Oltre
lo specchio
Loki
era seduto con scomposta eleganza e lo fissava
dall’alto in basso, come se tutta quella situazione non fosse
che uno
spregevole contrattempo, e la sedia di legno su cui aveva poggiato le
terga non
appartenesse a chissà che aula scolastica, come raccontavano
i nomi e le
scritte incise nel legno con punteruoli e inchiostro, ma fosse il
più ricco dei
troni, come era stato l’Hlidskjalf
di
Odino. Dalle labbra, piegate in una smorfia beffarda, pendeva
mollemente
una sigaretta, il cui fumo bluastro saliva verso la lampadina solitaria
che
gettava sui loro volti una luce livida, malata.
Thor
si passò una mano tra i capelli biondi, sospirando. Da
quante ore erano lì dentro, chiusi in quella fottuta stanza?
Troppe, tante da
averne perso il conto e riempito il posacenere di cicche; eppure lui
era ancora
lì, con quel sorrisetto divertito sulle labbra, il collo
della camicia
perfettamente inamidato, la bella giacca di ottimo gusto senza nemmeno
una
piega fuori posto. E quegli occhi, verdi e attenti com’erano
sempre stati,
fissi su di lui in impenetrabile attesa.
Gli
girò attorno mentre quello che in un altro tempo, in un
altro luogo, era stato il dio degli inganni, lo seguiva con lo sguardo,
e fu in
quel momento che il suo collega, ormai stanco quanto lui,
rientrò nella stanza,
chiudendo con un tonfo sordo e metallico la porta blindata. In mano
aveva delle
foto. Thor scosse la testa, non nascose un gesto di stizza. Il sergente
Freeman
aveva sbagliato clamorosamente strategia, anche questa volta. Si era
convinto
che l’ipotesi di un processo e della successiva galera
avrebbero davvero
terrorizzato Loki. Ignorava come una promessa ventilata, per quanto
oscura
fosse, non avesse alcun potere di scalfire la corazza fatta
d’arroganza di suo
fratello. Del resto, era diventato schifosamente ricco e si sarebbe
potuto
pagare qualsiasi cauzione; seppure fosse arrivato al processo, avrebbe
trovato
il modo di manipolare la stampa, corrompere la giuria e i giudici,
creare una
realtà alla rovescia dove lui era solo un giovane rampante
il cui unico peccato
evidente era di vivere e divertirsi. Ma il sergente a questa versione
non
credeva e, soprattutto, non aveva la misura del disordine che il dio
dell’inganno, o quello che ne rimaneva, avrebbe creato.
Lo
vide mostrare all’interrogato un mucchio di istantanee
che ritraevano soggetti più o meno conosciuti lì
al Distretto. Facce sbarbate e
occhi truci che salivano o scendevano da macchine importanti,
acquirenti
provenienti dalle zone più disparate del mondo abbigliati
con volgare
ostentazione; i capi e gli accessori firmati su quei corpi sembravano
aderire
in maniera sgraziata, rivelando l’oscurità delle
loro origini.
Loki
tirò un’altra, lenta, boccata di fumo azzurrognolo
e
interruppe, finalmente, il contatto visivo con loro per degnare
d’attenzione le
fotografie. “Sono venuti tutti molto bene,”
commentò serafico.
Thor
osservò Freeman chinarsi sul tavolo, puntargli
l’indice
nodoso contro. “Sappiamo chi frequenti, quello che
fai.”
“Come
tutti,” ribatté il dio degli inganni, mentre una
smorfia perfida si disegnava sulle belle labbra sottili. “Ma
se queste sono le
vostre uniche prove,” sorrise cercandogli gli occhi,
“temo che stiate
decisamente sprecando il vostro tempo.”
Irritante.
Loki era sempre stato fin troppo abile nel
provocare il suo prossimo. Si divertiva immensamente a tirare fuori dai
suoi
interlocutori reazioni scomposte e fuori controllo, incurante delle
conseguenze
che i suoi comportamenti avrebbero potuto portare a lui per primo. Un
tempo, lo
avrebbe rimproverato per questo atteggiamento come il fratello gli
rinfacciava
l’irruenza e l’eccessiva spavalderia con cui si
lanciava in battaglia. Quante
vite prima era successo?
“La tua redditizia
attività,”
ironizzò il sergente, insistendo nel suo inutile tentativo
di piegare l’interrogato,
“ti porterà a invecchiare in cella o a farti
ammazzare dai tuoi presunti amici.
Propendo per la seconda,” tentò di spaventarlo.
Era anziano e vicino alla
pensione e credeva di aver già visto uomini come suo
fratello. Aveva ragione e
non ne aveva.
Loki
gli regalò un ghigno sfrontato e Thor, dietro il suo
superiore, non poté fare a meno di piegare le labbra in un
sorriso mesto,
perché conosceva bene quella reazione e ciò che
ne sarebbe scaturito.
“Ma
che gentile,” lo sentì ironizzare, “ti
preoccupi per me,
hai a cuore il mio futuro. Sono colpito, davvero,” rise. La
reazione dell’altro
non tardò ad arrivare. Gli afferrò il colletto
della camicia, offeso dalla sua
irriverenza.
“Tu
non hai futuro, stronzo arrogante”, gli alitò
contro. “Ti
sbatteremo in una cella, ti leveremo quel sorriso dalla faccia. Ti
credi furbo,
ma per quanto tu ti sia guardato le spalle, hai lasciato il fianco
scoperto. Se
non saremo noi saranno loro, te lo ripeto.”
Loki
non si scompose né mosse. Inghiottì
l’offesa, e quando
riprese a parlare lo fece con lentezza, scandendo bene ogni sillaba
affinché la
sua frase si conficcasse come un pugnale nella carne del sergente.
“Sono
solo parole, le tue,” soffiò con evidente sprezzo.
Imprecando
e vincendo a stento l’impulso di spaccargli il
naso con un pugno, Freeman si voltò e se ne andò,
chiudendo nuovamente la
pesante porta di ferro dietro di sé. Thor lo
seguì con lo sguardo,
soffermandosi sul punto in cui il sergente era sparito dalla sua vista.
Fu in
quel momento che, inaspettatamente, Loki parlò.
“Tu
non ne sei altrettanto sicuro, non è vero?”
domandò
beffardo. “Tu credi che me la caverò”
specificò rispondendo alla sua domanda
muta, scoprendo i denti bianchi.
C’era
qualcosa di dolciastro, nella voce di quello che in
un’altra vita, un altro tempo, era stato suo fratello. Forse
era il ricordo,
che sapeva di miele, di una familiarità perduta, tornata
improvvisamente a
galla ora che l’antico dio dalla lingua d’argento
si era rivolto a lui. Ed era
vero: Thor dubitava che esistesse un modo per incastrare Loki senza
dolore,
sofferenza e spargimenti di sangue; e se anche fosse riuscito a fermare
le sue
losche attività, avrebbe potuto tarpare per sempre
quell’indole votata al caos?
Si voltò lentamente verso di lui, ancora seduto con
principesca regalità
sull’umile sedia, e provò a ricordarlo
com’era un tempo: la giacca che calzava
a pennello lasciò il posto al mantello verde cupo, le scarpe
scure di vitello
italiano agli stivali neri, la camicia ben inamidata alla casacca verde
e oro.
“Fuggiresti,”
ammise infine Thor.
Per
un momento, Loki parve colpito da quella risposta. Lo
squadrò dall’alto in basso, valutando il peso
della sua affermazione. Infine
sorrise, tirando l’ultima boccata alla sigaretta ormai
consumata. “Hai una
grande stima dei tuoi colleghi carcerieri, vedo. Ma sei più
pragmatico del tuo
amico. Mi piaci,” decise infine, inclinando leggermente la
testa da un lato
come per scrutarlo meglio.
“Ti
sbagli, non è mancanza di fiducia,” lo corresse il
tonante. “È solo che, alla fine, le manette non
potrebbero placare la tua sete
di libertà. La prigionia sarebbe la tua tomba, ti
spegnerebbe. Faresti di tutto
per uscire.” Il ricordo volò via a un tempo
lontano, a una condanna gridata da
un padre infuriato, alla cella distrutta dopo un dolore troppo grande.
“Suona
come la reazione di un uomo davvero disperato, in
effetti” commentò Loki con un ghigno.
“Se
sapessi di non poter uscire mai più, se avessi la
certezza che nessuna cosa, nessuno stratagemma, nessun inganno, nessuna
bugia
potrebbe tirarti fuori da quelle quattro mura, ho la certezza che la
disperazione prenderebbe il sopravvento su di te. Ti conosco
più di quanto tu
non conosca te stesso,” confessò.
“Tu
credi davvero?” Loki rise sulla sedia di legno.
Negli
occhi verdi scintillò per un attimo un bagliore
conosciuto, un guizzo divertito del tutto scevro da
quell’aria di strafottente
alterigia che aveva caratterizzato il fratello perduto per tutte quelle
ore.
Parve anzi a Thor di scorgere, in quello sguardo di solito duro come la
pietra,
la luce giocosa e divertita che aveva talvolta il dio degli inganni
quando era
ragazzo e Midgard ancora giovane, e loro due giocavano e scherzavano
assieme,
fantasticando delle loro future avventure. A quel tempo, probabilmente,
le
Norne avevano già filato il destino terribile di entrambi;
il Ragnarok e i suoi
oscuri presagi forse iniziavano a profilarsi all’orizzonte,
come un temporale
ancora lontano destinato a spazzare via l’estate. Il ricordo
della bella risata
da ragazzo di Loki si confuse con le grida degli Aesir, con le fiamme
di
Muspellheim, con la rovina e la morte di Asgard; il figlio di Odino
provò una
fitta di dolore nel petto, per quell’orrore che doveva tenere
dentro di sé
senza poterlo condividere con nessuno, nemmeno con colui che al suo
fianco, nel
bene o nel male, aveva passato di tutto.
E
se avesse ceduto a quel bisogno così umano di doversi
aprire con qualcuno, parlare del passato, rievocare la meraviglia che
era stata
Asgard? Se Loki avesse ricordato chi era e cosa era stato, nei suoi
occhi
troppo verdi Thor avrebbe scorto la magnificenza dell’oro
della città degli
Aesir, e Asgard sarebbe rivissuta una volta ancora, nei loro ricordi;
la voce
del dio degli inganni avrebbe saputo raccontare la reggia di Odino in
ogni suo
dettaglio, tanto che se avesse potuto chiudere gli occhi al suono di
quella
voce incantata, il dio del tuono avrebbe potuto percorrerne ancora una
volta
ogni stanza, corridoio, angolo. Ma se Loki avesse recuperato la memoria
perduta, avrebbe anche trovato il modo di riappropriarsi del seidr: e
il giorno
che l’avesse avuto, nessuna cosa se non il Mjollnir ormai
perso avrebbe potuto
fermare la distruzione e il caos che il dio degli inganni avrebbe
portato
inevitabilmente con sé.
Ci
sono scelte che sono troppo difficili da fare: anche se
si è, o si è stati, Thor Odinson.
Finché non avesse saputo come recuperare il
martello, il dio del tuono non poteva che aspettare, senza rivelare al
fratello
ritrovato nulla del passato fuori dal tempo che li univa. Non era
facile,
purtroppo, poiché a volte, come in quel momento, gli mancava
Loki e lottava contro
se stesso per cercare di resistere all’impulso di dirgli la
verità. Ma cosa
sarebbe successo, se gli avesse raccontato finalmente tutto?
L’altro lo avrebbe
squadrato da capo a piedi con un sopracciglio alzato e una smorfia di
patetico
disgusto sulle labbra sottili, ridendo di lui e chiamandolo pazzo.
Oppure,
avrebbe ricordato. In entrambi i casi, Thor sapeva che non sarebbe
stato un
momento privo di tensione, tutt’altro.
Ora,
però, non poteva far altro che osservare l’impero
del
male costruito con poche, perfide mosse da Loki. Di fronte a lui,
all’oscuro di
tutto, la lingua d’argento di Asgard lo fissava con i suoi
occhi brillanti,
senza perdersi nemmeno una delle sue mosse: erano le occhiate che suo
fratello era
solito riservare a coloro che stava studiando, di cui non si fidava. E
il dio
degli inganni non si fidava di nessuno, a parte due eccezioni che
confermavano
la regola. Mai, nella lunga vita che avevano passato assieme ad Asgard,
Loki lo
aveva scrutato in quella maniera attenta e così penetrante
da dare
l’impressione, persino a lui che lo conosceva da sempre, che
i suoi occhi
potessero guardare fin dentro la sua anima, e si sentì a
disagio per questo. E
se avesse già recuperato la memoria di Asgard, si
domandò Thor di fronte a
quello sguardo inquietante; se questo non fosse che
l’ennesimo scherzo di suo
fratello?
Possibile,
anzi, probabile, macché: scontato. Immaginò il
divertimento sottile che avrebbe provato Loki, che forse stava gustando
già in
quel momento, dissimulandolo sotto quel sopracciglio alzato e la
smorfia leggera
che aveva stampata sulle labbra. Non poté resistere dal
sondare se quel tarlo
fosse giustificato o meno. Sospirò sonoramente, cercando le
parole adatte da
dire per non destare sospetti e, allo stesso tempo, insinuare
eventualmente il
dubbio in suo fratello, contrariamente a tutto quanto aveva deciso fino
a poco
prima.
“Ho
come l’impressione che ci siamo già scontrati, io
e te”
disse, ma se ne pentì immediatamente perché
quella frase, che nella sua mente
gli era parsa neutrale, ora sembrava carica di significati reconditi.
Fissò
Loki, cercando ogni segno, anche il più insignificante, che
svelasse la verità
che si celava dietro il suo viso affilato.
“Viviamo
nella stessa città, frequentiamo le stesse brutte
compagnie, detective”
replicò quello
con un’alzata di spalle, alludendo alle foto ancora
sparpagliate sul tavolo.
“Chissà,” continuò stirando
la schiena, “magari hai ragione. Prova a ricordare
dove, la prossima volta.”
Neutrale.
Fottutamente, orribilmente neutrale, come solo
Loki sapeva essere. Si alzò, poiché ormai sapeva
che non avrebbe potuto cavare
da lui un ragno dal buco, ma prima di uscire dalla pesante porta
blindata si
fermò sulla soglia, esitante.
“Con
i guerrieri di Svartlfheim hai fatto davvero un grande
lavoro,” disse.
Sperò
che rispondesse. Strinse il pugno finché non gli
fecero male i palmi, fantasticando che ricordasse perché, in
fondo, quella
solitudine in cui era precipitato era troppo dura da sopportare. Se
anche Loki
fosse tornato come dio delle astuzie e degli inganni, se avesse ancora
seminato
il caos come aveva fatto nei tempi lontani, Thor avrebbe avuto comunque
qualcuno con cui condividere il ricordo della perduta Asgard dorata,
della
gelida Jotunheim e di tutti i Regni che senza il Mjollnir non avrebbe
potuto
più visitare e che sapeva esistere ancora, lì nel
firmamento splendente.
L’ingannatore
aggrottò la fronte, si mosse sorpreso sulla
sedia. Non colse il riferimento, non riconobbe quel nome straniero e
quasi
impronunciabile. Si sentì braccato, però,
incastrato in una situazione di cui
stava lentamente perdendo il controllo e questa cosa non gli piacque,
affatto.
Non era intuito né memoria di una vita precedente, perduta e
dimenticata, ma
solo la strisciante sensazione che il detective di fronte a lui volesse
tendergli una qualche trappola e, cosa ancora peggiore, fosse a
conoscenza di
qualcosa che lui ignorava.
“Non so proprio di
che parli” soffiò tra i denti. “Voglio
chiamare i miei avvocati.”
Un
abuso di potere. Quel maledetto detective voleva
ingannarlo con uno di quegli stupidi, ridicoli giochetti da serie TV
del
venerdì sera di cui avrebbe potuto recitare a memoria il
copione. Tra un’ora o
tre o quattro, gli avrebbe sbattuto in faccia una scusa patetica: non
era
riuscito a mettersi in comunicazione con lo studio legale, i suoi
avvocati
erano stati abdotti misteriosamente da una nave aliena. Tutte idiozie
per
prevaricare un suo stramaledetto diritto e tenerlo confinato
lì, in quella
cella che puzzava di detergente scadente e muffa. Si tolse la bella
giacca di
Gucci, si abbassò a sedersi sulla branda cigolante. Meno di
ventiquattr’ore.
Doveva resistere ancora solo per meno di ventiquattro maledette ore,
poi lo
avrebbero dovuto rilasciare per forza perché non avevano
niente di concreto in
mano, nulla: solo prove sparse, indizi troppo flebili perché
un’accusa potesse
scagliarglisi contro. Fissò le grate e si accorse di stare
sudando freddo, come
se il reticolo di ferro gli suggerisse un presagio oscuro,
incomprensibile.
Respirò con lentezza: è solo una
formalità, mormorò tra sé, il
tentativo di un
uomo frustrato e miserabile di incastrarne uno più potente e
punirlo per il suo
successo. Una vendetta, nient’altro, questo è il
prezzo da pagare per lo sfarzo
che lo circondava, per le modelle dalle gambe lunghe e sottili cui si
accompagnava, per le ville sparse e le macchine spettacolari che
guidava.
Poteva
concedere, a quel detective che in un delirio di
onnipotenza pretendeva di conoscerlo più di chiunque altro,
un’altra mezza
giornata di gloria? Farlo crogiolare nell’illusione che ci
sarebbe stato un
processo e avrebbe avuto onori e applausi, neanche fosse stato un
guerriero
antico? Gli occhi verdi, mobili e aguzzi, di ciò che era
rimasto di Loki
Laufeyson vagarono inquieti sul lavandino sbeccato davanti alla branda,
sullo
specchio rettangolare opaco, sulla finestra piccola e lontana, sul muro
scrostato e, infine, si soffermarono di nuovo sulla porta della cella e
sulle
grate. No, maledizione, no. Non poteva resistere: era come se una furia
ancestrale gli rendesse quello spazio insopportabile, stimolandogli una
claustrofobia ridicolmente ingiustificata. No, non sarebbe stato
condannato;
avrebbe mentito e ingannato affinché il giudizio gli fosse
favorevole e, nel
giro di qualche mese, avrebbe dimenticato quella storia per sempre. Ma
allora
perché gli tremavano le mani al pensiero di essere stato rinchiuso, di nuovo?
Il
pensiero gli attraversò la mente in maniera quasi dolorosa,
ma senza trovare nessun corrispettivo nella sua memoria. Non era mai
finito in
un distretto di polizia o, peggio ancora, in una cella; non soffriva di
nessuna
paura particolare, né era a conoscenza di qualche trauma
sepolto nell’infanzia.
Eppure qualcosa, nella sua testa, gli suggeriva che si sbagliava: una
voce,
un’allucinazione che non sparì nemmeno quando
infilò letteralmente la testa
sotto il getto d’acqua fredda del lavandino. Era
già notte, ormai. Le luci si
erano spente da un paio d’ore e sulla branda disgustosamente
cigolante non
riusciva a dormire. Si ero messo in testa che il suo disagio non
dovesse
trasparire in nessun modo ai poliziotti di turno, perché non
desiderava
affilare lui stesso le armi di quel gran bastardo del detective. A un
tratto,
però, l’oscurità iniziò a
prendere forma. Le ombre si allungarono, si
incrociarono, fino a congiungersi in una figura che pareva quasi umana.
Si alzò
di scatto battendo le palpebre. Sperava, forse, che
quell’immagine si
dissolvesse di fronte ai suoi occhi e l’allucinazione
sparisse. Ma quando li
riaprì, vide invece che la zona buia aveva assunto quasi la
forma di una
sagoma, che sulla testa si allungavano come due lunghe zanne, anzi no,
corna.
Un elmo, del colore dell’oro, ecco cos’era, e
intravide nel buio abiti di
velluto, cuoio e placche di metallo Due occhi, brillanti come smeraldi,
gelidi
come ghiaccio, lo fissavano divertiti; un sorriso sghembo su un viso
affilato,
così simile al suo, si prendeva gioco di lui; i capelli,
scuri e scarmigliati, gli
ricadevano sulle spalle. Era ancora avvolto
nell’oscurità.
“Chiedimelo,”
ordinò l’ombra con voce tagliente.
Si
stropicciò le palpebre e poi, spinto da una forza che non
riconobbe come sua, sentì la sua voce domandare.
“Chi sei tu?”
“Io
sono te” rispose pronta l’apparizione con un
ghigno. “Ho
dormito per lungo tempo, ho attraversato molti luoghi. Ma finalmente mi
hai
svegliato, ti sei svegliato.”
“Chi
sei tu?” domandò ancora, con una punta di
disperazione
nella voce, vincendo l’irresistibile impulso di tempestare la
porta della cella
di pugni, chiamare le guardie, farsi portare via, lontano da
lì, nella luce
calda e confortevole dell’infermeria.
“Io
sono Loki, il dio degli inganni e dell’astuzia. Porto il
caos ovunque vada. Mio era il compito di aiutare gli Aesir quando erano
in
difficoltà; mio il compito di turbare la quiete che regnava
su Asgard e sui
Nove Mondi. Mio il compito di scatenare con i miei poteri e i miei
inganni, il
Ragnarok, gettando la tiara di Surtur nella Fiamma Eterna. Mi sono
liberato
dalle mie catene impossibili da distruggere, dal veleno del serpente
che
corrodeva la mia carne di Ase e, al timone di una nave rubata, dalla
lontana Sakaar
con un esercito indegno ho raggiunto Asgard. E lì, come
filato dalle Norne, il
tempo degli Aesir è giunto, il Crepuscolo degli
dèi è iniziato e si è concluso
con l’oscurità scaturita da Hela e che tutti noi
ha inghiottito. Odino e Fenrir,
Thor ed Heimdall e, infine, persino io.” L’ombra si
accigliò, il suo sguardo si
perse nel vuoto tentando di recuperare un ricordo perduto, sbiadito,
lontano.
“Fu il Titano,” decise soffiando appena il nome
proibito dalle labbra.
“Perché
sei qui?” tremò l’altro, mentre la
lucida
consapevolezza di non essere in grado di chiamare aiuto, ma solo di
ascoltare,
si faceva strada nella sua mente annebbiata dalla paura.
Il
dio degli inganni fece una smorfia. “Noi Aesir siamo
morti, il tempo di Asgard si è compiuto, è
finito. Eppure, le nostre anime non si
sono annullate nello scontro con il Titano. Hanno continuato a vivere,
come
piccole scintille nel buio, in questo mondo così misero e
meschino. A volte, ci
siamo svegliati. Altre, abbiamo semplicemente dormito, la nostra
essenza è
rimasta sopita.”
L’ombra
fece un passo verso di lui e di nuovo sorrise, ma
stavolta egli vide che il dio degli inganni aveva delle piccole
cicatrici
intorno alle labbra.
“Ma
tu, proprio tu mi hai svegliato. Facendoti rinchiudere
in questa cella, tramando per uscire, disperandoti per la mancanza di
libertà,
hai rievocato desideri che furono anche i miei. È in
virtù di questa
condivisione che mi vedi qui, ombra di fronte a te, pronto a recuperare
ciò che
fu mio appannaggio.”
Si
era guardato allo specchio
per tutto il tempo.
Il
bicchiere d’acqua poggiato sul tavolo gli fece pensare
che avrebbe desiderato ci fosse un corno d’idromele, al suo
posto. Gli avrebbe
bagnato la gola con il suo sapore acre e intenso e sapeva di Asgard, di
casa.
La porta si aprì cigolando e Thor gli si sedette davanti.
Indossava un
impermeabile stazzonato e fradicio di pioggia, sotto il braccio teneva
un
fascicolo da cui spuntava qualche foglio stropicciato, in una mano
reggeva una
tazza di caffè.
“Dormito
bene?” gli chiese senza guardarlo in viso.
Loki
Laufeyson si inumidì con lentezza le labbra sottili,
beffarde. Il primo istinto fu quello di spaccargli la faccia su quel
tavolo e
chiedergli perché e quanto gli era costato,
quell’atto sconsiderato. Si accorse
di tremare e poggiò le dita eleganti, di mago, sulla
superfice ruvida del
tavolaccio. Non era il momento di rivelarsi, non ancora. Doveva capire
le
intenzioni di quello che in un altro luogo, in un altro tempo, aveva
chiamato
fratello e crogiolarsi nel goffo tentativo che Thor stava mettendo in
atto:
qual era il fine, lo scopo di quella pagliacciata?
“Come
un re,” ghignò sollevando leggermente il mento.
La
risposta attirò l’attenzione del tonante. I suoi
occhi
blu si soffermarono un istante di troppo nei suoi, i sensi
all’erta,
suggerendogli per un solo istante l’idea che
l’ingannatore fosse tornato. Gli
squadrò il viso pallido, tentò di decifrare il
leggero sorriso che gli piegava
le labbra sottili. Che differenza c’era, tra il fratello che
aveva combattuto
con lui e contro di lui e quell’uomo tronfio e sicuro di
sé? Il giorno prima,
durante l’interrogatorio, gli era sembrato che
l’aderenza tra il prima e il
dopo fosse qualcosa di perfettamente combaciante eppure profondamente
diverso.
Il rampante trafficante senza scrupoli – perché
questo era diventato Loki –,
aveva nascosto il disagio di trovarsi lì e, soprattutto,
mascherato abilmente
la paura sotto una coltre di palpabile indifferenza e palese sprezzo.
Adesso,
invece, Thor era quasi pronto a giurare che Loki non lo temesse affatto
né
fosse particolarmente colpito dalle carte inumidite che aveva posato
accanto a
sé. Del resto, il dio dell’inganno lo aveva
raggirato e contrastato persino
quando stringeva ancora tra le dita il Mjollnir, non risparmiandogli in
nessuna
occasione le sue battute pungenti, irriverenti, gonfie di sarcasmo, a
volte di
tristezza. Gli allungò un pacchetto di sigarette mezzo
vuoto. Loki ne estrasse
una quasi con circospezione, Thor sfilò rapido dalla tasca
l’accendino e lo
fece scattare mentre l’altro si sporgeva verso di lui. Lo
vide saziarsi di
quella prima boccata, la migliore, e sederglisi sfacciatamente davanti
con il
suo solito piglio arrogante.
“Proseguiamo
con questa farsa, detective?”
“Credevo
che una notte al fresco ti avrebbe reso più, come
dire? Collaborativo, ecco,” prese tempo Thor.
L’ingannatore,
o ciò che ne rimaneva, ghignò divertito,
diede un’altra lenta boccata alla sigaretta, si
sistemò meglio sulla scomoda
sedia di legno.
“I
miei avvocati. È un mio diritto. Dove sono?” lo
incalzò.
“Non
possono venire, stamattina. Forse più tardi, nel
pomeriggio,” mentì in fretta.
Un
guizzo, negli occhi verdi di Loki, avvertì Thor che la
sua scusa ovviamente non era stata accettata. Il giorno prima, lo
sprezzante ingannatore
reinventatosi senza saperlo signore della guerra, non avrebbe saputo
celare
completamente il fastidio per quell’evidente trappola che gli
veniva tesa. Ma
adesso, nella calma serafica della lingua d’argento di Asgard
c’era come una
consapevolezza nuova, un disincanto amaro che gli fece schiacciare nel
posacenere la sigaretta ancora a metà dopo solo un paio di
boccate distratte,
come se il vizio terrestre gli fosse diventato improvvisamente
insopportabile o
non necessario.
E
così era, in effetti, perché Midgard è
un atomo opaco di
male, un puntolino celeste nella vastità di un universo in
pezzi che esiste
ancora solo perché, in mezzo al fuoco e alla distruzione di
una guerra assoluta,
a Loki era venuta in mente un’idea pericolosa, ma brillante.
L’aveva sibilata a
suo fratello, che non sapeva se levare la sua arma con o contro di lui,
come
sempre. Ricordò vagamente di aver sorriso, mentre
pronunciava le frasi che
avrebbero contribuito a salvare l’universo e concluso
definitivamente la sua –
la loro – vita.
***
Sarebbe
stato il suo ultimo inganno. L’atto finale di una
tragedia che li avrebbe definiti come i protagonisti fieri e indiscussi
di una
lotta sproporzionata e impossibile anche solo da considerare, ma che in
fondo
sarebbe stato bello poter combattere. Non lo aveva fatto per vendicare
Asgard,
né per tendere un’ultima volta la mano a quel
fratello amato e combattuto una
vita intera con cui aveva giocato, combattuto, sofferto, riso.
L’unico
frammento di una famiglia sgangherata del cui affetto non aveva
dubitato mai,
neppure quando avevano incrociato le armi, nemmeno dopo che il vetro
spesso di
una prigione li aveva divisi.
“Da
che parti stai, adesso?” Thor lo aveva guardato con
l’unico
occhio che gli era rimasto, in allerta. Non assomigliava a Odino
nemmeno con
quell’aspetto. Lo sguardo di Padre Tutto era stato rapace,
gelido, carico di
una sottesa ironia che era venuta meno solo sulla scogliera midgardiana
di un
luogo chiamato Norvegia e assomigliava vagamente ad Asgard, la
bellissima e
perduta patria degli Aesir dispersi.
La
pupilla del dio del tuono, invece, aveva la durezza di un
guerriero, ma continuava a essere illuminata dalla meraviglia
dell’innocenza.
Loki si era ritrovato ad ammirare nel viso del fratello quella che in
passato
aveva chiamato all’occorrenza ingenuità,
stupidità, indifferenza persino.
Intorno a loro, l’Universo tremava.
“Dalla
mia. L’unica possibile, la sola che ha senso,”
aveva risposto
allargando le braccia. Tra le dita agili stringeva una coppia di
pugnali
affilati, scintillanti. Armi adorate e preferite su tutte, che teneva
sempre
addosso e ora, si rese conto fissando il bicchiere d’acqua e
il posacenere con
il mozzicone dentro, gli mancavano disperatamente. Cos’era
successo? La memoria
ancora aggrovigliata, a fatica lo riportò indietro nel
tempo, lontano da
Midgard e da quella stanza spoglia con le pareti scrostate.
Le
galassie erano in fiamme, le Gemme riunite, Thanos più
potente che mai. “La tua? Che significa?”
tuonò Thor, incapace di dimenticare
l’inevitabile sollievo provato quando lo aveva visto correre
in suo aiuto,
terrorizzato dai repentini mutamenti di quel suo fratello sfuggente e
inafferrabile, sarcastico e ambiguo.
Loki
aveva ancora addosso i segni della punizione del Titano.
Lo zigomo escoriato e la fronte appena sfregiata ne accentuavano la
bellezza
feroce, la pericolosità: a cosa aveva dovuto rinunciare, per
avere salva la
vita? Quante verità aveva confessato, menzogne inventato,
per godere di
un’occasione, una soltanto, per essere di nuovo sul campo di
battaglia? Lo vide
muoversi con eleganza sulla terra ricoperta di macerie e resti di altri
combattimenti, avanzando sicuro con il passo lieve con cui aveva
attraversato
la sua vita breve, ma complessa, contorta come i ragionamenti dietro
cui si
perdeva.
L’ingannatore
arricciò le labbra in una smorfia leggera,
roteò i pugnali tra le dita agili. Avrebbe voluto parlargli
di Thanos, forse.
Confessare cos’era per lui e quante volte aveva pensato al
suo nome con
terrore, ma ritenne che il Titano avesse già mostrato se
stesso all’arrogante
fratello, e valutò una risposta diversa, più vera
e sincera, probabilmente.
Provò a spiegargli il caos, allora. Quella caratteristica
che era rimasta
appiccicata al suo nome, suggerendo e rivelando una parte del suo
spirito che
non poteva essere domata né controllata. La sfolgorante e
cruda neutralità che
caratterizzava ogni suo gesto, pensiero, respiro.
“Se
ti dicessi che combatterò per l’Universo, la pace,
la
giustizia, sarei nient’altro che un terribile ipocrita,
fratello. Un derelitto
senza più nulla in mano, che si sciacqua la bocca con
termini altisonanti. Che
vuol dire, salvare l’Universo? È poi davvero
giusto farlo?” i suoi occhi
vagarono nella desolazione di quello spicchio di terra lontana e
dimenticata,
ammirandone la bruttezza. “Chi siamo noi, per decidere che il
progetto di
Thanos è sbagliato?”
Thor
imprecò, calciò via l’elmo spaccato e
riverso a terra
di un soldato morto chissà quando. Non desiderava stare a
sentire le
farneticazioni prive d’importanza di Loki. La sua lingua
bugiarda avrebbe
saputo irretirlo, confonderlo, raggirarlo, e il tonante si sarebbe
ritrovato
solo e beffato su quello spiazzo desolato, le spalle tragicamente
scoperte.
L’eco della risata del dio degli inganni gli avrebbe ferito
le orecchie
confermandogli quello che già sapeva: non si sarebbe fatto
scrupolo alcuno di
infilargli i pugnali dritti nella schiena, all’occorrenza.
Gli gridò di stare
zitto e di combattere.
Loki
scosse il capo desolato, divertito. “Voglio che tu
capisca perché lo faccio, perché questa
è, ragionevolmente,
la mia ultima battaglia, Thor.”
A
volte la voce arrochita di suo fratello aveva una nota
dolce, comprensiva, consolante decise il dio del tuono.
Abbassò l’arma che
stringeva tra le dita, mero surrogato del perduto Mjollnir, colpito dal
tremore
quasi impercettibile nascosto in quel ragionevolmente,
stupito dalla sfumatura di azzurra tristezza che aveva velato lo
sguardo
altrimenti sempre ironico di Loki.
C’era
un’urgenza, in quegli occhi, mai vista o riconosciuta,
perché Thor era stato molte cose, nella sua vita, ma in fin
troppe occasioni si
era rivelato superficiale, disattento, come quando era stato incapace
di vedere
la tragedia che consumava la Casa di Odino. Si chiese se Loki avesse
avuto
quell’espressione anche quando si era recato nella gelida
Jotunheim offrendo,
ai Giganti di Ghiaccio, il segreto del nascondiglio che collegava il
loro mondo,
oscuro e impietoso, alla fertile Asgard. Inutile domandarselo, adesso.
Mezzo
universo sarebbe stato spazzato via, l’altra metà
avrebbe finito per
appartenere al Titano e loro erano lì, su quel pianeta morto
e funestato dalla
guerra. Non aveva importanza rievocare scontri e tradimenti, dolori e
vendette.
Erano stati avversari, ma anche e soprattutto alleati. Loki poteva
svanire da
un istante all’altro dalla sua vista rivelandosi solo
l’ombra beffarda di un
corpo nascosto chissà dove, sarebbe stato capacissimo di
tradirlo e rifugiarsi
in qualche anfratto perduto dove avrebbe continuato a sopravvivere, ma
queste
non erano le uniche alternative che aveva, su cui oscillava. Glielo
disse il
sorriso appena accennato delle sue labbra sottili e beffarde, il modo
lento in
cui gli si avvicinava, l’aria scarmigliata, anche.
Thor
deglutì. “La nostra.
La nostra ultima battaglia. E puoi fare la differenza,”
puntualizzò tendendogli
idealmente la mano lontana.
Il
dio dell’inganno e delle beffe parve valutare quel gesto
come aveva fatto in un altro luogo, in un altro tempo, quando quello
stesso
fratello gli aveva offerto a muso duro la possibilità di una
vendetta
necessaria. Mentiva, ovviamente. La decisione era già stata
presa, l’ago della
bilancia inesorabilmente pendeva da un lato. Morire liberi è
meglio che morire
da schiavi, e il Titano non si circonda che di questo: sgherri
compiacenti,
servitori zelanti. Loki era nato per essere Re, non per crepare come un
qualunque vassallo in una galassia dimenticata.
“Combattere
per un alto fine,” rifletté ad alta voce come se
la decisione non fosse già stata presa, “non
è qualcosa che mi appartiene. È
vuota retorica, nient’altro. Non c’è
più niente, nessuno per cui valga la pena
sacrificarsi. Non avremo spettatori che canteranno le nostre battaglie,
non
verremo ricordati come i salvatori dell’Universo e,
francamente, è anche
piuttosto indubbia la riuscita del nostro eventuale piano,”
puntualizzò. “Affrontarlo
oggi è follia” ammise.
Forse
sarebbe dovuto tornare da Thanos e lasciare che Thor
compisse il suo destino di eroe senza macchia né paura;
l’ago della bilancia
poteva ancora oscillare dalla parte opposta a quella dove ora pendeva e
Loki
avrebbe avuta salva la vita, almeno per un po’. Solo che
qualcosa lo frenava
inchiodandolo lì, tra il fango e le placche spezzate e
arrugginite di armature
sconosciute e sbeccate. Non era solamente l’idea che il
merito di una
remotissima vittoria di suo fratello sarebbe andata solo a lui, a
bloccarlo e a
irritarlo, ma qualcosa di diverso: un pensiero più subdolo e
ingiusto che gli
grattava le viscere e il petto dall’interno. Se Thor
sceglieva di farsi
ammazzare combattendo contro Thanos in persona, lui non poteva rimanere
lì a
guardarlo impugnare le armi da solo. L’idiota si sarebbe
sacrificato in maniera
stupida, ridicola, inutile, e a lui sarebbe toccato raccogliere i cocci
di
quell’azione priva di discernimento. Eppure, nel momento
decisivo, mentre il
dio del tuono gli offriva per l’ennesima volta la mano,
esitò.
In
passato, Thor avrebbe accusato Loki di essere un
vigliacco, di non avere il coraggio di lanciarsi nella mischia. Avrebbe
confuso
la ragionevole prudenza con la paura. L’erede di Odino non
sarebbe ricaduto più
in un errore tanto banale, ma su quel campo di battaglia distrutto e
sconquassato s’innervosì ugualmente,
perché detestava pregare e corteggiare suo
fratello. L’inganno ai suoi occhi era stato rivelato, Loki
voleva vendicarsi di
Thanos e non ci teneva a venire calpestato come un subalterno
qualsiasi.
Preferiva lottare da principe degli Aesir offeso, che strisciare nel
fango.
“Meritare
il Valhalla, Loki. Sistemare le questioni in
sospeso che hai,” gli suggerì dando alle parole
un’urgenza nervosa, una durezza
da comandante che l’altro decisamente apprezzò e
ben conosceva.
Lo
sguardo di Lingua d’Argento si scostò dal suo e
vagò
sulla terra brulla, sul fango intervallato dalla roccia, sui resti di
armi e
ossa e cuoio. Il Valhalla era qualcosa cui Loki aveva rinunciato, che
aveva
deciso di depennare dalla sua esistenza e non gli sarebbe comunque
spettato,
perché le regole che ne determinavano l’accesso le
aveva disattese e infrante,
tutte. Solo i grandi guerrieri e gli eroi potevano accedervi. Una volta
dentro,
avrebbero brindato con il migliore idromele, rievocando le battaglie
che li
avevano visti protagonisti. Retorica vuota, insipida, che alle orecchie
di
Lingua d’Argento suonava falsa più della sua
peggiore menzogna.
“Ne
ho decisamente troppe fratello, mi spiace,” scosse la
testa.
“Andartene
da eroe, maledizione!” esplose Thor. “Sai qual
è
la cosa giusta! Non saresti qui, altrimenti!”
Gli
eroi, avrebbe voluto spiegare a Thor, al suo ingenuo e
irresponsabile fratello, sono la favola che i potenti raccontano agli
sciocchi
prima di mandarli al macello. La scusa con cui riempirsi la bocca per
giustificare atti indegni che, se solo fossero stati guardati con
più
attenzione – o da una diversa prospettiva –
sarebbero apparsi per ciò che
erano: gesti nefandi, violenti, che trovavano una ragion
d’essere solo
nell’eterna prevaricazione del forte nei confronti del
debole. La storia e i
poemi epici sono scritti dai vincitori, fratello, e quelli che
chiamiamo eroi
spesso non lo erano affatto o sono morti male, perché
ricorda, Thor, tieni a
mente questo: il vero eroe alla
fine
muore, muore sempre, e io non voglio crepare, non ne ho nessuna
intenzione, e
nemmeno tu dovresti.
Ma
il dio dell’inganno scelse di dirgli altre parole e,
poiché erano le ultime che si scambiavano e lo sapeva,
scelse di usare un tono
distante, frettoloso, per nulla adatto alla circostanza.
Così si esorcizza la
paura, tra gli Aesir: ignorando il pericolo, beffandosi delle
asperità,
alleggerendo la tensione, forse.
“Eroe,”
gli fece eco Loki
accostandoglisi finalmente. “Ho una mia personale teoria, che
non ci sono eroi
e mostri in questo mondo. E neanche negli altri. Esistono solo
individui imperfetti
governati da passioni più o meno lecite, vizi e
virtù. Un Universo abitato da
gente discutibile, insomma,” sentenziò roteando i
pugnali affilati, lucidi e
scintillanti.
Thor
si fermò un istante a guardarlo, aggrottò la
fronte. “Allora
perché stai dando la tua vita per loro come un
eroe?” domandò alzando finalmente
l’ascia.
Il
dio dell’inganno buttò il capo
all’indietro e rise di
gusto, come era solito fare ai banchetti di Odino quand’erano
ancora ragazzi. Nel
pianeta distrutto e vicino al collasso, quella risata suonò
inadatta e strana. “La
bellezza sta nell’imperfezione, nel caos, nel
disordine,” spiegò.
Thor
annuì e Loki gli espose di nuovo il piano folle che
aveva architettato per vendetta, rivalsa, giustizia e mille altre cose,
ma
soprattutto per se stesso, e per lui, forse.
“Devo
essere davvero disperato, per aver accettato questa
tua idea deficiente,” commentò sconsolato.
Loki
ricordò di aver sorriso. “Quando
iniziamo?”
***
Il
mozzicone sigaretta aveva smesso di esalare il suo fumo
amarognolo. A Thor sembrò che lo sguardo di suo fratello
fosse tornato a essere
come il suo, antico e consapevole come chi ha vissuto secoli, giovane e
fresco
come chi ha davanti a sé ancora tanti anni da vivere da
dirsi quasi immortale.
Lingua
d’argento sorrise. “Allora, detective, quando
iniziamo?” domandò inclinando appena il capo da un
lato.
Il
dio del tuono impallidì sentendo quella frase, osservando
il modo in cui l’altro l’aveva pronunciata. Gli
ricordò un’altra prigione, ma
soprattutto un diverso e decisivo momento. Si riscosse.
“Facciamola finita,
adesso. Hai avuto il potere, il denaro, ogni cosa. Patteggia, aiutaci a
smantellare lo schifo in cui ti sei immischiato. Fai la cosa
giusta.”
Loki
finse di sorprendersi per l’improvvisa richiesta e si
accomodò meglio sulla sedia. “Vuoi che faccia
l’eroe? Lascia che ti dica la mia
personale…”
“Credo
di conoscerla, la tua personale teoria,” lo bloccò
Thor. Avrebbe voluto dirgli molte altre cose, ma non ne ebbe il tempo.
La porta
si aprì, gli avvocati entrarono, e quello che era stato suo
fratello si alzò
con un sorriso trionfante stampato sulle labbra sottili. Aveva corrotto
qualcuno, lì al comando. Tipico di Loki. Ora non poteva
più trattenerlo in
stato di fermo né fargli domande.
Prima
di andarsene, quando già era sulla soglia,
l’ingannatore
si fermò, lo fissò a lungo. “Lo
so,” concesse, e uscì in fretta.
Il
dio del tuono rovesciò il tavolo, masticò
un’imprecazione, poi si risolse a uscire dal Distretto.
Pioveva ancora. Una
pioggia fitta e scrosciate lavava la città, si infilava
nelle ossa, infradiciava
abiti e capelli. Girò l’angolo di corsa e vide suo
fratello chiuso nel suo
elegante cappotto nero di lana, circondato dai suoi legali. Quelli lo
notarono
e anche Loki si voltò. Strinse le palpebre come per
guardarlo meglio, poi
strappò dalle mani di uno degli avvocati
l’ombrello e gli si avvicinò con il
passo lieve con cui aveva attraversato questa e vita e
l’altra. Lo raggiunse.
La
sua voce sovrastò per un momento il traffico
congestionato e la pioggia battente, mentre descriveva, per
l’ultima volta, gli
intarsi del trono maestoso di Odino, gli affreschi distrutti con un
solo colpo
dalla spietata Hela, il fiordo su cui si affacciava il palazzo reale e
il ponte
dell’arcobaleno. Gli raccontò quello che era stato
in mezzo alla strada,
sull’asfalto luccicante di pioggia, sotto a un lampione
spento triste e
abbandonato e le automobili troppo vecchie che giravano per il
quartiere in
degrado. Il bel cappotto di lana di Loki era zuppo di pioggia
nonostante
l’ombrello, i capelli neri si erano incollati al suo viso, ma
quello che era
stato, in un altro luogo, in un altro tempo, suo fratello
continuò a descrivere
e a ricordare l’infanzia spensierata, la giovinezza allegra
già venata di ombre
scure, le battaglie trasformate in poemi in cui erano racchiuse le loro
gesta.
Nessuno più conosceva quei versi, poteva avere memoria di
cosa era stata
Asgard: gli Otto Regni esistevano ancora, sebbene uno dei rami
dell’Yggdrasill
si fosse invariabilmente seccato e spezzato.
Quando
il racconto finì e, assieme a lui, cessò
l’incanto,
il dio del tuono provò ad avvicinarsi al fratello, ma Loki
scosse il capo e lo
guardò con occhi offesi.
“Cos’hai
fatto, Thor?” La voce dell’ingannatore non
nascondeva una vibrazione nervosa, preoccupata, irritata persino: non
era altro
che l’eco più matura e certamente più
cupa dell’accorata esclamazione del Loki
ragazzo che cercava di trascinarlo via da qualche guaio troppo grande.
Peccato
che, esattamente come allora, il dio del tuono non fosse semplicemente
in grado
di ascoltarlo.
“Sono
sopravvissuto qualche attimo di più, credo. Una
manciata di minuti necessaria a prendere una delle gemme e chiedere di
tornare.
Mi sembrava importante,” confessò stringendosi
nelle spalle.
Loki
gli rivolse un’occhiata severa e breve, tagliente come
la sua voce. “Cosa? Avere un’altra occasione per
sbagliare?”
“Per
correggerci.”
La
pioggia mondava ogni lordura, trascinando con sé la
sporcizia e la polvere, per lasciare il posto a una città
altrettanto marcia,
ma leggermente più pulita: forse nettò anche
alcuni dei pensieri contorti che
invadevano la mente di Loki.
Il
dio degli inganni aggrottò la fronte sovrappensiero,
infine regalò a Thor un ghigno tetro, sarcastico, crudele.
“Mi pare evidente
che hai commesso un errore,” osservò indicando con
la mano libera la strada e
le facciate dei palazzi imbrattate di scritte consumate, cartelloni
staccati e
soprattutto lei, la macchina elegante che lo attendeva già
in moto. “Non
dovremmo essere qui. Tornare non era negli accordi.”
Midgard
non era Asgard, non lo sarebbe stata mai; Loki
avrebbe vissuto una vita da straniero per sempre, anche se il retaggio
degli
Aesir non era nella terra che da tempo non esisteva più, ma
nello spirito e
negli ideali di quel popolo di fieri guerrieri cui lui apparteneva,
nonostante
tutto. La dimora che era stata di Odino non sarebbe mai più
stata ricostruita,
ma qualcosa dello sfarzoso palazzo avrebbe continuato a sopravvivere
nella
memoria di entrambi. Solo che il dio dell’inganno temeva la
ciclicità del
destino, il ripetersi inevitabile di eventi, situazioni, dolori.
Sarebbe stato
meglio troncare, dimenticare, ma Thor era un sentimentale e, quando non
c’era
lui a controllarlo, finiva sempre per commettere qualche enorme
idiozia,
rifletté.
Il
tonante allargò il sorriso sornione, riconobbe qualcosa
di conosciuto nello sguardo dell’altro. “Avevamo
degli accordi? Proprio tu mi
parli di lealtà, fratello?”
La
battuta risvegliò Loki Laufeyson dai suoi pensieri.
Guardò Thor e non poté fare a meno di lanciargli
un’occhiata irritata e
sconsolata assieme, poi piegò le labbra sottili nel
principio di un sorriso
laterale che nascondeva una risata sommessa.
Fine
Specchietto
Autore:
Nickname sul
forum e su EFP: Shilyss/shilyss
Personaggi: Thor, Loki
Citazioni scelte: “Il vero eroe alla
fine muore.” ~
Aldo Busi / “Ho una mia personale teoria, che non ci sono
eroi e mostri in
questo mondo.” ~ Alfred de Vigny
Numero Parole: 6840
Note autore: Il nome del collega di Thor,
Freeman, è
un omaggio a Seven. Alcune delle battute di Loki sono quelle
effettivamente
pronunciate nel corso dei vari film. L’espressione
“atomo opaco di male” mi è
venuta spontanea scrivendo, ma è un palese calco di Pascoli
(X Agosto).
Non volevo scivolare su Infinity War, lo giuro, ma poi ho
letto le
frasi del contest di AleDic e, immediatamente,
ho
visto Thor e Loki che parlavano in mezzo a un campo di battaglia
abbandonato di
eroi, battaglie e sacrifici.
Il distretto in cui
lavora Thor come detective è di stampo statunitense; il
sospettato (Loki) può essere tenuto in stato di fermo e
interrogato per un
tempo massimo di 24 ore: trascorso questo lasso di tempo o il tonante
trova
delle prove valide o è costretto a lasciare andare il
fratello. Una tecnica per
mettere i fermati sotto pressione e che si vede spesso nei film,
è quella di
ostacolare/ritardare l’arrivo dei loro legali e ottenere, nel
mentre, una
confessione o un accordo scritto.
Vi ringrazio per
essere arrivati fino a qui,
Shilyss