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Autore: herr    01/06/2018    2 recensioni
Attraverso tre periodi temporali, questa storia parlerà essenzialmente del rapporto (amoroso) tra Red (protagonista maschile di RBVG e compagnia bella) e Blue (nome inglese di Blu). Principalmente angst.


«Non ho veramente una ragazza comunque».
«Cosa?».
«Ti stavo prendendo in giro».
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Blue, Red
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
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Buongiorno a tutti! Mi è mancato dirlo. Ritorno, con un ritorno neanche tanto decente in realtà, come ogni cosa che faccio. È da un po' che volevo scrivere una storia su questi due personaggi, e dopo molte tribolazioni ce l'ho fatta. Saranno in tutto tre capitoli, quindi dopo la lettura di questo qua sarà come aver letto il 33,3% periodico della storia, o essersi visti 24 episodi (24 h) di Game of Thrones, se siete più pratici, con il vantaggio di non star leggendo una soap opera. È un bel vantaggio. La colonna sonora di questa storia è molto vaga; l'idea era quella che fosse l'EP Once Upon Another Time, la cui canzone eponima dà il titolo alla storia, ma mi sono rotto i coglioni dopo qualche ascoltata. Diciamo che vado da Chun-Li di Nicki Minaj a Allie X a Praying di Kesha e, per finire, Anna Wintour di Azealia Banks. Ascolterei più gente ma ho perso 200 gb di musica quindi :) :) :) ciao discografia flac di Amy Winehouse, di Marina and The Diamonds, di Florence + The Machine. Questa storia è un po' uno sfogo anche per quello.
Spero che vi piaccia.
AVVERTIMENTI: i due protagonisti della storia sono malati ma a fine storia si curano con l'elettroshock

for your eyes only, whosever they are;
h err


CAPITOLO I
Once upon another time
somebody's hands who felt like mine
turned the key and took a drive
was free

Highway curve, the sun sank low
Buckley on the radio

cigarette was burning slow
so breathe

Just yellow lines and tire marks
and sun-kissed skin and handle bars
and where I stood was where I was to be

No enemies to call my own
no porch light on to pull me home
and where I was is beautiful
because I was free
(Once Upon Another Time; Sara Bareilles)

 
2005
07/06/05
Il sole cocente di giugno splendeva su Kanto a guisa di palla di fuoco, irradiando del suo calore ogni oggetto che si trovasse sotto il suo spettro di azione. Raggi caldi, che scintillavano sui fiumi e sui laghi della regione, che schiudevano i petali dei fiori nei campi e che, in quel momento, si divertivano ad infilarsi in ogni angolo e cunicolo dell’Indigo Plateu, dando l’impressione che quel luogo fosse un diamante di luce.
La terra del campo da battaglia era battuta e sparsa sugli spalti, buchi e scalfiture che la percorrevano da un lato all’altro. Una leggera brezza spingeva i detriti che rimanevano a vagare, a trasformarsi in mulinelli, in vortici e poi a scomparire lì, dove si erano formati. Una struttura di ghiaccio, o quel poco che ne rimaneva dopo l’azione del sole, correva sul lato nord degli scalini degli spalti, e da lì formava una suggestiva cascata che ricadeva, indietro, sul campo. 

«Pensavo fosse più grande la medaglia».
Red si rigirò un quadratino scintillante di metallo nella mano: raffigurava l’edificio della Lega. Come fece scivolare la superficie sul suo pollice, una macchia striata di grasso si posò sull’altrimenti intonso metallo. 
«È simbolica».
«Già» mormorò. «La perderò, in ogni caso, appena arrivato a casa».
Era seduto su una sedia di ferro battuto, o per meglio dire disteso e dondolante, quasi, sulle gambe posteriori, mentre il sole lo baciava in fronte. Davanti a lui una lunga balaustra di ottone correva a ricoprire il perimetro della terrazza, dietro la quale poteva contemplare in tutta la sua bellezza il paesaggio dell’Altopiano Blu, dalle verdi montagne che chiudevano l’orizzonte a nord alle dolci pianure che scorrevano sotto di esse.  Ad occhio e croce, erano a qualche decina di metri da terra, aggettati su di una collina che troneggiava su quella bassa pianura. Il resto del pavimento, di vetro, lasciava trasparire tutto ciò che era sotto la terrazza.
Blue, dal canto suo, lo osservava, la schiena appoggiata alla balaustra, mentre godeva dei caldi raggi solari che gli riscaldavano il collo.
«Hai già intenzione di tornare a casa?».
Red asserì.
«Pensavo volessi goderti la fama».
«Nah». Appoggiò la medaglia sul pollice, e la schioccò in aria; con la sinistra la riprese al volo. «Tanto arriverà comunque qualcuno più bravo di me. In più, non ho voglia di restare qua».
«Non è così male».
«Vabbè» sogghignò. «Voglio andare a casa e basta».
«Come vuoi». 
Blue si passò una mano nella folta chioma rossiccia, per poi sollevare la ringhiera dal fardello del suo peso. Spinto in avanti, usò quell’inerzia per avviarsi verso l’interno della Lega.
«Ti aspetto dentro. Devi firmare un paio di carte».
«Un paio» gli fece eco Red.
«L’ultima volta ci sono rimasto quattro ore. Ti conviene cominciare».
«Ok» borbottò, spostandosi sul ciglio della sedia. «Arrivo».

Il sole puntava in direzione del Monte Argento, dove a breve sarebbe affondato tra le vette nevose ed i ghiacciai sempiterni che dividevano Johto e Kanto. Caldi raggi dorati giungevano perpendicolarmente al viso di Red, osservante lo spettacolo naturale davanti a sé, e proiettavano ombre altrettanto estese lungo il loro cammino.
Una larga strada si snodava di fronte, serpeggiando all’orizzonte tra le verdi distese dell’altopiano. Una macchina rosso scintillante sbarrava la strada all’altezza dei due ragazzi, ed attorno ad essa scatoloni su scatoloni recanti il logo della Lega.
«Sicuro di non voler venire con me?».
Blue sorrise. «Voglio usufruire dell’idromassaggio ancora per qualche giorno».
«Ottimo…» mormorò.
«Non sembri convinto» rispose l’altro, afferrando uno scatolone sul quale la scritta “CLOTHING” era stata appiccicata dappertutto. Aprì il portabagagli e lo ripose dentro.
«Lascia, facci—».
«Tranquillo, credimi».
Red scrollò le spalle ed a sua volta prese in mano uno di quegli scatoloni. «Sono solo un po’ stranito, tutto qua».
«Sei il Campione della Lega» rise «fa quest’effetto».
«Anche a te?».
«Nah». Prese in mano un’altra scatola. «Sapevo non sarebbe durato».
In poco tempo ebbero finito di montare tutto il merchandising in omaggio sulla macchina,  e Red tornò dentro l’edificio della Lega a farsi consegnare le chiavi del bolide, mentre Blue godeva il suo meritato riposto reclinato sul cofano, il sole al tramonto che disegnava sulla sua pelle cerchi rossi e porpora.
Poco tempo dopo, udì il rumore dei passi del castano avvicinarsi.
«Non hai intenzione di parlare di quello che è successo, quindi?» fece, alzatosi per dare l’ultimo saluto all’amico.
«Cosa intendi?».
«Mh». Blue trattenne un sorriso. «Ti dà così tanto fastidio dirlo?».
«Non capi—».
«Sesso, Red. Sesso».
Il viso di Red rabbuiò.
«Ciao, Blu—».
Il rossiccio afferrò il suo braccio. «Non hai nient’altro da dire?».
«Non c’è niente da dire» rispose seccato.
«Red…».
«Mollam—».
Non fece in tempo a finire l’ordine che Blue l’aveva costretto a sé, stretto il braccio sul suo petto, bocca nella bocca, in un fugace bacio. Il tempo di rendersi conto di quello che stava accadendo, Red decise che avrebbe potuto rimanere così per qualche secondo.
E quel secondo si prolungò ad un minuto.
Dopodiché Red si ritrasse.
«Ci vediamo, Blue».
Inforcò le chiavi nella toppa, le ruotò ed aprì lo sportello a sé e, prima che Blue potesse accorgersene o salutarlo, la macchina di Red, e lui con essa, stava sfrecciando sull’asfalto bollente.
«Ciao…» mormorò, senza essere udito.

 
12/09/05
«…nte ad aver vinto la 40esima edizione del Torneo di Gare Pokémon di Hoenn? Be’, è un’emozione indescrivibile. Ho sempre guardato da bambina queste competizioni, e potervi partecipare e addirittura vincere è qualcosa di magico… E come ha cominciato? Vuole dirci qualcosa in più dei suoi primi passi? Be’, certo, c’è da dire che ho cominciato molto picc—».
Il ronzio proveniente dalla televisione fu interrotto da un ben più squillante rumore di campanello.
Red aprì gli occhi, ed osservò la stanza attorno a sé. Una lattina di birra, visibile attraverso la superficie vetrata del tavolino, giaceva rovesciata sul pavimento, circondata da un alone giallognolo, mentre più in alto, sul tavolo in sé, era una ciotola piena di popcorn e dei sacchetti di patatine aperti da tempo. Spostando lo sguardo più in là, la televisione aveva accompagnato con il suo mesto sottofondo il riposo del giovane.
Si guardò attorno, spaesato, e poi ricordò: la pizza
Cacciò i piedi sotto il divano alla ricerca delle pantofole e poi si alzò, con fatica, scostando una patatina dalla sua maglietta “Kanto’s Champion”. 
La porta suonò altre volte, alle quali rispose sommessamente («Arrivo…»).
«Quanto le devo?».
«1000 ¥».
«Grazie mille».
Udì un «Arrivederci» come chiudeva la porta davanti a sé e si apprestava a ritornare sul divano. 
Schiaffò il cartone di pizza sul tavolino e si gettò nel divano, girandosi poi su se stesso per distendere la schiena sulla morbida superficie. 
Inforcò una fetta di pizza in bocca e rimase immobile a guardare le immagini che scorrevano alla televisione.
«…i sono i tuoi piani per il futuro? Vorrei andare a Kanto, magari tentare con qualcosa di diverso… la Lega forse. Vorresti diventare un’Allenatrice? Be’, in realtà lo sono già, solo che non ho mai…».
Il suo sguardo vagò nuovamente per la stanza.
Qualcosa lo infastidiva.
Aveva passato l’estate così, disteso sul divano, ad osservare la vita che scorreva davanti a lui. Saffron City si era rivelata più noiosa del previsto, o forse era il suo comportamento che faceva trasparire questo lato della città. 
Qualsiasi fosse stata la risposta, a Red non interessava. Un vuoto, una continua sensazione di inadeguatezza, di attesa di essere completato lo pervadeva. Come se si fosse dimenticato qualcosa a casa, qualcosa che non riusciva bene ad inquadrare.
Il suo sguardo ritornò sulla pizza, della quale bramava un altro pezzo, e per caso la vista cadde sul telefono, che giaceva in parte al cartone. 
Come si chinò per raggiungere la pietanza, ritornò indietro telefono in mano.
«Come va?» scandì, mentre le sue dita correvano attraverso la tastiera del telefono. «No. Mh… Ciao! Come stai?». Cancellò la frase precedente ed optò per la seconda, ma anche quella gli fece storcere il naso. «Ciao Blue, sono Red. Volevo… macché». 
Fece cadere il telefono sul suo ventre. 
Anche il solo scrivere un messaggio richiedeva uno sforzo per lui insormontabile.
Colto da un’improvvisa ispirazione raccolse il cellulare e corse sulla rubrica alla ricerca del numero di Blue. Ci cliccò due volte sopra, finché lo schermo non s’illuminò con il suo nome al centro.
Non rispondere… pensava fra sé e sé Red, non rispondere… 
Quando la udì.
«Pronto?».
La sua voce.
«Pronto?».
«Ehm… ciao».
«Red?». Poteva udire un tono di sorpresa misto a contentezza nella sua voce.
«Sì…».
«Non pensavo avessi un telefono» rise. «Comunque, mi fa molto piacere sentirti».
«Oh… anche— anche a me».
«Dovevi dirmi qualcosa?» lo incalzò Blue.
«In— in realtà sì. Pensavo… che potremmo vederci».
«Fisicamente?».
Red deglutì. «Sì. Qua a Saffron. Sempre… sempre se ti va».
«Ok, sì, nessun problema».
Gli occhi del giovane si illuminarono.
Un’impresa che gli era sembrata tanto ardua e insormontabile un minuto prima, non si era rivelata altro che una bazzecola. 
«Oh… bene, quindi?».
Blue rise. «È una domanda?».
«No. Bene. Ci— ci vediam—».
«Aspetta! Devi ancora dirmi la data!».
Si lanciò sul tavolo del soggiorno ed afferrò un pezzo di carta ed una penna. «Ok… direi che possiamo vederci la prossima settimana… il 18. Ok?».
«Mh-h. E dove?».
Red scrisse 18 con una disctubiile calligrafia. «Direi a casa mia… alle 5».
«E casa tua…?» rise Blue.
«Sì, sì, scusa… Courtyard Street, di fronte al parco».
«Ottimo, ci sarò. Ciao Red».
«Cia— ciao Blue». 
Red sorrise.

 
18/09/05
Blue indossava un paio di pantaloncini corti di tela bianca con striature azzurre la prima volta che lo vide da quell’estate. Una camicia, i cui ultimi bottoni erano stati accuratamente sbottonati – o forse per pigrizia – correva aderente sul suo petto, evidenziando le snodature dei muscoli e la fisicità del ragazzo.
Red, dal canto suo, indossava una felpa e dei jeans che aveva lavato il giorno prima in fretta e furia.

Red sbatté la porta di casa dietro di sé come seguiva con lo sguardo Blue muoversi dentro il suo appartamento. 
«… e così le dico “Secondo me quel vestito non ti sta bene”» urlò, mimicando le movenze di una donna «e lei è im-paz-zi-ta! Ti rendi conto? ». 
Si lasciò cadere sul divano come un peso morto, e per un momento chiuse le palpebre. 
«Non immagini neanche com’è stato lavorare con lei… mio nonno non vedeva l’ora di levarsela di torno. Cioè, una roba assurda».
Red era entrato in una dimensione ovattata, e alle sue orecchie non giungeva nessun suono che venisse processato al cervello. Osservava incantato i movimenti del corpo di Blue, che si snodava come cercava la posizione ideale per giacere sul divano, e nel farlo Red era rapito. 
«Non… non ho parole» mormorò, e si lasciò cadere anche lui su un divano di fronte all’amico.
«Già… in più pensavo che ci provasse con me». Lanciò un’occhiata al castano. «Ad ogni modo… hai da bere in casa?».
«Uh?». Il suo viso si illuminò. «Da bere? Sì, sì, ho qualcosa». 
Si sollevò stancamente dal divano e trascinò le sue stanche membra alla cucina, dalla quale Blue poteva seguirne l’ombra che si divincolava proiettata sul corridoio. Rumori acuti e vetrosi provenivano da quel luogo, rumori che indussero Blue ad alzarsi ed a controllare per sé se effettivamente ci fosse stato qualcosa da fare in quel momento.
Vide Red in punta di piedi, completamente stirato dal pavimento al punto più alto della credenza, sopra la quale la mano andava a tentoni nella speranza di trovare una bottiglia di scotch. 
Blue si mosse in quella direzione, superò l’isola che troneggiava al centro della stanza e finì a qualche centrimetro da Red, una distanza pericolosamente corta, braccato dalle sue braccia.
«Eccola!» fece, non resosi ancora conto, e quando scese si ritrovò il viso del rosso spiaccicato sul suo.
«Fammi pas—».
«Non importa» lo incalzò, e afferrò la bottiglia dalla sua mano, dopodiché le mise sul piano della cucina. Le sue braccia strinsero Red in una morsa, ed i loro corpi si fecero vicini, tanto da toccarsi.
«Lasciami andare» sussultò Red.
«Shh—».
«Non… non sto scherzando!». Spinse Blue sull’isola. «Lasciami… lasciami andare». Afferrò la bottiglia e si diresse in cucina.
«Che…?» esclamò Blue, spiazzato da quanto accaduto. «Che cosa ti è saltato in mente?».
Lo seguì fino al salotto. 
«A me? A te, piuttosto! Ti sembra nor—».
«Certo che mi sembra normale! Cazzo!» urlò. «Prima mi inviti a casa tua e poi mi tratti così!».
«Non so cosa tu stessi pensando—».
«La smetti, Red? La smetti, cazzo? Non ha senso quello che dici».
Red fece per avvicinarvisi, ma Blue si ritrasse e scomparve nel corridoio.
«Dove stai andando?».
«Via».
«Cos— Aspetta, Blue!».
«Non aspetto un cazzo».
Vide il rosso avvicinarsi alla soglia della porta, ed il suo primo istinto fu quello di afferrargli il braccio. Lo spinse verso di sé, ed egli cedette.
«Cosa c’è?» fece, stizzito.
«A— aspetta! Rimani».
«A fare cosa?» lo incalzò «a guardarci negli occhi?». Strinse i denti.
«Potremmo…».
«Un cazzo, Red, te lo dico io. Ciao».
In tutta la sua rabbia – o fastidio –, ebbe cura di accompagnare la porta come si apprestava ad uscire.
Red stette ad ascoltare il rumore dei suoi passi che si allontavano.
Lanciò un pugno verso la porta.

 
26/09/05
Un forte vento spirava sui verdi colli della campagna settentrionale di Kanto, accompagnando con dolci carezze le spighe di grano che, sospinte dalla brezza, oscillavano fra di loro. Il cielo terso si rifletteva in ogni specchio d’acqua attorno al Laboratorio del professor Oak come piccole miniere di zaffiri, mentre a fare da sottofondo erano i rumori della natura, con i suoi gorgoglii, sibilii e percussioni.
La struttura sorgeva al centro di un piccolo rialzamento del suolo rispetto al terreno circostante, cosicché il laboratorio assomigliasse, ai passanti che si trovavano a visitare quel paesaggio, più ad un fiore di candidi petali sbocciato nel verde della campagna che ad un luogo di scienza. Eppure, così era, anche in quel momento, quando il Professore Samuel Oak tutt’altro era intanto a fare che sopravvedere alle sue creature.
All’ombra di una veranda che si affacciava ad un prato circostante Oak riposava, sorseggiando una tazza di tè, quando un trillo ruppe quell’atmosfera idilliaca.
Si voltò in direzione della porta ed attese.
Il suono continuava a rimbombare per le stanze del laboratorio.
«Qualcuno può andare a rispondere?» urlò.
Ritornò brevemente al suo tè, ma prim’ancora che potesse godere di un altro sorso il suo istinto prese il sopravvento. Si alzò improvvisamente e rientrò nello stabile.
«Pronto?» chiamò, cornetta alla mano.
«Buongiorno prof».
Oak si compose. Era la voce di Red.
«Ciao Red! Che bello sentirti! Avevi bisogno di qualcosa?».
«In… in realtà sì» titubò. «Blue è là con lei?».
«Blue?». Lanciò un’occhiata alla stanza, come se la sua scrivania o le finestre potessero rispondere a quella domanda. «No, no, come mai?».
«Niente. Sa se è già tornato a Pallet?».
«Tornato?».
Red attese.
«È da un mese che non lo vedo più… circa da quando si è trasferito a Saffron City!».
«Saffron?» sobbalzò Red.
«Sì, come mai?».
«N—niente. Sa—sa darmi il suo indirizzo?».
«Certamente! Aspetta che lo cerco».

 
28/09/05
«Sì, infatti, non so cosa gli fosse passato per la testa… in ogni caso, Nancy, ho paura che—». Blue smise di respirare per qualche secondo. Dall’altra parte, una voce femminile che lo sollecitava a rispondere. «Ti—ti richiamo dopo, ok?».
Chiuse la chiamata e rimise il telefono in tasca.
«Red» commentò.
«Blue».
«Noto con piacere che sai il mio nome». Strinse i denti. «Cosa c’è?».
«Volevo… volevo scusarmi per come mi sono comportato l’altra volta. Credo».
«Scusarti?». rise. «Non devi scusarti, Red».
Il suo viso si illuminò. «Oh, davvero?».
«Sì, davvero» lo incalzò «Mi hai fatto perdere tempo. Capita».
«Io—».
«Chi ti ha lasciato entrare, poi? La porta non si apre senza chiavi».
«Ho aspettato che qualcuno entrasse».
«Sono le due di sera, nessuno in questo condominio rientra dopo le dieci».
«Ho aspettato un po’».
Blue rise.
Fece per allungare la mano alla maniglia della porta, ma Red si frappose fra lui e l’entrata.
«Cosa c’è?» commentò stizzito.
«Senti… questo per me è nuovo. È tutto nuovo…». Inghiottì. «Tu, io…».
«Sono content—».
«Voglio provarci».
A quelle parole, Blue si immobilizzò.
«Voglio provarci… anche se non porterà da nessuna parte. Almeno ci provo, no?».
«Provare a far cosa?».
Red spostò il peso in avanti e raccolse con la mano destra il capo di Blue a lui, dopodiché lo portò a sé in un bacio.
Blue, in risposta, si lasciò andare, facendo cadere il telefonino che serbava ancora nelle mani.

 
2008
03/11/08
Pioveva quel tre novembre. Il cielo era dipinto di bianco sporco, come la parete di una casa abbandonata il cui candido colore iniziale era stato rovinato e spinto verso il grigio dal tempo e dalle intemperie. Delle striscie violacee correvano sull’orizzonte in direzione di Vermilion City, mentre dall’altra parte, verso Cerulean, le nuvole andavano rischiarandosi, lasciando entrare di tanto in tanto dei brevi sprazzi di luce che si districavano tra il grigiore celeste come lame dorate.
La pioggia era leggera e Red, dall’altra parte del finestrino, si chiedeva se arrivato a Saffron il tempo sarebbe migliorato. Il suo capo poggiava direttamente sul freddo vetro della macchina, il suo sguardo proiettato sui grattacieli della metropoli, mentre delle striscie sottili d’acqua rigavano lo schermo del finestrino.
Di tanto in tanto la vettura sussultava per via di dossi nel terreno, ed il viso del ragazzo sobbalzava anch’esso. Più volte aveva pensato di riferirlo all’uomo che guidava, ma dalla remotezza del suo antro, sprofondato nel sedile posteriore, preferiva il silenzio.

Il taxi lo lasciò di fronte all’Hotel “The Prince”. La pioggia, che aveva smesso di cadere sulla città, aveva lasciato nell’aria una sensazione di umidità mista all’acre sapore di smog e quel retrogusto di cattivo tempo che Red non aveva mai imparato a decifrare.
Il ragazzo impugnò le due valigie e si trascinò distrattamente all’interno della hall, dove fu accolto da una donna in abito nero.
Sorrideva.
«Buonasera!».
«Buonasera».
La donna fece cenno ad un altro uomo di raccogliere la valigia di Red.
«Ha avuto un buon viaggio da Hoenn?».
Red accennò ad un sì, mentre il suo sguardo vagava in direzione dei bagagli, che stavano venendo escortati da un uomo all’interno di un ascensore, per poi sparire nei meandri dell’edificio seguito da un bip.
«Purtroppo negli ultimi giorni non ha smesso di piovere… è un peccato, perché Saffron di solito è così bell—».
«Lo so». Il suo sguardo era chino sull’apertura dell’ascensore, anche se in realtà non stava realmente osservando. Era perso in un punto imprecisato. «Ho abitato a Saffron per qualche tempo».
«Oh, be’, allora la conosce bene. La sua stanza, comunque, è la numero 1204».
Poteva leggere nella sua voce il disappunto per esser stata interrotta.

Quando mise piede dentro la stanza, si ricordò perché aveva amato, un tempo, Saffron City. 
Anche se sullo sfondo di un tetro cielo monocromatico, lo skyline della città non mancava nel lasciare a bocca aperta chiunque fosse spettatore della sua meraviglia. Torri di vetro ed acciaio che si susseguivano, l’una dopo l’altra, a disegnare un sinusoide sopra la metropoli. 

«Pronto?».
Red attese.
«Red! È da un po’ che cerco di chiamarti, va tutto bene?».
«Sì, sì, scusa, è che sono appena arrivato a Saffron, e tra una roba e l’altra…».
«Figurati, non preoccuparti. Piuttosto, ti dispiace se domani ti passo a prendere? Non vorrei che tu ci andassi da solo».
«Per me va bene» commentò atono.
«Ottimo allora. Ti aspetto davanti all’hotel per le 10. Sei al The Prince, no?».
Red accennò di sì con la testa, ma la mancata risposta della ragazza gli ricordò che non poteva vederlo.
«Sì, sono qua. A domani, allora».
«Ciao Red!».
«Ciao Leaf».
04/11/08
Red si sistemò il bavero della camicia e lanciò un’occhiata poco convinta allo specchio che si trovava di fronte a lui.
Mormorava una confusa melodia dalla bocca, mentre le mani correvano freneticamente sulla superficie dell’abito. Stiravano le bocche della camicia, le raccoglievano dentro i pantaloni e poi spazzavano via la polvere con delle brevi manate, che alla decima volta avevano perso il senso iniziale. E così ancora, finché non si vide pronto.
Tornò al trolley e prese una cravatta blu elettrico, che lanciò sul suo collo a mo’ di lazo per poi tornare di fronte allo specchio.
La strinse con entrambe le mani, fece un nodo e lo fece correre fino al collo, dopodiché fece scivolare il tessuto dietro il nodo, poi ancora davanti ed infine srotolò la coda con la massima cura. 
La mano destra tirava a vuoto la punta della cravatta, mentre la sinistra spostava di movimenti millimetrici il nodo ora un po’ più a destra, ora più a sinistra, ora più in alto.

Leaf indossava un lungo abito nero, che fasciava il suo corpo dalle spalle a poco sopra le ginocchia. Fu quanto notò appena salito sul sedile anteriore.
«Grazie mille ancora per il passaggio».
«Non c’è problema» sorrise la ragazza, «in qualche modo saresti dovuto arrivare al funerale».
«Suppongo di sì» mormorò.
Red fissava la strada davanti a lui. Era quasi rapito dallo snodarsi della città di Saffron, di quella che aveva tutta l’aria d’essere una giungla di vetro, asfalto e cemento. E colori, un arcobaleno di colori che, quel giorno, venivano stemperati dal pallore del plumbeo cielo.
«Ci sarà anche Blue».
Non rispose.
Alla radio era uscita una nuova canzone.
«Headmaster
sir, didn’t mean to strike a cord…».
«Da quanto non vi sentite?».
«Tre anni, credo».
«Ti mancava?».
«… nobody still thinks of you that way…».
«Uh?». Red si voltò in direzione della ragazza. «Cosa intendi?».
«Blue mi ha detto, Red».
Riportò il volto dall’altra parte, e si sentì sprofondare nella fodera in pelle del sedile.
«Non c’è niente da dire» bofonchiò.
«… so everything is wrong…».
«Ok…». 

La bara era color rosso rame e brillava sotto il pallore della giornata. Come la facevano calare all’interno della buca, Red poteva osservare la superficie oltremodo lisciata del legno riflettere mano a mano oggetti diversi e, tanto cambiò l’angolazione, che poté vedere sé stesso. Si trattenne dalla tentazione di allontanare lo sguardo e lasciò che lo schermo riflettesse la sua persona nella sua interezza.
Gli passò davanti un uomo che prima d’allora non aveva mai visto e gli strinse la mano.
«Condoglianze».
«Condoglianze» rispose distratto.
Fissò l’uomo avvicinarsi a Blue ed ad una donna in parte a lui, fare lo stesso e poi allontanarsi dal gruppo che si era formato attorno la bara, perdendosi dietro il bosco di cipressi. 
Arrivò qualcun altro e rifece lo stesso.
Dopodiché un altro, ed un altro ancora.
Red era confuso sul perché tutte queste persone si fossero fermate a fargli le condoglianze, ma la sua testa era occupata a pensare ad altro. Ogni persona che lo intratteneva lo aiutava a rimandare quello che, lo sapeva, sarebbe dovuto accadere, e pur in questa sua sicurezza voleva rimandare il fatidico momento. 
Quando la folla si sfoltì e rimase solo un pugno di persone, tuttavia, dovette farsi coraggio.
Il suo sguardo cercò Leaf, ma neanche lei sembrava nei paraggi.
Deglutì e si avvicinò a Blue.
«Ahem…».
«Red». Blue riconobbe la sua presenza con un’alzata di sopracciglia.
«Volevo… volevo farti le condoglianze». Raccolse la sua mano e la strinse di una stretta incerta. «Condoglianze».
Le labbra di Blue si inarcarono a formare un sorriso, ma le costrinse giù all’espressione di serietà che aveva mantenuto per tutto il tempo.
«Grazie, anche a te».
«So—so quanto ci tenessi ad Oak» continuò. «Sì, insomma, tuo zio».
«Grazie, Red». 
Lasciò la presa prima che se l’aspettasse e si girò in direzione della donna che lo circondava prima.
Red mormorò un saluto che si perse nel silenzio.
«Ehi, Red, tutto bene?».
«Uh?». 
Leaf era apparsa davanti a lui. 
«Sì, sì, tutto bene».
«Io pensavo di tornare a casa, farmi una doccia e in caso uscire con degli amici. Vuoi venire con me?».
«Ahem… sì, perché no? Va bene».
«Ottimo!». Lo squadrò. «Non mi sembri convintissimo. Sei sicuro?».
Red la fissò. Più che guardare lei, stava osservando come le pieghe del suo vestito scendessero sull’erba, e le sinuose curve che cadevano come una cascata di velluto sulla distesa verde. «In… in realtà no. Scusa».
«Non c’è problema! Posso riportar—».
«Tranquilla, torno a cas— in hotel da solo».
«Sei sicuro? È lunga».
Red asserì.
«Ok, allora. Ci sentiamo!».
Sorrise. «Ci sentiamo».

Rimase per un po’ a guardarsi attorno, scandendo i minuti con un breve controllo dello schermo del telefono. Il tempo passava, e con esso la testa di Red girava persa in un mare di idee. Quando si trovava indeciso se fare qualcosa o meno, il suo cervello si bloccava, e finiva per scegliere come opzione il non fare niente. Che non era una scelta, ma al contempo l’unica disponibile.
Erano passati 10 minuti quando guardò il telefono per l’undicesima volta.
«Merda».
Infilò il telefono in tasca e corse trafilato verso il bosco di cipressi.

«Red?».
Red si era lanciato trafilato sul parcheggio del cimitero, spostando lo sguardo ora a destra, ora a sinistra nella vana speranza di incontrare Blue nel tragitto. Stringeva la giacca in mano, e la camicia bianca era madida di sudore. Anche la fronte, sulla quale cadeva qualche ciuffo castano, era imperlata di gocce di sudore, assieme al resto del viso.
«Red?».
Si girò alle sue spalle, da dove era entrato, e vide Blue avvicinarsi stringendo il telefono in mano.
«Cosa stai facendo?».
«Stavo… cercando un passaggio».
Blue corrugò la fronte.
«Leaf se n’è andata e non è riuscita a portarmi all’hotel, ed ero venuto qua per vedere se ci fosse stato qualcun altro disponibile».
«Oh… mi dispiace, ma se ne sono già tutti andati».
«Tu no».
Se prima la discussione era stata irrilevante, quelle parole riaccesero l’interesse nel rossiccio.
«Anche io ho un impegno».
«Non… non te lo chiederei se non fosse urgente, ma è che ho già prenotato l’aereo e tutto. Ho veramente bisogno di un passaggio».
Blue bofonchiò, per poi fare cenno alla sua macchina, una utilitaria grigio metalizzato che giaceva a qualche metro da loro.

«All I needed was a medicine…».
«Quindi… cos’hai fatto in questi tre anni?». 
«Il solito».
Blue sorrise.
«Significa?».
«Mi sono allenato, ho combattuto, ho girato un po’ il mondo…».
«… you stuck a needle right into the vein…».
«Tutto questo con il premio della Lega?».
Red asserì.
«Wow. Io ce l’ho ancora tutto a casa, credo».
«E non c’hai fatto niente?».
«… my hands are tied behind my back…».
«Una vacanza, credo, nulla di più».
La macchina attraversò un sottopassaggio, e per qualche attimo, durante la discesa, Red ebbe la sensazione di essere sospeso in aria. Quella situazione era talmente surreale che ogni risposta che dava, o a cui pensava, gli sembrava risultasse forzata o premeditata.
«… it seemed to me you were the one the one, turns out you shut me up for fun».
«Be', significa che l’userai in futuro».
«Suppongo di sì».
«E invece…» deglutì «per quanto… riguarda il resto…».
«La mia situazione romantica?» rise Blue.
Red asserì. «Sì, cioè, non necessariamente…».
«… yeah, but you thought you got away with murder…».
«Ho una ragazza».
«Oh». Red si rabbuiò. «Come si chiama?».
«Karen».
«Bello. È simpatica?».
«… waiting ’til I catch my breath».
«Mh, sì, dai».

«… am I having a seizure? Cause I’m shaking up with fear…».
Red guardava fuori dal finestrino. Si sentiva uno stupido, anche per solo aver pensato di combinare qualcosa. Il suo piano malefico, aver mentito a Leaf, l’intera situazione assumeva un tono ridicolo se pensava al tragicomico epilogo.
«Non ho veramente una ragazza comunque».
«Cosa?».
Red si voltò verso di lui.
«Ti stavo prendendo in giro». Un sorriso inarcava le labbra di Blue. «È da un po’ che non ho avuto una ragazza a dire il vero».
«… hit me on my blind side, left me on the floor…».
«Oh… be’, in ogni caso, va bene uguale, no?».
«E tu?».
«Come va la mia vita?».
«Ragazzi».
«… casanova fucked me over, left me dying on the floor…».
«Ah». Rimase a pensare per qualche secondo. «Anche per me è da un po’ che non ho un ragazzo».
«Da quanto esattamente?».
«Non saprei. Un po’, comunq—».
«… 
casanova, casanova, now you’re all I’m thinking of…».
«Arrivati».
«Oh». Red si sporse, e vide oltre il parabrezza l’enorme “The Prince” che si stagliava, con i suoi quindici piani di altezza, nel cuore di Saffron City.
«Grazie mille per il passaggio».
«Di niente. Ciao, Re—».
«… casanova fucked me over, left me dying for your love…».
«Ti va di salire un attimo?».
«Cosa?».
«Salire con me un attimo. Ho un appartamento al dodicesimo piano con un terrazzo fantastico, il frigo bar, e al tredicesimo c’è una piscina fighi—».
«Devo andare, Red».
«Tre secondi. E poi scendi, dai. È la tua ultima possibilità di vedere il The Prince da dentro!».
«
casanova, casanova
, now you’re all I’m thinking of».

La stanza 1204 dell’hotel The Prince si sviluppava circolarmente attorno alla porta d’entrata, davanti alla quale, dopo qualche metro di entrata, si sbucava sulla camera da letto. Il letto, un matrimoniale, era al centro del muro, mentre ai lati si aprivano due porte finestre che portavano alla terrazza, dalla quale si intravedeva l’intera città di Saffron City e le montagne alle sue spalle. La stanza era spoglia, fatta eccezione per una televisione, un piccolo armadio ed un frigobar incassatovi sotto. 
A destra si apriva il bagno, mentre a sinistra una piccola cucina.
«Però… ti sei scelto un bell’hotel».
Red rise.
«Non scherzavo quando dicevo che meritava». 
Si buttò sul letto e per qualche secondo stirò le sue braccia verso l’esterno, osservando Blue che proiettava lo sguardo oltre la finestra, rapito dalla bellezza di quel paesaggio esterno.
Red rotolò sopra le coperte e cadde esattamente davanti il frigobar. «Cosa vuoi?».
«Oh, non serve. Non rim—».
«Tranquillo, giusto un bicchiere».
Blue borbottò un «Sì» molto confuso, lanciò la sua giacca sul letto ed uscì all’aperto, mentre Red versava un liquido color ambra in due bicchieri tozzi e squadrati. In uno vi versò anche del ghiaccio.
«Eccomi» disse, come si prestava a varcare la soglia della porta-finestra. Davanti a lui uno spiazzio rettangolare che si aggettava sullo skyline di Saffron.
«Grazie mille».
Come il vetro scivolava lungo il tavolino di ferro battutto, emise uno stridio.

«Stai ancora studiando per diventare Professore?».
Blue asserì.
«Ti manca tanto?».
«Sono circa a metà percorso. Non so ancora se e quando farò la specializzazione, per ora mi limito a fare il modulo di base».
«Oh, ok. Interessante».
«Davvero?». Un sorriso corse lungo il suo viso.
«Sì, be’, cioè… più di quanto faccio io, sicuramente».
«Sarà». Bevve l’ultimo sorso, che riecheggiò nel metallico rumore di impatto tra il vetro ed il tavolino. «E tu? Mi sembrava… sì, insomma, che anche tu volessi fare qualcosa. Della tua vita, intendo».
Un sorriso illuminò il volto di Red. Era più in virtù di un imbarazzo nel rispondere che di un’effettiva sensazione di contentezza in lui. «Non ho mai saputo bene cosa fare, in realtà».
«Questo lo so» rise Blue. La sua risata riecheggiò sulle labbra di Red. «Non è una risposta, però».
«Ok, ok». Red posò il bicchiere. «C’è qualcosa, ma non so se andrà effettivamente in porto».
«Come mai?».
Riprese il bicchiere in mano, e lo mosse con movimenti rotatori, mentre osservava ipnotizzato il movimento sinusoidale che il limite dell’alcolico tracciava sul vetro. «Mah… non so».
Blue si alzò.
«Vai già via?».
«No, devo solo andare in bagno un attimo. Mi riempi un altro bicchiere, già che ci sei?».
Prima che potesse rispondere, Blue era già scomparso dentro l’edificio.

Il ritorno del ragazzo fu anticipato da un rumore metallico.
Quando lo vide, era intento a sistemarsi la cintura come metteva piedi fuori nella terrazza.
«Suoni ancora?».
«Più o meno».
«Suonavi bene».
Red sorrise. «Grazie».
Si osservarono a vicenda mentre Blue prendeva posto in parte a lui. Qualcosa impediva loro, a vicenda, di rompere quel ghiaccio che cristallizzava i loro pensieri in banale più e meno

«Vuoi vedere una cosa figa?» esclamò Red poco dopo.
Il sole era già calato e, lentamente, le ultime linee porpora tracciavano stanchi cerchi sulla parete bianca della terrazza. La stella era scomparsa dietro le montagne di Kanto e il suo rosso ricordo aleggiava nell’aria.
«Di cosa si tratta?».
«Eh no!». Si alzò di scatto. «Se te lo dicessi, si rovinerebbe tutto il divertimento».
«Ok». Deglutì. «Ma in cosa consiste?».
«Ti voglio mostrare un posto. Ti va bene?».
Blue acconsentì, e prima che se ne potesse render conto attorno alla sua faccia correva un nastro blu scuro ad impedirgli la vista.
«Ok, seguimi e andrà tutto bene».
Gli prese la mano, che Blue respinse prontamente. Allungò il palmo al suo bacino e  lo seguì aggrappato al suo busto.

«Bene, bene così… eccoci».
Blue aveva sentito un rumore metallico, di ciò che credette essere una porta, seguito da un repentino cambio nella temperatura esterna. L’aria era umida, come dopo una forte pioggia, ma non necessariamente fredda. Anzi, poteva dire che fosse quasi come acqua tiepida: in un certo senso, confortevole. 
Sentì il calore delle mani di Red su di sé, dopodiché una luce bianca investì i suoi occhi.
«Ta-dan!».
Di fronte a lui, si apriva una piscina di medie dimensioni aggettata sulla città di Saffron. Un arco di luce, sopra di lui, illuminava l’acqua. 
«Una piscina?».
«Sì! Figo, vero? A Novembre non c’è mai nessuno, ma finché non fa freddo perché no, no?». Come disse ciò, prese a sbottonarsi la camicia.
«Cosa fai?».
«Cosa ti sembra che stia facendo? Un tuffo». Aprì la camicia e scoprì, dietro di essa, una canottiera bianca. Si levò anche quella, e la lanciò per terra.
«Non… non penso sia una grande idea».
Sfoderò la cintursa dalla sua vita e fece scivolare via i suoi pantaloni, rivelando un paio di boxer neri dietro di essi. 
«Ti sei dimenticato le scarpe…».
«Oh, giusto». Si chinò e slacciò le scarpe. «Ora?».
«Non… non so. Non ho voglia».
«Dai!».
«No. Ho detto di no».
«Ok…».
Red era nudo, fatta eccezione per le mutande nere, che costituivano un notevole stacco rispetto alla sua pelle leggermente abbronzata, in piedi di fronte alla piscina. 
«Va bene, allora entrerò solo io». 
Si girò e fece per entrare, ma poi si voltò indietro ed avanzò un lungo passo verso Blue. Lo afferrò per le spalle e, confuso, riuscì a spingerlo dentro l’acqua assieme. a lui. Quando si rese conto di quello che era successo, era troppo tardi.
«Merda! Red, che cazzo f—».
«Shh».
Come faticavano a stare a galla, Red afferrò con foga il capo di Blue e lo spinse contro il suo.
«Ehi!». Blue si staccò dal bacio. «Che cazzo fai?».
«Cosa ti sembra?».
«Non mi rivolgi la parola per tre anni e poi—» sputò dell’acqua che gli era entrata nella gola «e poi mi tratti così?».
«Ti bacio, vuoi dire?».
«Smetti—».
«Senti, lo so quello che è successo. Ma puoi darmi un’altra chance?».
«No! Ti sembra il modo?».
«Mi sono mai comportato secondo il modo?» ribatté Red. «Se non lo vuoi, puoi andartene via. Ma c’è un motivo se sei rimasto».
Riprese a baciarlo, e questa volta Blue si lasciò andare.

 
2012
13/01/12
«zzz… ll be all the rage tonight, watch… rediamo che questo evento sia f… een walking through a paincase, follow… menta di neve che si è abbattuta sul Monte Argento non accenna a diminuire».
Red esalò un corto respiro, che si tramutò in una nuvolette di fumo come venne a contatto con l’aria.
«…sono previste forti precipitazioni durante le prossime ventiquattro ore, che potrebbero culminare, nelle zone più interne della catena montuosa, in slavine. Il corpo forestale del Kanto Settentrionale raccomanda caldamente di rimanere a casa e raggiungere la pedemontana onde evitare…».
«Tempaccio, eh?».
Le mani di Red correvano freneticamente l’una contro l’altra, con intensità crescente, rilasciando nell’aria un suono secco di tessuto misto a pelle. 
La sua voce non conosceva intonazione. «Ho visto di peggio».
«Effettivamente, ha ragione». A parlare era un uomo davanti a lui, la cui folta barba bianca e cappellino di lana coprivano più di metà del viso. Il lembo di pelle scoperto alla vista era rosso ed irritato, interrotto solo da un solco cristallino in prossimità degli occhi. «Ma non posso che non rimanere stupito, ogni volta, davanti alla natura. Mi sembra di farle un dispetto».
«Già». Red si alzò in direzione della porta. «Se mi scusa, devo tornare a casa».
«Oh, si figuri. Pago io».
Fece un leggero cenno del capo, che l’uomo certamente non colse – pensò –, e qualche secondo aveva già abbandonato il confortevole tepore della locanda, inghiottito da un vortice di gelo, neve e vento che correva contro i picchi delle montagne. 
Sbuffò, e come sbuffò aprì una nuvola di vapore davanti a sé, che attraversò per raggiungere il suo scooter.
«Charizard».
Un lampo brillante planò sulla neve, tramutandosi in una lucertola color cremisi.
Senza che parlasse, sapeva già cosa fare. Charizard proiettò una fiammata sulla palla di neve davanti a sé, per poi ritornare dentro la Pokéball come Red allungava la sua mano verso di esso.
Spese qualche minuto a pulire dell’acqua il suo veicolo, dopodiché si mise in marcia.
   
 
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