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Autore: PerseoeAndromeda    28/05/2018    1 recensioni
“Ancora a sentirti in colpa, piccolo Andromeda?”.
“Chi…”.
Era ormai così debole che non riuscì a sussurrare altro, mentre lentamente sollevava il capo. Non credeva potesse accadergli ancora qualcosa di peggio, eppure quella voce lo fece tremare, c’era qualcosa di profondo e al contempo terribile in essa e qualcosa di tanto familiare da terrorizzarlo.
[Fanfic partecipante alla challenge #26promptchallenge indetta dal gruppo facebook Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Andromeda Shun, Cygnus Hyoga, Dragon Shiryu, Pegasus Seiya, Phoenix Ikki
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Questa fanfic partecipa alla challenge #26promptchallenge indetta dal gruppo facebook Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart

#26promptschallenge

4/26 Prigionia

/pri·gio·nì·a/
sostantivo femminile

Definizione:
1. Stato di segregazione forzata in luogo angusto, con privazione della libertà di movimenti; reclusione. Condizione di isolamento dalla vita sociale della comunità.

2. La condizione di chi si sente dominato da qualcuno o da qualche cosa a cui non riesce a sottrarsi.
Titolo opera: Blood and chains

Fandom: Saint Seiya

Ship: Nulla di esplicito, anche se ci scappa forse un po' di IkkixShun, HyogaxShun

Warnings: angst, ferite, sangue, un po' di violenza, ma non c'è niente di così terribile mi sembra :P

 

 

 

Blood and chains

 

 

Il rumore delle catene si fece così assordante che il ragazzo smise di dibattersi, per non rendere ancora più angosciosa la propria situazione. Un lamento sfuggì alle sue labbra e nuove lacrime si fecero strada lungo le guance, sfuggite agli occhi serrati, stretti in una linea di dolore.

Il silenzio che calò intorno a lui fu per le sue orecchie, tuttavia, altrettanto stridente, gli faceva male ai nervi, intensificava la morsa che gli opprimeva il cuore.

Come per ribellarsi a quel silenzio emise un altro gemito, più alto ed acuto, che si tramutò in singhiozzo e, subito dopo, in un più consapevole richiamo:

“Niisan…”.

Si sforzò di aprire gli occhi, che sembravano incollati da una patina vischiosa come petrolio… o come un grumo di sangue che bruciava la pelle e penetrava fin nella retina.

Sangue… sempre troppo, troppo sangue…

“Basta…”.

Fu un nuovo singhiozzo, accompagnato dal tendersi di una delle sue mani imprigionate, gli anelli tintinnarono e lui, finalmente, riuscì a schiudere le palpebre, ma per un attimo nulla mutò, troppo intensa era la tenebra intorno a lui.

Poi un lampo scarlatto, la chiazza sanguinolenta di un’enorme ferita, in essa erano raccolte tutte le ferite che lui stesso aveva inflitto.

“Perché non mi lasciate in pace?”.

A chi si stava rivolgendo? Agli incubi? Ai ricordi?

Se era un sogno voleva svegliarsi, ma a cosa sarebbe servito? Anche se quello era un incubo, la realtà non sarebbe stata diversa, le memorie lo avrebbero tormentato, in eterno, anche alla luce del sole.

Non vi era alcuna possibilità di fuga.

Quella consapevolezza lo fece reagire con una tale disperazione che tutte le sue membra si tesero verso un’impossibile speranza di fuga; come si poteva fuggire dai propri ricordi, da ciò che già era accaduto e non una volta, ma tante, troppe?

In risposta ai suoi tentativi, le catene reagirono, vive come il suo dolore: si tesero a loro volta, accentuarono la stretta sulla sua pelle nuda e nuove ferite si aprirono nelle membra indifese. Urlò, non era mai riuscito del tutto a non urlare quando il dolore fisico diventava insopportabile, ma non era quello il suo dramma più grande, non era quello che lo spaventava: quel dolore entrava dentro, a rendere ancora più acuto quello del cuore.

Plic… plic…

Al tintinnio delle catene si univa quel monotono sgocciolare nel buio.

Guardò a terra, laddove il rosso acceso del suo sangue screziava la tenebra, formava tanti rivoli scarlatti che percorrevano il suo corpo, scendevano lungo le braccia, lungo il collo, il torace, le gambe e andavano a formare un lago, tutto intorno a lui.

Fissò quella chiazza che si espandeva con espressione assente: era il suo sangue quello, non sangue dei suoi avversari, quindi andava bene, se solo perdere tutto il sangue che aveva in corpo fosse servito a cancellare, a fare ammenda…

“Ancora a sentirti in colpa, piccolo Andromeda?”.

“Chi…”.

Era ormai così debole che non riuscì a sussurrare altro, mentre lentamente sollevava il capo. Non credeva potesse accadergli ancora qualcosa di peggio, eppure quella voce lo fece tremare, c’era qualcosa di profondo e al contempo terribile in essa e qualcosa di tanto familiare da terrorizzarlo.

Per questo i suoi occhi si sgranarono quando incontrarono quell’altro paio di occhi, così simili ai suoi, ma così diversi a un tempo, verde che si specchiava in un ipnotizzante blu senza fondo, due gelidi oceani di quiete in un volto pallido come la morte. Non vedeva i capelli, inghiottiti nel nero della notte, perché di quella notte avevano il medesimo colore, così come non vedeva la veste lunga e color della tenebra, ma sapeva che erano lì, a fluttuare intorno a quella figura ritornata a cercarlo dall’Ade.

Le tenebre che tanto gli si addicevano lo avvolgevano e cullavano il suo avvicinarsi, con le movenze di uno spettro privo di ogni altro sostegno, se non quello delle ombre intorno a lui. L’orrore che Shun provò gli fece tornare la voce e gridò a quella vista, cercò di ritrarsi, ma le catene reagivano ad ogni suo movimento, facendosi più crudeli e rigide nel trattenerlo.

Erano le catene del cloth di Andromeda quelle, le riconosceva, sue alleate in battaglia dal momento in cui aveva superato la prova, liberandosi dalla loro morsa, ora di nuovo nemiche nel volerlo tenere prigioniero.

Era sempre stato così d’altronde, lui era loro prigioniero, le aveva accettate come aveva accettato il cloth e solo per questo motivo esse si erano dimostrate solidali con lui: adesso erano di nuovo nemiche, perché troppo spesso, ancora, il ragazzo desiderava fuggire al destino, fuggire da se stesso, fuggire a loro, alla propria coscienza. Ma le catene non potevano rinunciare al santo di Andromeda, c’era ancora bisogno di lui, non lo avrebbero mai liberato e ora gli chiedevano, con durezza, di affrontare il nemico che gli si poneva davanti, di sopportare e combattere ancora.

Urlò di nuovo, quegli occhi erano adesso all’altezza dei suoi, una mano bianca come scheletro si sollevò fino al suo viso e dita sottili lo sfiorarono, fredde, troppo gelide per essere vive:

“Avrei potuto liberarti da quelle catene… ma tu mi hai rifiutato”.

Shun si morse le labbra, aprendo una nuova ferita nel suo corpo già martoriato, ma ogni dolore fisico era svanito: ormai era oltre, al di là di ogni sopportazione umana, al di là di ciò che il suo cuore e il suo spirito erano in grado di tollerare.

Deglutì e si accasciò su se stesso, così anche le catene si rilassarono, come in attesa…

In attesa della sua nuova decisione?

Tanto lo sapevano che lui non avrebbe mai scelto Hades e questa era una delle poche certezze di tutta la sua esistenza.

Tra Hades e Athena una sola scelta era possibile, non sarebbe mai cambiato.

Tuttavia aveva paura di colui che ora gli stava davanti, come un tempo, giunto per reclamare ancora ciò che riteneva suo: se Hades lo avesse voluto, sarebbe stato ancora in grado di opporsi?

Non c’era Athena questa volta e lui non riusciva a trovare, dentro di sé, quella capacità di reagire che tante volte era giunta in suo soccorso, si sentiva esausto, senza appigli, senza speranza… e senza volontà.

La mano del dio si posò con più decisione sulla sua guancia e il gelo penetrò nelle viscere di Shun, tremava così tanto che anche la catena vibrava e, in quel momento, aveva essa stessa la voce dell’agonia: la catena di Andromeda aveva compreso, il suo prigioniero e protetto non aveva nulla per opporsi, era in grave pericolo e lei non poteva fare nulla, perché un dio era semplicemente troppo forte, anche per lei.

In reazione serrò con maggior energia le membra di Shun, in un estremo tentativo di risvegliarlo dall’apatia nella quale era caduto, ottenne solo di ferire il suo corpo; il ragazzo rimase inerte, passivo, terrorizzato da quegli occhi e da quelle mani che adesso, entrambe, si erano impadronite del suo viso, sollevandolo a forza.

“Ti ho trovato di nuovo, ovunque tenterai di scappare io ti troverò, ti ho scelto ancor prima che tu venissi al mondo, neanche Athena potrà tenerci lontani”.

Il respiro di Shun si fece affannoso, gli occhi sgranati e colmi di terrore seguirono l’accostarsi delle labbra di Hades alle sue, le dita sul suo viso erano come artigli affondati nella sua anima.

No… no… non è vero… non voglio…

“NOOO!”.

Il pensiero si mutò nell’urlo più straziante che fosse mai sfuggito alle sue labbra, ma chi avrebbe potuto udirlo in quella dimensione che era solo sua… sua e della sua nemesi?

Probabilmente quel luogo non esisteva da nessuna parte, se non dentro di lui.

 

 

***

 

Ikki non aveva paura del buio, gli sarebbe sembrata ridicola persino l’idea, lui che aveva attraversato il tunnel della morte ed era uscito ancora nella luce, lui che risorgeva dalle proprie ceneri come la Fenice, lui che aveva trascorso la sua infanzia a proteggere dal buio un fratellino avvinghiato a lui come all’unica ancora di salvezza...

Eppure, in quel momento, aveva paura, perché in quel buio c’era qualcosa che lui stesso non aveva mai imparato ad affrontare senza sentirsene immediatamente terrorizzato e sconfitto, c’era il dolore di qualcuno a lui troppo caro, c’era l’angoscia della perdita, il senso di impotenza perché forse, prima o poi, non sarebbe più stato in grado di proteggerlo.

E c’erano quei suoni, segnali inequivocabili di sofferenza, catene che tintinnavano, gemiti di una voce che era per lui un canto quando la sentiva felice, ma una pugnalata sul cuore quando era rotta e angosciata come in quegli istanti.

“Otooto…”.

Avrebbe voluto chiamarlo con più energia, ma il sussurro uscì spezzato come quegli stessi singhiozzi che giungevano alle sue orecchie.

Poi dei passi, tutto intorno a lui, da tre direzioni diverse.

Con un ruggito si mise sulla difensiva.

Non ci riuscirete, pensò, nessuno mi impedirà di raggiungerlo!

Come se quelle presenze gli avessero letto nel pensiero, una voce gli rispose, calma, rassicurante:

“Nessuno te lo impedirà, Ikki, ma non da solo”.

Fece un passo indietro, le mani si abbassarono:

“Seiya?”.

Uscì dalle tenebre, un passo dopo l’altro, prendendo forma davanti a lui.

Un’altra figura comparve alla sua destra, una terza alla sua sinistra.

I suoi occhi vagarono da una parte all’altra, non sapeva come prendere quell’invasione di un suo spazio così intimo.

Rabbia? Gratitudine? Smarrimento? Sollievo?

“Cosa ci fate qui?”.

“Abbiamo percepito il richiamo di aiuto di un nostro fratello”.

Ikki corrugò la fronte.

Come osava, Shiryu?

Shun era…

Solo suo?

Si fece avanti Hyoga ed osò allungare una mano, fino a posargliela sulla spalla. Un tempo un simile gesto, in una situazione del genere, avrebbe provocato in Ikki una reazione feroce, invece rimase fermo, seppur fremente di quella che poteva essere rabbia, ma non ne era sicuro ed ascoltò le parole del russo:

“Ha bisogno di noi, Athena ci ha guidati fin qui”.

Solo in quel momento Ikki si rese conto dell’alone di luce che li circondava tutti, racchiudendoli in una bolla di caldo cosmo. Il santo di Phoenix sussultò: come aveva fatto a non accorgersene?

Non solo i richiami e i singhiozzi di Shun lo avevano attirato in quel limbo di tristezza, ma la stessa Athena li aveva presi tutti per mano, perché era giunto il momento che capissero l’importanza di ciò che li legava: non solo sacri guerrieri al servizio della Dea, ma fratelli in cui scorreva il medesimo sangue e che ci sarebbero stati, ormai, gli uni per gli altri.

Non poté fare altro che chinare il capo, arrendevole come mai prima d’ora: sarebbe riuscito a rassegnarsi al fatto di non essere più il solo ad avere sul cuore un fratello da amare e proteggere?

“Ma… qui dove…”.

Fu Seiya ad esprimere quel dubbio che era comune, gli occhi grandi e smarriti a cercare un qualunque segnale visibile oltre la luce di Athena.

“Sono i sogni di Shun” rispose Ikki a colpo sicuro. Non era la prima volta che gli capitava di sentirli, di viverli dentro di sé percependo tutto il dolore che il fratellino si portava dentro fin dalla sua nascita. Non avrebbe mai pensato che qualcun altro sarebbe mai giunto a condividerli insieme a lui, non era ancora certo che ciò gli piacesse. Ed era consapevole che era un pensiero egoistico, che avrebbe dovuto essere felice per Shun.

“Tutto questo buio, nei suoi sogni?” chiese ancora Seiya, il tono ora basso e triste, incrinato da una commozione improvvisa. “E tutte queste lacrime? L’ho sentito piangere, l’ho sentito soffrire, come se qualcuno… gli stesse facendo del male”.

“Sono i suoi ricordi, il suo destino stesso, le sue paure” asserì Ikki, guardando fisso davanti a sé.

“NOOO!”.

L’oscurità venne trafitta da quell’urlo che, come una lama, affondò nei loro cuori, facendoli sobbalzare tutti e tre, persino Shiryu, sempre così propenso a mantenere la calma.

“Andiamo!” esclamò Seiya, lanciandosi nella direzione dalla quale, credeva, il grido era provenuto, senza chiedersi se gli altri lo seguissero. Non era più tempo di discorsi.

Non vi era nulla che potesse essere distinto dai sensi in quelle tenebre, ma Athena era con loro e li guidava, per cui la loro corsa non risultò mai esitante, nessun dubbio giunse ad interromperla.

Finché, puntino di disperazione nel buio, in un alone rosato screziato di rosso, videro colui che cercavano con tanta ansia.

Era in ginocchio, prigioniero delle sue stesse catene e ogni anello lasciava un solco profondo nella carne delicata, il corpo privo di veli sembrava ancor più vulnerabile, il pallore spiccava nel buio come una stella pulsante di dolorosa vitalità e, davanti a lui, un’ombra, china sulle sue membra indifese, sembrava volesse soffocarlo, inghiottirlo.

“Lui… è ancora…”.

Il sussurro sofferto di Seiya venne sovrastato dal ruggito di Ikki:

“Dannato, non osare!”.

Si gettò sulle due figure troppo vicine e i tre compagni non poterono fare altro che seguirlo, decisi ad attaccare tutti insieme colui che minacciava, di nuovo, l’identità e la serenità del fratello, ora completamente inerme e in sua balia.

Poi fu solo un’esplosione di luce che dissipò le tenebre, l’urlo di Shun che ferì le loro orecchie, le catene che impressero il loro marchio di sangue riaprendo ferite non ancora cicatrizzate, sangue che schizzò sui loro visi, sulle loro mani protese a sorreggere, tutti insieme, il corpo abbandonato di Shun e, insieme al sangue, entrarono a contatto con le sue lacrime, fecero a gara per raccoglierle, per asciugarle, per lavarle via dal suo viso, come dal suo cuore.

 

 

***

 

Quando si ritrovarono stretti gli uni agli altri, nella stanza di Shun a Villa Kido, il cosmo di Athena era ancora lì con loro e la luce calda, dorata, completava l’abbraccio che quattro ragazzi stavano donando al fratello tremante, in ginocchio sul letto.

“Vattene via…” singhiozzava il ragazzo, senza vedere ancora nulla, incapace di comprendere dove si trovasse, chi fossero le persone intorno a lui. “Non sono tuo… non voglio… io… non… aiutatemi…”.

L’unica realtà che riconosceva era ancora quella dimensione fatta di tenebre e sangue, nella quale una divinità portatrice di morte esigeva il suo corpo quale tributo, un sacrificio per espiare una colpa. E Shun sapeva di averne tante di colpe da scontare, per questo gli era così difficile reagire.

Sopraffatto dai ricordi, la motivazione veniva meno.

“Va tutto bene…”.

“Siamo qui…”.

“Shun… era solo un sogno”.

Quelle voci, quelle braccia che lo avvolgevano, così premurose, così calde.

“Aiutatemi” ripeté, in un sussurro così flebile da cucciolo in trappola che tre cuori si strinsero.

Qualcuno accarezzò i suoi capelli: era una mano grande, forte, la conosceva bene. Trovò il coraggio di aprire gli occhi sull’ampio torace nel quale il suo viso affondava.

“Ni… Niisan…”.

“Era un sogno, Otooto… solo un sogno…”.

Riuscì a muovere le braccia e le sue mani andarono ad aggrapparsi alle braccia di Ikki, poco sotto le spalle, gli occhi si accesero del loro verde più intenso nella semi oscurità della stanza:

“Voi… siete venuti... tutti e quattro... per me”.

Ikki sorrise e Shun percepì un movimento accanto a sé: Seiya si era arrampicato sul letto e ora, seduto al suo fianco, gli massaggiava la schiena, in ampi cerchi atti a rilassare i suoi nervi ancora tesi.

“Athena ci ha dato un piccolo aiuto”.

Il viso di Shun si levò verso l’alto, senza fissare nessun punto in particolare, ma percependo chiaramente qualcosa:

“Lei… è ancora qui…”.

Fece correre poi lo sguardo su tutti loro, a turno.

“Ed era con voi quando siete venuti a…”, deglutì, le membra scosse da un tremito più forte provocato dal ricordo, “a mandare via… lui…”.

Lui…

Lui che lo cercava ancora, che lo voleva ancora.

Spalancò gli occhi in un moto di terrore, le dita si strinsero convulse alle braccia di Ikki, ma non guardò nessuno, fissava oltre, un punto lontano da lì, da quel calore che lo circondava:

“Tornerà… mi userà ancora per fare del male e io… io diventerò il suo strumento di morte”.

La frase si spense in un sottile sospiro, seguito da una serie di singhiozzi che il ragazzo tentò di soffocare portandosi una mano alla bocca.

I massaggi sulla sua schiena si fermarono, le dita di Seiya si fecero tese, nervose.

“Shun!”.

Il richiamo di Hyoga risuonò energico, ma con una sfumatura di supplica. Si inginocchiò ai piedi del letto e così, dal basso, staccò la mano di Shun dalla bocca e lo costrinse ad abbassarla, stringendola nella propria, se la portò alle labbra ignorando, per una volta, la presenza di Ikki. Di solito non si sarebbe mai lasciato andare ad un gesto simile con la Fenice così vicino.

Invece posò un bacio sulle dita sottili del fratello minore e si spaventò trovandole così fredde: era lui che doveva emanare gelo, non Shun…

Shun doveva avere in sé solo calore, quello stesso calore che un giorno gli aveva restituito la vita e che tanto spesso aveva sciolto il suo cuore.

“Lui non tornerà…”.

In quelle parole era implicito un altro messaggio:

E se tornerà, dovrà passare sul mio cadavere prima di averti.

Non lo disse, perché conosceva abbastanza bene Shun da sapere che una frase simile avrebbe peggiorato il suo umore e accentuato le sue paure.

Contrariamente ad ogni aspettativa, Ikki non prestò a Hyoga la minima attenzione, ogni suo senso era concentrato su Shun, sulle sue lacrime, su tutta l’angoscia che emergeva da quegli occhi, unica realtà nella quale la sua esistenza acquisiva un senso.

Shun li guardava uno per uno, era chiaro che nei loro visi cercava rassicurazione, un appiglio che era troppo difficile trovare dentro di sé, ma loro non sapevano fino in fondo quanto Hades fosse ancora presente, quanto lo cercasse senza lasciargli scampo. Non era sogno, Hades lo perseguitava, voleva sfinirlo, per estinguere ogni sua difesa.

E c’era così vicino…

Abbassò il capo e lo scosse, tutto il suo corpo si sciolse, come privo di consistenza e, se non ci fossero state quelle mani a sorreggerlo, sarebbe definitivamente crollato.

“Non è sogno… non è solo sogno…”.

I compagni si scambiarono sguardi angosciati, Seiya ricercò gli occhi di Shiryu in una richiesta di aiuto, ma trovò anche lui preoccupato, a tal punto che si mordeva le labbra, l’espressione colma di pena per quel fratellino che, troppo spesso, non riusciva a tollerare la durezza della propria esistenza.

Come dargli torto? La vita era stata dura per tutti loro, ma nessuno, se non Shun, era stato reclamato da un dio latore di morte.

Una mano di Shun era ancora prigioniera di quella di Hyoga, l’altra salì al volto, privando tutti loro dello splendore dei suoi occhi.

“Mi dispiace così tanto… voi siete qui per me… e io…”.

“E tu ci sei sempre stato per tutti noi”, finalmente anche Shiryu fece udire la propria voce e Seiya gliene fu grato. C’era bisogno della sua pacata saggezza. “Sei sempre stato l’unico, tra noi, che non è mai mancato quando si trattava di dire una parola gentile, portare un po’ di conforto, o semplicemente esserci…”.

“Shi… Ryu. ..”.

La mano di Shun scivolò in grembo, lo sguardo rimase basso, nascosto a tutti loro.

Alle parole di Shiryu seguì il silenzio: era chiaro a tutti come esse fossero reali. A turno tutti loro, per qualche motivo, in un momento o nell’altro, erano spariti, si erano negati, ma lui no…

Lui era sempre rimasto ad aspettarli, con la sua discreta pazienza, pronto ad accorrere se uno di loro avesse avuto bisogno di sostegno, sempre in prima fila per affiancare, sostenere, proteggere.

Le carezze di Seiya sulla sua schiena ripresero, di nuovo decise, ma morbide.

Shiryu si staccò dal gruppo, lasciando che i tre compagni continuassero a restare fisicamente accanto a Shun e si avvicinò alla portafinestra che dava sul balcone. Tirò la tenda, poi aprì le imposte, permettendo ai tenui colori dell'alba di farsi strada nella stanza: si annunciava una giornata di sole e già il suo tepore riusciva, in qualche modo, a penetrare oltre i vetri e a raggiungere anche i quattro ragazzi stretti gli uni agli altri.

Seiya e Shun sollevarono il viso e il colorito dei loro incarnati così diversi venne accarezzato e reso più morbido dal primo raggio di sole.

“Shiryu” mormorò Seiya, gli occhi lucidi e grati mentre si nutrivano del nuovo giorno. Il cuore gli sembrò, all’improvviso, meno pesante. Sperava che anche Shun ne traesse giovamento.

Lo ricercò con lo sguardo e trovò le sue guance rigate delle lacrime che per tutta la notte non avevano smesso di scendere.

Allungò una mano per asciugarle e a quel gesto Shun si riscosse, come sottraendosi ad una sorta di incantesimo. Lo guardò smarrito, le labbra aperte in una muta supplica, poi si limitò a sospirare ed abbandonò il capo sulla spalla di Seiya, mentre Ikki continuava a carezzargli i capelli e Hyoga ancora era in ginocchio e gli teneva la mano, massaggiandone con i pollici il dorso.

“Shun!”.

Il santo di Andromeda sussultò e sollevò lo sguardo in direzione di Shiryu, trovandolo in piedi, nella cornice della portafinestra, i contorni della sua figura a un tempo elegante e maestosa resi vaghi e soffusi dalle delicate pennellate dell’alba.

Lo stava fissando e sorrideva, con un’espressione talmente confortante che era impossibile non credere a ciò che avrebbe detto:

“Shun, lui non tornerà”.

Shun deglutì, le sue labbra tremarono e, in qualche modo, sentì un peso scivolare via dal cuore.

Forse, dopotutto, Shiryu aveva ragione, forse erano davvero solo sogni.

Il suo cuore prese a battere forte, ma si rese conto che non si trattava più di paura.

Era tutta quella luce, tutta quella bellezza, che Athena e i suoi sacri guerrieri proteggevano da secoli.

Lui non sarebbe stato da meno, la padronanza di sé ritornava insieme ai raggi del sole, il tocco di quelle mani e la forza di quegli sguardi gli facevano credere che avrebbe superato qualunque cosa, la sua fiducia in Athena non sarebbe mai vacillata.

“Grazie” mormorò semplicemente, rivolto a nessuno in particolare e al tempo stesso a tutti, mentre anche la carezza spirituale della dea si posò su di lui e tutto il gelo della notte lasciò il posto ad un rassicurante calore.

 
   
 
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