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Autore: Caru13    26/04/2018    4 recensioni
Essere padre è la soddisfazione più grande che si possa avere. Ti cambia la vita, ti smuove qualcosa dentro, nel profondo, non sei più soltanto tu, c'è qualcos'altro, qualcun altro. L'amore per un figlio è qualcosa di indescrivibile, un amore caldo e protettivo, il tuo cuore diviene vincolato a quella piccola creatura che stringi tra le braccia, che io strinsi tra la braccia. Mio figlio, il mio bambino.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sora Takenouchi, Taichi Yagami/Tai Kamiya | Coppie: Sora/Tai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Figlio mio

Trattenni il respiro per interi secondi. Niente aveva più senso, niente aveva più importanza, riuscivo solo a vedere quei piccoli e vispi occhietti marroni. Feci un passo in avanti sul freddo e bianco pavimento, le mani e le braccia che, tremolanti e senza che neanche me ne accorgessi, tentavano di raggiungerlo. Iniziai a sentire i battiti del mio cuore che dal petto mi risalivano fino in gola e il sangue pulsare nelle tempie, nella testa leggera, pervasa da un unico pensiero: lui. Un passo seguì l'altro, corrugai la fronte a aprii di poco la bocca, il respiro lievemente in affanno, mentre le mie dita si stringevano intorno a qualcosa di freddo sotto di me, facendomi scorrere un brivido dalle punte lungo le braccia. Spalancai gli occhi e sentii un tonfo al cuore, le gambe mi cedettero e dovetti reggermi alla pediera che stringevo tra le dita. Mi aveva appena sorriso. I piccoli occhi erano diventati due fessure mentre gli zigomi, paffuti, erano saliti talmente tanto da arrivare quasi a coprire gli occhi stessi e le labbra, aperte e inarcate all'insù, lasciavano trasparire la completa assenza di denti. Fu una vista incredibile. Sentii il petto, il collo, le guance e gli occhi scaldarsi, come pervasi da un fuoco, le lacrime che si accumulavano negli occhi, ma ricacciai tutto indietro, deglutendo. Non poteva avermi visto, era ancora troppo piccolo, a mala pena i suoi occhietti riuscivano a distinguere delle ombre confuse. Eppure, non appena aveva posato gli occhi su di me, un grande sorriso gli era comparso in volto e, da sotto il telo che lo avvolgeva, aveva proteso le manine verso di me. La mia attenzione fu attirata da delle dita delicate, sottili e affusolate che accarezzarono la guancia del piccolo, facendolo rannicchiare su se stesso al solo tocco.
«Vuoi prenderlo in braccio, Tai?»
Sollevai lo sguardo. Sora era seduta sul letto, le coperte piegate fino alla pancia e la schiena dritta, appoggiata a due cuscini messi uno sopra l'altro. La lunga camicia da notte terminava appena prima del polso  con un pizzo raffinato ma discreto, non eccessivamente sfarzoso, sotto al quale si poteva vedere il braccialetto identificativo bianco. Sora, stanca e leggermente ansimante, disegnava con i polpastrelli delle dita dei cerchi sulle guance del piccolo, tenendolo stretto tra le braccia e cullandolo. La camicia risaliva storta su di lei ricca di pieghe e grinze, i capelli ramati, ancora bagnati di sudore, ricadevano sulle sue spalle e si appiccicavano al collo, teso per osservare meglio ciò che teneva avidamente tra le braccia. Come lo erano stati i miei occhi fino a poco prima, ora erano i suoi fissi su di lui, la testa piegata in avanti e le sottili ciglia, bellissime e delicate, rivolte verso di lui, sotto le quali si potevano vedere i suoi splendidi occhi rossastri pieni di felicità. Inarcò gli angoli della bocca e sorrise, portò le labbra alla fronte del piccolo e lo baciò. Tornò a guardarmi, una ciocca le ricadde sul volto, oscurandole di poco un occhio.
«Allora?»
Sorrise. Dopo tutta quella fatica e tutto quel dolore, era ancora così dannatamente bella. Cercai di rispondere e aprii la bocca, ma avevo la bocca così secca che la richiusi subito e deglutii, limitandomi ad annuire. Mi spostai lentamente, forse più di quanto io mi ricordi, il bambino si era appena addormentato e non volevo rischiare in alcun modo di disturbarlo. Mi sedetti delicatamente su una sedia di ferro vicino al letto e feci scivolare la mano in quella di Sora, gli occhi sgranati fissi su quell'insieme di stoffa sotto al quale stava mio figlio, nostro figlio.
«Tutto bene, Tai?» 
Mi accarezzò il dorso della mano, riportandomi alla realtà. Soltanto in quel momento, ricordo, mi resi veramente conto di dove fossi. Fu come risvegliarmi da un sogno, mi accorsi di essere impallidito e di avere la pelle d'oca anche se la luce del sole proveniente dalla grande finestra dietro al letto mi investiva in pieno tutto il corpo. Sbattei un paio di volte le palpebre e guardai Sora negli occhi, sentendo tutto a un tratto il calore del sole sulla pelle.
«S-sì, sto bene. Solo un po' spaventato.» 
Guardai velocemente il resto della stanza mentre mi passavo una mano sulla fronte e mi distendevo sulla sedia. Mi sembrò come se fosse la prima volta che la vedevo. Nel punto da cui ero entrato, in fondo alla stanza, stava una porta scorrevole in legno dai pannelli in tessuto bianco che, tutt'ora, non mi ricordo di aver mai aperto, in preda all'eccitazione. A destra, poi, appoggiati all'unica parete colorata di blu rispetto al resto bianco e sulla quale erano fissate delle mensole, c'erano tre letti posti a un paio di metri di distanza l'uno dall'altro e ciascuno con una sedia accanto. L'unico letto occupato quel giorno era, però, il nostro, e questo voleva dire che avevamo la stanza tutta per noi, in completa intimità e senza alcun disagio. Tornai a guardare Sora, non mi aveva staccato gli occhi di dosso nemmeno per un secondo. Sembrava accigliata, preoccupata, aveva la fronte corrugata e mi guardava con occhi tristi.
«Non sei felice? Non vuoi il nostro bambino?» 
Chiese, la voce strozzata e le sopracciglia che tremavano.
«Hey, hey, cosa dici? Certo che sono felice.» 
Le presi il volto tra le mani e poggiai le labbra sulle sue, mentre con le mani le accarezzavo le guance e i capelli. Appoggiai poi la fronte sulla sua, sospirando.
«Io ti amo e amo lui, capito? Ho solo... paura di fargli male, ecco.»
Mi grattai la testa in imbarazzo, ritraendomi un po'.
Sora mi guardò sorpresa per qualche secondo, poi si mise a ridere sotto i baffi, coprendosi la bocca con la mano.
«Scemo.» 
Scosse la testa e continuò a sorridere, tornando a guardarmi.
«Forza, tienilo tu.» 
Deglutii. Tornai a sentire il cuore battere forte, unii le braccia vicino al petto e aspettai. Non appena tenni il bambino tra le braccia cominciai a piangere di felicità. Aveva già qualche capello disordinato, proprio come i miei, e pensare a lui adolescente, con tanti ciuffi ribelli come li avevo io, mi provocò un risolino. Portai una mano vicino al suo volto e scostai di poco il telo che lo copriva, il sole gli illuminò il volto e lui, infastidito ma ancora addormentato, si spostò e si mise su un fianco, i piedini racchiusi nella mia mano che si muovevano mentre lo faceva. Aveva la bocca aperta, la piccola lingua rosa sulla quale si intravedeva un po' di bava. Completamente rilassato tra le mie braccia. Gli accarezzai una guancia, gli occhi ricolmi di lacrime, così dannatamente felice di averlo con me. Il cuore che sentivo battere ora non era più il mio, ma il suo. Lui era il mio cuore. Lo strinsi di più a me, più vicino al mio volto, un senso di protezione che cresceva in me ad ogni secondo che passavo con lui tra le mie braccia. Poi, una lacrima cadde sulla sua guancia, lui si svegliò e aprì occhi, sorridendomi.

Ora, come allora, i suoi occhi sono fissi sui miei. È diventato un uomo, un bellissimo e forte uomo. La barba, folta e rossiccia, gli copre il mento, e i capelli, sempre spettinati e così simili ai miei, gli ricadono sul volto. Vedo la sua fronte aggrottarsi e i suoi occhi arrossarsi, prossimi al pianto. Alzo debolmente la mano, ora sottile e rugosa, e subito lui, seduto vicino a me, accorre e la stringe tra le sue appoggiandoci la fronte. La stanza è praticamente identica a quella dove nacque. Ho il respiro pesante, affannoso, produco dei suoni gutturali ogni volta che espiro. Non ho più la forza nemmeno per alzarmi, sono completamente sprofondato in questo letto d'ospedale. La maschera e i tubicini di plastica che ho collegati al volto mi danno fastidio, mi bloccano, mi opprimono. Non ne ho più bisogno. Lentamente, porto una mano alla maschera d'ossigeno e la tolgo, adagiandomela sul collo. Nello stesso momento lui solleva la testa e mi fissa, ma i miei occhi hanno già cominciato a perdere lucentezza, ho la vista offuscata. Con le ultime forze rimaste tossisco violentemente, mi giro verso di lui e con le dita accarezzo il dorso della sua mano, proprio come fece Sora con me tanti anni fa.
«Ti voglio bene, figlio mio.» 
Dico con un filo di voce. La mano e la testa  mi ricadono pesantemente sul letto e le palpebre cominciano a diventare pesanti e a chiudersi, faccio solo in tempo a vederlo alzarsi, a sentire la parola "papà" gridata forte che mi riempie di orgoglio, prima che si chiudano. L'ultima cosa che sento è una goccia d'acqua, una lacrima calda, bagnarmi la guancia.


Angolo dell'autore

Heylà, Efp! È da un po' che non ci vediamo eh? Per chiunque non mi conoscesse, probabilmente tutti, il mio nome è Andrea Carullo, cominciai a scrivere sul sito tre anni fa ma, da due anni a questa parte, purtroppo sono stato completamente assente. Il motivo? La mia long principale, scritti 22 capitoli mi resi conto di quanto, realmente, scrivessi male, così, dopo un po' di allenamento, decisi di interrompere la scrittura di nuovi capitoli per dedicarmi alla correzione di questi 22. Ora, compresi imprevisti vari e mancanza di voglia, ho finalmente ripreso a scrivere. Di quei 22 capitoli, purtroppo, soltanto 12 sono stati corretti e non sono ancora stati ripubblicati, ma ora che ho di nuovo l'ispirazione, magari, potrei finirli in fretta. Spero che ci sia ancora qualche anima pia desiderosa di leggere e recensire questa storia, se così sarà, sarò felice di leggervi e rispondervi.
Sperando a una non troppo lontana prossima volta, see ya! 
~Caru13
   
 
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