Dedicata a Egizia, lei sa
perché <3.
Il problema, stabilì
corrucciato l’uomo prendendo appunti su
una Moleskine blu, era l’insegna. La vetrina esponeva
un’ampia selezione di
torte sontuosamente decorate che ammiccavano ai passanti, inducendone
parecchi
in tentazione. In cima all’ingresso, un sobrio cartello color
cioccolato riportava,
in un minimale font sui toni del crema, il nome del negozio: Kim. L’interno, ben illuminato
al di là
del vetro e decisamente affollato, era invitante. L’arredo
ricordava quello di
certe caffetterie viennesi di inizio ‘900, con un grande
lampadario centrale in
stile Liberty avvolto da fili di perle di vetro, eleganti tavolini in
ferro
battuto resi vivaci da addobbi floreali freschi di vivaio, specchi
profilati di
ottone e poltroncine in velluto. Gli avventori, seduti o in fila
davanti al
registratore di cassa in attesa di pagare, sembravano a proprio agio e
contenti
di trovarsi lì, in un ambiente confortevole ed intimo
nonostante la sala da tè
si trovasse in Via Cernaia, una strada alquanto frequentata. Eppure,
rifletteva
l’uomo, l’insegna mancava. E quello era
indubbiamente un punto a sfavore del
locale. Tutt’altra cosa rispetto agli States, dove aveva
vissuto a lungo.
Allorché varcò
l’ingresso, venne investito da un’orgia di
aromi. Il suo olfatto allenato riconobbe il sentore asprigno del cedro
candito,
l'aroma intenso del cioccolato fondente e la ricchezza burrosa dei krapfen,
rigorosamente fritti
in olio di semi bollente. Il trillo sommesso di una campanella affissa
alla
porta annunciò al personale la sua entrata. L’uomo
prese nota mentalmente dei
modi cortesi e amichevoli con cui i commessi servivano i clienti, ma
non si
preoccupò di attirare la loro attenzione. Lui mirava al
padrone, di cui aveva
sentito dire solo cose lusinghiere. I suoi informatori gli avevano
riferito che
lo si poteva trovare tutti i giorni della settimana in pasticceria; non
era
certo uno sfaticato.
“Buongiorno, sono Jongin.
Benvenuto nel mio locale. In cosa
posso servirla?”
Un particolare su cui i suoi
informatori -tutti, a
prescindere dal sesso e dall’età- si erano
dilungati anche troppo era la
bellezza fuori dal comune del fondatore del negozio, Kim Jongin. Di
origini
coreane, come si evinceva da nome e cognome, possedeva la grazia che
solitamente si attribuisce alle popolazioni orientali e liquidi occhi
grigi che
rivelavano antenati occidentali. Alto, la vita sottile bilanciata da
spalle
larghe e forti, la pelle su cui sembrava fosse stato colato del miele
di
acacia, lucidi capelli scuri, polsi ossuti ed un grembiule che non
riusciva a
celare le sue lunghe gambe, Jongin era effettivamente quanto di
più vicino
esistesse al concetto di divinità incarnata.
L’uomo batté velocemente le
palpebre, stordito di fronte ad una simile e sfacciata avvenenza.
“Salve. Mi hanno tanto
parlato della sua pasticceria, perciò
mi è venuta voglia di farci un salto” rispose,
mescolando la menzogna alla
verità. “Ammetto di non capirci molto di dolci. Mi
aiuterebbe a scegliere
quello più adatto a me?”
“Ma certo”
sorrise, rivelando una dentatura abbagliante.
“Devo dimostrare di essere all’altezza di una tale
pubblicità. Credo di essere
abbastanza bravo a indovinare i preferiti dei miei clienti…
Prego, mi segua” lo
invitò, andando dietro alla vetrina refrigerata con la merce
esposta. L’altro
obbedì.
“Innanzitutto mi occorre
capire che tipo di dolce sta
cercando. La piccola pasticceria, ad esempio, può essere
servita in tutto
l’arco della giornata, dalla colazione a un
dopocena” indicò un settore ricolmo
di bignè, biscotti e tartine dall’aria golosa,
semplici oppure ricoperti di
panna e frutta. “I dolci al cucchiaio come le bavaresi, i
budini, le charlotte, i
soufflé, gli aspic e le
creme, leggeri e scenografici,
sono perfetti per un’occasione importante. Le crespelle e le
omelette, con i
loro ripieni a sorpresa e spesso servite ben calde, sono indicate per
la fine
di un pranzo o di una cena ricercati” nel mentre presentava i
dolci come
fossero preziose creazioni, gioielli edibili che era quasi un
dispiacere
mangiare tanto erano curati.
“Quelle torte,
invece?” domandò l’uomo puntando il dito
senza sfiorare il vetro. Jongin gliene fu grato.
“Si dividono in torte
semplici, lievitate, alla frutta,
crostate, torte di yogurt e cheesecake. Sono tutte adatte ad una prima
colazione, una merenda o un tè pomeridiano. Le torte di
frutta sono indicate
anche per una cena, specie le tarte, le pies, le sfogliate e le
meringate. Le
torte farcite, generalmente più sostanziose, vanno bene per
un’occasione
particolare come compleanni e anniversari ma possono completare anche
un pasto
leggero, soprattutto se rinforzate con mousse o frutta. Strudel e
rotoli farciti
sono consigliabili per l’ora del tè o a
conclusione di una cena informale”
spiegò affabile.
“Noto che avete anche i
gelati” osservò l’altro.
“Sì, ora che ci
apprestiamo ad entrare nella bella stagione
li abbiamo rimessi in vendita. Tendiamo a consigliare i gusti
più consoni al
clima, prediligendo quelli alla frutta e le creme delicate, ma non
mancano mai
dell’ottima nocciola, cioccolato, zabaione e panna cotta.
Siamo pur sempre a
Torino” concluse con un gran sorriso.
“L’assortimento
è notevole. È tutto di vostra produzione, mi
dicevano”.
“Confermo”
ammiccò simpaticamente. “Nel retro
c’è il
laboratorio, dove ci alterniamo io e due assistenti. Ogni giorno
sforniamo
brioche e cornetti, pasticcini e i dolci farciti con ingredienti
deperibili. Le
torte ed i semifreddi” li indicò nei due
frigoriferi a vista che erano
addossati alla parete opposta della stanza “hanno una
conservazione un poco più
lunga. Fortunatamente non ci capita spesso di ritrovarci con della
merce
prossima alla scadenza. In tal caso la scontiamo del 50% e avvisiamo i
clienti
di consumarla in giornata”.
“E quella invenduta che
fine fa? La buttate?”
“Giammai!” il
proprietario si infiammò di puro sdegno.
“Collaboriamo con il Banco Alimentare, che gestisce una mensa
dei poveri qui in
città. Doniamo loro le giacenze, che fortunatamente per i
miei affari sono
poche, così per implementarle ogni ultimo weekend del mese
prepariamo una
partita intera di paste e panini dolci che diamo in beneficenza. Non
è molto,
ma nel mio piccolo contribuisco come posso” si strinse nelle
spalle con
modestia.
“Lodevole da parte sua. E
gli ingredienti sono genuini, sì?”
incalzò l’uomo.
“Genuini e biologici. Il
burro, il latte, la panna, lo
yogurt e le uova sono freschissimi, mi arrivano da una masseria a pochi
chilometri da Torino. La frutta è sempre di stagione e
matura al punto giusto,
la scelgo personalmente ai mercati generali ogni tre giorni. Per
friggere utilizziamo
solo l’olio di semi di arachidi, ma in dispensa teniamo anche
una bottiglia di
olio extravergine d’oliva della Toscana per ogni
evenienza” l’orgoglio
(giustificato) traspariva da ogni sua parola.
L’uomo però non
parve colpito. Aggrottò le sopracciglia e
piegò la bocca in una smorfia quasi indispettita.
“E sia. Prendo un cabaret di
pasticcini, scelga lei la tipologia”.
“Da portar via?”
domandò Jongin con garbo, benché la
reazione fiacca del cliente avesse in parte smorzato il proprio
entusiasmo. “Sei
vanno bene?”
“Benissimo. Li mangio qui,
se c’è un tavolo libero. Prendo
anche una tazza di tè” rispose quegli impassibile.
“Come desidera. Egizia,
cortesemente, libera un posto per il
signore” Jongin si rivolse ad una delle cameriere che
stazionava in sala.
La ragazza spalancò gli
occhi e arrossì, preda di una
visibile emozione. “Certo, capo” disse lasciando
trapelare un leggero accento
napoletano. Era palesemente infatuata del suo datore di lavoro; e chi
non lo
era?
Jongin sospirò mentre
Egizia faceva sedere il nuovo cliente.
Seguì il suo istinto e compose un vassoio variegato, con un
profiterol farcito
di gelato all’ananas e panna montata, un torcetto piemontese,
una madeleine
alle spezie (cardamomo, cannella, noce moscata e chiodi di garofano),
un pasticcino
malese cosparso di polpa di noce di cocco, un bastoncino ai pinoli e
cioccolato
e un éclair alla crema pasticcera ricoperto da una ghiaccia
al caffè ristretto.
Un accostamento insolito di sapori, a tratti esotico. Sperò
che al cliente -che
come lui presentava connotati marcatamente asiatici pur parlando italiano con
accento inglese- piacesse. Chiamò con un gesto una ragazza
dai capelli rossi.
“Marta, portali al tavolo
12, grazie” le porse i pasticcini.
“Intendi il Grumpy Cat che
pare un becchino e che ti ha
tartassato di domande fino a tre secondi fa?”
ribatté la cameriera. “Simpatico
come la sabbia nelle mutande. Secondo me gli piaci”
sentenziò.
“Secondo te io piaccio a
qualsiasi essere vivente dotato di
gambe e attributi maschili” si schermì lui.
“Anche quelli con gli
attributi femminili non ti disdegnano.
Si tengono lontane solo perché hai un’insegna
fosforescente con scritto ‘gay’ a
caratteri cubitali sulla fronte, ma se potessero…”
gli strizzò l’occhio.
“Te compresa?”
ammiccò di rimando.
“Neanche se volessi.
Spezzerei il cuore di mio marito, e
inoltre ti voglio bene come ad un figlio”
ridacchiò Marta, che aveva solo tre
anni più di Jongin. “Meglio che mi sbrighi a
servire Nosferatu, lo sento
lanciarmi occhiatine velenose sin da qui” afferrò
il vassoio e si esibì nel più
convincente dei sorrisi prima di avviarsi verso il tavolo 12.
Jongin controllò Nosfer-
il distinto cliente di tanto in
tanto, tra uno scontrino ed un avventore affezionato che ci teneva a
salutarlo
e a scambiare quattro chiacchiere. Lo vide sbocconcellare il cibo,
masticare
piano, leccare via gli eccessi di farcia dagli angoli della bocca. Il
piatto si
svuotò in fretta, ma l’espressione del cliente non
cambiò di una virgola.
Jongin non poté esimersi dal chiedersene il motivo. I suoi
prodotti erano
buoni, ne era consapevole. A cosa era dovuto quel muso lungo? Forse la
miscela
di tè non era di suo gradimento? Il locale non era
abbastanza raffinato, i
pasticcini troppo classici, nutrienti, incuranti della moda del
momento? Quando
il cliente arrivò in cassa per saldare il conto, Jongin
cercò di sondare il
terreno.
“Tutto a posto? Si
è trovato bene?” gli porse lo scontrino con
voce pimpante.
L’uomo annuì.
Insieme ad una banconota da venti euro gli
lasciò un bigliettino da visita. Oh
Sehun
- freelance, lesse Jongin. Seguivano l’indirizzo
email e il numero di
cellulare. “Che fortuita coincidenza: anche lei è
di origine coreana?” commentò
piacevolmente sorpreso.
Sehun (finalmente poteva assegnargli
un nome) annuì di
nuovo. “Credo che tornerò. Buona
giornata”.
Le due cameriere erano rimaste in
disparte ad assistere al
dialogo.
“Ha l’eloquenza
di un sarago boccheggiante, e anche lo
stesso sguardo” decretò Marta.
“Ma no, dai, è
carino” protestò la collega.
“Egì, il suo
culo alla Jennifer Lopez non nobilita la faccia
da broccolo lesso che Madre Natura gli ha affibbiato alla
nascita”.
“Beh, il capo lo ha
squadrato per benino. Con ammirazione”.
“Ha anche lui i suoi
difetti, purtroppo” scosse la testa
sconsolata. “Il più interessato tra i due mi
è sembrato proprio Mister Broccolo.
Gli ha persino dato un biglietto da visita, con recapito e tutto. Ah,
gli
asiatici e le loro pessime tecniche di rimorchio!”
ridacchiò esilarata.
Egizia la guardò di
traverso. “Marta. Tuo marito è cinese”.
Il sorriso della ragazza divenne
luciferino. “Infatti ho
fatto io la prima mossa, altrimenti a quest’ora saremmo stati
ancora amici”.
Torino era una città
monumentale e al tempo stesso
accogliente, e Jongin la amava per quella sua duplice natura. Le strade
ampie
del centro storico che si intersecavano razionalmente e i portici di
palazzi in
stile risorgimentale, che riparavano con la loro ombra marciapiedi
altrettanto
larghi, ospitavano botteghe affollate e piene di mistero: librerie a
conduzione
famigliare in cui dare la caccia a volumi introvabili altrove, bar e
pizzerie
che offrivano il meglio delle specialità regionali e ogni
sorta di street food
a prezzi modici, bugigattoli antiquari, filiali di note catene di
abbigliamento
e piccole boutique che resistevano orgogliose alla concorrenza.
Numerosi
giardini pubblici si intervallavano a distanze regolari, offrendo
ristoro e la
piacevolezza di aiuole ben curate a chi vi si recava in passeggiata.
Affacciate
sul cuore pulsante della città, tra Piazza Castello e Piazza
San Carlo, le
rinomate cioccolaterie si offrivano languide agli sguardi bramosi dei
passanti,
nascondendo i propri tesori dietro a tendaggi di velluto e maestose
insegne in
legno scuro, lucidato dagli anni e dall’usura.
La deliziosa Galleria Subalpina
collegava le due grandi
piazze; chi la imboccava aveva l’impressione di scoprire un
passaggio segreto
risalente alla Belle Époque e conservatosi intonso sino ai
giorni nostri. Via
Po, lunga al punto da sembrare infinita, sfociava nella splendida
Piazza
Vittorio Veneto, i cui locali notturni animavano la movida torinese. Lo
spettacolo maggiore era però fornito dalla vista che da
lì si godeva del fiume
e della Gran Madre di Dio, uno dei più importanti luoghi di
culto cattolici
della città. Via Roma era un alveare di negozi di lusso e
aveva il pregio di
trovarsi vicino alla bella sede del Museo Egizio. A pochi metri di
distanza,
Palazzo Madama e Palazzo Reale stordivano i turisti con la loro mole
imponente
ed aggraziata. In lontananza la Mole Antonelliana svettava sui tetti
torinesi,
vigilando sullo shopping colorato che animava Via Garibaldi.
Jongin si recava spesso al mercato di
Porta Palazzo per la
spesa settimanale. Nel weekend, il Parco del Valentino ed il borgo
medievale in
esso contenuto erano una tappa obbligata da visitare insieme a Kai, il
suo
barboncino toy. Più volte si era recato in gita alla
Basilica di Superga,
risalendo le colline sul trenino a cremagliera, e non mancava di
compiere il
suo personale pellegrinaggio presso la Reggia di Venaria Reale e la
Palazzina
di Stupinigi almeno una volta l’anno. Torino era una
città dolce in cui vivere,
ricca di iniziative culturali, vivace e tuttavia non troppo trafficata,
all’apparenza severa e francese nell’architettura,
purtroppo molto inquinata e
penalizzata da un clima gelido d’inverno e umido
d’estate. Jongin le perdonava anche
i suoi difetti e le sue contraddizioni.
“È a Torino che devo parte della mia storia
personale” si ritrovò a
raccontare una settimana dopo a Sehun, tornato in visita come aveva
promesso.
“La mia nonna materna è italiana, nata in questa
città. Discende da una
famiglia ebrea di origini miste, un po’ francesi e un
po’ austriache. È merito
suo se mi sono appassionato all’arte pasticciera: da bambino
mi preparava dolci
di ogni tipo, che risentivano parecchio delle sue origini
mitteleuropee.
Terminato il liceo a Seoul mi sono iscritto
all’Università di Scienze
Gastronomiche di Pollenzo, in provincia di Cuneo, e ho conseguito un
master in
pasticceria presso Alma, la scuola di Gualtiero Marchesi. Per fare un
po’ di
esperienza ho lavorato a Brescia, nel laboratorio di Iginio Massari,
per circa
tre anni. Quando ho capito di dover spiegare le ali e cavarmela da
solo, ho messo
in valigia il libro di ricette di mia nonna e mi sono stabilito
qui” sorrise al
ricordo.
Il volume occupava un posto speciale
nella libreria di
Jongin. Profumava di zucchero a velo ed essenza di fiori
d’arancio. Le pagine,
sottili come veli di cipolla, erano fitte di una grafia minuta e
inclinata,
vergata con inchiostro nero. Nelle giornate buie, in cui nemmeno la
compagnia
di Kai era sufficiente a colmare il peso della solitudine, a Jongin
bastava
sfogliarlo e odorarne la copertina di cuoio invecchiato per tirarsi su
di
morale. Una tazza di caffè, un romanzo giallo a contorno ed
ecco che
l’illusione della felicità tornava come per magia.
Sehun, che aveva ascoltato in
silenzio partecipe il
proprietario di Kim, raccolse le
ultime gocce di gelatina di mele al rum bianco con cui erano state
annaffiate
le rissoles di pere servitegli quel giorno. Le aveva apprezzate,
così come le
frittelline di uva di Corinto e la treccia alla siciliana (con frutta
candita,
pasta di mandorle e cannella) dei giorni precedenti, ma nessuno si era
rivelato
essere il suo dolce preferito.
“Nemmeno questo
è quello giusto, vero?” la voce di Jongin lo
distolse dai suoi pensieri.
“Oh? No, mi dispiace.
Squisito, comunque” si pulì i residui
di cibo con un tovagliolino di carta.
“Troverò il tuo
preferito -mi scusi, il suo” si affrettò a
correggersi il pasticciere, imbarazzato.
Sehun si alzò di scatto,
rigido e impettito. Uno sfumato
rossore gli scaldava le guance. “Non scusarti”
borbottò. “Siamo coetanei,
questi formalismi sono inutili. Tieni pure il resto. Alla
prossima” proferì
prima di uscire in tutta fretta dal locale.
Jongin rimase perplesso a guardarlo
allontanarsi. “Si è offeso?”
domandò a nessuno in particolare.
Fu Egizia, di turno a
quell’ora, a offrire una risposta.
“Capo, se mi consenti l’ardire… Devo
dare ragione a Marta, quel tipo ha una
cotta per te”.
“Figurati”
sbuffò lui.
Le settimane passarono senza che
avvenissero grossi
cambiamenti nella routine quotidiana di Kim.
Oh Sehun si aggiunse alla folta schiera degli habituée del
locale, con sommo
diletto delle cameriere e dei commessi che assistevano ai siparietti
della
strana coppia. Jongin lo accoglieva trepidante, impaziente di
sottoporre
all’uomo una nuova creazione. E invero si dava da fare con
grande sfoggio di
perizia culinaria, attingendo alle ricette della nonna. Di conseguenza,
Sehun
ebbe modo di gustare dolci sempre più sorprendenti e arditi:
una bomba gelata al
sorbetto di cocomero e parfait di lamponi; un golosissimo Paris-Brest
di pasta bignè
ricolmo di una crema composta da panna fresca, burro e nocciole
tostate; torta
ungherese dall’impasto ricco di semi di papavero e gherigli
di noce tritati,
morbida e corposa; il Savarin Lussemburgo, cotto al forno nel suo
stampo e
caramellato da uno sciroppo al kirsch con una soffice guarnizione di
panna
montata alla base e, in cima, more fresche immerse in gelatina
d’albicocche;
fagottini di mele Golden e crema spolverizzati di cannella e zucchero a
velo;
dolcetti di datteri alla coreana arricchiti da miele e pinoli; un
inedito punch
ghiacciato al tè, realizzato unendo pregiato Champagne
francese al rum, lo
zucchero, mezzo albume, il succo di un limone e di un’arancia
non trattati.
C’era di che ingrassare a
dismisura o sviluppare un diabete
da iperglicemia, ma sembrava che Sehun fosse immune alle calorie e che
la sua
insulina lavorasse a dovere. Arrivava in negozio verso le quattro meno
cinque di
ogni martedì, giovedì e sabato. Entrava con
l’incedere di un airone stizzito,
le gambe appuntite come matite, il nero dei suoi completi che ben si
sposava al
ciglio torvo che egli indossava a mo’ di segno distintivo.
Nonostante la
spocchia ostentata, era opinione comune (condivisa persino da alcuni
clienti
fedelissimi) che l’uomo celasse, dietro ai silenzi
inespugnabili e ai vaghi
cenni del capo con cui esprimeva il proprio apprezzamento, una profonda
timidezza.
“Anche Yifan, quando ci
siamo conosciuti, mi intimidiva da
morire perché lo vedevo come un marcantonio perennemente
incazzato e troppo
bello per essere vero” si lasciò sfuggire Marta
una volta, chiacchierando con
la collega. “Poi però ho scoperto che erano le
sopracciglia aggrottate a
conferirgli un’aura minacciosa che non possedeva minimamente,
e che in realtà
era solo un gigantesco orsacchiotto imbranato”.
“E credi che valga lo
stesso per il signor Oh?”
“Beh, lui ha la faccia da
broccolo di default e temo che su
quella non si possa intervenire. Però l’ho
osservato spesso interagire con
Jongin e ne ho ricavato una sensazione di enorme disagio. È
goffo, impacciato,
si mangia le parole, ne evita lo sguardo. Levagli gli abiti da
impresario di
pompe funebri-”
“Mi offro volontaria, se
serve” interloquì Egizia,
sbarazzina.
L’altra
rabbrividì di disgusto. “Ti prego, torna a sbavare
su Jongin che è seriamente bello da rodersi il fegato.
Invece, se togli a
Mister Broccolo quegli straccetti emo alla
vorrei-essere-chic-ma-non-posso
rimane un insicuro ragazzetto dinoccolato che tenta di darsi un tono e
niente
più”.
“Sei severa con
lui” la rimproverò.
“Lo sono perché
ci intravedo del potenziale. Sembra
realmente cotto di Jongin, ma se con il suo atteggiamento da Marchese
Di Stocazzo
-passami il francesismo- dovesse finire per ferirlo in qualche modo
sappi che
non rispondo della mia reazione” dichiarò Marta,
preparando l’ordine per un
tavolo lì vicino.
“Io voglio essere
ottimista” Egizia tagliò una fetta di
crostata al pompelmo rosa, la superficie coperta di spicchi pelati a
vivo e
luccicanti come granati. “Sento che andrà a finire
bene”.
“Mi auguro che tu abbia
ragione, cara. Mi si stringe il
cuore a vedere Jongin sempre solo” disse Marta, un velo di
tristezza nella
voce.
Sehun fissò il menu,
palesemente indeciso. Alzò il capo
verso Jongin. “Sono in difficoltà. Non so
scegliere tra la bavarese alla menta,
il budino alla spagnola e quello di ricotta alla romana”
confessò ad occhi
bassi, quasi si vergognasse.
“Puoi prendere tutte e tre
nel formato più piccolo. Abbiamo
anche le monoporzioni, te l’ho detto, no?” propose
Jongin con un sorriso.
“Avrei preferito
dimenticarlo. Tu e la tua pasticceria
sarete la rovina della mia linea nonché del mio
portafogli” ribatté l’altro,
lasciando di stucco il proprietario. Era la prima volta che Sehun
azzardava una
battuta di spirito. “Mi arrendo: portami le
monoporzioni” si decise infine.
“Forse posso tentarti con
una nuova ricetta. Dimmi che te ne
pare, eh. Si tratta di una ciambella di pasta choux farcita con una
delicatissima crema al latte aromatizzato al limone, panna montata e
fragoline
di bosco, ed una glassa con Alchermes fatta colare sopra”
elencò fiero.
“…Ti odio.
Prendo le monoporzioni da mangiare qui, e la
ciambella da asporto” Sehun tentò di suonare
contrariato, ma i suoi occhi
furono attraversati da un bagliore divertito.
“Sei il mio cliente
preferito!” esclamò Jongin. “Se non
stessi lavorando ti abbraccerei”.
Sehun fu lesto, persino abile, a
coprire il rossore che gli
divampò sulle guance. Non viste, le due cameriere se la
ridevano sotto ai
baffi.
La simpatia tra Jongin e Sehun crebbe
sempre più, insieme al
piccolo ma nutrito fan club di dipendenti e clienti della pasticceria
che
vedevano di buon occhio quell’amicizia e anzi speravano che
si evolvesse in
altro. Entrambi gli uomini traevano beneficio dalla rispettiva
compagnia.
Jongin era animato da un nuovo entusiasmo creativo che conferiva al suo
lavoro
e alle squisitezze che preparava una qualità superiore.
Dal canto suo Sehun aveva smesso i panni di algido principino sul
pisello e
sorrideva apertamente, sfoggiando di tanto in tanto qualche capo
colorato più
adatto alla primavera che serpeggiava in città. Aveva
inoltre preso l’abitudine
di consumare le proprie ordinazioni appollaiato su uno degli sgabelli
del bar,
preferendo la vicinanza fisica di Jongin alla privacy offerta dal
solito
tavolino d’angolo. L’onnipresente Moleskine si
stava riempiendo di appunti e
annotazioni la cui natura era sconosciuta a chiunque,
giacché Sehun aveva cura
di chiuderla non appena una persona qualsiasi gli si avvicinava.
“Mi piacerebbe sapere cosa
scrivi con tanta foga su
quell’agendina” lo accolse un giorno il
proprietario del Kim a
mo’ di saluto. Sottolineò con una risata
l’imbarazzo
dell’altro. “Questa è la
specialità del giorno, ci tengo ad avere un tuo
parere”
aggiunse poi.
Gli mise sotto il naso una coppetta
di vetro istoriato
traboccante mirtilli, fettine di fragola, banane, ananas, mango e more
intere.
“Macedonia in gelatina fredda di spumante; e non uno
qualsiasi, bensì il Fiori
d’Arancio dei Colli Euganei, ottenuto dall’uva
Moscato Giallo più dolce e
intensa. L’alcol si sente appena, in modo da esaltare la
fragranza della
frutta. È molto amato anche dagli astemi. Spero sia di tuo
gusto”.
Sehun osservò quel
tripudio lucido e appetitoso. Non aveva
dubbi che fosse buono. Scavando con il cucchiaino nella gelatina,
divenne di
colpo serio e pensoso. “Ho una domanda da farti”.
“Strano” Jongin
si finse sorpreso. “Avanti, spara”.
“La tua è una
pasticceria di classe, inserita in una delle
vie più frequentate del centro. Hai una buona clientela. Mi
chiedo come mai,
trovandoti nella capitale mondiale del gianduia, tu non abbia pensato
di
produrre anche una linea di cioccolatini. Ti frutterebbe parecchio e
attirerebbe ancora più clienti, non credi?” si
fermò per riprendere fiato. Gli
capitava di rado di formulare frasi tanto lunghe.
Jongin scrollò le spalle.
“Potrebbe essere una precisa
scelta stilistica, la mia” ammise con nonchalance.
“Sai, un modo per
distinguermi dai concorrenti. Torino è piena di locali che
vendono gianduiotti,
li lascio volentieri a loro. Preferisco concentrarmi sulla pasticceria
e sui
gelati”.
“Ampliare la produzione
però non sminuirebbe il tuo talento.
Al contrario, sarebbe una freccia in più al tuo
arco” insistette lui.
“Sei gentile, ma non fa per
me” lo guardò. “Se non
conservassi il tuo aplomb in qualsiasi circostanza, mi verrebbe da
pensare che
tu sia nervoso. C’è un motivo particolare per cui
sembri tenere tanto ad una
mia futura carriera da maître
chocolatier?” insinuò con amichevole
malizia.
“No, cosa vai a
pensare” ribatté Sehun in fretta. “Era
un’idea, nient’altro. Ottima questa gelatina di
frutta, a proposito”.
“Grazie. Domani ti
farò trovare una sorpresa” promise
Jongin, arricciando il naso come un coniglio molto carino.
La mattina seguente uscì
sul Corriere Torino, il quotidiano
della città, una recensione nella rubrica dedicata ai locali
da non perdere e a
quelli da cui tenersi ben lontani. La recensione -il cui titolo
recitava Kim: classico oppure obsoleto?-
era
firmata da Oh Sehun, critico gastronomico.
I complimenti alla perizia del pasticciere capo e alla bellezza del
negozio (peccato
per la mancanza di un’insegna come si deve!) abbondavano, e
il voto finale
assegnato dall’autore dell’articolo era quattro
stelle su cinque. Il succo del
discorso, da leggersi tra le righe tanto era espresso subdolamente,
suggeriva però
ben altro: ovvero che Kim Jongin era sì bravo e dedito al
proprio lavoro come
pochi professionisti del settore, ma il suo concetto di pasticceria era
decisamente superato. Rifiutava di cimentarsi nel cake design, puntava
su dolci
cosmopoliti ma troppo elaborati e privi di quella ricercatezza trendy e
fighetta che impazzava su Instagram tra i food blogger e le influencer.
In
compenso aveva la presunzione di credersi diverso, forse migliore dei
suoi
colleghi perché non si univa alla folta schiera di
cioccolatai torinesi. Un
vero peccato, concludeva il critico, che si dichiarava dispiaciuto di
non aver
potuto assegnare la quinta stella a Kim.
Le reazioni non tardarono ad arrivare
e furono tutte di
carattere abbastanza turbolento. Molti clienti manifestarono
indignazione e
sostegno morale al proprietario ingiustamente vilipeso dalla stampa, ma
quelli davvero
inviperiti furono i fedelissimi che frequentavano il locale
quotidianamente e
che avevano conosciuto Sehun, il vile traditore, scambiandoci persino
qualche
parola. I commessi si sentivano altrettanto oltraggiati,
perché stimavano
Jongin e gli volevano bene. I suoi aiutanti avevano esitato a lungo sul
presentarsi o meno in cucina, allarmati dai suoni che avevano sentito
provenire
al di là della porta chiusa. Quando ne era emerso il capo,
scarmigliato e con
un’espressione che definire sanguinaria era semplicemente
eufemistico, si erano
presi un bello spavento. Dietro il bancone, una intenta a scaldare
l’acqua per
il tè e l’altra con uno strofinaccio in mano, le
cameriere discutevano tra loro
del fattaccio, a bassa voce per non alimentare il malumore generale.
“Marò,
c’omm e merd” commentò Egizia con
partenopea costernazione.
In casi simili, l’uso del dialetto era un palliativo per
l’anima.
“Quel figlio di un
tagliagole” borbottò Marta. Allo sguardo
interrogativo della collega, alzò le spalle. “Che
c’è? Si insulta sempre la
mamma degli stronzi, come se i padri non avessero alcuna
responsabilità.
‘Figlio di un tagliagole’ suona meglio,
è più infamante. La prostituta di rado
sceglie il proprio mestiere, mentre uno che per campare uccide e deruba
le
persone è un bastardo senza appello” riprese a
strofinare la superficie già
pulita.
“Ci speravo tanto, sai.
Sono delusa. Mi pareva un ragazzo
sensibile, nu brav’ guaglion’, veramente
interessato a Jongin” sospirò l’altra.
“Non è stato sincero con lui. Una critica ci
può stare, ma comportarsi così è
proprio una bassezza”.
“Ha agito come il cuculo,
il filibustiere: si è insinuato
nel nostro nido e ha deposto l’uovo, sperando che il pulcino
ci fagocitasse
tutti” rincarò la dose Marta. “Ah, ma se
lo becco lo fucilo a vista. O magari
gli sguinzaglio dietro Zitao, mio cognato: è istruttore di
arti marziali, non ci
mette nulla a ridurlo in fin di vita” si esaltò.
“Beh, se hai intenzione di
fargliela pagare ti conviene
decidere una strategia in fretta” la avvertì
Egizia, d’un tratto vigile. “L’omm
e merd è qui” disse indicandolo con un cenno del
capo, sprezzante.
Non sbagliava. Sehun varcò
l’ingresso con l’usuale
mescolanza di alterigia e ritrosia, gli occhi puntati sul registratore
di cassa
aspettandosi di trovarvi Jongin, allegro come suo solito. Non vedendolo
si
arrestò un attimo, spaesato. Al contrario avvertì
gli sguardi dei presenti
puntati su di sé, e nemmeno uno era benevolo. Le due
cameriere, in particolare,
lo fissavano con astio.
“Buongiorno,
signorine” si schiarì la gola. “Il
titolare c’è
o-”
Prima che una di loro potesse
rispondergli per le rime, dal
laboratorio fece capolino Jongin in persona, la divisa in perfetto
ordine ed
una confezione regalo per torte in mano. Soltanto un tic alla bocca che
lo
induceva a digrignare i denti ne rivelava il reale stato
d’animo. Sehun lo
percepì.
“La recensione non ti
è piaciuta” realizzò, sulla difensiva.
“Mi devi scusare. Non era quella la bozza originale, hanno
fatto casino al
giornale” provò a giustificarsi.
“Offre la casa”
replicò Jongin, incolore, posando la confezione
sul bancone. “Benché antiquato, sono ancora in
grado di svolgere il mio lavoro
con professionalità. La prenda e se ne vada, signor Oh. La
sua presenza non è
più gradita nel mio locale” gli diede le spalle e
si apprestò a tornare in
cucina.
“Jongin, per
favore-”
“Hai sentito il
capo” lo interruppe Egizia, severa. “Smamma
e non costringerci a cacciarti a calci nel sedere,
screanzato”.
Simile ad un Cerbero, Marta si
materializzò di fianco a
Sehun. “Prego, mi consenta di accompagnarla alla
porta” disse e lo strattonò
malamente fuori dal negozio, nel silenzio colmo di risentimento degli
altri
clienti.
Jongin, rifugiatosi in bagno, si
asciugò rabbioso una
lacrima che aveva osato solcargli la guancia sinistra.
Sehun tornò a casa. Come
girò le chiavi nella toppa, un
abbaiare gioioso gli diede il benvenuto. Una massa di pelo bianca,
fremente e
saltellante gli andò incontro subito dopo.
“Ciao, Vivi. Buono, buono,
papà è tornato” lo prese in
braccio e accettò di buon grado una leccata sotto al mento.
“Hai sentito la mia
mancanza, eh?” baciò il cagnolino sulla testa e lo
rimise giù.
Trasse in salvo la torta -o forse la
mela avvelenata?- della
pasticceria Kim, portandola in
cucina. La lasciò accanto al lavello senza degnarla di
un’occhiata e prelevò dal
frigorifero il cibo per cani (macinato di tacchino cotto insieme a
carote
bollite, opera del suo macellaio di fiducia), che versò in
una ciotola e diede a
Vivi. Guardò l’orologio appeso alla parete. Erano
le sei, un po’ in anticipo
rispetto ai suoi soliti orari, ma non gli importava. In quattro e
quattr’otto
mise insieme una cena squallida e misera come si sentiva lui in quel
momento:
del pane in cassetta, una lattina di tonno di sottomarca, una mela
verde e una
bottiglia di birra vuota per tre quarti. Apparecchiò il
tavolo con una
tovaglietta all’americana, di quelle usate per la colazione.
Non aveva davvero
fame. Raramente ne aveva, nella desolazione del suo appartamento.
Non c’era calore in quelle
stanze arredate in modo spartano,
nelle pareti spoglie prive di quadri o stampe, nelle piastrelle lucide
del
bagno, nella sua camera da letto, nel televisore muto.
L’unico sprazzo di vita
domestica era costituito da Vivi, dai suoi giocattoli, dalle briciole
di cibo
che talvolta spargeva in giro in preda alla foga divoratrice. Sehun non
aveva
problemi ad ammettere di essere una persona introversa e chiusa,
tendente
all’isolamento, che al consorzio umano preferiva di gran
lunga la compagnia di
esseri a quattro zampe. Faticava maggiormente ad accettare la causa di
quella
solitudine, cioè i propri fantasmi. Qualcuno però
li avrebbe definiti
diversamente, attribuendo tutta la responsabilità al suo
carattere ombroso e ad
esperienze passate non certo traumatiche ma formative.
Il padre diplomatico aveva trascinato
con sé la famiglia in
giro per il mondo, incarico dopo incarico, garantendo a moglie e figlio
qualche
anno di stabilità salvo poi sradicarli e ripartire per una
nuova avventura.
Sehun aveva frequentato scuole pubbliche e istituiti privati,
ricavandone una
cultura a tratti lacunosa e imparando diverse lingue. Le amicizie,
poche e
difficoltose a causa della sua indole timida, non avevano retto. Le
relazioni
amorose erano state fugaci, insignificanti storielle senza ricorrenze
né la possibilità
di costruire alcunché. Completati gli studi di
enogastronomia, era volato negli
Stati Uniti per il suo primo incarico importante. Lo stile di vita
estraniante americano
non aveva giovato alla sua modesta condizione di infelicità,
pertanto quando un
conoscente lo aveva contattato per offrirgli un posto in Italia come
critico
gastronomico freelance non ci aveva pensato su due volte e si era
trasferito a
Roma, dove la sua strada aveva incrociato quella di Vivi. In
seguito ad una
promozione erano approdati insieme a Torino, in cui abitavano da circa
un anno.
Fine della storia, pensò
Sehun dando una carezza al
cagnolino finalmente sazio. La cena restava intonsa sul tavolo. La
confezione
della pasticceria lo tentava, immobile sul ripiano vicino ai fornelli,
e al
tempo stesso sembrava sfidarlo. Mangiami se hai coraggio, gli
sussurrava
beffarda. Fine della storia, ripeté Sehun a voce alta. Devo
assumermi le mie
responsabilità. Disfò la scatola con mano
tremante, trattenendo il fiato di
fronte allo spettacolo che gli si parò dinnanzi agli occhi.
Un budino giallo
crema a due strati, semplice nella forma e riccamente punteggiato di
frutta
candita: ciliegie rosse come rubini, bucce di limoni verdi simili a
smeraldi,
scorze d’arancia di un vivo arancione. Un bigliettino volato
fuori dalla
scatola identificava il dessert come crema ottomana.
Il giornalista ammirò
ancora un poco quell’opera d’arte,
realizzata con il cuore da un uomo buono che probabilmente aveva
perduto ancora
prima di poterlo conquistare. Rovistò nel cassetto dove
teneva le posate.
Affondò il cucchiaino nel composto spumoso, sorprendendosi
nel pescare altra
frutta candita e biscotti ridotti a dadini. I sapori gli esplosero nel
palato.
La tenue crema al latte, l’aroma intenso della vaniglia che
le dava corpo e una
dolcezza senza pari, la consistenza croccante dei biscotti data dalle
mandorle
tritate, il gusto acidulo degli agrumi mitigato dalle ciliegie. Quel
dolce era
stato preparato con amore, un amore che lui non meritava. Il cucchiaio
cadde di
mano a Sehun, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.
Attese che fosse giunta
l’ora di chiusura e che i dipendenti
se ne fossero andati. Jongin chiudeva il locale ogni sera alle sette e
mezza ed
era l’ultimo ad uscire. Non permetteva a nessuno di pulire e
ribaltare le sedie
sui tavoli; ci teneva a farlo personalmente. Sosteneva che svolgere
quegli
umili compiti lo rilassasse. Sehun aspettò addirittura che
la saracinesca fosse
mezza abbassata, in modo da essere sicuro che in pasticceria fosse
rimasto solo
lui. Con un’agile mossa entrò.
Jongin si voltò.
“Avevo appena passato lo straccio”
osservò,
gelido. “Ma suppongo di doverti preferire ad un
ladro”.
“Vorrei parlarti.
Spiegarmi” pronunciò goffamente Sehun.
Giacché l’altro non lo aveva invitato a sedersi,
rimase in piedi come uno
stoccafisso.
“Non sono interessato ad
ascoltare altre balle da parte tua”
incrociò le braccia. “Sono stanco. Voglio tornare
a casa. Non ho tempo per le
tue stronzate, onestamente”.
“Scusami” gli
parlò sopra. Tacque un attimo. “Scusa. Avrei
dovuto chiarire chi ero e perché ero venuto qui da subito.
Non mentivo quando
ti ho detto che avevo sentito molti commenti positivi sul tuo conto. Il
giornale mi aveva affidato il compito di recensire il Kim.
Pensavo… Non so, che mi avresti trattato diversamente se mi
fossi presentato come critico gastronomico. Che saresti stato meno
spontaneo,
più reticente a parlare del tuo lavoro con
sincerità”.
“Mi hai giudicato a
priori” lo accusò Jongin.
“Infatti, è
stato un mio errore. E quando mi sono reso conto
di aver fatto una cazzata ormai era troppo tardi per rivelare la mia
identità
senza conseguenze. Ti sei mostrato così gentile con me sin
dal primo giorno,
hai sopportato le mie domande petulanti senza mai vacillare,
rispondendo con
competenza e dedizione. Sempre disponibile, sempre sorridente. Mi
trovavo bene
con te; è raro che accada, che mi senta a mio agio con un
estraneo. Desideravo
esserti amico, anche se il nostro era un rapporto
cliente-venditore”.
“Ho smesso di considerarti
un semplice cliente da un bel
po’, Sehun” Jongin evitò di incrociare
il suo sguardo mentre le parole gli
sgorgavano dalla bocca senza che lui potesse arginarle.
L’ambiente si
riempì di un silenzio emozionato, carico di
tensione.
“Non lo avevo capito.
Scusami, sono una frana nei rapporti
umani” scosse la testa. “Quello che ho scritto
nella recensione lo penso
davvero. L’ho formulato male e l’editing del
curatore della rubrica ci ha messo
il carico da undici, ma sono realmente convinto che se ti dessi alla
produzione
del cioccolato il locale avrebbe una marcia in più. Avendo
vissuto a New York,
dove va di moda un altro tipo di pasticceria, non è stato
facile abituarmi alla
tua, tradizionale e poco incline ad assecondare le variazioni del
mercato.
Tuttavia, sono ugualmente certo del tuo talento e credo che tu abbia un
grande
dono. I miei, sebbene espressi nel tono sbagliato, volevano essere
consigli e
non critiche. Consigli per spronarti a migliorare, aprirti alle
novità. Tengo a
te, Jongin, desidero il tuo successo e soprattutto la tua
felicità. Devi
credermi”.
“Sarebbe bastata un
po’ di sincerità all’inizio, prima che
la situazione ti sfuggisse di mano” sospirò
Jongin. “Mi sono sentito preso in
giro”.
“Adesso lo so, e mi
dispiace immensamente” Sehun avanzò di
un passo. “Sono venuto qui per questo. Non mi aspetto che mi
perdoni, sono
stato un cretino e merito la tua freddezza. Volevo solo chiederti
scusa. Mettere
le cose in chiaro”.
“Nient’altro?”
la domanda suonò come una sfida.
Sehun si costrinse ad essere sincero
fino in fondo. “La
crema ottomana” mormorò.
“Non ti è
piaciuta?” si accigliò.
Scosse la testa, sorridendo
timidamente. “È il mio
preferito”.
Jongin accolse la rivelazione con un
silenzio stupito. Osservò
l’uomo di fronte a sé strofinarsi maldestramente le
nocche, dondolando il proprio
peso da un piede all’altro simile ad un bambino titubante.
Alla fine i
sentimenti che provava ebbero la meglio sul suo orgoglio.
“Siediti” disse. “Parliamo”.
Gli tese una mano. Sehun la
afferrò.
Nella biblioteca dove lavoro, poco
più di un mese fa, è
arrivato un signore con dei libri di cucina di cui intendeva
sbarazzarsi.
Selezionando quali buttare e quali mettere in omaggio per gli utenti
della
biblioteca, mi è capitato tra le mani un bel volume
profumato di zucchero
vanigliato: Il grande libro dei dolci.
Oltre 600 ricette golose. Intrigata dalle fotografie e dalle
ricette (nonché
affamata a bestia), l’idea di ispirarmici per scrivere una
ficcy si è fatta
strada nella mia mente alla velocità della luce. Spero di
aver messo degnamente
a frutto quanto imparato.
Torino è una
città che adoro, ma che purtroppo ho visitato
una sola volta (conto di rimediare presto). Sicché invito
gli eventuali lettori
torinesi a perdonare l’imprecisione delle mie descrizioni del
centro storico e
a correggermi, dovessero ritenerlo necessario.
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