Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Heyale    25/04/2018    0 recensioni
Una leggenda narra che le anime gemelle sono legate da un lunghissimo filo rosso, invisibile e indistruttibile.
Ma cosa succederebbe se agli estremi ci fossero due ragazzi che avrebbero preferito non essersi mai incontrati e se in questo filo si aggrovigliassero una moto troppo rumorosa, diverse bottiglie di alcol, il profumo della pelle e una fotografia?
Dal testo:
– Sai con chi stai parlando. – mi apostrofa, fintamente accigliato. – Se mi detestassi la metà di quanto fai credere, non saresti qui.
– Sei irritante.
– Ma ti piaccio.
***
– Fa' quello che ti pare, ma non venire a piangere da me quando sarai nella merda. – brontola, iniziando a prendere su il suo zaino.
– Cos'è, hai paura per me adesso?
La mia domanda lo spiazza, è palese da come mi fissa preso il contropiede proprio sulla porta di camera mia.
Alla fine, con una finta nonchalance, scuote la testa. – Non dire cazzate.
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Aspettami

aspettami






Alexander

– Quindi, aspetta... Tu volevi dire che ti piaccio?
– Cosa?
– Secondo i miei calcoli, “quando la smetti di strusciarti contro di me andiamo in bagno” corrisponde a qualcosa del genere.
– Secondo i tuoi calcoli. – Mike mi guarda, ammiccante, con una spiccata nota di sarcasmo negli occhi grigi. – Secondo i miei voleva dire, mh... Sì, esattamente quello.
Niente da fare, mi chiedo perché io continui ad avere a che fare con questo idiota.
– Hai una visione delle cose tutta tua.
– Io non vivo ancora nel mondo delle fate, come te.
– Meglio le fate che la strada.
Schiocca la lingua, scuotendo poi la testa per mascherare un ghigno infastidito. – Fottiti, Southwork.
Sorrido, un po' soddisfatto e un po' dispiaciuto, ma non so mai come comportarmi con un coglione del genere. Non lo sopporto. Lui, in tutta risposta, guarda brevemente dietro le mie spalle e poi rivolge gli occhi a me, brontolando: – Sarai contento, comunque.
– Mh?
– Non ci siamo nemmeno andati, in bagno.
– Erano le quattro della mattina. – gli faccio presente, aspettandomi una sua smorfia di rimando. – E tu eri ubriaco marcio, tanto per cambiare. Cosa ci avrei guadagnato?
– Una scopata?
– Romantico, Crowther.
Con una leggera risata, il ragazzo davanti a me si dondola un po' reggendosi alla staccionata che ci separa, lasciandola scricchiolare sotto le sue mani - vicine alle mie - mentre fissa da qualche parte con lo sguardo assente.
– Sai con chi stai parlando. – mi apostrofa, fintamente accigliato. – Se mi detestassi la metà di quanto fai credere, non saresti qui.
– Sei irritante.
– Ma ti piaccio.
Ruoto gli occhi al cielo, staccandomi dalla staccionata per allontanarmi da lui e, solo una volta lontano, gli rivolgo entrambi i medi delle mie mani. Non ricevo risposta, ma so che mi sta guardando.
Tanto meglio, stupido pallone gonfiato.



Michael

– Non puoi proprio starmi distante.
Colto in contropiede, Alex Southwork spalanca gli occhi scuri e mi fissa come un pesce lesso. Quasi carino, ma sempre troppo prevedibile.
– E' un caso. – si difende, asciugandosi le mani come un damerino. – Sono i bagni della scuola, sarà l'ennesima volta che ci troviamo qui.
– Ma la prima da quando hai...
– Non ho fatto niente, Crowther, non inventarti storie che farebbero comodo solo a te.
Lo fisso in maniera alquanto brutta, passandogli oltre per non dover stare a sentire altre stronzate, non evitando una spallata che gli fa perdere l'equilibrio.
– Lo sai, li odio quelli come te. Sei vigliacco. – inizio, incurante dell'eco e non preoccupandomi nemmeno del tono della mia voce, forse non ho nemmeno bloccato la porta dietro di me. – Puoi continuare a negare quanto vuoi, ma due settimane fa c'eri tu sopra di me. Non che io pretenda qualcosa, ma perché continuare a... – Apro la porta, trovandomi un gruppo di ragazzi che non ho mai visto prima davanti a me che mi fissano straniti.
Che cazzo si guardano? E dov'è quell'altro idiota?
– Ah, 'fanculo. – Mi faccio strada tra i freshmen e lascio il bagno, da solo, infilando le mani in tasca per dirigermi alla mia classe, in ritardo. Se vuole giocare a fare il coraggioso che prosegua per la sua strada, non mi interessa avere qualcosa da spartire con lui.



Alexander

Non adoro ammettere di essere gay, penso di averlo detto ad alta voce solo due volte: una da ubriaco, l'altra pure. Alla stessa persona, tra l'altro, gay come me. Mike.
Forse non adoro nemmeno ammetterlo a me stesso, ma nel momento in cui mi ritrovo attaccato alle labbra di questa suddetta persona, non posso ignorare la questione e andare avanti a pensare di essere etero, sì, con qualche dubbio a riguardo. Robetta da nulla.
Mike è esilarante, perché sotto sotto è come me ma finge di essere l'esatto opposto, mostrandosi grande e grosso nei suoi giubbotti di pelle e con la moto che sgasa come la vecchia mietitrebbia di mio padre. Una volta, al primo anno, l'ho visto impennare e poi cadere rovinosamente per terra. Poi non è più venuto a scuola per tre settimane, ma la voce si era sparsa e sapevo chi era per sentito nominare; ora so chi è perché è la lingua nella mia bocca.
E poi, dico io, tenermi con entrambe le mani sulle mie guance come i più grandi classici del romanticismo non gli si addice, per forza che dopo sono io quello a non voler ammettere le cose, perché non so nemmeno cosa devo ammettere. I bordi delle maniche del suo odioso giacchetto in pelle rilasciano un fastidioso odore da fumo che preferirei sentire dentro i polmoni che dentro le narici, ma in primo luogo riesco a sentire il sapore del puro tabacco sulle sue labbra e quello non mi dispiace, perciò sopporto, tanto non credo che la cosa andrà avanti ancora a lungo, qualche secondo e la campanella dovrebbe suonare.
Quanti giorni sono passati da quando ci sono stato così vicino, nei bagni della scuola? Quattro, forse cinque, ma non mi ha più parlato e di certo non gli corro dietro come un disperato. Mi dispero crogiolandomi comunque nella poca dignità che mi rimane, certo, perciò sono rassegnato all'idea che tutti i nostri incontri, come questi, saranno solo favore che il fato ci farà.
– Piantala di sognare ad occhi aperti, Alex. – Con un irritante sorrisetto, Mike si stacca velocemente e mi stringe le guance con la mano. – Adesso fai il bravo ragazzo, – borbotta quasi acidamente, mentre con la mano libera sistema il colletto della mia camicia. – Stira la cravatta e torna tra i banchi.
Facendo leva sulle braccia ancora attaccate alle sue spalle riesco ad allontanarmi dalla sua presa e a portarmi al sicuro. – Perché, tu non vieni? – gli chiedo, forse nemmeno curioso sul serio.
Lui, del tutto incurante, porta una sigaretta alla bocca e l'accende nel giro di qualche secondo, fissandomi per due o tre attimi prima di rispondermi: – Non credo. Torno a casa.
– A casa?
– A casa, Southwork. Vuoi lo spelling?
– Ah, fottiti. Fa' come ti pare. – Concludendo come mi riesce sempre più facile, mi giro per lasciarmelo dietro e mi incammino verso la porta per tornare alle scale, stringendomi nelle spalle, sentendomi sotto sopra per la lucidità che ho cercato di mantenere quando avrei voluto solo mandare quel coglione al diavolo.
– Perché ti preoccupi tanto? – La sua voce spezza il silenzio che era riuscito a distanziarci, riempiendo il tetto deserto di questa stupida scuola.
Perché mi preoccupo?
Io, che mi preoccupo?
– Non mi preoccupo. – rispondo, girandomi verso di lui, trovandolo con un ghigno sul viso che, sebbene abbia visto poche volte, riconoscerei tra mille.
– Sul serio?
– Sì.
Ora ride, più sincero, portandosi nuovamente la sigaretta alle labbra. – Smettila di fare il figlio di puttana.
Cerco di mantenere il mio zelo e mi costringo a non mostrargli altro che un'espressione vuota, fissandolo dalla mia distanza di sicurezza. – Pensi di conoscermi davvero così bene? Pensi che ti stia mentendo?
– Non lo penso. – ribatte a bruciapelo, senza quasi lasciarmi finire la frase. – Lo so per certo.
– Vaffanculo, Crowther.
– Io ci vado anche, a fare in culo. – inizia, venendo vicino a me, accorciando sempre di più la distanza tra di noi. – Ma tu smettila di scappare, sei ridicolo.
– Ridicolo? – ripeto, accigliato. C'è un'alta probabilità che, sebbene sia contro questo genere di soluzioni, gli salti addosso e cominci a riempirlo di cazzotti prima che lui faccia lo stesso, forse peggio.
Mike annuisce, tranquillo, spegnendo la sigaretta sotto le scarpe rovinate, guardandomi senza paura dai miseri due centimetri che ha in più di me. Vorrei tanto prenderlo e baciarlo in questo momento allo stesso esatto modo in cui vorrei picchiarlo e fargli rimangiare tutto quello che ha detto fino ad adesso, sono molto combattuto a riguardo.
– Ammettilo, scappi in continuazione ma non ti rifiuti quando è ora di baciarmi. Si chiama essere ridicoli. – continua, imperterrito, girando il dito nella piaga. – E codardi. Nonché incapaci di prendere una decisione, stupidi, senza palle. E poi...
Gli assesto un gancio sulla spalla destra, non badando a quanta forza ci metto e alla mia mano che, scontrandosi con le cerniere, si taglia. Vaffanculo anche tu, ecco.
– E tu sei uno stronzo, bastardo, nonché figlio di puttana tanto quanto me! – sbotto, incazzato nero e non curandomi della sua espressione divertita dopo il pugno e nel vedere il sangue sulle mie nocche. – Stavolta vacci, a fare in culo.
– Agli ordini, Southwork. Ma tu puoi pure scappare, – assume un tono ben poco gentile, fissandomi spaventosamente dritto negli occhi. – Perché se ti prendo dopo questo cazzotto ti faccio a pezzi.
Eccolo qua, non cambierà mai. Ci guardiamo in cagnesco per un'altra manciata di secondi e poi faccio come richiesto, prendendo la porta e andandomene da lui. Se vuole giocare a chi è più forte, allora posso tranquillamente lasciarlo giocare da solo, sono sicuro che la mia assenza potrebbe essere un avversario ben più temibile di me.



Michael

Parcheggio la moto proprio davanti al cancello, restandone a cavallo col casco appoggiato sulle mie ginocchia aspettando che Alex si decida ad uscire. Sono già due settimane che non lo vedo e non so nemmeno perché io sia qui per lui adesso, non ho molto interesse nell'avere tutti i conti messi a posto con le persone e non vedo perché stavolta non abbia funzionato e io mi ritrovi qui ora, di fronte all'uscita della mia ex scuola, nell'attesa di vedere quel biondino per poterci scambiare due parole.
Parole, non saliva. Per questa volta.
Almeno credo.
Tutti gli sguardi che ricevo da quelli che due settimane fa erano i miei compagni di classe mi scivolano addosso, non ci faccio caso e nemmeno mi impegno a corrucciare le sopracciglia, non ho voglia di fare nemmeno quello; vorrei solo che quella testa di cazzo uscisse da lì, parlare, e poi andarmene a mangiare un cazzo di hamburger perché sto morendo di fame.
– Ehi, Crowther.
Mi giro quasi sorpreso, ma ovviamente non è Alex e mi ritrovo davanti uno dei tanti coglioni con cui ho fatto a botte. Aspetta, come si chiamava...?
– Ehi. – Restiamo sul vago, va sempre bene. – Tu saresti?
– Uno che ti deve qualche cazzotto.
– Ah.
– Ci sistemiamo ora o...
Alzo le mani per bloccarlo, ho anche una certa fretta. – Aspetta, scusa, ricordami il motivo.
Il tipo mi guarda stranito, quasi deluso, ma continua senza destare troppi sospetti. – Tre sabati fa, al pub. Ero con la mia compagnia, ne hai atterrato uno.
Provo a fare mente locale, poi l'illuminazione: – Ma certo! La testa di cazzo che mi voleva rubare il drink. Dio, avrei dovuto romperglielo in testa il bicchiere.
Mister muscolo di fronte a me sbuffa, rivolgendo gli occhi al cielo come se stesse parlando con un bambino. – L'hai fatto.
– Ah sì?
– Già.
– Allora ho fatto bene.
– Sei un uomo morto, Crowther.
Non riesco a trattenere un sorrisetto che mi nasce sul volto, giusto il tempo di voltarmi per un istante e vedere Alex che mi raggiunge a passo sostenuto e quasi perdo l'equilibrio per il pugno che entra velocemente in collisione con la mia mascella. Non scherzava, il ragazzone.
Alex spalanca gli occhi e si mette a correre come una donnetta, che imbarazzo. Mi dispiace per lui. Che cazzo si preoccupa? Due secondi e rimonto in sella, dandomi lo slancio per colpire a mia volta il coglione che ha iniziato, che finisce a terra con uno sguardo truce. Oh no, questo non ha mica finito.
– Monta. – ordino all'idiota che mi fissa con le iridi scure spalancate, passandogli il mio casco.
Lui, stordito, non capisce. – Cosa? Che diavolo ci fai qui? Chi cazzo è questo tipo?!
E sì che non era un messaggio complesso.
– Monta!
– Suona male!
– Maledetto figlio di puttana, sali sulla moto! – Afferro malamente la sua manica e lo tiro verso la moto, lui sembra salire come se forzato a fare la peggior cosa del mondo. Gli sto salvando il culo, in fondo. Accelero senza preoccuparmi delle macchine dietro di me e mi immetto nella carreggiata controllando che mister muscolo sia ancora a terra, sperando che non sia abbastanza lucido per ricordarsi la targa.
– Cazzo! – esclama improvvisamente Alex, dietro di me, stretto ai miei fianchi. – Non hai il casco!
Mah, ho a che fare con un deficiente, poco ma sicuro.
– Vaffanculo! – rispondo, accelerando ancora di più. – Tu aggancia meglio quello.
Batte un pugno poco efficace sulla mia schiena, ma poi si rende conto che facendo così rischia anche la sua vita e si limita ad un grugnito, allentando la presa sui miei fianchi.

Finalmente accosto in un vicolo sconosciuto, dovremmo essere abbastanza distanti. Alex scende dalla moto abbastanza atleticamente, ho già potuto osservare le sue doti e non se la cava male, perciò non mi sorprende il suo atterraggio e la sua nonchalance nello sfilarsi il casco per poi passarmelo con un'espressione atroce verso di me. Ops.
– Si può sapere che cazzo fai? – mi aggredisce immediatamente, allungando poi la mano verso il mio viso. – Perdi anche sangue dal naso.
D'istinto caccio via il suo braccio e lo guardo altrettanto male. – Non sono una checca, Southwork. Non ho bisogno della crocerossina.
– Allora vaffanculo. – si difende a sua volta, allontanandosi e tornando a sedersi sulla moto. – Quindi? Perché sei qui?
Lo fisso per qualche secondo, è inesorabilmente affascinante anche se con le guance rosse e le mani intrecciate per il nervosismo e nonostante continui a mettere quelle odiose camicie a quadri da tipico ragazzo americano. Gialla a quadri neri, è legale?
– Per parlare. – dico alla fine, appoggiando le spalle al muro dietro di me per avere Alex di fronte, passandomi la mano sul naso per pulire il rivolo di sangue.
– A me pare più un rapimento.
– Chiudi quella bocca o ti meno. – lo minaccio, guardandolo male. – Mi sono ritirato dalla scuola.
Un'espressione allarmata appare sul suo viso arrossato mentre l'agitazione diventa sempre più visibile attraverso tutti i movimenti frenetici del suo corpo; lui però non sembra voler parlare.
– Mi sono stancato. – proseguo, atono. – Ho troppi problemi.
– Tu sei i problemi. – borbotta, incrociando le braccia, quasi arrabbiato. Che simpaticone. – Cosa pensi di fare?
– Non lo so.
– Quindi molli e basta?
– A quanto pare.
Vedo che non ha finito di parlare ma non riesce a dire ciò che gli preme di più, le labbra strette di loro intente a trattenere la fatidica frase che mi aspetto da lui.
– Okay, riportami a casa.
Oh, non era questa la frase.
– Cosa? – domando, sentendomi un cretino.
– Riportami a casa. – ripete, calmo, salendo a cavallo della moto e rimettendosi il casco. Ah, vuole fare il melodrammatico? Vuole un po' di teatro?
'Fanculo.
Salgo anch'io sulla moto, non aspettando più di cinque secondi prima di essere di nuovo in strada. Alex non si stringe più ai miei fianchi, piuttosto ai lembi del mio giubbotto e si guarda in giro come se tutto il paesaggio fosse molto più interessante del mio riflesso sullo specchietto retrovisore. Se pensa che ci resti male o che rifletta sul senso della vita dopo che non mi ha dato soddisfazioni si sbaglia di grosso, il ragazzo. Domani non mi ricorderò più nemmeno il suo nome.



Alexander

Non mi sono mai definito un tipo da discoteca, piuttosto un tipo da discoteca quando Michael Crowther è nei paraggi. Ma stavolta no, mister faccio casini con tutti e poi mollo per strada il ragazzo che ha una palese cotta per me non l'avrà vinta e io mi divertirò come se non ci fosse un domani con i miei amici, bevendo e ballando. Sono sicuro che sarà una seratona, uscirò da questa discoteca alle nove della mattina e per il resto della notte non penserò a nulla.
– Ehi, amico, stai bene?
O così spero.
– Cosa? – Alzo lo sguardo dal bicchiere al mio nuovo interlocutore, un uomo sulla trentina con una bottiglia di Gin stretta tra le dita. Sto per dirgli che è un ubriacone del cazzo e che mi deve lasciare stare, ma poi mi rendo conto che è il barista e che sto praticamente dormendo sul suo bancone. Meglio che me ne stia zitto.
– Sei depresso? Sembri molto depresso. Cos'è, la ragazza ti ha mollato? Non sie riuscito a rimorchiare? Non...
– Aspetta un attimo Sherlock, ti sembro una cazzo di persone che ha voglia di subire un interrogatorio?
Quasi divertito, Barba Nera sorride. – No, ma almeno ora non dormi più.
– Ah, vaffanculo pure tu. – rispondo, finendo quel poco che è rimasto nel bicchiere di fronte a me.
– E' la ragazza, vero?
Sarei tentato di rispondergli “sì, tua madre” ma penso che sia meglio non cercarmi rogne se sono in questo stato perciò mi limito ad annuire. – Ragazzo. – lo correggo.
– Ragazzo?
– Sì. Sono gay. Sono gay ma non dovrei perché Mike è solo un grandissimo pezzo di merda che sparisce. Prende e se ne va. Come la battuta del film della Disney, sulle cavallette.
Il barista è ora molto confuso, appoggia la bottiglia davanti a me e mi guarda con uno sguardo impietosito. – Non so cosa tu abbia detto, ma ti regalo la bottiglia. Riprenditi, ragazzo.
Ah, non mi è andata neanche male. Mi perdo così a guardare il mio nuovo tesoro e un istante dopo ci sono già attaccato, trangugiando tutto d'un fiato. Quanto ce n'era dentro? Mah, chi se ne importa.
Però non mi sento molto bene.
Provo ad alzarmi, ancora peggio. Oh cazzo.
Mi faccio largo tra la folla senza sapere come, prendo qualche schiena sul naso che comincia a farmi male ma non ci penso, sono troppo occupato a non vomitare in loco. Seratona stasera, assicurato.
Nei bagni non c'è quasi nessuno, non mi preoccupo nemmeno di chiudere la porta e mi inginocchio davanti al water, iniziando a far uscire tutto ciò che ho nello stomaco. Carino. Oltre alla musica si sentono gli schiocchi della lingua di una coppia che sta elegantemente pomiciando all'angolo e i miei apprezzabili conati, spero che nessuno entri per un po' di tempo.

– …nti... er... ex... Alex... Alex!
Una pacca sulla schiena mi riporta alla realtà, facendomi risvegliare con la testa praticamente nella tazza. Che cazzo è successo?
In bocca ho un sapore orribile, a giudicare da cosa vedo sotto di me penso di aver espulso anche la cena di una settimana fa, Cristo santo.
– Hai bevuto giusto un po', mh?
Dimmi che è il barista ed è la volta buona che lo pesto.
Pensandoci però il barista non sa il mio nome, sa solo che sono ubriaco.
Oh cazzo.
– Mike?
– Buonasera, imbecille.
Come rinvenuto tutto d'un tratto giro il volto e mi ritrovo l'enorme testa di cazzo di fronte a me, i capelli neri tirati indietro e il giubbotto in pelle senza nemmeno una piega. Questa è una maledizione.
– Che ci fai qui? – gli chiedo, provando ad alzarmi. Lui, come niente, sta a fissarmi senza nemmeno preoccuparsi che forse potrei avere bisogno di un aiutino. Che cazzo ci sta a fare qui con me se non è capace nemmeno di tendermi la mano?
– Ho sentito che parlavano di un tipo che stava vomitando l'anima, non ci ho messo tanto a capire che si trattava di te. Bob mi ha detto che c'era un ragazzo biondo che ha parlato di un certo Mike.
– Bob?
– Il barista.
Ah, maledetto Bob.
– Sto bene. – mento, superandolo per andare verso il lavandino per poi metterci sotto direttamente la testa dopo essermi sciacquato la bocca, sentendo l'acqua fredda che mi bagna i capelli fino a gocciolare sulla maglietta. Ora sì che si ragiona.
– “Bene”. – ripete lui, sarcastico, chiudendo l'acqua del rubinetto. Oh sì, è senza dubbio più importante abbassare la leva di un rubinetto di aiutare una persona che non sa nemmeno stare in piedi.
Non posso fare a meno di guardarlo male, passandomi una mano tra i capelli bagnati per sistemarli quel giusto che basta per andarmene fuori di qui ma prima che possa varcare la porta d'uscita la mano di Mike si serra sul mio polso. Perfetto, mancava il melodramma stasera.
– Che vuoi? – gli chiedo, ma i suoi occhi non promettono niente di buono.
– Sei eccitante anche se hai appena vomitato. – E' la sua inutile risposta, mentre si avvicina pericolosamente a me. Oh no.
– Non ci provare nemmeno. – lo minaccio, ma nemmeno tre secondi dopo mi ha spinto dentro un box con le labbra attaccate alle mie e le mani sul mio torace. Okay, missione compiuta, stasera è andata proprio come doveva.



Michael

Il telefono continua a suonare, posso anche immaginare chi sia ma non riesco a controllare se nel frattempo mister muscolo di due settimane fa continua a colpirmi. Ho scoperto che si chiama Victor, che frequenta un'altra scuola, che ha un forte senso dell'amicizia e che ha un gran bel destro. Io, da piccolo ometto riottoso quale sono, non potevo stare fermo mentre il mio nuovo amico Victor continuava a sbattermi a destra e a sinistra perciò ora è diventato un affare di Stato ed è da quasi un quarto d'ora che sto cercando di non prenderle troppo nel retro di questo bar. Non capisco perché non sia venuto il tipo a cui ho rotto il bicchiere in testa, non sopporto chi manda avanti gli altri, ma posso capire che dopo quasi tre settimane di ricovero potrebbe avere avuto giusto un po' di paura.
– Che cazzo, Crowther! – Improvvisamente Victor alza le mani e muove un passo indietro, pulendosi dal sangue sulla fronte. – E' irritante la tua suoneria, rispondi una buona volta!
Lo fisso stranito, questa è la prima volta che mi tocca fermare una rissa per rispondere al telefono. Se tutti quelli con cui mi scontro fossero scemi come questo qui ci potrei anche mettere la firma.
Alla fine depongo le armi, abbasso la mano verso la tasca e rispondo alla chiamata: – Pronto?
– Dove cazzo sei?
Ti pareva.
– Adesso arrivo, Alex.
– Senti, non venire neanche... – Che voce strana. Quasi... altalenante? – … Mi sono rotto il cazzo di aspettarti.
– Oh, andiamo, sono in ritardo solo di mezz'ora!
– Un'ora e venti, Mike.
Ops.
– Hai bevuto?
– Sì. Per ammazzare il tempo. Oh, cosa...
– Alex? – Giuro che se è caduto da qualche parte lo ammazzo io. – Alex? Ehi, idiota! Non ci credo... – Premo la cornetta rossa sullo schermo, fissando poi Victor che mi guarda a sua volta con un'espressione che spazia dall'ebete all'infinito. Che cazzo si guarda?
– Era il tuo ragazzo? Quello dell'altra volta?
– Fatti i cazzi tuoi. – ribatto, prendendo il mio zaino da terra. – Senti, ci sistemiamo un'altra volta. Devo andare.
– Stai scherzando?
Lo fulmino con gli occhi, adesso sì che vorrei davvero prenderlo a cazzotti. – Ti sembro il tipo che scherza?
– Fa' quello che vuoi, ma la prossima volta non sarò da solo.
– Okay, fai anche tu quel cazzo che ti pare. – Quasi come se fosse da galateo, lo saluto con un cenno anche se ci siamo appena ridotti a due stracci e monto in moto, accelerando verso il punto d'incontro con Alex. Ovviamente non si può scopare e poi stare tranquilli, bisogna vedersi per parlare e nel caso ubriacarsi se quell'altro è appena un po' in ritardo. Non faccio nemmeno caso al sangue che riga la visiera quando metto il casco, pensando che tanto ho già abbastanza problemi per occuparmi anche del mio stato: se quell'imbecille non sa aspettare e si mette a bere sono problemi suoi.

Come previsto, Alex Southwork è sdraiato sulla panchina di fronte alla fontana dove avevamo previsto di vederci, semi cosciente, con una bottiglia di birra in mano e altre quattro ai suoi piedi, vuote.
Non so se essere divertito o incazzato. Probabilmente cinquanta e cinquanta, percentuale comunque variabile dal momento che sta per iniziare a piovere e non ho voglia di prendermi acqua per questo cretino.
– Ehi, imbecille, svegliati. – Mi avvicino lasciando moto e casco a pochi metri e inizio a scuotere quello che potrebbe sembrare un cadavere avvolto in un'orribile camicia a quadri, stavolta rossi e neri. – Mi hai sentito? Alzati.
– Mmmh... – Un grugnito esce dalle sua labbra sigillate mentre io prego il cielo di non perdere la pazienza e continuare quello che ho iniziato poco fa con Victor.
– Alex, non sto scherzando. Sta per piovere, alza il culo.
L'unica cosa che riesce a dire alquanto debolmente è un misero: – Chi sei?
Adesso lo prendo a sprangate.
– Tua madre. – ribatto, inginocchiandomi davanti alla sua faccia da ebete. Se non apre gli occhi e non mi guarda potrei veramente macchiarmi di omicidio, non sono in vena di melodramma dopo che ho anche la faccia piena di sangue e lividi sparsi in giro.
Alla fine i suoi occhi si aprono, gonfi, ma solo per richiudersi un secondo dopo. – Vai via. – borbotta, ma giusto il tempo di dire ciò e si gira sul fianco per vomitare, facendomi ringraziare il fatto di essere lontani dal centro della piazza. Questo ragazzo non regge proprio l'alcol.
Se mi sento colpevole? Okay, forse sì, giusto un po', ma il senso di colpa non è comunque più grande del sentimento che mi farebbe prenderlo a schiaffi per essersi ridotto così solo perché io sono in ritardo. Insomma, ne valgo davvero la pena?
– Come stai? – gli chiedo dopo che sembra aver finito nonostante la stessa scena l'abbia vista neanche una settimana fa, al pub.
Lui si degna di aprire gli occhi, giusto una fessura, e contro ogni mia aspettativa l'unico messaggio che mi arriva è uno strascicato: – Portami a casa.
Immagino non ci sia niente da fare. Butto via la bottiglia ancora piena e piano lo accompagno alla moto, assicurandomi che sia ben stretto a me prima di partire alla volta di casa sua. Non mi resta che pregare che non ci siano i suoi.



Alexander

In questo momento, dentro la mia testa, oltre a Michael Crowther c'è un maledetto martello pneumatico che non accenna ad arrestarsi. Tempie, cranio, occhi: tutto. Tutto gira, la luce mi dà fastidio e il primo che osa dirmi qualcosa è finito.
La prima cosa che riesco a fare senza causare danni è muovere le dita e constatare di essere su una superficie morbida, familiare. Aspetta, familiare? Spingo un po' indietro la testa, sono praticamente sicuro di essere sul mio letto.
– Buongiorno, principessa.
Ecco, lo sapevo.
– Vaffanculo, Mike. – E' la mia risposta, iniziando piano ad aprire gli occhi. Sì, lo so da solo di essere un coglione e che è solo colpa mia se poi mi ritrovo in queste condizioni, ma il problema è che ci arrivo sempre dopo.
– Non lo reggi proprio l'alcol, eh?
– Ho più o meno lo stesso grado di sopportazione che ho con te.
– Sei parecchio bastardo per esserti appena svegliato dopo aver dormito quattro ore.
– Quattro ore? – Mi alzo di scatto, ritrovandomi Mike seduto a gambe incrociate all'altro capo del letto con un libro in mano. Aspetta, lui legge? – I miei saranno...
– Fuori, per il momento. – mi anticipa, guardandomi negli occhi senza una particolare espressione. – E' rientrata solo tua sorella, le ho detto che stavi male ed è uscita di nuovo.
Annuisco, iniziando a fare mente locale. Sì, niente da dire, sono proprio un idiota.
– Sei sempre stato qui? – gli chiedo, rendendomi conto di essere solo in boxer - tra l'altro non quelli con cui sono partito da casa. – E mi hai molestato, per caso?
Mike mi guarda, divertito, piegando l'angolo del libro per poi riporlo ai suoi piedi.
– Avrei voluto perché mi hai fatto incazzare. – inizia, lanciandomi la felpa che ha accanto a lui. – Oltre ad averti trovato ubriaco marcio mi hai anche ordinato di portarti a casa mentre ha iniziato a diluviare, perciò sono arrivato qui e ti ho tolto i vestiti bagnati, messo quei boxer asciutti e ho preso in prestito dei pantaloni e una maglietta per me.
Ora che ci faccio caso, ha proprio i miei pantaloni del pigiama e una maglietta nera che tengo da mettere sotto le camicie.
– E che hai fatto al viso? – gli chiedo dopo qualche istante di silenzio, notando un taglio sul labbro e un altro al limite del sopracciglio, per non dimenticare anche il livido che gli circonda l'occhio.
Lui alza le spalle, tranquillo. – Il tipo dell'altra volta.
Annuisco, vorrei provare a chiedergli se ha bisogno di aiuto ma so che lo rifiuterebbe e, anzi, si infastidirebbe più di quanto non sia infastidito adesso.
– Grazie. – mi limito allora a dire, alzandomi dal letto anche se avrei preferito restare lì solo perché sarei stato più vicino a Michael. C'è tensione in questa stanza, come se un momento quasi ordinario forse più strano di tutti i nostri litigi, cosa che non fa altro che mandarmi in confusione ancora di più.
Un colpo di tosse da parte sua mi costringe a girarmi a guardarlo mentre finisco di abbottonare i jeans. – E' strano vederti rivestirti... così. – dice, tentando un mezzo sorriso. Che accidenti di espressione è?
– Così come?
– Senza aver fatto sesso, dico.
Scuoto la testa, sorrido anche io. – Doveva essere un battuta?
– Già.
Lo guardo male, lui risponde con una risata che sembra spezzare l'imbarazzo. Per un istante sembra andare meglio, ma la sua espressione torna seria nel dire: – Perché ti sei messo a bere?
– Te l'ho detto, per ammazzare il tempo.
– Allora dovresti bere qualcosa come sette ore al giorno se è questo il tuo modo di passare il tempo. – mi fa presente, alzandosi dal letto per venirmi vicino. Che fine ha fatto la distanza di sicurezza? – Hai fatto una stronzata, Alex, se hai bevuto per me.
– Decido io se quello che faccio è una stronzata o meno. – ribatto, cercando di non farmi cogliere in fallo. – Ne avevo voglia, fine.
– E se non c'ero io? Restavi lì, da solo, a vomitare?
– Lasciami in pace. – borbotto, sorpassandolo toccandolo appena con la spalla per andare verso l'armadio.
– Ehi, sto parlando sul serio, qua.
Mi giro di scatto, troppo aggressivo perché impaurito che questa discussione possa finire davvero male. – Non sei mia madre!
Mike mi guarda negli occhi, vigile ma un po' instabile. – Lo so, ecco perché ti sto dicendo questo. Tu sei, ecco... Non sei così. Non sei uno che beve, fa casini... Non sei come me.
– E allora? – Sempre più colpito, cerco di sostenere il suo sguardo. – Ho diciotto anni anch'io, posso fare quello che voglio.
– Non l'avresti fatto se non avessi aspettato me.
– Ti credi così esclusivo? Cazzo, Mike, ho una testa anch'io che decide per me se voglio baciare o menare qualcuno, se voglio bere o se voglio tornamene a casa o che cazzo ne so, quindi lasciami in pace. Mi stai dando sui nervi.
Mike, di fronte a me, allarga le braccia e mi fissa, sbuffando.
– Fa' quello che ti pare, ma non venire a piangere da me quando sarai nella merda. – brontola, iniziando a prendere su il suo zaino.
– Cos'è, hai paura per me adesso?
La mia domanda lo spiazza, è palese da come mi fissa preso il contropiede proprio sulla porta di camera mia.
Alla fine, con una finta nonchalance, scuote la testa. – Non dire cazzate.
Si gira di nuovo e, lasciandomi da solo, percorre le scale e in pochi secondi sento la porta sbattere, ritrovandomi in piedi al centro della mia camera con solo i jeans addosso e una maglietta tra le mani che sto stringendo troppo per il nervosismo che ho. Se vuole giocare a fare il duro per me va bene, ma non così, non mostrandomi prima che, sotto sotto, in una maniera tutta sua, si ricorda di me. Chi sarà a perdere se andiamo avanti così?



Michael

Solo perché sono spesso e volentieri uno stronzo, non significa che anche Alex abbia il diritto di fare così. Il giorno dopo che lo aiuto dopo che si ubriaca con quattro birre, che lo porto a casa e che mi prendo cura di lui - più o meno, ecco che me lo ritrovo seduto al bar di fronte a dove sa benissimo che mi parcheggio con la moto quando vado in centro intento a flirtare palesemente con uno del terzo anno. Non che sapesse che dovevo venire in centro, di fatto non lo sapevo nemmeno io finché non mi sono accorto di essere a corto di sigarette, ma le coincidenze a volte fanno proprio schifo.
E' così che mi ritrovo pateticamente nascosto dietro ad un cespuglio con una sigaretta tra l'indice e il medio della mano sinistra a fissare quell'idiota e il suo amico ancora più idiota che ridono proprio come due checche, seduti all'esterno di un bar da checche con due tè freddi da checche. Terno!
Inizio a pensare di essere io quello ridicolo.
Non so perché mi dia così tanto fastidio, Alex è liberissimo di fare quello che vuole, ma poteva almeno impegnarsi un po' di più per cercare di sostituirmi, con un inetto del genere è ovvio che mi saltino i nervi.
Cazzo.
Finisco la prima sigaretta, giusto il tempo di respirare e ne ho una nuova in bocca mentre i due piccioncini ridacchiano felici e le loro mani, sul tavolo, si sfiorano. Devo solo trattenermi dal non dare di stomaco perché ci sono molto vicino, vedere Alex con quel sorrisetto smielato è un affronto a tutto ciò che in realtà ho visto di lui, di santo ha ben poco quel ragazzo.
L'unica cosa che riesco a dire è un misero: – Cazzo. – prima di rimettermi in piedi, salire sulla moto e agganciare il casco. Ovviamente, da bravo figlio di puttana quale sono, mi assicuro di sgasare e di avere l'attenzione di Southwork prima di partire e vedere la sua espressione spaventata dallo specchietto retrovisore è l'unica soddisfazione di questa gita fuori porta. 



Alexander

Sono quasi sicuro che Michael Crowther a braccia conserte, appoggiato alla sua moto, con gli occhiali da sole in una giornata di nuvole fuori dal cancello di scuola dopo tre giorni che mi ha visto al bar con Tim non sia uno dei migliori presagi. Speravo di non vederlo per un bel po' ma pare che il destino non sia dalla mia parte e che lui si trovi proprio di fronte a me con la più cattiva delle espressioni che possa avere, tralasciando il fatto che sto veramente cominciando ad odiare quella moto.
Arrivatogli nemmeno ad un metro di distanza, sicuro che sia qui per me, lui si toglie gli occhiali con fare da gangster e si porta alla bocca la sigaretta quasi a metà. – Buongiorno, Southwork.
Cominciamo malissimo.
– Crowther. – lo saluto a mia volta, notando che non si è fatto la barba e che quel velo che ora gli ricopre ma mascella è tutt'altro che brutto.
Perché mi ritrovo a pensare questo anche nei momenti peggiori?
– Sono venuto per ridarti i vestiti. – dice, allungandosi verso il portapacchi per prendere una sporta. – Mia madre li ha lavati.
– Non ce n'era bisogno. – rispondo istintivamente, ricordandomi quando, una domenica, ho girato per casa di Mike con i suoi boxer e la sua felpa per tutto il giorno. In quell'occasione ricordo di avergli detto che avrei lavato i suoi vestiti e glieli avrei riportarti il giorno dopo, a scuola, ma Mike rispose che gli piaceva il mio profumo. In fondo anch'io avrei voluto sentire il suo profumo rimettendo la maglietta che gli ho prestato, ma forse ero troppo arrabbiato per rendermene conto.
Alla fine lui si stringe nelle spalle, annuendo, senza più aggiungere nulla, lasciandomi in balia del “e adesso che cazzo faccio?”
– Sei venuto per ridarmi i vestiti? – gli chiedo solo per evitare che la situazione peggiori ancora di più, non sapendo nemmeno se sperare che la risposta sia negativa o positiva.
– Sì. – borbotta, secco, andando per rimettersi il casco. Sono quasi rassegnato a credere che di me non gli freghi proprio niente quando, improvvisamente, interrompe la corsa delle sue mani e riporta il casco sulle ginocchia, spostando gli occhi dritti su di me. – E per dirti che sei un coglione.
Be', ovviamente.
– E questo perché? – sbotto, incrociando le braccia. Se ogni volta che esco da scuola mi aspetta una scenata è meglio che inizi a prenotare qualche visita da un qualche bravo analista.
Michael mi guarda, un mezzo sorriso gli spunta sul viso ancora reduce dalla rissa di quattro giorni fa. – Perché non appena ti senti abbandonato ecco che vai a cercarmi in qualcun altro.
– Cosa? – Ha perso la testa, poco ma sicuro. – Credi davvero che per te io vada a consolarmi da Tim?
– Ah, Tim. Pure un nome del cazzo.
– Ma che dici?
– E' un cazzo di operatore telefonico? Che cazzo, Alex. – Come se fosse lui quello ad avere il diritto di essere seccato, si porta la mano alle tempie con fare stanco. – Smettila di fare il bambino e ammetti che l'hai fatto per ripicca.
Istintivamente, senza pensarci nemmeno un secondo, lo spingo sul petto e quasi perde l'equilibrio. Infastidito, ovviamente, va per chiedermi spiegazioni ma lo precedo, quasi urlando: – Io faccio il bambino? Prima mi spii, mi dici che non te ne frega un cazzo di me e poi pensi di avere il diritto di venire qui a farmi le scenate di gelosia? Non sono il tuo giocattolo, maledizione.
Interdetto, Michael Crowther sembra per la prima volta senza parole. Questo sì che è un traguardo!
– Fottiti. – E' l'unica cosa che riesce a dire, biascicata, stringendo il casco tra le mani che si tendono sistematicamente. Con uno sbuffo da record, poi prosegue: – Non sono qui per giocare, men che meno con te.
– Cosa vorrebbe dire?
– Che se ti dà fastidio come sono allora la chiudiamo qui, qualsiasi cosa ci sia da chiudere.
Ahia, colpo al petto. Mi sento affondato, come se improvvisamente anche questo litigio potrebbe diventare un nostalgico ricordo. Non voglio che se ne vada, non voglio che diventi solo una conversazione di WhatsApp che guarderò con nostalgia.
– Fa' come cazzo ti pare.
Però va bene così. Se lui non accetta me, se non riesce ad affrontare seriamente quello che sembra esserci tra di noi, forse è la cosa giusta.
– Perfetto. – conclude, secco, rimettendosi il casco in velocità.
Non aggiungo altro, lo guardo allontanarsi con quella moto che ora mi sta definitivamente sul cazzo. Lui ha una vita, io ho la mia: se non vanno bene insieme, tanto vale viverle a parte. Ai rimorsi ci penserò quando sarò di nuovo ubriaco.



Michael

Al mondo ci sono due tipi di persone: quelli che sanno esprimere i sentimenti e quelli che preferiscono tenersi tutto dentro.
Io, signori e signore, non faccio parte di nessuna delle due categorie.
Io, Michael Crowther, sono semplicemente un idiota.
Fino a dieci minuti fa ero comodamente steso in divano, col telecomando in mano e niente per la testa. Ma è quando non ho niente in testa che penso a quello che non va, e ovviamente lì ho trovato Alex. E' passato quasi un mese da quando abbiamo litigato, da quando ho detto che sarebbe stato meglio chiudere, da quando speravo che non mi desse quella risposta; ma sono pur sempre un orgoglioso del cazzo e non sono riuscito a dire quello che pensavo.
Ecco perché ora sto correndo ai centoventi per le strade di quest'insulsa città, ecco perché so che è l'ultima possibilità e che se spreco anche questa posso tranquillamente andare a fare in culo, ecco perché Alex è così importante per me.
Non so precisamente come ho fatto a capirlo, o quando, so solo che ci ho messo troppo tempo perché, come tutti i classici, ora potrebbe essere troppo tardi. Io non sono un tipo sentimentale, anzi mi metto il cuore in pace abbastanza in fretta, ma Alex è uno di quei tipi che entra sottopelle senza alcuno sforzo, semplicemente rendendoti complice della sua realtà.
E io lo detesto per questo, non è che ne sia felice, ma arrivato a questo punto non so proprio cosa fare e l'unica possibilità è tenermelo vicino al posto di respingerlo continuamente. Certo, sempre che sia ancora in tempo dal momento che, come ho anticipato, sono un idiota.
– Mike?
Me lo ritrovo così, dietro le mie spalle, con i capelli in disordine, un'orribile camicia blu e la cesta dei panni asciutti tra le mani. Sì, ho fatto intrusione nel suo giardino ma lui dovrebbe cambiare posto alle chiavi.
– Ehi. – lo saluto, incerto, con un'assurda paura che lui chiami la polizia per accusarmi di stalking. Tecnicamente ne avrebbe tutto il diritto. – Ti sei messo a fare il bucato?
– Be', è casa mia.
Ha ragione. Un punto per il biondino gay.
– Che ci fai qui? – continua, appoggiando a terra la bacinella. – E soprattutto, abbiamo un campanello. Se mia sorella ti vede fa un colpo.
– Mi conosce abbastanza bene.
– Dici sul serio?
– Mi ha visto cambiarti i boxer.
Annuisce, concedendomi questa vittoria: – Non hai tutti i torti. Allora, perché sei a casa mia? Hai lasciato qualcosa? – Nel dire ciò, riprende la cesta e si dirige all'interno, lasciando la porta aperta per me.
– Sì. – rispondo, distratto, perso a guardare una casa che conosco già.
– Ah sì? – Alex, dal canto suo, mette finalmente giù i panni da Bella Lavanderina e appoggia le mani ai fianchi, guardandomi dall'altro lato del tavolo della cucina. – Cosa?
– Te.
– Del tè?
– Te, idiota.
– … Tè?
Che razza di imbecille.
– Te, Alexander, tu, solo tu, te come il coglione che ho davanti che non capisce che “te” è un pronome e non probabilmente il cazzo che si è fumato per non capire che non sto parlando di infusi!
Con gli occhi spalancati, Alex rimane senza parole con le labbra dischiuse senza però far uscire suoni. Fantastico, ora l'ho pure traumatizzato, verrò querelato per danni morali (e tra non molto anche fisici).
Lui mi fissa con un'espressione vaga, non sapendo probabilmente se rispondermi o se cacciarmi da casa sua a calci in culo, in entrambi i casi non avrei diritto di parola. Solo dopo qualche secondo, infatti, sembra rinsavire e iniziare a capire la situazione.
– Ti rendi conto che l'ultima volta che ci siamo parlati mi hai fatto una scenata e poi hai detto di chiudere, per citare, qualsiasi cosa ci fosse da chiudere?
Non posso fare a meno di trattenere un sorriso soddisfatto. – Citi a memoria, eh?
Alex mi fulmina con gli occhi, alzando il dito medio nella mia direzione. Non è colpa mia se mi offre le battute su un piatto d'argento.
– Lo so, comunque. – continuo per evitare di perdere anche questa battaglia, cercando di sembrare meno orgoglioso di quanto sia in realtà. – E' solo che... – Eh, e adesso come glielo dico?
– Che?
– …Smisanfri.
Chiaramente, aggiungerei.
– Cosa? – Alex quasi ride, pensando probabilmente che io sia imbarazzante in questo momento. Sicuramente ha ragione, ma se lo esplicitasse meno io riuscirei anche a parlare un po' più decentemente anche se tutta la situazione è un pesantissimo affronto al mio orgoglio, per non parlare poi del fatto che ho davvero esagerato con la scenata di gelosia di un mese fa.
– Tu... – Okay, soggetto. Verbo, forza. – … Tu mi...
Alex, di fronte a me, mi dà le spalle e si dirige verso la macchinetta del caffè. – Dimmi quando ci sei. – mi prende poi in giro, iniziando a prepararla.
Ah, fa il simpatico? Gli sembra il caso?
Maledetta testa di cazzo.
Faccio il giro del tavolo e in meno di due secondi lo prendo per il polso obbligandolo a girarsi verso di me, appoggiando poi le braccia al bancone in modo che non possa scappare com'era solito a fare prima che litigassimo - per l'ennesima volta. Vediamo se adesso ha ancora voglia di scherzare.
– Che cazzo ti prende? – mi chiede, ora nervoso. I suoi occhi scattano veloci nei miei forse per tentare di leggere i movimenti e magari ci riescono anche, solo non abbastanza in fretta per impedirmi di andare in avanti e baciarlo. Sento che non è del tutto convinto e che la sua sicurezza è pari a quella della prima volta in cui ci siamo baciati, ma non passano più di dieci secondi prima che riacquisti il suo spirito, portando le mani ferme sulle mie spalle per tirarmi a lui. Che poi non venga a fare il prezioso, però.

Mi accendo una sigaretta, fortunatamente in casa Southwork sono abituati a fumare e non si lamenteranno per l'odore. Le coperte coprono appena i miei punti critici mentre Alex, steso accanto a me, non se ne preoccupa minimamente e se ne sta appoggiato con la guancia al mio petto, inspirando il fumo che io butto fuori.
– Perché finiamo sempre così?
Già, bella domanda.
– Che ne so. – rispondo, portando la mano libera sulla sua nuca per poter accarezzargli i capelli - qualcosa che ho fatto poche volte per evitare situazioni troppo romantiche.
Alex sembra lasciarsi cullare, per un momento penso che se ne stia zitto per un po' ma la mia intuizione si rivela subito sbagliata, infatti alza appena il viso verso di me e mi punta i suoi fastidiosi occhi addosso.
– Perché sei venuto qui? – mi chiede, e stavolta so che pretende una risposta.
Se non gli dirò davvero le cose come stanno avrò solo perso tempo e potrò classificarmi come uno dei tanti idioti tutto fumo e niente arrosto, codardo davanti alla persona più importante per lui.
– Quello che cercavo di dirti prima... – Prendo un respiro, non sono mai stato bravo in queste cose. – … E' che mi manchi. E che sono stanco di tutto questo, perché vorrei sapere che ci sei sempre e non ogni tanto, non quando ci va bene.
Non penso di aver mai fatto uno sforzo più grande.
Alex si appoggia ora sui gomiti per guardarmi negli occhi, lui non ha paura delle parole a differenza mia e questa è una cosa che gli ho sempre invidiato.
– L'avevo capito anche prima. – E' tutto quello che dice, accompagnato da un ghigno bastardo come pochi. C'è un motivo se sono ossessionato da questo ragazzo.
Non posso comunque fare a meno di ridere, avvicinandomi per poterlo baciare sulla fronte insieme ad un ovvio: – Vaffanculo, Southwork.
– Certo, certo, anche io ti voglio bene.
Per un attimo mi blocco, è la prima volta che mi dice così.
Mai, nemmeno per sbaglio, è uscita questa frase dalla sua bocca. Devo ammettere che la cosa mi spaventa non poco, ma non quanto mi spaventa l'idea di perderlo per sempre, perciò faccio uno sforzo e gli sorrido, sincero. – Anche io.
E' quasi tenero vederlo arrossire e poi nascondere il viso nell'incavo del mio collo, suggellando questa tacita promessa del “okay, abbiamo fatto i coglioni abbastanza, ora basta giocare”.

Alexander

Posso assicurare che è molto più facile avere una persona stronza al proprio fianco che da un momento all'altro decide di fare sul serio rispetto ad avere una persona stronza al proprio fianco che, da quando decide di fare sul serio, pensa anche che sia giusto avere un primo appuntamento.
Che cazzo è un primo appuntamento?
Con tutte le volte che ci siamo visti prima di ufficializzare le cose, cosa potrebbe mai essere simile ad un primo appuntamento? Come ci si veste? Cosa si fa? Cosa bisogna portare?
Il buon senso, ecco cosa. Se solo ce l'avessi mai avuto. Il solo fatto di essermi affezionato a Michael Crowther comporta che di buon senso non ci sia la minima traccia.
Potevo fare sul serio con Tim, potevo fare sul serio col mio prof di storia, potevo fare sul serio anche con mia sorella, ma non con Michael Crowther perché eccomi qui, davanti allo specchio, per decidere se mettere una camicia a quadri blu o una camicia a quadri verde - come se non sapessi che Mike odia le mie camicie.
– Che stai facendo, Alex?
Ecco, adesso anche mia sorella penserà che io sia un deficiente.
– Sto pensando a come vestirmi, Kayleigh.
– Per andare?
Mi giro verso di lei con uno sguardo truce, anche se ha quindici anni so che potrebbe sfoderare dei commenti taglienti più o meno quanto quelli del mio pseudo-ragazzo.
– Devo vedere Mike.
– Non lo vedi già tutti i giorni? – chiede, giustamente, appoggiandosi allo stipite della porta col suo fare da “ho quindici anni, sono padrona del mondo e capisco molte più cosa di te, fratello gay”.
Mi ritrovo così costretto a sbuffare, buttando sul letto entrambe le camicie. – E' un appuntamento. Di quelli seri.
– Ah. State insieme?
– Non lo so.
– Carino. – Nel dire ciò si appropinqua al mio armadio e tira fuori una giacca in jeans, una maglietta bianca e un paio di jeans neri. – Così. – conclude, dimostrandomi fieramente le sue doti da fashion blogger.
– Così sembro ancora più gay di quanto non sia, Kay.
– Perché, non lo sembri comunque con quelle camicie orribili?
Sono circondato da persone fondamentalmente bastarde.
– Sparisci. – le intimo e lei, con un ghigno soddisfatto, lascia la stanza puntandomi addosso il dito medio alzato. Mi sa che questa volta farò come mi suggerisce lei.
– Non ci credo. – Mike mi accoglie con uno sguardo estasiato, seduto sulla sua moto nella mia attesa. – Non hai una camicia a quadri!
– Fottiti.
– Se vuoi fare tu, va bene.
Lo guardo male, pensando che in fondo è anche questo suo lato a piacermi fin troppo.
– Magari più tardi. – rispondo non prestandoci troppa attenzione, avvicinandomi per dargli un veloce bacio sulla labbra a cui mi devo ancora abituare nonostante sia passato quasi un mese da quando abbiamo messo in chiaro le cose.
– Com'è andata a scuola, oggi? – mi chiede, scendendo dalla moto.
Eh?
Mi giro verso di lui, stranito. – Che cazzo di domanda è?
– Una... domanda?
– Non sei mio padre. – ribatto, ridendo. – Come siamo passati dal “non dire cazzate, non mi preoccupo per te” al “com'è andata a scuola”?
Mike alza le mani, trattenendo a stento una risata. – Scusami mister, la prossima volta ti chiederò quand'è stata l'ultima volta che ti sei fatto una sega.
– Sarebbe più da te.
– Ammesso e non concesso.
Gli tiro una gomitata, camminando poi silenziosamente al suo fianco.
E' vero, siamo quasi una coppia e abbiamo deciso di fare sul serio, ma forse il nostro “serio” non corrisponde alla definizione generale. Passeggiare romanticamente in centro città non è per niente nelle nostre corde, men che meno chiederci com'è andata la nostra giornata.
– Non sapevo come presentarmi. – borbotto dopo qualche secondo di silenzio, stringendomi nelle spalle come se potessero realmente proteggermi dallo sguardo inquisitore di Mike.
– Che cazzo vuol dire?
– Ero agitato. Un po' lo sono tutt'ora.
– Volevi per caso portarmi dei fiori o offrimi la cena? Perché in quel caso ti avrei dato un cazzotto.
Sorrido, non c'è modo di cambiare Mike. E per fortuna, direi.
– Sta' calmo, Rambo. Niente del genere.
Mike annuisce, quasi faticando a mantenere intatta la corazza da cattivo ragazzo con la quale tende a farsi vedere. Probabilmente non ho motivo di essere agitato, ma ancora non mi è chiara la dinamica di questo fantomatico appuntamento. Sembra tutto strano, come se Mike non fosse quello che conosco e come se io non riuscissi ad entrare nel contesto. E' davvero così strano vivere per la prima volta tutto ciò che le coppiette ordinarie fanno quotidianamente?
– Comunque è andata bene. – riprendo a parlare solo per riempire il vuoto, non sentendone davvero la necessità. – A scuola, dico. Ho preso una B nella relazione di scienze e il signor Smithers mi ha chiesto di partecipare ad un progetto per un concorso di fotografia, niente di che.
– Fotografia? Ti piace?
– E sì che ci sei venuto in camera mia. – lo prendo in giro, godendomi la sua reazione seccata. – I muri sono pieni di foto.
– Non so se l'hai notato, genio, ma quando vengo in camera tua non è esattamente per guardare i muri.
– Che simpatico che sei, Mike. Complimenti.
– 'Fanculo. – Mi dà un pugno sulla spalla, scuotendo poi la testa con un sorriso. Da quando ha cominciato a sorridere così sinceramente in mia presenza?
– E tu? Come procede la tua vita senza scuola?
Mike alza le spalle, guardandosi in giro mentre si accende una sigaretta. – Il solito. Ho trovato un lavoro part-time, almeno tra un po' potrò andare a vivere da solo.
– Davvero?
Annuisce, nascondendo un sorriso. – O non proprio da solo, dipende a te.
– Cos'è, andiamo già a convivere?
– Sì, e poi ti metto l'anello al dito. – Mi fissa con un'espressione ironicamente seccata. – Puoi iniziare a fermarti a dormire, no?
Annuisco, fermandomi per un istante a pensare alla prima volta che mi sono ritrovato sotto le sue stesse lenzuola, quando non avrei scommesso un centesimo su un possibile futuro con uno stronzo come lui.
– Dormire? – domando, mettendolo alla prova.
Mike, attento, mi indica con la sigaretta. – Sei una brutta persona, Alexander.
Be', siamo in due.
Gli rubo la sigaretta dalle dita e finisco l'ultimo tiro che gli rimaneva, attaccandomi subito dopo alle sue labbra. Sì, potrei anche essere una brutta persona, ma almeno siamo in due anche qui.



Michael

Non mi sarei mai aspettato che una relazione comportasse tanto sforzo, tanta pazienza e tanta comprensione; tre cose di cui assolutamente io non ho mai voluto sapere ma il peggio non è nemmeno questo, perché ho dimenticato di fare i conti con quello che adesso è il mio peggior nemico: la gelosia.
Alex non è un tipo da ferirmi apposta, ma il fatto che lo faccia ingenuamente è forse più spaventoso.
– Ancora quel Tim del cazzo! – sbotto per la milionesima volta, portandomi la mano alla bocca solo per convincermi di non alzare la voce ancora di più. – Dio, Alex, non vedi come si atteggia?
Il colpevole della situazione rotea gli occhi al cielo mentre si siede a gambe incrociate sul suo letto, coprendosi col lenzuolo per affrontare la situazione in modo decente - una situazione decisamente critica dal momento che il mio migliore amico Tim ha chiamato quell'idiota del mio ragazzo mentre ero su di lui, fisicamente.
– Mi ha solo chiamato. – mi ricorda, pacato, anche se so che potrebbe saltare via da un momento all'altro.
– Sì, nel momento meno indicato.
– Che cazzo poteva saperne lui che stavamo scopando? – borbotta, sbuffando. Non è la prima volta che gli faccio questo discorso e posso anche capire di averlo portato al limite, ma anche io ho raggiunto il mio.
– Poteva immaginarlo. – bofonchio, sapendo benissimo di aver detto una stronzata. – Ma comunque il discorso è che mi sta sul cazzo, lo capisci sì o no? Deve starti lontano.
– Lo capisco. – conferma, sempre più severo nel tono di voce. – Ma non è colpa di nessuno se ci hanno messo in gruppo insieme per una ricerca dal momento che, oh guarda, lui è a scuola con me mentre tu no.
Mi alzo di scatto dalla sedia, fissandolo con gli occhi probabilmente fuori dalle orbite. – Mi stai forse rinfacciando che ho mollato la scuola e che quindi tutto questo è colpa mia?
– Sto dicendo le cose come stanno. – ribatte, alzandosi anche lui per fronteggiarmi. – Se non ti stanno bene vedi di fartene una ragione perché è così che gira il mondo.
– Non provare nemmeno a darmi una lezione di vita, tu. Permettimi di poter essere geloso se il mio ragazzo continua a rispondere alle chiamate dell'operatore telefonico!
– Non se appunto continui a chiamarlo “operatore telefonico” e se io non sto facendo niente di male, cazzo! – Muove un passo avanti e mi spinge leggermente sul petto, parlandomi a meno di un centimetro di distanza dal mio viso, un suo lato che ho sempre trovato eccitante allo stesso modo in cui è inquietante. – Ci sarà un motivo se sto con te da quasi due mesi nonostante tutte queste tue stronzate, no?
– Non sono stronzate se continuo a rinfacciartele, accidenti a te, perché cazzo non ti sta bene che io sia geloso? E' normale!
– Non è normale se non ti fidi di me! – Quasi mi sfiora le labbra con quest'ultima frase, respirando praticamente il mio respiro. – Cos'è, non posso nemmeno rispondere ad una telefonata?
– Non se è da quell'idiota.
– Be', notizia dell'ultima ora, sono un uomo libero e posso farlo. Non sarai tu a dirmi di no.
Come sempre, siamo punto a capo.
Afferro velocemente la mia giacca e lascio la stanza, troppo incazzato per poter sostenere ancora questa conversazione. E' vero, sono geloso, tengo troppo a lui e vorrei tenerlo sempre sotto controllo: so che è libero e che non sono nessuno per impedirgli di fare ciò che vuole, ma vorrei solo che capisse quanto io stia combattendo contro l'assurdo sentimento che cresce di giorno in giorno verso di lui - e non è qualcosa che io riesco a controllare.



Alexander

Michael non mi ha mai fatto conoscere la sua famiglia.
A dirla tutta, non so nemmeno se sappiano del suo orientamento sessuale, di me come suo ragazzo.
Una o due volte ho intravisto sua madre, Gloria; mentre suo padre, Boyd, vive altrove, senza l'anello al dito, e a detta del figlio è “un coglione che non ha saputo gestire le sue responsabilità”. Questo è tutto quello che so.
O per lo meno, era tutto quello che sapevo finché, passando per il centro insieme a mia sorella, ho notato un'affissione sulla bacheca delle epigrafi che non mi è stata indifferente: “Boyd Crowther, anni 56, i funerali saranno venerdì 23 giugno alle ore 15”.
Non parlo con Mike da una settimana ormai, lui non mi ha detto niente a riguardo e non ha risposto ai miei messaggi. Nonostante questo, oggi è il ventitré giugno, sono le quattro di pomeriggio e le porte della chiesa stanno cominciando ad aprirsi. Non esce tanta gente, le poche persone vestite in nero hanno i volti segnati dalle lacrime e tengono tra le mani un fazzoletto che passano ripetutamente sugli occhi, il tutto reso più difficile da un sole tremendo che scalda tutt'intorno nonostante avessero previsto temporale.
Anch'io mi sono vestito di nero e mi sono pettinato i capelli anche se non sono nemmeno entrato in chiesa, preferisco aspettare Mike seduto sulla sua moto parcheggiata senza il permesso sotto un salice dietro la chiesa. E' più nel suo stile, so che non sarebbe contento se mi dimostrassi troppo compassionevole.
Le campane iniziano a suonare e nemmeno un minuto dopo lo vedo sbucare dal cancello che porta a questo piccolo giardino con addosso una camicia nera abbottonata fino al collo che porta ancora qualche segno dei miei denti, la giacca di pelle nella mano destra e una sigaretta accesa nella sinistra. Non ha pianto, ma a me risulta chiaro che stia trattenendo tutto dal modo in cui nemmeno si scompone nel vedermi e da come stia fumando velocemente - di solito dice che preferisce gustarsele, le sigarette.
– Che ci fai qui? – mi chiede non appena mi arriva di fronte, tirando fuori un tono di voce talmente debole da essere difficile da sentire.
– Ho letto di tuo padre.
– Nessuno ti ha detto di venire, comunque.
– Non mi serve il tuo permesso per venire al funerale del papà del mio ragazzo, mi pare. E comunque sono sempre stato qui fuori. Ho pensato che avresti preferito così.
Mi guarda negli occhi per qualche secondo, poi abbassa la testa, al limite. – Puoi andartene?
– Posso, ma non voglio.
– Per favore, Alex. Te lo chiedo per favore.
– Forse non hai ben capito una cosa. – inizio, continuando a tenere lo sguardo su di lui sebbene lui stia fissando le sue stesse scarpe nel disperato tentativo di trattenere tutto dentro ancora una volta. – Non me ne frega un cazzo di avere sempre il Mike ben disposto, che sta bene, pronto a litigare ma a fare pace a letto. Io voglio anche quello che sta male, che fa il duro quando non dovrebbe e che sa bene che io ci sono anche se non vuole ammetterlo. Quindi no, non me ne andrò.
Lentamente, solo dopo una decina di secondi, Mike alza la testa verso di me con la prima lacrima che lascia scendere da quando ci siamo conosciuti ma so che non mi farà vedere di più e nasconde il volto nella mia spalla, respirando quanta più aria riesce a prendere fino a calmarsi insieme alla mia mano che continua a strofinare sulla sua schiena. Non è facile tenerlo vicino a me in questa situazione, ma sono sincero nel dire che di lui sono pronto ad accettare ogni lato, bello o brutto che sia, perché finalmente ho capito che è realmente quello che voglio, nonostante tutto. E, nonostante tutto, io sono qui solo per assicurarmi che stia appena bene.
Dopo forse un minuto o due, appena sento il suo respiro più lento, gli lascio un bacio sulla tempia che ho sempre conservato prima di prenderlo per le guance - anche se so che dopo mi ammazzerà, gli asciugo le lacrime e poi provo a soridergli. – Salta su. Andiamo a bere.
– Ma se non sai nemmeno guidare... – borbotta, restando confuso quando però accendo la moto dopo avergli rubato le chiavi dalla tasca.
– E' sempre stato il mio asso nella manica. – confesso, allacciandomi il suo casco sotto il mento e porgendogli quello che ho portato di scorta. – Se guidassi tu ci sarebbe un'alta probabilità di fare casini, quindi questa volta offro io.
– La benzina l'ho comunque pagata io. – mi fa notare, accennando ad un sorriso mentre sale forse per la prima volta sul sedile posteriore, non esitando nel circondarmi il busto con le braccia per allacciare poi le mani all'altezza del mio stomaco, abbandonandosi totalmente a me non appena appoggio entrambi i piedi sulle pedivelle e parto, allontanandomi velocemente da qui.


Fa incredibilmente male vederlo allontanarsi, un passo dopo l'altro, barcollante ma finalmente al sicuro.
Sono le due di notte, nessuno dei due era in grado di guidare ma pur di sentire ancora le sue braccia strette ai miei fianchi ho corso il rischio e dopo dieci minuti siamo arrivati sani e salvi a casa sua, dove sua madre sta già dormendo. Non ho pensato a come tornare a casa, immagino che cercherò un taxi ma per il momento l'unica cosa importante è lui, col suo viso ancora segnato dalla stanchezza e dalle lacrime nonostante la corazza inespugnabile. Non volevo lasciarlo andare prima di entrare nel pub, figuriamoci adesso con una buona dose di alcol che scorre nelle vene.
– Alex? – Poco prima di appoggiare la mani sulla maniglia, Mike si gira e mi guarda.
– Mh?
– Come cazzo ci torni a casa?
Essere innamorati di Michael è una delle scelte peggiori da poter fare.
– Non lo so, prenderò un taxi.
Spesso si dimostra manchevole, ambiguo e poco affidabile.
– Non dire cazzate, vieni dentro.
Per non contare tutte le volte in cui fa saltare i nervi con un solo sorrisetto.
– E tua madre?
Si stringe nelle spalle, non accennando a muoversi senza un mio consenso e borbotta: – Forse è ora che ti conosca.
Ma Michael è fatto così, nei suoi pregi e difetti.
– E mi deve conoscere domattina con due occhiaie da paura mentre giro in mutande per casa vostra?
Mi viene vicino, guardandomi come mai prima. – Sei la mia famiglia. Va bene anche così.
– Sei proprio ubriaco. – lo prendo in giro, dandogli uno schiaffo leggero sulla guancia arrossata mentre vado verso la porta, sentendomi quasi emozionato da ciò che sta per accadere.
– In realtà, – Appoggia la mano sulla mia spalla, sorpassandomi con un leggero sorriso sul viso. – Lo penso davvero. Solo che non lo dico, se sono sobrio.
Le chiavi scattano nella serratura e la porta si apre, anche se non do il tempo a Mike di entrare che lo bacio, premendo la sua nuca contro di me per cercare di sentirlo il più vicino possibile.
Essere innamorati di Michael è tutt'altro che facile, ma è la peggior scelta che rifarei per tutta la vita.



Michael

Se con Alex ho imparato qualcosa, questo è il saper riconoscere i miei limiti: sapere dove posso arrivare, quanto di me posso dare, quanto posso proteggere.
E ora è arrivato il momento di fronteggiarli, questi limiti.
Sono le tre di notte, sono davanti a casa di Alex con una fotografia in mano - so che gli piacciono le foto, una delle poche che abbiamo insieme. Potrei chiamarlo, so che scenderebbe, ma forse non voglio vederlo perché non voglio dirgli addio guardandolo negli occhi.
Ho passato diciannove anni della mia vita a pensare solo a me stesso, questa è la prima volta che faccio qualcosa di significativo per lui che comporta per me la perdita della persona a cui tengo di più; ma so che non posso più proteggerlo da tutto quello che mi circonda e non intendo metterlo nei miei stessi guai.
Alex ha sempre fatto tanto per me, ormai da otto mesi.
Il solo fatto di stare con me è un punto a suo favore, diciamocelo.
Non voglio lacrime di addio, amari arrivederci o quello sguardo da cane bastonato che lui riesce a fare piuttosto bene, non voglio nemmeno dilettarmi in parole sdolcinate che non usciranno mai dalla mia bocca perché le temo, temo che mi possano confermare quanto io in realtà sia incapace di abbandonare Alex nonostante lo stia facendo proprio per lui.
E dire che pensavo di essere io quello forte, tra i due.
Guardo per un'ultima volta la casa di fronte a me che ormai mi è diventata familiare, rivedo per un attimo tutti i momenti passati qui e tutti quelli che abbiamo programmato, ma a quanto pare ora tocca a me modificare i piani e andare a demolire il rifugio che abbiamo faticosamente costruito all'interno di tutto il disastro in cui vivevamo.
– Mi dispiace. – mormoro in un mero gesto di auto consolazione, imbucando la foto della Polaroid nella cassetta delle lettere di casa Southwork per poi salire a cavallo della moto e correre veloce via dalle mie radici.
Alex non si merita questo, non si è mai meritato uno come me, ma questo non ho mai avuto il coraggio di dirglielo per la paura che avevo di trovare il suo consenso, anche se in realtà so che non me l'avrebbe dato. Non ho mai avuto dubbi sui suoi sentimenti.
Tornerò, comunque. Aspetterò che si calmino le acque, poi so che girerò la moto sulla strada di casa perché non posso stare senza quell'idiota del mio ragazzo. Mi mancherebbe troppo.



Alex

Riconoscerei il suono delle marmitte arrugginite della moto di Mike tra mille, ma questa volte le ho sentite troppo tardi.
Mi sento debole, come svuotato, mentre giro tra le mani la foto che ci ritrae entrambi stesi sul suo letto, addormentati, Mike steso prono e io che appoggio il viso sulla sua schiena, usandolo come cuscino. Abbiamo addosso i pantaloni, ma ho sempre preferito annusare il profumo della sua pelle prima di addormentarmi perciò non mi sorprende che anche in questa foto lui non abbia la maglietta nonostante sia un tipo che, a mia sorpresa, soffre parecchio il freddo.
Quasi sorrido a questo ricordo, pensando anche a quando sua madre ci presentò la foto sotto il naso dicendo che ci aveva trovati così carini da voler immortalare il momento.
Qualcosa mi dice però che questo sarà uno dei miei ultimi sorrisi riguardo a Mike, nonostante io sia sicuro di non riuscire ad odiarlo. Non l'ho fatto un anno e mezzo fa, all'inizio di tutto, non lo farò adesso.
Guardo ancora la fotografia, leggendo un'ultima volta ciò che c'è scritto a mano per convincermi poi a posarla e alzarmi dal letto, pronto a imparare a respirare anche senza Michael al mio fianco.

“Sei tutta la mia famiglia,
aspettami.”

  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Heyale