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Autore: Neferikare    18/05/2018    2 recensioni
Tiāmtu: nella mitologia babilonese, la madre di tutto il cosmo, la dea primigenia degli oceani e delle acque salate, il simbolo e l'incarnazione del Caos Primordiale.
Questo è il nome di battesimo di Lady Pálinka, Hakaishin dell'Universo 1, e i suoi genitori non avrebbero potuto scegliergliene uno più appropriato: lei che è un mostro dalla soffice pelliccia d'agnello, lei che disperde le speranze altrui nei propri grandi occhi acquamarina, lei che ha la distruzione nelle vene, lei che incarna il Male più puro, lei che vive per tenere fede a quel nome, al proprio nome.
E per ingozzarsi di merluzzo coperto di cioccolato.

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"Non riusciva ancora a spiegarsi l’insolita passione della sua Dea per la decapitazione, era una sua fissa da che era solamente una giovanissima allieva di pochi anni, ma ai tempi -ancora ignorante sulle capacità distruttive di quella frugoletta- aveva supposto che fosse il naturale prodotto di una famiglia disfunzionale.
Che magari aveva sterminato lei stessa.
A quei tempi, gli era addirittura scappato da ridere, ma quel sorriso era presto scomparso: più la conosceva, più l’ipotesi iniziava a non sembrargli così improbabile."
Genere: Dark, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Un urlo disumano gli riempì le orecchie.

Alzò gli occhi al cielo: un’altra vittima, l’ennesima. Emise un lungo sospiro annoiato, poi tornò alla propria lettura.

Sapeva perfettamente cosa si stesse consumando in quella stanza, e non voleva averci nulla a che fare: la sua allieva era folle, completamente folle, ma era anche dedita al proprio ruolo come non lo erano i dieci colleghi che, nella classifica del mortal level, la seguivano; loro si piazzavano al secondo posto e, sebbene non fosse il primo, tanto bastava a trovarsi sul podio, e da che il Gran Sacerdote suo padre gli aveva affidato la sua nuova pupilla questa era l’unica cosa della quale gli importasse veramente.

A pensarci, si lasciò scappare l’accenno di un sorriso: sul podio, sì, ma a che prezzo?

Barbarie, razzie, sequestri, stupri, torture, violenze di ogni tipo, Hakai come se piovesse, tutti perpetrati indipendentemente dall’età, dal sesso e dal ceto sociale dello sventurato o della sventurata di turno: per Cisk, il prezzo del podio era quello.

E, francamente, poco gli importava.

Abusava di chiunque finisse sotto i suoi artigli, compiva genocidi indicibili, distruggeva sistemi solari interi per il solo gusto di udire e registrare sul suo iPod le urla delle genti che li abitavano così da poterli riascoltare durante i suoi “momenti privati”, Lady Pálinka, ma tutto ciò non interferiva in alcun modo con l’adempimento dei propri compiti di Hakaishin, e finché fosse stata capace di coniugare il dovere e il “piacere” beh, che continuasse pure a fare ciò che più la aggradava, lui non l’avrebbe sicuramente fermata. Nonostante ne avesse le capacità, s’intende.

Restare totalmente indifferente di fronte a certi orrori ed essere riconosciuto come il maestro e l’attendente di quel mostro lo disgustava? Certo che sì, avrebbe dovuto essere squilibrato tanto e più di lei per affermare con fierezza di esserne felice, ma la sua opinione era solo sua, appunto: agli occhi di chiunque altro, lui continuava ad essere solo e semplicemente un angelo come tanti, come tutti, un angelo che svolgeva egregiamente il proprio dovere di angelo esattamente come facevano gli altri suoi fratelli e sorelle. Anzi, lo svolgeva persino meglio di loro, altrimenti il suo universo non sarebbe arrivato dov’era.

Intento a leggere, notò con la coda dell’occhio la porta della stanza della sua signora aprirsi appena. Sospirò mentalmente, seccato, chiudendo intanto il libro. “Rieccola”, si disse.

A grandi falcate, col delicato passo di una volpe sulla neve appena caduta, la Dea della Distruzione fece finalmente la sua comparsa; in una mano, il cadavere nudo e martoriato di una donna sulla trentina, a giudicare dal viso giovane che penzolava nell’altra mano della divinità, trattenuto per i capelli rossi.

Con tutta la naturalezza del mondo, leccandosi soddisfatta il sangue che colava sulla carnosa lingua biforcuta che si protendeva dalle labbra, sbatté il proprio bottino sul tavolo, lo stesso sul quale l’angelo aveva appena poggiato la propria lettura. Lui osservo la raccapricciante scena qualche secondo, contrariato e irritato dal vedere le pagine candide tinte e rese appiccicaticce da quel liquido rosso male deodorante, poi spostò i propri occhi lilla in quelli acquamarina della divinità.

«Ha sporcato il mio libro» asserì atono.

Lei fece spallucce. «Ne comprerai un altro».

«Ma non sarà questo» insistette. La sua Lady non rispose, e lui la imitò: era inutile discutere con una pazza del suo calibro, a furia di insistere l’avrebbe reso tale a sua volta e sarebbe finita per batterlo con l’esperienza.

Si fece comparire il bastone fra le dita e lo picchiò per terra, pulendo le tracce di sangue dall’abito bianco. «Immagino che ora dovrò sistemare le vostre stanze».

«Immagini bene. Questa bellezza» afferrandola per i capelli, sollevò la testa decapitata «ha lottato con le unghie e con i denti, una vera e propria leonessa! E solo per merito mio, angelo di poca fede che non sei altro! Se avessi ceduto alle tue angeliche rotture di palle, allora mi sarei persa tutto quanto il divertimento!»

«“Persa tutto il divertimento”, dice?» ripeté Cisk, accigliato «Solo questa mattina, il suo “divertimento” è consistito nello scegliere un pianeta a caso grazie a una sciocca conta; armarsi fino ai denti “così da non rischiare di annoiarmi quando decido come e con cosa ammazzare la gente” e raggiungerlo; farsi strada fra i villaggi a colpi di mannaia e martello e solo Zeno sa cos’altro, spargendo sangue nelle strade, nelle case e fra le cosce delle sue vittime, il tutto con il suo iPod alla mano per assicurarsi di registrare ogni singolo urlo. Infine, ha dato fuoco al pianeta intero, dal momento che “l’Hakai non mi impregna le narici del dolce odore della carne carbonizzata”, per quanto lo abbia poi Hakaizzato comunque perché aveva troppo caldo» spiegò calmo, tranquillo, con un tono apatico che non lasciava trapelare alcuna emozione. «Dopo tutto ciò, mi sta veramente dicendo che sentiva anche la necessità di portare a casa una coppia “come souvenir”, solo per avere ulteriori rapporti carnali con loro e poi decapitarli?»

 

Non riusciva ancora a spiegarsi l’insolita passione della sua Dea per la decapitazione, era una sua fissa da che era solamente una giovanissima allieva di pochi anni, ma ai tempi -ancora ignorante sulle capacità distruttive di quella frugoletta- aveva supposto che fosse il naturale prodotto di una famiglia disfunzionale. Che magari aveva sterminato lei stessa. A quei tempi, gli era addirittura scappato da ridere, ma quel sorriso era presto scomparso: più la conosceva, più l’ipotesi iniziava a non sembrargli così improbabile. Dopo qualche indagine, le conferme erano arrivate presto: la piccola Pálinka era l’ultima della sua razza, e lo era perché aveva decapitato personalmente fino all’ultimo Kindjahtl'matari esistente.

Ha la morte nelle vene, Cisk, è la perfetta candidata per diventare Dea della Distruzione”, gli aveva detto suo padre il Gran Sacerdote, affidandole quell’adorabile bambina dai grandi occhi acquamarina che gli arrivava appena al ginocchio, anziché eliminarla come avrebbe fatto una qualsiasi persona responsabile alla quale veniva sottoposta una piaga di quel genere: aveva fatto estinguere un’intera specie a mani nude, per quanto ne sapeva avrebbe potuto costituire un pericolo anche per gli altri universi. Di fronte alle osservazioni di suo figlio, però, il Daishinkan non aveva fatto una sola piega, e Cisk non aveva insistito oltre: era bacchettone, intransigente, moralista, serioso, zelante a livelli allarmanti, ma non ripeteva mai le cose una seconda volta; chi aveva orecchie per intendere avrebbe inteso, e tanto bastava perché lui avesse la coscienza a posto e potesse dormire sonni tranquilli.

Allora, il suo cammino al fianco di quella macellaia dalle grandi orecchie morbide era iniziato, e presto si era tinto di rosso… come del resto era sempre stato: lui le aveva insegnato le arti marziali e le tecniche proprie di una Hakaishin, ma Pálinka era ben lungi dal dover ricorrere all’Hakai per uccidere chicchessia. Era una creatura abietta, empia, ignobile, ripugnante, spregevole, una creatura il cui solo nome datole dai genitori, Tiāmtu, evocava nelle menti dei suoi simili il caos primordiale, ma era anche l’allieva più naturalmente dotata che avesse mai avuto il piacere -o dispiacere, a detta di alcuni suoi fratelli- di allenare: visti i risultati, il resto erano solo chiacchiere.

 

«Avevo anche la necessità di scoparmi gli orifizi dei loro figli, se è per questo» si lagnò la Dea, gettando indietro la testa con uno sbuffo annoiato «ma purtroppo sono tutti quanti morti nell’incendio: ormai dovresti saperlo, che io sono un tipo da “basta che respiri”, non da “basta che sia caldo”! Comunque sia» lasciò cadere la testa sulla zampa, iniziando a palleggiare «partitina?» propose, ovviamente incurante del sangue che schizzava a destra e sinistra.

A destra e sinistra, e pure sulla guancia di Cisk.

Senza commentare, col volto totalmente inespressivo, l’angelo si pulì la pelle azzurrina con la manica. «Mi duole rifiutare la sua allettante proposta, Lady Pálinka, ma credo proprio che ora andrò a sistemare camera sua, non sia mai che le tracce di sangue e fluidi corporei vari macchino le lenzuola. Con permesso».

«Aspetta! Non ti do il mio perme-»

Improvvisamente, però, si rese conto di stare parlando col nulla, piuttosto che col suo assistente, ormai già bello che imboscatosi nella stanza.

«Ah! Fanculo! Fai un po’ il cazzo che vuoi!»

“Volentieri”, pensò l’altro.

 

 

Levatosi la divisa recante i simboli del suo universo e rimasto col solo completo niveo addosso, Cisk recuperò magicamente il grembiule immacolato che era solito indossare per svolgere quelle ben poco angeliche mansioni; un tempo se lo sarebbe fatto apparire direttamente addosso, ma aveva scoperto che l’annodare con cura i lacci dello stesso era una sorta di “rito” preparatorio a ciò che sarebbe venuto dopo, un momento tutto suo durante il quale chiudeva gli occhi, sgombrava la testa da qualsiasi pensiero che non comprendesse mocio e secchiello e, infine, una volta mentalmente pronto, valutava il da farsi. “Da farsi” che spesso e volentieri -come quella volta- consisteva nel pulire tutto il sangue e le interiora sparse per le stanze della sua signora, cambiare l’intero corredo di biancheria casalinga imbrattato dai suddetti organi e assicurarsi che il sapore ferroso del sangue smettesse di inebriargli le narici, magari.

Avrebbe potuto tirare tutto a lucido con uno schiocco di dita -o meglio, un colpo di bastone, ma darsi alle faccende domestiche non gli dispiaceva.

In primis, per via dei risultati che otteneva: ci aveva pure provato, a svolgere le varie mansioni con l’uso della magia, ma -confrontando il lavoro finito- aveva notato inoltre come del sano olio di gomito facesse più miracoli del picchiare uno scettro per terra e attendere che fosse quello a fare il lavoro -letteralmente- sporco. In secondo luogo, lo faceva per una semplice questione di principio: gli angeli potevano tornare indietro nel tempo, stendere i propri Hakaishin con una botta in testa e, addirittura, ridere in faccia alla morte riportando in vita chicchessia, sprecare suddette capacità per certe quisquiglie era semplicemente un peccato mortale, un abuso bello e buono di poteri talmente grandi da restare in gran parte un mistero persino per gli angeli stessi, nonché indice di un’estrema pigrizia.

Da quel che sapeva, nessuno degli altri suoi fratelli e sorelle si era mai chinato per terra a lucidare il pavimento con la cera delle api To’khul per ore e ore, centimetro dopo centimetro, piastrella dopo piastrella, stanza dopo stanza, passando e ripassando lo straccio nello stesso identico punto finché non vi si fosse potuto specchiare dentro, ricominciando da capo magari una, due, tre, cinque, dieci volte, se mai un odioso alone iridescente avesse rovinato il suo operato.

Non si erano nemmeno mai messi a spazzare un pavimento e, se pure l’avessero fatto, sarebbe stato solo per denigrare quella nobile arte che era il maneggiare scopa e paletta a un mero lavoro noioso, ripetitivo, fastidioso. Per Cisk, invece, il punto era proprio quello: la ripetitività. Spazzare non era solo pulire le briciole da terra dopo che la sua Dea della Distruzione aveva mangiato, si trattava di un vero e proprio esercizio zen al pari della meditazione, un momento di completo rilassamento mentale durante il quale immaginava di spazzare via -oltre alle briciole- i propri pensieri negativi, lo stress della giornata, il marcio del quale si ricopriva a furia di stare vicino a Pálinka, una gestualità ripetuta all’infinito che, infine, gli permetteva perfino di raggiungere quel grado di concentrazione ed elevamento spirituale al quale solo un angelo poteva ambire.

Sempre rimanendo in tema di briciole e cibo, quel benedetto uomo riusciva a trarre una certa soddisfazione persino dal semplice liberare il lavello, specie se questo era talmente pieno da parere in procinto di dare vita a un’eruzione di piatti sporchi da finestre e porte e comignolo.

Ai tempi antichi del suo primissimo Hakaishin, se la cena avveniva molto tardi o in piena notte, Cisk era solito rimandare il lavaggio delle stoviglie al mattino seguente; col passare delle settimane e dei mesi, però, si era accorto che ciò influiva negativamente sul suo umore mattutino, e di conseguenza sull’andamento dell’intera giornata: il tempo che si affacciasse in cucina, e quell’immensa pila di piatti e piattini, e tazze e tazzine, e ciotole e ciotoline, gli si presentava davanti agli occhi lilla con prepotenza immane, ricordandogli che aveva risparmiato tempo nella serata seguente, sì, ma che quello stesso tempo ora doveva spenderlo comunque tutto quanto. Anzi, doveva pure aggiungerci gli interessi, perché in quella stessa notte lo sporco aveva potuto tranquillamente attecchire alla porcellana e lì solidificarsi in ripugnanti croste nerastre o gelatine lattiginose, il che si traduceva in più fatica per scrostare tutto, più schifo che saliva ad ogni colpo di spugna e, soprattutto, scarichi che mandavano un odore nauseabondo.

Da allora, non aveva più scordato una sola posata nel lavello, e di conseguenza il suo umore era nettamente migliorato: maggiore era l’altezza della montagna di stoviglie, maggiore era il senso di completezza che traeva nel lavarla e vederla abbassarsi ancora e ancora e poi ancora, finché questa non tornava linda e pulita nella credenza, e lui non poteva finalmente specchiarsi e aggiustarsi quel ciuffo ribelle che aveva sempre davanti agli occhi direttamente nel metallo splendente.

Quelle piccole soddisfazioni -da lui stesso definite “gioie mattutine”- non trovavano però la loro massima apoteosi nel lavare le stoviglie e usarle come specchio, bensì in un’attività definita dai più come la manifestazione dell’inferno in terra: stirare.

Una volta, forse credendosi particolarmente divertente, uno dei suoi fratelli gli aveva regalato un quadretto che recitava qualcosa -che avrebbe dovuto essere simpatico, da quanto gli avevano spiegato poi- come “Lavare: oggi. Stendere: domani. Stirare: riparliamone l’anno prossimo”. Aveva accettato quel funestamente comico ninnolo per educazione verso suddetto fratello, sì, ma lo aveva anche fatto volare fuori dalla finestra dinanzi ai suoi occhi nemmeno troppo increduli: che gli toccassero tutto, ma non il ferro da stiro. Loro, poi, che probabilmente non avevano nemmeno la più pallida idea di cosa fosse, un “ferro da stiro”, abituati com’erano a lasciare che il loro magico e prodigioso bastone facesse tutto quanto.

A Cisk, invece, stirare piaceva come poche altre cose nella sua angelica esistenza, soprattutto se si trattava di gigantesche, enormi, ingombranti lenzuola: come per i piatti, più erano grandi, meglio era per il suo benessere psicofisico.

Adorava tutto di quel macchinoso processo che era l’occuparsi della biancheria, che dovesse dedicarsi a un semplice tovagliolo o di una tovaglia da pic-nic grande quanto un modesto villaggio -aveva davvero dovuto avere a che fare con una cosa del genere, fra l’altro, riordinare tutto con la magia durante le riunioni di famiglia era sempre un problema se erano tutti sbronzi- non aveva importanza: se quel capo era nella pila dei panni stropicciati, allora meritava la sua attenzione.

A dire la verità, per lui la goduria iniziava già dal momento in cui tirava fuori suddetti panni dall’asciugatrice, quando le sue mani toccavano la stoffa ancora calda intanto che il delicato profumo dell’ammorbidente gli inebriava e narici; allora, nella sua mente tornavano a galla le volte in cui aveva ripetuto quel gesto con ogni singolo Hakaishin che aveva allenato e servito: ricordava a memoria il volto, la voce e le abitudini di ognuno di loro, nessuno escluso, a volte gli sembrava persino di riuscire a sentire di nuovo l’odore che caratterizzava uno per uno quei suoi innumerevoli allievi nelle vesti che tirava fuori dal cestello. Poi veniva investito dal sapore del sangue che macchiava spesso e volentieri gli abiti di Lady Pálinka, e allora si ricordava chi era la sua protetta adesso.

Passato il momento amarcord, per Cisk iniziava il “divertimento” vero e proprio: tirare fuori tutto, dividere i panni per colore e tessuto, impilarli in cataste disordinate piene di grinze che toccavano il soffitto, brandire il ferro da stiro come se fosse un’estensione del suo polso, sentire il vapore caldo e soffocante che gli imperlava la fronte di sudore, vedere i cumuli stropicciati abbassarsi e quelli stirati alzarsi l’uno al ritmo dell’altro; come compagnia, il solo fischio del ferro. Quando infine terminava di stirare, si sedeva e ammirava il proprio lavoro: immense torri candide, rigide, meravigliose, pulite, profumate, tutte pronte per essere riposte ordinatamente nei cassetti.

Non aveva idea di cosa fosse un orgasmo e non voleva scoprirlo, ma conveniva che la sensazione di profondo appagamento fisico e psicologico conseguente alla stiratura fosse ciò che di più simile a un coito ci fosse nel Multiverso.

Finalmente, riaprì gli occhi.

Tirò indietro i capelli con una bandana, infilò i guanti facendo schioccare la gomma sulla pelle e indossò la mascherina, assicurandosi che coprisse la barba corta sul mento: che le pulizie avessero inizio.

 

 

Quando, dopo qualche ora, la figura alta e longilinea di Cisk fece la propria ricomparsa dal Regno delle Faccende Domestiche, una ventata al gusto di zenzero, arancia e chiodi di garofano si riversò fuori dalla porta, inebriando il resto della casa.

Appena uscito dalle vasche termali lindo, pulito e profumato come le sue preziose lenzuola appena stirate, si avviò dalla sua Hakaishin: a giudicare dal suono della TV accesa, doveva ancora essere in salotto. Lì si diresse a piccoli passi, lentamente, attento a non disturbarla. «Ho terminato le pulizie, Lady Pálinka, se vuole può tranquillamente- oh, la prego».

Si era illuso che la Dea della Distruzione stesse semplicemente guardando la televisione o giocando con la stessa a uno di quei suoi stupidi giochi in realtà virtuale, ma la scena che gli si presentò davanti pareva gridare a gran voce che le sue previsioni erano state fin troppo ottimiste.

Lei effettivamente era davvero lì, non aveva sbagliato a immaginarla sdraiata in posizioni improbabili su uno dei grandi e morbidi sofà tondeggianti che galleggiavano a mezzaria, ma il babydoll blu elettrico che aveva addosso suggeriva che le sue intenzioni fossero tutt’altre, rispetto al prendere un joystick in mano.

Non un joystick meccanico, almeno.

Appena lo vide, subito l’Hakaishin comandò al proprio divano di raggiungere a gran velocità l’angelo. A vedersi un mobile di cinque metri per quattro venirgli incontro con la stessa furia di un treno in corsa, Cisk non si mosse di un millimetro; semplicemente, picchiò il proprio bastone a terra: un istante, e il sofà si fermò a tre centimetri netti dal suo naso. Naso che, tra l’altro, iniziò a pizzicargli.

Alzò gli occhi, ma la sua vista venne immediatamente oscurata da un folto ciuffo di pelo posto all’estremità di una coda blu notte, un pennacchio argenteo che faceva capolino da una delle due sfere verde acqua impilate l’una sull’altra nella parte terminale della coda stessa. Sebbene potessero sembrare semplici ornamenti, suddette sfere semitrasparenti erano tutto tranne un accessorio alla moda, per la sua Dea: forse l’aspetto era quello di mere palline fluorescenti di ogni colore e dimensione, ma quei globi traslucidi erano invece una caratteristica propria della razza alla quale apparteneva Pálinka; nessuno era mai riuscito a spiegarsi fino il fondo a cosa servissero, come fosse possibile che ogni piccolo Kindjathl’matari nascesse con esse o che quest’ultime crescessero insieme a lui, ma -dopo il genocidio- anche fare ulteriori ricerche sarebbe stato impossibile per chiunque.

“Per chiunque”, appunto, e gli angeli non erano “chiunque”.

A pancia in su, malamente stravaccata sul divano fluttuante, la Dea della Distruzione allungò le esili braccia coperte da macchioline chiare e rettangolari dai bordi arrotondati verso il proprio attendente, posandogli le dita bianche dagli artigli avorio sulle guance. «La mia bella lavanderina ha finito di pulire tutto, uh?» domandò, leccandosi sensualmente la bocca con la lingua, un muscolo spesso, nero e biforcuto sul quale baluginava una piccola pietra dello stesso colore di tutte le altre sfere che si trovavano sulla coda, sui palmi, sul dorso, sui baffi che scendevano all’attaccatura delle corna corte e ramificate, addirittura come fermaglio della voluminosa treccia che le arrivava alle natiche.

«Ho terminato le pulizie, sì» confermò. «Come stavo dicendo prima che lei m’interrompesse, se ora vuole recarsi nelle sue stanze può farlo senza alcun-»

«Ho un’idea migliore, mio carissimo angelo frigido frigidissimo, un’idea che comprende me» indicò se stessa «te» poi lui «e le lenzuola che hai appena lavato, asciugato e, ovviamente, accuratamente stirato nemmeno ne andasse della tua esistenza: so che appianare le grinze dai letti e dalla biancheria in generale ti provoca tanto piacere quanto un orgasmo, ma se ti decidessi a darmi una bella botta come ha fatto l’Uomo potrai avere direttamente entrambi! Lenzuola stropicciate da spianare, e soprattutto un orgasmo vero! Vero, Ciskuccio, uno di quelli con il liquido seminale che schizza ovunque ritinteggiandomi le pareti vaginali e anali! Ma pure quelle della camera, considerato da quanto non ti svuoti quelle angeliche palle!»

Alzò gli occhi al cielo. «Per l’ennesima volta, Lady Pálinka, non sono interessato alle sue proposte oscene. Nonché di cattivo gusto, aggiungo: potevate evitare la similitudine fra l’eiaculazione e la tinteggiatura delle stanze, sapendo che sono io ad occuparmene» la rimproverò.

«Qual è il problema? Temi di scambiare lo sperma per tempera, la prossima volta che darai la vernice a casa?» ridacchiò. Si portò due dita alla bocca, iniziando a leccarle con gusto come se fossero ricoperte di un qualche topping dolce. «In questo caso, non devi assolutamente preoccuparti: ormai mi conosci, sai bene che sono un esserino estremamente goloso, motivo per cui penserei io a ripulire tutto quanto. Pennello compreso» ammiccò.

«La smetta di-»

«Ssssssssh» gli posò delicatamente l’indice sulle labbra, zittendolo.

Prima che l’altro potesse scostarle il dito e controbattere, Pálinka diede sfoggio di una delle doti più apprezzate dai malcapitati che -ignari del fatto che da quella camera ne sarebbero usciti a piedi in avanti, se mai fossero rimasti attaccati al corpo maciullato- capitavano volontariamente nel suo letto: il contorsionismo. Fece leva sulla robusta coda per spingersi verso il proprio angelo, gli agganciò le cosce al collo tenendo le zampe tese e, con un’acrobazia che avrebbe rotto la schiena a qualsiasi altra creatura, atterrò perfettamente a terra, il tutto senza emettere il minimo rumore.

Stesa sul pavimento, strisciò in mezzo alle gambe del suo ormai esasperato attendente. «Ollellè! Ollallà! Faccelo vedè! Faccelo toccà!... eh, a proposito! Sarebbe pure ora che me lo facessi toccare, con tutto il tempo che mi fai sprecare a pregarti!»

«È lei che si ostina a perdere tempo, Lady Pálinka, non io: per quanto mi riguarda, il mio completo disinteresse verso le sue proposte oscene l’ho espresso molto chiaramente sin dalla sua primissima molestia che-»

«E me la sono legata al dito, sappilo: sono la tua Dea, se ti chiedo di sverginarmi tu devi farlo! Rientra nei bisogni vitali ai quali devi fare fronte in quanto mio schiavo!»

«Maestro e assistente, prego» la corresse. «Tornando al nostro discorso, e tralasciando che ai tempi lei era “solamente” la mia allieva e che quindi non le era dovuto più rispetto di quanto lei stessa ne dovesse -ma non ne desse- a me, devo forse ricordarle cosa ha comportato la sua deflorazione? Settimane di ricerca per il “candidato perfetto” in tutto l’Universo 1, tredici pianeti Hakaizzati perché nessuno degli abitanti era “degno di cogliere il suo fiore, o anche solo di annusarlo, ma pure solamente di guardarlo col telescopio”, per non parlare degli innumerevoli richiami da parte di Zeno-Sama che minacciava di farle fare la fine dei sei universi già distrutti se non si fosse data una regolata, dal momento che il suo povero Kaioshin faticava non poco a stare al passo con i suoi Hakai. Fortunatamente per lei, e anche per il sottoscritto, l’arrivo di Lord Lobo è stato provvidenziale».

Il volto dell’Hakaishin parve illuminarsi. «Lobo! Lobuccio! Oh, cosa mi fai tornare in mente!»

«Le faccio tornare in mente un ex Dio della Distruzione rozzo e volgare che vagabonda da un universo all’altro a bordo della sua motocicletta, trascinando con sé oscenità, caos e talmente tante imprecazioni che persino io, un angelo, ho dovuto aggiornare la mia conoscenza in materia, ecco cosa. Un vero e proprio mostro, non saprei con quale altro aggettivo definire quell’uomo, un mostro al quale lei ha concesso il suo corpo e la sua innocenza senza indugiare nemmeno un istante e anzi, dovetti addirittura insistere perché vi spostaste nella camera da letto, anziché consumare i vostri invericondi rapporti nello spazio aperto come stavate già procedendo a fare» si fece pensieroso qualche istante «Anche se, con senno di poi, perlomeno lì nessuno avrebbe sentito i vostri coiti. E credetemi che non è stato nulla di piacevole».

La Kindjathl’matari si lasciò scappare un sorrisetto malizioso. «Ti eri messo dietro la porta ad ascoltare, Ciskuccio? Potevi dirlo, anziché rimanere lì a menarti la fava, ti avremmo invitato!»

«In verità lasciai direttamente il pianeta e passai la giornata e la notte al palazzo del Kaioshin, ma sfortunatamente al mio ritorno dovette constatare come non aveste ancora finito di fare i vostri porci comodi, e anzi nel mentre vi foste spostati e aveste imbrattato un po’ per tutta la casa coi vostri fluidi corporei» sospirò. «Avete copulato con modalità e foga animalesche per tre giorni e tre notti intere, Lady Pálinka, questo è ben oltre la mancanza di pudore e autocontrollo».

«Dillo a tuo fratello».

 

Cisk si irrigidì: già, suo fratello. Suo fratello Colada, per la precisione, operativo nell’Universo 3.

Era sempre stato un angelo posato, responsabile, virtuoso, serio, a tratti un po’ puritano, ma con quella variopinta giraffa giuliva di Lady Piña come Dea della Distruzione beh, tanta compostezza e pazienza erano assolutamente necessarie, per non dire vitali: sopportare quel suo atteggiamento da classica pupa stupidina con il cervello negli enormi seni anziché nella testa era già difficile quando ancora non aveva un partner, ma quando il “fenomeno Lobo” -alias “Lo Sterminatore di Vergini”, epiteto a lui riservato da che aveva riservato lo stesso indecente trattamento anche all’Hakaishin pavonessa dell’Universo 2, tale Lady Corona, mancava giusto all’appello quella micetta paurosa di Lady Cacique dall’Universo 6 e poi avrebbe fatto l’en plain!- aveva colpito anche lei, la cosa era andata totalmente fuori controllo. E non solo perché quei due avevano continuato a copulare per ben più di un paio di settimane.

Da allora, le occupazioni principali di quella buon’anima di un angelo erano state quelle di procurarle partner su partner su partner per soddisfare il suo risvegliato appetito sessuale, assicurarsi che lei non rimanesse incinta durante quelle sue orge degeneri e, infine, pulire ciò che rimaneva di queste ultime una volta terminate.

Allora, Colada urlava, urlava e urlava, urlava tutto il giorno contro quella disgraziata senza vergogna né pudore, ma le sue urla non riuscivano mai a coprire gli orgasmi della sua signora; grida oggi, grida domani, alla fine gli era venuto un brutto mal di gola. Avendo manifestato i primi bruciori mentre era in giro a zonzo per gli Universi, si era fermato sul primo pianeta che gli era capitato dinanzi, finendo in una città chiamata Pettinathia. Era sceso a terra, era entrato in una farmacia, aveva comprato una confezione di quelle pastigliette colorate che sembrano caramelle ed era tornato a casa tranquillo, sereno e con la gola che stava una favola.

Purtroppo per lui, Colada non sapeva molte cose, su quelle “caramelle”.

Non sapeva che Pettinathia era la capitale multiversale dello spaccio delle peggiori sostanze stupefacenti che la mente potesse immaginare, tanto efficaci sui comuni umani quanto sulle razze superiori come gli immortali, gli angeli, forse persino Zeno-Sama in persona.

Non sapeva che laggiù le farmacie altro non erano che supermercati di quartiere dove vendere allucinogeni e narcotici e oppiacei e chi più ne ha più ne metta.

Non sapeva che gli avevano venduto della droga, anziché delle Zigulì.

Quella stessa sera, quando aveva accompagnato la sua protetta a una delle leggendarie feste di Lady Zivania, la divinità squalo dell’Universo 11, l’inevitabile era diventato realtà: era finito a letto con la propria Hakaishin. E con una manciata di amici e amiche della stessa.

Ma del resto non era stata colpa sua, drogato e sbronzo com’era non si era reso minimamente conto di ciò che stava facendo, nemmeno lo ricordava, e l’estremo sbigottimento da lui mostrato la mattinata seguente nell’apprendere di aver consumato un rapporto carnale con Lady Piña -e viceversa, fra l’altro!- ne era stato la conferma: non aveva infranto le regole di propria volontà, e di questo nessuno gliene avrebbe mai fatto una colpa… se non fosse stato che Colada ci aveva pure preso gusto, a fornicare con la propria Dea della Distruzione, complice il fatto che lei avesse definito l’esperienza “quasi epica quanto la mia prima volta con l’Uomo”.

Da morigerato e austero che era, Colada era diventato ospite fisso alle orge organizzate dalla sua signora, e ormai non raramente da lui stesso.

Una volta che la lobite colpiva, non c’era cura che invertisse il processo.

 

Cisk fece spallucce. «Mio fratello è liberissimo di vivere come crede la propria vita sessuale senza rendere conto a nessuno, Lady Pálinka, non sarò certo io a impedirgli di avere rapporti carnali con la sua protetta, né a fargli la paternale in proposito: gliel’ho fatta una volta, e tanto basta. Dal momento che chiunque altro a lui superiore che potesse fargliela non ha diritto di parola sull’argomento» faceva riferimento al Daishinkan e ai due Zeno, che ormai passavano più tempo a giacere con la loro sgualdrina personale rispetto a quanto ne dedicassero alla gestione dei dodici Universi «allora credo di poter affermare con certezza che il caso di Colada sia da considerarsi più unico che raro, oltre che chiuso, ed è proprio questa unicità a rendere impossibile paragonarlo con qualsiasi altra situazione o persona».

“Più unico che raro”, sì, perché da quel che sapeva oltre a Colada c’era solo altri due angeli che si erano dati alle “azioni impure”: sua sorella Tongba, assegnata all’Universo 5, e una tale Ginger, che da ciò che aveva capito era stata l’attendente di Lord Lobo, ma che lui non conosceva personalmente.

La situazione di Tongba, tuttavia, era totalmente diversa: aveva un solo e unico partner fisso, un certo russo di nome Vlad, e con lui aveva ormai intrecciato una relazione seria fatta di amore, passione e soprattutto rispetto reciproco, anziché una tresca da una notte e via come suo fratello; quest’ultimo dettaglio rendeva ancora più sensato il discorso fatto da Cisk: qualsiasi angelo avrebbe potuto trovarsi un compagno o compagna, con quello che combinava suo padre figurati se avesse potuto lamentarsi, ma erano le modalità in cui ciò accadeva e si sviluppava a fare la differenza.

Differenza che, ahimè, Pálinka non riusciva -o meglio, non voleva- afferrare, a giudicare da come gli si stesse avvinghiando intorno alle gambe. «Se tu mi dessi ascolto e ti decidessi a darmelo, allora Coladuccio non sarebbe più l’unico angioletto monello che si sbatte la propria Dea: dì, non lo immagini mai cosa potremmo fare noi due insieme, uh?»

«In verità no».

«Io sì, invece, e l’ho immaginato talmente tante volte che ormai mi sembra di aver scopato con te per davvero» rise «Anche se purtroppo sono consapevole che non è così, dal momento che ti comporti ancora come un verginello frigido e cinico».

«Dubito fortemente che la perdita della verginità abbia un qualche effetto scientificamente provato sulla psiche, mia signora».

«Uh uh! Come no! Basta guardare Piña e Corona per capire che è tutto il contrario! La prima è passata dall’essere una bambola sexy che te la sventola davanti ma non te la dà mai a un animale da monta che pare respirare sesso, e la seconda ha perso quell’insopportabile atteggiamento da palo infilato nel culo quando l’Uomo ci ha infilato il proprio, di palo. Scopare ti fa distendere i nervi, gioia de mamma, e in quanto angelo ne avresti un estremo bisogno: immagina, Cisk, immagina con me cosa potremmo fare noi due». Come un gatto che si arrampica su di una tenda, strisciandovisi addosso, iniziò a risalire languidamente il corpo dell’angelo: le gambe «Potrai possedermi quando, come e dove vuoi, in qualsiasi modo tu voglia: puoi essere dolce e amarmi, puoi essere rude e prendermi a schiaffi, puoi essere quello che preferisci con me» l’addome «Mi farò fare di tutto, di tutto: vuoi riempirmi di baci e nulla di più? Va bene. Vuoi legarmi al letto e martellarmi finché non riuscirò nemmeno a reggermi in piedi? Va bene. Vuoi umiliarmi portandomi a spasso per gli Universi con collare e guinzaglio per sfogare le tue frustrazioni? Va bene. Va bene qualsiasi cosa» il petto «Devi solo cedere, niente di più e niente di meno: ti togli questa bella divisa immacolata, ti stendi sul letto e, chiudendo gli occhi, lasci fare tutto quanto alla sottoscritta. Quando li riaprirai, sarai un uomo nuovo, un uomo migliore, un uomo vero».

Faccia a faccia, fronte a fronte, con quelle sfere acquamarina che brillavano nell’oscurità della sclera nera, si fermò. Per stringerlo a sé, lo avvolse con uno dei lunghi baffi arancio, solleticandogli il collo col ciuffo di pelo all’estremità; con l’altro, invece, si levò il babydoll blu elettrico, scoprendo i piccoli seni coperti di chiazze chiare e l’intimità… beh, già pronta all’uso, ecco. «Saprei ricompensarti, lo sai? Sono l’incarnazione del Male, ma ti sorprenderesti di scoprire quanto il Male sia generoso».

«Oh, in verità lo so bene» sospirò «Ricordo alla perfezione di come ha ringraziato Lord Lobo, privando un intero sistema solare di tutti i delfini solo perché quel burbero animale col sigaro in bocca ama quelle creature».

«Per come mi ha scopata, meritava tutti gli strafottuti delfini di questo universo! Tutti! Porco Zeno e tutte le vostre angeliche aureole, se ci ripenso mi sembra di sentirmi ancora dentro quel pezzo di carne turgido e-»

«Lasci l’amarcord a quando è sola nella sua stanza, per favore» la interruppe: era già a conoscenza di fin troppi dettagli riguardo la prima volta della sua Dea, ulteriori delucidazioni gli avrebbero fatto rimettere il croissant alla pasta di mandorle che si era concesso poco prima «E lasci anche me, per favore, la sua pelliccia mi sta accaldando» borbottò.

Un sorriso sornione apparve sul volto della divinità. «Hai caldo perché ti sto appiccicata come una cozza allo scoglio, o perché i tuoi bollenti spiriti si stanno finalmente risvegliando?»

«Sappiamo entrambi la risposta» asserì stizzito «e, che lei la voglia accettare o meno, questa risposta è la stessa che le ho dato ieri, che le do oggi e che le darò domani: “no” era, “no” è e “no” sarà sempre, Lady Pálinka, punto. Insistere è inutile, deleterio, inconcludente, pernicioso, crudele» con un dito, delicatamente, scansò la mano dell’altra, così pericolosamente vicino alla sua cintura «per cui la finisca lei, prima che sia costretto a farla finire io: non sono una persona violenta, ma non sono nemmeno uno dei suoi giocattoli da turlupinare a piacimento».

Ci fu un lunghissimo istante di silenzio. Poi, la presa sul corpo dell’angelo aumentò ancora, e ancora, e ancora, fino a quando la pelle azzurrina non iniziò a venire percorsa da finissimi segni ora rossastri, ora violacei. «… Tu non puoi rifiutarmi…» ringhiò la Kindjathl’matari a denti digrignati dopo qualche momento durante il quale non accade nulla, la voce ridotta a un gorgoglio grave e profondo che pareva emanare presagi di morte «…Non puoi farlo. Non puoi».

Sorrise. «Oh, sì che posso, invece, ed è precisamente ciò che sto facendo. E che continuerò a fare, se ci tiene a saperlo». Notò bene lo sguardo assassino col quale lo stava mentalmente -e, se avesse potuto, anche letteralmente- sgozzando. «L’ha sempre saputo, non mi guardi come se le stessi dicendo una novità» sbuffò annoiato: sempre la stessa storia, con lei, mai che una volta gli risparmiasse tutta la sceneggiata!

Sceneggiata che, questa volta, stava degenerando.

Avendola davanti, infatti, Cisk non poté non notare l’ombra scura che pareva essere calata sugli occhi di quell’immonda creatura; allarmato, gettò un’occhiata di sospetto alle sfere infilate sulla coda della propria Dea: da verde acqua che erano, stavano lentamente assumendo una sfumatura dorata, a tratti rossastra. Quando le prime macchie nerastre fecero capolino in quel globo traslucido, evocò il proprio bastone: subito, senza perdere tempo, lo picchiò a terra.

Il tempo che un odore dolciastro dal vago sentore affumicato riempisse la stanza e, come se nulla fosse, Pálinka mollò la presa, gettandosi invece sul divano col naso che fremeva e la lingua a penzoloni per via dell’acquolina che si stava impadronendo della sua mente.

La causa di tanta frenesia, nonché di quella curiosa mescolanza di sapori, era una grande fontana di cioccolato bianco a cinque piani, tre dove vi scorrevano il prezioso preparato a base di cacao, due -il primo e quello alla sommità- dove invece erano ordinatamente riposti i cibi preferiti dell’Hakaishin, già belli che pronti per essere intinti in quella brodaglia che faceva venire il diabete solo a guardarla: carne essiccata, merluzzo e gamberi in tempura come base, codette colorate e palline argentate come topping finale.

Sì, i gusti gastronomici di quella creatura erano strani quanto lo era lei, ma un omicidio culinario sarebbe stato solo l’ennesimo di tanti omicidi che aveva sulle spalle.

Intenta com’era a procurarsi un’intossicazione alimentare ingozzandosi di quella ripugnante mescolanza di cibi, Cisk ne approfittò per controllare il colore delle perle: fortunatamente, erano tornare ad essere verde acqua. Forse nessuno sapeva precisamente a cosa servissero, di cosa fossero composte o come fosse possibile che si sviluppassero già durate la gravidanza, ma nel suo lungo cammino al fianco della Kindjathl’matari lui una cosa l’aveva capita: il colore delle sfere variava a seconda del loro umore; nel caso specifico di Pálinka, il loro colore di base era appunto una via di mezzo fra l’acquamarina e il turchese, e le variazioni che subiva potevano essere di tre tipi: dorato quando era irritata, rosso se era arrabbiata e, infine, il più nefasto fra tutti, nero cupo, nel caso in cui avesse raggiunto un livello di furia cieca e incontrollabile tale da entrare in quella che l’angelo definiva “modalità Berserkr”. La sua non era una razza sanguinaria, al contrario erano molto molto pacifici, motivo per cui tendeva a considerare quello raggiunto dalla Dea un caso straordinario e non la norma.

Per fortuna, perché da quel che aveva avuto l’occasione di vedere -pochissime volte, solitamente la stordiva prima che la situazione arrivasse a un punto di non ritorno- una bestia del genere avrebbe potuto seriamente costituire un problema persino per il Re del Tutto: in quanto angelo, era suo preciso dovere impedire che ciò avvenisse mai.

Ed era anche suo dovere evitare che si strangolasse con una lisca di pesce, come stava facendo in quel momento.

 

Vedendola in difficoltà, le diede una vigorosa pacca sulla schiena: qualche tentativo, e sputò la spina galeotta. Affamata d’aria e con la gola dolorante, l’Hakaishin si riempì la bocca di un’intera caraffa di zuccherino sciroppo d’acero, metaforicamente ridendo in faccia al colesterolo. «Porco Zeno e porci tutti gli angeli, mi stavo ammazzando! Tentativo d’omicidio! Lesa maestà!» iniziò a gridare, sbracciandosi come una forsennata «Cisk! CISK! Dimmi da che diavolo di pianeta viene questo fottutissimo merluzzo!» lo afferrò «DIMMELO!»

L’altro non poté fare altro che sospirare. «Pianeta Gadus, mia signora».

«IO LO HAKAIZZO!» immediatamente, la soffice pelliccia delle mani le si ricoprì di un’aura violastra, pura Energia della Distruzione; batté il pugno sul tavolo, dissolvendolo come polvere al vento. «Meritano di morire tutti, tutti, dal primo all’ultimo! Quei bastardi pagheranno a caro prezzo questo attentato alla vita della loro magnanima Dea! Oh, se pagheranno!»

«Se mi permette, non credo che qualcuno possa avere colpa se in un pesce è rimasta una-»

«Ti ho dato il permesso di parlare, da che me l’hai chiesto? No, e allora taci! Piuttosto, fai il bravo servo e vai a prendermi i vestiti, e avvisa anche il Kaioshin di creare un altro pianeta che compensi quello che distruggerò fra poco» si fece pensierosa «Anzi, tre pianeti, meglio abbondare, non sia mai che sulla strada di ritorno mi venga voglia di-»

«Cisk?»

Sentendosi chiamato, l’angelo si voltò. Dinanzi a lui, una figura alta, dai fianchi e dai seni prorompenti sproporzionati rispetto al corpo esile; dinanzi agli occhi, una cascata bianca che copriva l’occhio sinistro, già nascosto di suo dagli immancabili occhiali da lettura dai colori improbabili poggiati sul naso solcato dalle lentiggini.

Per la prima volta in quella giornata, esibì un sorriso vero, non forzato dalla presenza di chicchessia e nemmeno di perculìo. «Viru. È una sorpresa averti qui».

 

Viru non era solo sua sorella, era la sua gemella: forse fisicamente non si somigliavano, ma dal punto di vista caratteriale erano delle vere e proprie gocce d’acqua, col loro inguaribile cinismo misto a della sana misantropia che portava entrambi a sbattersene altamente del mondo esterno alla loro augusta persona e tutti quei comportamenti di costante insofferenza verso il creato che agli occhi altrui li rendevano “strani”. Stranezza che lei accentuava ancora di più di quanto non fosse evidente, poi, con la sua curiosa passione per l’abbigliamento di latex e i completi da bondage pieni di borchie e catene, il tutto nonostante fosse ancor più frigida di suo fratello; anche adesso, la sua mise non veniva meno ai suoi insoliti gusti: un tubino di latex nero a maniche lunghe che le arrivava fino alle caviglie, completamente chiuso davanti e con giganteschi strappi dietro  che nulla lasciavano alla fantasia, da come esponevano al vento il fondoschiena alla Kim Kardashian dell’angelo, una precisa richiesta della sua ex divinità che voleva qualcosa da schiaffeggiare.

“Ex”, sì, perché Viru -assegnata all’Universo 7- da qualche tempo era l’assistente di una nuova Hakaishin, tale Lady Rakija, essendo la sua precedente divinità stata sconfitta da quest’ultima con facilità disarmante.

A essere sinceri, l’intera vicenda che gravitava intorno alla morte di Lady Chacaca -gemella di Lady Cacique- era piuttosto confusa e nebulosa: l’arrivo dello sciacallo nero era stato un vero e proprio fulmine a ciel sereno, mai prima d’allora era stata vista aggirarsi in quell’Universo, la sua stessa comparsa dall’oggi al domani pareva finalizzata solo e soltanto alla conquista del posto di Hakaishin appartenente alla felina viola e nulla di più; curiosamente, Rakija conosceva già a memoria tutte le tecniche di combattimento della sua avversaria, e soprattutto sapeva come contrastarle una per una. Hakai compreso.

Allora, la voce che qualcuno l’avesse addestrata e preparata appositamente per quello scontro aveva iniziato a circolare prima fra i Kaioshin, poi fra gli Hakaishin, infine fra gli angeli, e presto era arrivata anche alle orecchie del Gran sacerdote e di Zeno-Sama in persona, ma tutto si era risolto in un nulla di fatto: non c’erano prove, non c’erano testimoni e non c’erano indizi che potessero provare oltre ogni ragionevole dubbio la colpevolezza di chicchessia, non c’era niente di niente; il caso era stato chiuso, lei era diventata Dea della Distruzione e tutti avevano accettato la conclusione alla quale era arrivato il Daishinkan: Rakija era stata molto fortunata, e Chacaca molto stupida.

Tutti, tranne Cisk.

Quella versione non l’aveva mai convinto, a buona ragione: Rakija sarebbe stata fortunata se avesse affrontato Chacaca riuscendo a sconfiggerla nonostante il vastissimo arsenale di tecniche che una creatura antica come lei possedeva, non trionfando col vantaggio di essere già a conoscenza di tutto ciò che l’avrebbe aspettata, mossa dopo mossa, attacco dopo attacco, Aveva sempre sospettato che fossero di Viru le mani azzurrine che avevano mosso i burattini impegnati in quella rappresentazione teatrale con delitto, ma lui non aveva mai chiesto conferma, e lei non gli aveva mai detto nulla. Per quanto lo riguardava, qualunque fosse la verità, il caso poteva dirsi chiuso e sepolto insieme alla defunta Dea gatto: con una nuova divinità vicino, sua sorella era rapidamente passata dall’ultimissimo posto nella classifica degli Universi al quinto, e questo era tutto ciò che contava. Per troppo tempo Viru, l’angelo più forte fra tutti i figli del Daishinkan, era stata associata a quell’inetta che pensava solo a sbronzarsi e rubare le caramelle ai bambini con quella sua banda di deficienti che lei definiva “amici” per vederli piangere, se avesse deciso di liberarsi di lei per quello specifico motivo l’avrebbe solo capita.

 

«Sorpresa?» si stupì lei «In realtà ti ho chiamato prima, fratello, ma non c’eri e mi ha risposto la tua signora. Le avevo detto che sarei arrivata».

A quelle parole, Pálinka venne investita dallo sguardo truce del proprio angelo. «Hanno chiamato e non me lo avete detto?» chiese con tono contrariato, infastidito, seccato: fortunatamente la chiamata era stata di sua sorella, ma se fosse stato Zeno-Sama a chiamare che diavolo di figura barbina ci avrebbe fatto lui? Non solo sarebbe sembrato un maleducato, ma anche un attendente che non era in grado di farsi rispettare dalla sua stessa divinità!

Lei fece spallucce. «Me lo sono scordata».

Cisk fece per rispondere a tono, ma la sua gemella lo anticipò. «Lascia perdere, non crucciarti oltre per certe piccolezze: sono qui e sei qui anche tu, per cui il problema di come sia venuto a sapere della mia presenza non si pone» lo rassicurò.

«Suppongo tu abbia ragione» si trovò a concordare: sì, meglio non insistere, anche perché sarebbe stato inutile e ne sarebbe venuto fuori scemo. La invitò a sedersi. «A cosa devo questa tua visita, sorella?»

Si sedette. «Semplice gita fuori porta nel tempo libero. La mia signora è sempre molto rigorosa e severa, quando si tratta di rapportarsi con i propri colleghi, come sai non va mai oltre il “buongiorno” di cortesia, ma ha instaurato un ottimo rapporto di amicizia insieme a Lady Cacique ed oggi è uscita con lei, nonostante abbia ucciso la sa gemella».

«Forse perché quella poveretta non aspettava altro» osservò Cisk, interrogativo «Considerando come Lady Chacaca la trattava, vessandola continuamente per il suo essere sovrappeso e permettendo ai suoi amici di affibbiarle soprannomi infelici, un inconscio desiderio di darle una lezione che fosse tale suppongo che sarebbe stato più che normale».

«Precisamente la stessa cosa che ho pensato anche io. Sia come sia, attualmente quelle due si frequentano, e sembrano andare piuttosto d’accordo: spettegolano, fanno colazione insieme, escono a fare shopping, organizzano pigiama party, addirittura passano pomeriggi interi chiuse in camera perché Cacique è curiosa di vedere la collezione di piercing per capezzoli della mia allieva» rise. «Ammetto che inizialmente ero piuttosto perplessa da questo loro rapporto, specie perché hanno caratteri diametralmente opposti l’uno all’altro, ma sai cosa? Credo che svagarsi insieme faccia bene ad entrambe, tanto a Rakija per sciogliersi un po’ quanto a Cacique per riuscire a vincere quella sua estrema timidezza: quella pover’anima non ha mai avuto una vera amica, finché c’era sua sorella, credo che una gioia che sia una se la meriti» li si avvicinò all’orecchio «Anche perché, detto in confidenza fra noi, è stata proprio lei a presentare alla mia signora Lord Pampero, e ho la vaga impressione che la rigorosa Dea sciacallo si sia presa una bella cotta per lui, nonostante non lo ammetta» sogghignò.

«Ah sì?»

Annuì. «E ti dirò di più: ho chiesto a nostro fratello Lasko la sua opinione in proposito, e mi ha confermato che l’interesse della mia Hakaishin per il suo è reciproco».

L’altro parve sorpreso. «Se dovessero scoprire di avere una particolare alchimia sentimentale e ritrovarsi l’uno nell’altra, c’è caso che ti troverai a gestire una canide antropomorfa in calore, sorella».

«Ho saputo gestire le mani lunghe della defunta e per nulla compianta Lady Chacaca, Cisk, fare lo stesso con uno sciacallo con gli ormoni a mille e uno stallone da monta le cui dotazioni sono note in tutti e dodici gli Universi non mi dispiace, né sarebbe un problema di qualche tipo. E poi Lady Rakija è una creatura discreta, sobria e morigerata, sono tranquilla».

«Beata te» sospirò «non tutti hanno la fortuna di avere un Dio della Distruzione col quale sia possibile ragionare senza che questo tenti di stuprarti mentre riposi. O fai la doccia. O ti cambi. O cucini. O fai qualsiasi cosa».

Le orecchie di Pálinka, impegnata a ingozzarsi, fremettero. «Cofa vorrefti infinuare?» bofonchiò a bocca piena, sputando pezzi di carne mista a cioccolato sui cuscini.

«Non insinuo proprio nulla, descrivo semplicemente una mia giornata tipo al suo fianco» fece spallucce «E non tenti di difendersi dicendo che non è vero, perché si infila sotto la mia tunica persino durante le riunioni ufficiali dinanzi a Zeno-Sama, di testimoni ce ne sono in abbondanza!» la anticipò.

«Oh, beh, avresti potuto risolvere questo spiacevole problema tempo fa, fratello, le possibilità le avevi» gli fece notare sua sorella, calma e serenissima.

A quelle parole, la Kindjathl’matari si alzò. Si diresse verso l’angelo a grandi falcate con fare non intimidatorio, non minaccioso, non omicida, molto peggio, e le sfere che stavano rapidamente diventando rosse senza passare per la via di mezzo dorata ne erano la palese e funesta testimonianza.

Cisk, però, non intervenne.

Si fermò dinanzi a lei con le braccia conserte, la coda che frustava furiosamente il pavimento scavando profondi solchi in esso. «Gli stai forse suggerendo che avrebbe fatto bene a liberarsi di me, Miss Culetto Sodo?»

Per nulla impressionata, Viru si strinse nelle spalle. «Io non suggerisco niente a nessuno, Lady Pálinka, mi limito a esprimere un concetto e lasciare che siano gli altri a decidere come interpretare le mie parole secondo i loro gusti. Tuttavia, mi permetta di osservare come trovi alquanto curiosa la sua interpretazione: a essere sincera, sembra quasi che lei sia intimorita dalla consapevolezza di essersi comportata in modo tale da aver offerto al suo angelo motivi sufficienti per desiderarla nella tomba, piuttosto che viva. È così, forse?»

Non rispose.

Solo, macchie nere iniziarono a spargersi in quei globi ormai ridotti a un oceano di sangue scuro. Anche adesso, con gli spettri del disastro che aleggiavano nella stanza, l’altro angelo non mosse un dito.

Viru, invece, continuò a calcare la mano. «È indicativo che non vogliate rispondermi» osservò alzando un sopracciglio e il piercing dello stesso «mi fa quasi pensare che non vogliate affrontare l’argomento. Per quale motivo, poi? Distruggete senza freno alcuno, commettete atrocità impronunciabili, violentate anche le piante, il tutto senza vergognarvene minimamente: detto ciò, e partendo dal presupposto che per quanto mi riguarda può fare ciò che più l’aggrada, è così problematico rispondere a una mia semplicissima, innocente, neutrale, domanda? A meno che io non abbia toccato un tasto dolente s’intende, in questo caso capirei il suo silenzio, la sua resistenza, la sua paura. Del resto è risaputo come i tiranni dormano con una spada sotto il cuscino per la paura di perdere il proprio regno di terrore da un momento all’altro». Incurante delle sfere completamente nere, si abbassò, chinandosi vicino alle sue orecchie per potervi sussurrare: «Lei dove la tiene, la sua spada?»

 

Crack.

 

Pálinka stramazzò a terra: indifesa, agonizzante, in preda alle convulsioni, con gli arti rigidi dritti dritti, gli occhi rovesciati all’indietro e una bava schiumosa che le usciva dalla bocca nera e acquamarina; al suo fianco, Cisk, il bastone ancora interposto fra Viru e la sua signora.

Oltre al fatto che i globi variassero di colore a seconda dell’umore del proprietari, era un’altra la scoperta che l’angelo aveva fatto istruendo e servendo quell’empia creatura di Tiāmtu: rompi tutte le sfere a un Kindjathl'matari, e lo ucciderai. E lui aveva applicato per l’ennesima volta questa scoperta con la sua Dea della Distruzione, stupidamente in procinto di tentare di utilizzare l’Hakai contro sua sorella.

Ritirato lo scettro, si mise a osservare la propria Hakaishin che andava lentamente spegnendosi: ogni singola perla in suo possesso, piccola come quelle sui baffi o grande come quelle sulla coda, era percorsa da crepe più o meno spesse e ramificate che scendevano in profondità nella sfera stessa giù, giù, sempre più giù, fino a romperla in profondità e far defluire da essa tutta la vita e il potere che custodiva; non per niente, infatti, quando un globo veniva rotto iniziava anche a perdere colore a velocità più o meno elevata a seconda del danno, fino a divenire completamente trasparente: quando ciò accadeva per tutte le sfere, allora il Kindjathl’matari moriva.

Anche Viru diede un’occhiata a quello che da lì a poco sarebbe diventato un freddo cadavere, poi spostò lo sguardo verso il gemello. «Avrei potuto tranquillamente difendermi da sola, fratellino, ma apprezzo il gesto».

«In questo Universo sei un’ospite, sorellina, non mi sembrava educato farti sporcare la mani per gli eccessi della mia Dea» le spiegò sorridendo. Poggiato un ginocchio a terra, si chinò sull’altra sventurata. «Spero che abbiate capito la lezione, Lady Pálinka: sono molto paziente, ma non tollero che manchiate di rispetto a qualcuno a voi superiore. Ora, gentilmente, chiedete scusa» la incoraggiò: non l’avrebbe mai lasciata morire, ovviamente, ma a volte per insegnarle come girava il mondo doveva ricorrere a quei metodi brutali; non gli piaceva usarli, ma non si tirava nemmeno indietro nel farlo né si sentiva in colpa per averlo fatto.

Con la poca forza in corpo, dando mostra di un’intollerabile strafottenza, l’Hakaishin ebbe il coraggio di sventolare le proprie dita medie. «… G-gia…gia… GI-GIAMMAI!» gridò, tossicchiando sangue subito dopo per lo sforzo.

«Molto bene». Cisk si alzò, poi offrì un braccio alla sorella. «Vuoi venire a gustarti un ottimo dolce, Viru? Sul pianeta Rocher fanno dei dessert deliziosi: hanno delle delicate e leggerissime mousse al cioccolato servite con panna appena montata che paiono spumose nuvole di golosità ripiene di marmellata calda ai lamponi, penso che dovresti assolutamente provarle».

Lo prese a braccetto. «Volentieri, ti ringrazio».

Evocò il proprio bastone. «Benissimo, partiamo subit-»

Nemmeno il tempo di finire, che Pálinka gli si trascinò vicino e si aggrappò disperatamente ai suoi abiti, tirandoglieli con una certa violenza… per quanto la sua condizione le permettesse di essere violenta, s’intende.

«… N-non p-pu-puoi la… lasc… l-lascia-a-armi…. q-qui…» gemette con le lacrime agli occhi, più probabilmente per una reazione del suo corpo al tremendo dolore che la stava dilaniando che per sincero pentimento «… n-non… non p-puoi!»

«Si scusi» ripeté impassibile.

«E-eh e-e-eh… s-sappi-a-amo-o en-entram… bi… che no-non lo… f-farò…» riuscì addirittura a ridacchiare «T-tu non -mi la… lasce… l-la-lascers… ti… mai… m-mori…re… lo so… a-altri-me… menti d-do… d-dove la… la tr-tr… tr-trovi… u-u-un’al-altra c-co… co-come me, u-uh?»

«Se Zeno-Sama vuole, da nessun’altra parte» asserì alzando gli occhi al cielo. Indifferente, picchiò il bastone per terra, facendo comparire dei filamenti biancastri che iniziarono ad avvolgere il suo corpo e quello dell’altra per trasportarli dalla loro merenda.

A quel punto, probabilmente Pálinka si sarebbe aspettata che il suo angelo si voltasse all’ultimo e le ricomponesse le sfere senza che lei dovesse abbassarsi a chiedere scusa a Culetto Sodo, ma da quel che i suoi occhi ormai bianchi stavano vedendo -anzi, non stavano vedendo, essendo i due già belli che totalmente avvolti dall’ombra del teletrasporto- nulla di ciò stava accadendo: la stava davvero abbandonando a se stessa per andare a mangiarsi un dolce? Lo stava facendo veramente?

Cos’era quella strana e fastidiosa sensazione che sentiva pervaderle il petto? Paura, forse? No, no, no: non aveva mai avuto paura prima d’ora, erano gli altri che avevano paura di lei! Non il contrario!

Eppure… eppure…

«S-scu… u-usa! S-scusa! SCUSA!»

Quell’urlo disperato appena uscito dalla gola non lo aveva lanciato lei, non consapevolmente almeno.

Sì, un riflesso dell’istinto di sopravvivenza, ecco cos’era stato, istinto di sopravvivenza e nulla di più: niente sincero rammarico, niente voglia di sapersi perdonata, niente sensi di colpa; fosse stato per lei, piuttosto che scusarsi sarebbe morta.

Qualunque fosse stato il motivo che l’aveva spinta a scusarsi, non aveva importanza: il tempo che pronunciasse l’ultima sillaba, e le sue sfere tornarono come nuove, senza più crepe né graffi che testimoniassero l’accaduto. Insieme ad esse, anche la Kindjathl’matari si sentì subito riparata e bella pimpante, forte dei suoi globi che avevano ritrovato il proprio colorito turchese acceso e degli occhi acquamarina nei quali brillava nuovamente la scintilla della psicosi che l’accompagnava da che li aveva aperti, quei grandi occhi neri come le profondità più recondite della malattia mentale.

Una ferità, però, non era stata sanata: quella nel suo orgoglio. Lei che era stata costretta a chiedere scusa, a chiedere scusa!

Si sedette sul divano. «Fanculo».

 

 

 

___________________________________________________________________________

 

Angolino dell’autrice, che giura di non essersi fumata nulla per scrivere questa cosa

 

Avrei dovuto chiamare questa one shot “Come NON presentarsi in un fandom”, fra rating e instabilità mentale dei soggetti coinvolti, MA DETTAGLIH :’D

Non chiedetemi come è venuta fuori Pálinka perché non lo so nemmeno io, essendo nata completamente a caso già bella che sociopatica/psicopatica/quellochevoletepatica e finendo per gettarsi insieme ai miei altri undici OC Hakaishin -e altrettanti angeli- in qualità di pazza del gruppo, che diciamocelo ci vuole sempre.

Più o meno.

Più meno che più.

Facendo le persone serie (ma quando mai?!), non sono per niente nuova nel fandom di Dragon Ball, ci sono praticamente cresciuta fin da che ero piccolina, ma non ho mai scritto nulla a riguardo né su EFP né altrove, sebbene nella testa mi facessi tante di quelle long che per scriverle tutte non mi sarebbe bastata questa vita e nemmeno l’altra :’D ma ho deciso di scrivere questa one shot degenerata peggiochemale, giuro che doveva essere lunga qualche pagina e riguardare solo quel mostro peloso, mica il mio intero AU! D: anche solo per presentare tanto disagio al mondo e niente, eccoci qui, con me che continuo a parlare e voi che leggete i miei deliri: bene, ma non benissimo! :’D

Per il resto, Lobo è sì un personaggio della DC Comics, ma Lord Lobo passione Hakaishin arriva da questa one shot della mia compagna di profondo disagio _Dracarys_, che fra un discorso e l’altro mi ha gentilmente concesso di utilizzare l’UomoH per i fini impuri che avete appena letto :D

Va bene, ho parlato a sufficienza: qui sotto vi lascio un disegno di Pálinka che feci teeempo fa, mentre alcuni degli altri suoi colleghi potete trovarli nel mio profilo deviantArt :)

P.s. Mi scuso se avevo cancellato la storia, ma era tutta in corsivo e non so perchè! Suppongo sia un problema del sito, dal momento che quando ho pubblicato si vedeva normalmente.


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