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Autore: BakemonoMori    09/05/2018    1 recensioni
Alessandra Mancini, Alex, una giovane ragazza di 14 anni, viene cacciata di casa e rinchiusa nel luogo che diverrà il suo incubo, la comunità chiamata "la Quercia".
Lì conoscerà persone di ogni sorta, vivendo esperienze e scoprendo segreti che mai avrebbe creduto di conoscere.
Genere: Avventura, Dark, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Da anni ormai sono stata portata via dai miei genitori, venendo poi rinchiusa in questo luogo chiamato
‘comunità’, ed oggi, sdraiata sul prato del giardino a fissare il cielo oscuro, rammento con un leggiadro velo
di malinconia il momento in cui sono stata trascinata lontana dalla mia vita.

La buia notte senza stelle accompagnava lo straziante momento in cui vidi la polizia arrivare, pensai che fosse strano,
tutto era stato tranquillo ultimamente nel mio quartiere, non avevo motivo di preoccuparmi, o così pensavo, fino a
che non vidi mia madre entrare nella camera in cui mi trovavo, braccia incrociate, serrate al petto, figura rigida e
sguardo freddo come il ghiaccio. Capì subito che qualcosa non andava.

Sentì un forte bussare insistente alla porta e vidi mio padre aprirla, facendo entrare i loschi uomini in divisa all’interno
del nostro appartamento, subito percepì dei brividi lungo la schiena e chiesi spiegazioni a mia madre “Sono qui per
me?” “Ho fatto qualcosa di male?” “Mamma, tu mi vuoi bene, non è così?”

Non ricevetti mai risposta, ma il suo sguardo valse più di mille parole, dando conferma a tutti i peggiori dubbi che
navigavano nel mare in tempesta della mia mente. Appena vidi gli scuri sconosciuti entrare corsi dall’altra parte della
stanza, il più lontano possibile da mia madre; urlai con tutto il fiato in gola, non avevo fatto niente, non poteva essere
colpa mia, piangevo e mi ribellavo mentre con la forza mi trascinarono via da tutto ciò che avevo sempre avuto caro.

Ricordo ancora le ultime parole che dissi tra i singhiozzi “Mamma, papà, io vi voglio bene.”

Mi fecero salire sulla loro auto che puzzava di muffa, le sbarre tra i sedili di fronte e quelli nel retro non fecero altro
che aumentare l’ansia che provai, non riuscì a respirare, mi sentivo nel panico, mi rinchiusi in me accovacciandomi e
premendo con forza la testa sulle ginocchia; non riuscivo a riprendere fiato, era come se ad ogni respiro non
recuperassi ossigeno, dopodiché, di colpo, il buio.

Rinvenni, e con non poca fatica capì di trovarmi in un lettino di ospedale, i medici entrarono assieme ad uno degli
agenti, mi dissero che ero svenuta in seguito ad un attacco di panico, valutarono che era tutto passato e mi dimisero
seduta stante.

Ancora stordita e confusa varcai la soglia d’uscita dell’ospedale, ed era giorno, dovevo aver dormito molto, perciò mi
caricarono nuovamente nell’appestante automobile e riniziammo il nostro viaggio. Passò una quantità di tempo allora
infinito, ed ora incalcolabile, nel quale finalmente giungemmo nell’ignota destinazione.

Struttura esterna totalmente anonima, unita ed indistinguibile dal resto dei palazzi che la circondavano, non c’era
alcun segno distintivo; sul momento non seppi se esserne sollevata o spaventata.

Entrai ed in silenzio seguì la scorta in una piccola stanza poco distante dall’ingresso, ‘ufficio’ recitava la targa di lato
alla porta, così andai oltre, ed appena entrata vidi dinanzi a me quattro persone, che subito mi si presentarono
“Buongiorno Alessandra” disse il primo, un uomo alto e robusto, dal pallido carnato, i corti capelli, rasati ai lati e con
un ciuffo moro che cadeva delicatamente sopra il destro dei suoi bruni occhi, parlava con voce rauca e calda come il
soffice abbraccio estivo; “Buongior…” provai a rispondere, ma venni subito interrotta “Piacere, il mio nome è Jason,
benvenuta nella comunità ‘la Quercia’”. Provai a ricambiare la stretta di mano, ma lo smilzo uomo di fianco a lui si
mise in mezzo “Piacere, io invece mi chiamo Lucio” aveva una voce totalmente diversa, non molto rauca, come quella
di un ragazzo che ha appena cambiato il suo timbro in seguito all’adolescenza, con un bizzarro picco acuto non appena
iniziò la frase; era basso e snello, dal carnato olivastro ed i muscoli visibili perché nulla interferiva tra la pelle ed essi,
corti capelli appena rifatti di un biondo spento ed incolta barbetta rada dello stesso colore, mentre vivace mi guardava
con il suo acceso sguardo dagli iridi color birra. Gli feci un accenno di sorriso prima che la fredda donna, al centro dei
due, parlò “Io sono Irene, lieta di conoscerti” notai una leggera nota di sarcasmo in quella stranamente flebile ma
rauca voce mentre diceva l’ultima parte, era una donna già alta del suo, ma nell’elegante abbigliamento dei fini tacchi
appariva innaturalmente spilungona, la muscolatura del collo e delle gambe appariva ancor più accennata dalla mia
prospettiva, il viso largo dagli zigomi accentuati, veniva reso più fino dalla fronte scoperta dei lunghi capelli castani
scuri, tirati con estrema cura in una stretta coda di cavallo, mentre con i suoi gelidi occhi color ghiaccio mi fissava,
ghignando con quella oscenamente enfatizzata bocca accesa dallo sgargiante rossetto.

Smisi di reagire, sapevo che sarei stata nuovamente interrotta nel mezzo, e quasi come se l’avessi predetto… “Infine,
io sono Antonio” disse l’ultimo dei quattro, un giovane dai ricci capelli castano nocciola, con dei riflessi a volte dorati,
a volte rosso fuoco, occhi verdi costantemente puntati sul cellulare, visibili chiaramente sotto un vasto paio di occhiali
dalla montatura dello stesso colore dei capelli, parlò con tono distaccato a causa del dispositivo che lo intrappolava
come fece il poliziotto al mio fianco con me, con una delicata voce che attraversò la mia mente con la calma dei primi
leggiadri venti primaverili.

Mi fecero subito uscire dall’ufficio, accompagnata da un giovane uomo appositamente chiamato, un ragazzo dai
medio-corti capelli castani, tendenti al bruno, la livida pelle quasi olivastra attraversata da chiare e poco visibili
cicatrici di graffi e ferite chiaramente accidentali, come potrebbe essere una caduta. Quest’ultimo mi accompagnò
attraverso un breve corridoio, varcammo una porta di un leggero legno dipinto di bianco ed entrammo in una stanza,
al suo interno vi erano altre cinque persone sparse nello stretto spazio disponibile a chiacchierare in un paio di limitati
gruppi silenziosi, mentre al centro di essa vi erano sei sedie, disposte in cerchio.

Il mio giovane accompagnatore fece un segno e tutti si sederono, chi più chi meno rapidamente, eccetto un piccolo
ragazzo, che accennò solo un paio di passi, e con estrema lentezza “Nuovo arrivato, diamo inizio alle presentazioni!”
urlò colui che mi aveva scortato, battendo le mani per attirare l’attenzione su di sé.

“Benvenuta nel tuo peggior incubo” disse il misterioso giovane, unendosi a noi sull’unica sedia rimasta, e prima ancora
che potessi ben inquadrarlo, l’uomo che lì dettava legge mi richiamò, facendomi finalmente conoscere gli altri
componenti di quel luogo tanto oscuro.

E fu allora che tutto ebbe inizio.

   
 
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