“Dai suonami ancora qualcosa!”
“Mi spiace cara, ma il mio repertorio è finito”
“Daaai, per favore...lo sai che mi piace sentirti suonare”
“Lo so, ma ti ho detto che-”
“Improvvisa”
Mi lasciai scappare un sorriso.
Non potevo resistere quando faceva così e, per amore, ripresi a suonare: arrotolai con cura il panno in velluto rosso che copriva i tasti in ebano e avorio del pianoforte e lo riposi di lato. Accarezzai i tasti, che riflettevano pigri le luci della città dalla vetrata dell’attico. La notte scura copriva tutti indistintamente, ma gli edifici illuminati a giorno opponevano resistenza.
Presi a suonare, con le dita che camminavano lente sui tasti: ne scaturì una melodia tranquilla e rilassante, con qualche punta tuttavia triste.
Più passavano i secondi, più l’improvvisazione mutava e diventava lenta e cupa.
È come quando porti alle labbra un sorso di whiskey liscio, senza ghiaccio: lo senti dolce e piacevole al gusto in bocca, ma quando deglutisci senti il calore scendere e arroventarti la gola.
Solo che le fiamme presero a rigare le mie guance e smisi di suonare, nuovamente consapevole: lei se n’era andata da tempo ed io tentavo di affogare il ricordo della sua voce nell’alcool.
Mi alzai, ribaltando il seggiolino a terra, e barcollai fino alla finestra, bottiglia alla mano, sperando di far sparire il dolore una volta per tutte.