue idee e aveva preteso che io le accettassi. Poteva impormi la sua decisione, ma non l’avrei capita né condivisa. Fino a quella mattina avevo pensato di non avere una possibilità per il college almeno per quell’anno, ma almeno credevo di poter contare su di lui per quanto a distanza lo tenessi; invece quella sera avevo una quadrupla scelta da affrontare ma nessuno con cui condividerla. Potevo guardare al futuro con più tranquillità ma che senso aveva se dovevo affrontarlo da sola? Non c’era più James, non c’era più Trevor: ero sola e ciò mi faceva tremare di paura.
  
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