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Autore: Blue Fruit    13/05/2018    2 recensioni
Non potrà mai più tornare ad essere il dottor John Watson, ex militare e fido compare del grande consulente investigativo Sherlock Holmes.
Ora di lui non rimane che John Watson, padre e medico.
[Questa storia partecipa alla challenge del gruppo: "Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart".]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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L' attaccamento.

 
 
Dopo l’ennesima notte insonne John si sente completamente intorpidito.
Tutto di lui è in stasi, persino i suoi pensieri inciampano e vanno a scemare ancor prima di raggiungere la coscienza.
Tutto, all’interno di lui, è silente. L’esterno è invece vivace e troppo rumoroso.
Rosie non riesce a stare ferma, neanche per un secondo. Non ha dormito per un’intera notte, eppure eccola qui pronta a correre, frenetica.
La sua attenzione su un giocattolo non dura mai più di dieci minuti. John sa che dovrà al più presto acquistare qualcosa di nuovo, perché le attenzioni della piccola si stanno pericolosamente spostando verso gli oggetti di casa.
John si è trascinato lungo questa infinita giornata solo grazie ai doveri di genitore, ma in maniera completamente apatica.
Che razza di padre è uno che non riesce a sopportare la propria figlia?
Ha chiesto aiuto anche oggi, sperando di riceverlo al più presto. Lo fa sempre vergognandosene, ma non può farne a meno da cinque mesi a questa parte. Certe volte non riesce a capire se lo stia chiedendo per la bambina o per se stesso.
Nonostante la vergogna e il senso di fallimento, non riesce a desiderare altro se non una pausa.
Un singolo giorno senza di lei, alla ricerca di quei sentimenti di amore e cura che lo hanno abbandonato in questo senso di oppressione costante.
Rosie sta cercando di abbracciarlo, facendo mille versetti disconnessi ed eccitati.
“Vado a farmi un caffè, aspettami qui un momento.” John si alza a fatica, sentendosi irrigidito.
La piccola si acciglia all’istante, incapace di gestire la lontananza fisica da John per più di un secondo.
Questo è uno dei motivi principali per cui non riesce più a sopportarla. Quella dipendenza è impossibile da eliminare e non si può sfuggirle.
È eterna.
John ama Rosie, la ama con ogni fibra del suo essere, ma questo amore non basta, non riesce a salvarlo dal sentirsi in gabbia e solo, terribilmente solo.
John le volta le spalle e subito il capriccio ruba la scena ai vocalizzi. Rosie non inscena mai un pianto per caso, prima di farlo si assicura sempre che il papà si stia allontanando sul serio.
La piccola si alza in piedi, porta le braccia al cielo e si getta su di lui. John sospira e la prende in braccio, visibilmente seccato. Rosie smette all’istante, sempre assurdamente precisa.
Non riesce a sopportare neanche la minima distanza, in nessuna situazione e questo, più di tutto, fa boccheggiare John. Lui è il centro di tutto per lei e la cosa dovrebbe essere reciproca. Rosie dovrebbe essere tutta la sua vita, il suo pensiero fisso, la sua preoccupazione e la sua più grande gioia.
Dovrebbe, eppure in questo momento gli sembra la cosa peggiore che gli sia mai capitata.
Non potrà mai più tornare ad essere il dottor John Watson, ex militare e fido compare del grande consulente investigativo Sherlock Holmes. Ora di lui non rimane che John Watson, padre e medico.
Questo legame, la cui bellezza dovrebbe derivare proprio dalla sua indissolubilità, lo sta consumando.
Rosie intanto emette dei versetti soddisfatti tra le braccia del papà, come a volerlo calmare, ma lui non riesce a trattenere la sua frustrazione. È stremato e non riesce ad interagire con lei.
Ha un anno e sei mesi, ormai sta diventando troppo pesante per passare così tanto tempo tra le sue braccia.
John si destreggia in quella cucina troppo grande a fatica, spostando la bambina da un braccio all’altro.
Siede la bambina sull’isola e poggia la tazza a debita distanza.
“Non toccare la tazza, Rosie. No, è bollente.”
La piccola lo ignora, si allunga più che può e con fare impacciato agita le mani, cercando di afferrare il cucchiaio dalle mani del papà.
John non glielo lascia neanche per un secondo, glielo strappa dalle mani con fare seccato.
Rosie ormai capisce ogni singola parola ed è abbastanza grande da decidere di ignorare qualsiasi frase che contenga la parola ‘no’.
“Rosie, piantala.”
La bambina si ferma e, per la prima volta, sembra notare la totale apatia negli occhi del padre. Comincia a piangere disperatamente, urla, cerca di divincolarsi dalla presa di John, ma allo stesso tempo pretende di essere contenuta e consolata.
John la tiene stretta, mentre a fatica afferra uno dei biscotti preferiti della piccola, nella speranza che quello possa calmarla.
La porta sul divano e la tiene stretta, Rosie gli urla a pieni polmoni nelle orecchie.
“Mi dispiace, va bene? Ti prego, adesso smettila di piangere.”
John chiude gli occhi, cercando di estraniarsi per sfuggire alle urla.
Non sono veramente qui.
 



John si risveglia con un singhiozzo, una fitta di panico lo fa alzare dal divano.
Il sole sta tramontando, la casa è avvolta nel silenzio.
“Rosie?” Urla, con voce terrorizzata.
Fa un passo, quasi inciampa tra i giochi sparsi sul pavimento e urla di nuovo.
Dalla cucina viene sporta una Rosie con i capelli bagnati, sospesa in aria e sorridente.
“Daddiiiii”
John avverte un groppo in gola notando le mani che la stanno reggendo. Possono appartenere solo ad una persona.
Sherlock fa la sua apparizione e riporta la piccola al petto, mentre con l’altra mano risponde ad un messaggio.
“Ben svegliato, John.”
Lui non risponde, ma si lascia cadere sul divano. Le sue gambe sono tremolanti per lo spavento.
“Sono arrivato qui mentre tu ti stavi per addormentare. Ho pensato di lasciarti riposare un po’.”
Sherlock si avvicina con cautela e si siede sul divano, a debita distanza. Rosie si divincola dalla sua presa e si mette a giocare tra le sue gambe.
“Cosa ci fai qui?”
Nonostante tutto John fatica a non essere brusco con Sherlock, specialmente quando non è psicologicamente preparato a trovarselo davanti.
“Molly mi ha chiamato, dicendomi che oggi non avrebbe potuto venire a darti una mano. Ha un appuntamento, ne sono certo. Non mi ha detto nulla, ma era chiaro dal tremolio nella sua voce e dalla risata appena trattenuta, ma-”
“Perché non ha chiesto aiuto alla signora Hudson?”
Sherlock lo guarda negli occhi, soppesando l’irritazione nella voce dell’altro, e si fa serio.
“La signora Hudson ha una certa età, John. Non può correre dall’altra parte di Londra per prendersi cura di Rosie.”
John si ammutolisce. Sa di essersi fatto trascinare troppo.
Sherlock avrebbe potuto essere semplicemente se stesso e ignorare tutta questa situazione, mentre invece è corso subito in suo aiuto.
A modo suo, come solo il più grande degli idioti potrebbe fare, ma eccolo qui.
Sherlock c’è sempre per lui, nonostante tutto. Questo pensiero gli strattona lo stomaco e gli fa correre il cuore.
“Pensavo non ti piacessero i bambini.”
“Non mi piacciono infatti, ma questo lo avete fatto tu e Mary.” Rosie gli prende la mano, Sherlock le sorride e la lascia fare.
“Come tale rientra tra le cose che voglio proteggere e di cui mi voglio prendere cura. I bambini in sé sono una seccatura. Solo nell’ultimo quarto d’ora ho stilato quindici punti per cui avere un bambino è una pessima idea.”
“Sherlock, non devi. Dico sul serio, puoi andartene.”
John sa che l’unico modo per disfarsi di lui è essere fermo, quasi cattivo. Non lo vuole qui, non riesce a sopportare tutte le emozioni che Sherlock Holmes si trascina dietro. Non adesso.
Il detective sospira, sapendo che davanti alle resistenze di John può reagire solo con la sua logica.
È l’unica lingua che potrà capire in questa situazione, l’unica che ascolterebbe mai per davvero, anche se farà male.
Sherlock starà attento, lo ferirà solo il necessario.
“Avete preso questa casa perché, tra tutte quelle in vendita in quel periodo, era la più lontana da Baker Street. È stata una tua decisione e Mary ha acconsentito solo nella speranza di farti felice, anche se ha sempre avuto dubbi a riguardo. Certe volte non riesci a capire cosa vuoi veramente, John. Dovresti iniziare a lavorarci. Per il bene di tutti, ma in particolare per te stesso.
Pensavi che questa distanza da me, da noi, ti avrebbe protetto, tenendoti lontano dai casi e più vicino alla tua nuova vita ordinaria. Hai ottenuto esattamente il contrario, perché questo posto ti ha allontanato da tutte le persone che ti amano. Ti ha reso facile preda della solitudine.”
“Sherlock, ti accompagno alla porta.” La voce di John trema mentre si alza dal divano. Ha le spalle leggermente incurvate, non riesce a sostenere il suo sguardo.
Sherlock sa di aver incrinato qualcosa in John e non vuole infierire oltre. Ha effettivamente detto solo il necessario, è riuscito a fermarsi prima che fosse troppo tardi.
“John, torna a casa.”
Sherlock si alza e lo fissa dritto negli occhi, apre leggermente le braccia come a volerlo accogliere.
“Questa è casa mia, Sherlock.”
“John, tu odi questo posto. Non devi farti del male in questo modo, non ha senso.”
“Sherlock, tu non-”
“E invece capisco benissimo, John. Lo so, ti piace pensare e scrivere che le emozioni umane siano per me il più grande dei misteri, ma non è affatto così. Io le capisco le tue emozioni, le vedo, le sento.
John, io lo percepisco il tuo dolore e voglio che smetta, voglio che ti lasci in pace.”
John non dice niente, ma una lacrima scende dal suo occhio sinistro. Si guarda intorno e ripensa a tutti i bei momenti racchiusi in quelle mura. Sono pochi, così pochi rispetto a quelli brutti.
Apre la bocca e inspira, cercando di non piangere.
Sherlock sta cercando di salvarlo da sé stesso, ancora una volta. Come sempre da quando si sono incontrati.
“Torniamo a casa, John.” Sherlock insiste, la sua voce sicura sembra volerlo avvolgere e stringere.
John finalmente lo guarda negli occhi e Sherlock fa istintivamente un passo in avanti, rassicurante.
“Spero che la mia poltrona sia ancora dove l’ho lasciata, Sherlock. Altrimenti passerai davvero un brutto quarto d’ora.”
Sherlock gli sorride, sospirando sollevato.
“Si trova in salotto, in ottime condizioni. Potrai constatarlo da te questa sera.”
 

Questa storia la dedico ai lamponi, oggi in offerta al supermercato. 
Grazie infinite per essere arrivati fin qui, ogni vostra critica o reazione sarà incredibilmente gradita.
Alla prossima. 

Questa storia partecipa alla challenge del gruppo: "Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart".
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prompt 2/26 

di·pen·dèn·za : incapacità di fare a meno di una persona ( d. psicologica ) oppure il bisogno incoercibile di un farmaco o di una sostanza: d. farmacologica; part., la condizione del tossicomane.

   
 
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