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Autore: emmegili    11/06/2018    0 recensioni
Il tettuccio abbassato, la sua mano sul cambio mentre premeva il piede sull’acceleratore, acquistando velocità, il vento che scompigliava i miei capelli e premeva la sua felpa blu scuro verso il suo petto, il suo urlo liberatorio mentre sfrecciavamo sul viale deserto, il profumo di mare che mi inebriava le narici, la voce di Vasco sparata a tutto volume dalle casse.
Quando mi voltai a guardarlo, quell’istante, lui, fu come viverlo al rallentatore.
I suoi capelli in disordine, gli occhi luminosi di voglia di vivere, il sole che scottava sulla pelle abbronzata. Eravamo più veloci delle nuvole, più veloci del suono.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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https://youtu.be/1dtNaPRZHkk
 
Quando lo incontrai la prima volta, mi dissi che non me lo sarei mai permessa: i rubacuori non facevano per me.
Pian piano, iniziai ad osservarlo.
Osservai attentamente i suoi capelli neri, dall’aria così morbida, e quei suoi magnetici occhi verdi, la pelle abbronzata, i denti bianchi. Mi soffermai un attimo sull’auto che guidava, il tettuccio abbassato, i sedili in pelle chiara, il cd di Vasco sparato a tutto volume, mentre lui cantava a squarciagola i versi di Sally, fissando i suoi occhi nei miei come se fossero chiodi e togliendomi ogni possibilità di distogliere lo sguardo.
Deglutii. Me lo ricordo bene.
Non salire su quell’auto era una questione di principio e non gliela avrei data vinta.
Ma lui non pareva intenzionato a muoversi. Stava comodamente seduto sul suo sedile in pelle e continuava a cantare, senza spostare gli occhi da me.
Sbuffai, incrociando le braccia al petto.
Non mossi un muscolo fino a quando il cd non finì. Lui lanciò un’occhiata al lettore dell’auto, che sputò fuori il disco.
- Senti. –sospirò, tornando a rivolgere il suo sguardo su di me -Posso far partire il prossimo cd e possiamo continuare così fino a domani mattina, oppure sali e lasci che faccia quello che la tua migliore amica mi ha chiesto di fare, ovvero portarti da lei.
Francesca aveva iniziato a parlarmi di Marco quando lui, dopo avermi visto con lei, si era lasciato sfuggire qualche commento alquanto sessista su di me mentre parlava con il fidanzato della mia migliore amica.
Nonostante i miei ripetuti rifiuti, Franci si era convinta che io, la brava ragazza casa e chiesa, avrei fatto innamorare perdutamente il rubacuori e avrei trovato in lui l’amore della mia vita.
Ad un certo punto, smisi persino di ribadirle quanto l’intera storia fosse ridicola e da romanzo estivo da quattro soldi.
Voleva farci conoscere e ci aveva provato in mille modi, invano.
Ma questa volta... questa volta mi aveva messa spalle al muro, la stronza.
Marco non sapeva che io sapevo e non capiva perché non cadessi ai suoi piedi. E anche se lo avesse saputo, era troppo diverso da me per capirlo.
Vedendo che non rispondevo, si chinò a raccattare un altro disco dalla custodia a lato del sedile.
- Mmh, vediamo... Mi butterei ancora su Vasco, ma mi pare dalle micro espressioni facciali che fai che ti piaccia, quindi forse dovrei provare con qualcosa di meno... interes... oh, Gigi D’Alessio!
- Okay, okay. Salgo. –alzai le mani in segno di resa.
Non lo feci per non sentire Gigi.
Lo feci perché era arrivato il momento di far vedere che ero superiore e dimostrargli che potevo benissimo salire sulla sua macchina e lasciare che mi portasse dove doveva senza innamorarmi perdutamente di lui.
Feci il giro della decapottabile. Lui si sporse verso il sedile del passeggero per aprirmi la portiera.
Mi accomodai, senza degnarlo di uno sguardo, e richiusi lo sportello.
Lui fece schioccare la lingua contro i denti, inserendo un nuovo cd.
Mise in moto la macchina e si allontanò dal marciapiede su cui avevo messo radici.
- Allora, Giulia, come mai hai perso l’ultimo autobus? Ci hai messo troppo per scegliere cosa indossare? E’ solo un diciottesimo, non un matrimonio reale. –civettò, altalenando lo sguardo tra me e la strada.
Avere una decapottabile era sempre stato il mio sogno. Gli scoccai un’occhiataccia, giusto per fargli capire che lo avevo sentito e che non mi piaceva, e poi tornai a godermi il vento che mi scompigliava i capelli, annodandoli.
Quando tornai sul pianeta terra, la canzone era appena finita. Quando cominciò quella dopo, mi morsi un labbro, sperando che non se ne accorgesse.
Ma quando Vasco intonò il ritornello, Marco si girò verso di me e scoppiò a ridere fragorosamente.
E brava Giulia, e brava Giulia. Prenditi la vita che vuoi. Certo, certo che puoi.
Gli lanciai un’occhiata di striscio, mentre cantava sopra la melodia, inventando le parole:
- E brava Giulia, e brava Giulia. Sali sulla macchina, dai. Certo, certo che puoi.
 
La prima volta che invece lo apprezzai per davvero, fu quasi sei mesi dopo.
Ormai ero entrata a far parte della compagnia, perciò ero costretta a vederlo ogni fine settimana. Ma gli altri ragazzi erano simpatici, come Francesca aveva solennemente annunciato, e in fondo la sua presenza era un piccolo prezzo da pagare per avere una vita sociale.
Quella sera eravamo in un bar che a me non piaceva. Quando avevano deciso dove andare, però, ero l’unica contrariata, per cui rimasi zitta e mi sacrificai per il gruppo. Immagino che fosse la carta da parati giallognola a darmi tanto fastidio.
Mi ricordo l’esatto momento in cui lui varcò la soglia, in ritardo. Indossava un giubbino di pelle marrone e aveva i capelli scompigliati, l’aria affannata. Probabilmente sapeva di essere tardi.
Cercò con lo sguardo il nostro gruppo.
Non feci nulla per farmi notare, mi limitai a fissarlo sorseggiando la coca cola che avevo ordinato.
Poi qualcuno urlò il suo nome e i suoi occhi si catapultarono nella nostra direzione, allacciandosi ai miei.
Si avvicinò, salutando gli altri. Quando fui l’ultima rimasta, era in piedi davanti al tavolino sul quale ero appoggiata.
Guardò me, poi il mio bicchiere di vetro e di nuovo il mio viso, con un unico fluido movimento durante il quale pareva trattenere il respiro.
Annuì in segno di saluto, al quale risposi alzando le sopracciglia. La coca cola che avevo ordinato sembrava non andargli a genio, perché le lanciò un’altra occhiata.
Quando mi guardò con fare interrogatorio, scrollai le spalle.
- Coca Cola, e sai cosa bevi. –dissi con nonchalance.
Marco colse il riferimento implicito che avevo fatto –apposta- alla canzone di Vasco e fece un sorrisino, abbassando lo sguardo.
Poi qualcuno lo prese sottobraccio e lo portò al bancone e la serata filò liscia come l’olio. Almeno fino a quando il livello di alcol nel sangue degli altri ragazzi non cominciò a farsi sentire.
Non so di cosa stessero parlando, non so cosa lo avesse spinto a farlo, ma alle mie orecchie giunse solo l’ultima frase che Simone, uno degli amici di Franci, disse.
- ...guarda che ti stupro il cane.
Quella parola mi colpì allo stomaco, come un mattone ricoperto di spine.
Feci una smorfia e Marco parve accorgersene, perché ammonì piano l’amico.
- Che c’è, Marco? Vuoi che stupri anche il tuo, di cane?
Eccola ancora, quella parola. Sputata fuori come una parola qualsiasi. Come una parola innocua, che non fa male.
Arraffai la giacca dallo schienale del mio sgabello e mi diressi verso l’uscita del locale.
Una volta fuori, fu come ricominciare a respirare, l’aria fredda mi colpì in pieno petto, facendomi rabbrividire.
Alzai gli occhi al cielo e mi persi ad osservare le stelle, stringendomi nella giacca.
Da lontano, sentii la porta del bar aprirsi e la voce di Francesca bisticciare con qualcuno, poi silenzio. Qualche secondo più tardi Marco mi affiancò, mani nelle tasche, occhi al cielo e poi, lentamente, sempre più giù, fino al mio viso.
- Come stai? –domandò dopo un po’, scrutandomi.
- Bene.
Risposi troppo in fretta, troppo sicuramente. Lui sospirò.
- Devi scusarlo. Sai, a volte si lascia andare e dice cose stupide e...
- No, no. Capisco. Sul serio. Prima era una parola come le altre anche per me. –tagliai corto, prendendo un respiro profondo.
Marco non si irrigidì come tutte le persone con cui avevo avuto quella conversazione. Al contrario, mi si parò davanti.
- Prima di cosa?
Avrei voluto accigliarmi per la sua faccia tosta, ma fui talmente stupita che mi limitai a guardarlo.
Incrociai le braccia al petto.
- Perché dovrei dirtelo?
- Non devi. Ma sembri aver bisogno di sfogarti con qualcuno che puoi colpevolizzare.
Il suo tono duro e l’asprezza delle sue parole mi spinsero istintivamente ad indietreggiare con la testa.
Qualcuno da colpevolizzare. Un uomo.
All’improvviso tutta la rabbia che avevo cercato di controllare per mesi mi assalì.
- Vi piace tanto parlare di stupro come se fosse una cosa normale. Beh, notizia del giorno: non lo è. Voi non dovete andare in giro cercando di non guardare negli occhi gli sconosciuti che incontrate. Voi non vi svegliate con la sensazione di avere bisogno di frequentare un corso di autodifesa. Voi non vi chiedete se sarebbe il caso di comprare lo spray al peperoncino. Voi non avete dovuto guardare la vostra migliore amica piangere mentre ve lo raccontava. Voi non l’avete vista correre in bagno ogni volta che l’insegnante si soffermava su temi di attualità. Voi non avete imparato a controllare ogni suo più piccolo movimento per capire se sarebbe crollata o meno. Voi, Dio, voi non l’avete mai sentita aggrapparsi al vostro corpo con disperazione, piangendo a tal punto da non emettere un suono, dopo che un tizio che distribuiva volantini contro la violenza sulle donne si era avvicinato per convincervi a fare una donazione. Se vi fossero successe queste cose, allora sapreste quanto male faccia sentire quella parola, con quelle lettere, così cruda e violenta nel suono. Capireste, cazzo, perché esistono parole come “abuso” o “violenza”, che certo, non sono la stessa cosa, ma almeno indorano la pillola.
All’inizio neanche mi resi conto delle lacrime che mi scorrevano a fiumi sulle guance o del fatto che gli stessi picchiando il petto con tutta la forza che avessi.
Quando smisi di urlare Marco mi prese i pugni, lentamente, e li strinse.
- La tua migliore amica? Francesca? –chiese in un soffio.
Storsi il naso, scuotendo la testa.
- No. Lei è ancora viva. –sussurrai, piano.
Cercavo un appiglio, un salvagente tra tutte quelle lacrime. E lo trovai. Lo trovai quando vidi l’espressione del suo viso irrigidirsi e una lacrima, una sola, sfuggirgli dall’occhio sinistro.
- Scusa –soffiò solo, sottovoce.
Non avrebbe mai potuto impersonare tutto il genere maschile. Non avrebbe nemmeno dovuto farlo, perché avevo capito che faceva parte di quella parte di uomini che all’affermazione “le donne non si toccano nemmeno con un fiore” non rispondeva “ma con un bastone sì”.
Eppure lo fece. Mi chiese scusa.
Feci scivolare i miei pugni fuori dalle sue mani e mi asciugai le lacrime.
- Quando l’ho detto, non volevo ferirti.
Il mio sguardo scattò su di lui, confuso. Marco si asciugò le guance, cercando di apparire forte e indistruttibile, e sospirò.
- So che lo sai. So che Lorenzo te l’ha detto. E ora so anche perché mi odi tanto.
- Le darei volentieri una botta –imitai la sua voce –Beh, anche due.
Forse non avrebbe voluto farlo, ma si lasciò sfuggire una risata.
- Già. Beh, mi dispiace. –confessò, serio all’improvviso, guardandomi negli occhi.
Annuii.
- Felice di averti reso un uomo migliore.
 
E poi successe.
Si presentò a casa di Francesca, dove mi trovavo, sbatté due pezzi di carta sul tavolo ed esclamò:
-Mi serve qualcuno che venga con me al concerto di Vasco.
Sia il suo sguardo che quello di Francesca si posarono su di me. Fissai prima uno e poi l’altra, domandando con gli occhi cosa li turbasse.
- Volevo portarci Lori. –spiegò Marco, passandosi una mano tra i capelli –Ma lui non sa neanche una canzone, forse Albachiara. Allora ho pensato a Francesca, ma poi mi sono accorto che è fidanzata e che Lorenzo non me lo permetterebbe mai, così ho pensato di chiedere a te.
Sgranai gli occhi.
- Di chiedere a me? –ripetei, stupita.
Annuì.
- Conosci qualcuno che verrebbe? Magari una carina?
Quando lo guardai per verificare che stesse parlando sul serio, scoppiò a ridere.
- Sto chiedendo a te di accompagnarmi, Giulia.
Sentivo il suo sguardo perforarmi la pelle e quasi sentivo i commenti eccitati che Francesca stava facendo tra sé e sé nella sua testa.
- Non puoi venderlo, l’altro biglietto? –fu l’unica cosa che riuscii a dire.
Francesca si lasciò sfuggire una parola poco carina nei miei confronti, mentre Marco assottigliò lo sguardo, nascondendo un sorriso.
- Lo so che muori dalla voglia di andarci. So che non hai trovato i biglietti. So che segretamente collezioni i biglietti dei concerti. –si sporse con il busto verso di me, avvicinandosi pericolosamente –So che sopporterai la mia presenza pur di vedere Vasco dal vivo. E so anche che mi dirai di sì.
Inarcai un sopracciglio.
- Perché io? Preferisci portare me piuttosto che andare da solo?
- Andiamo, Giuls, sai benissimo che non si va da soli ai concerti, non c’è divertimento.
Rimasi in silenzio, decidendo sul da farsi.
- Dì di sì e basta, cavolo! –sbottò Franci, guardandomi male.
- E poi, siamo amici. Gli amici fanno cose, vedono gente, frequentano posti... Sai come funziona, no?
Sospirai, sorridendo.
- Se proprio devo...
- Perfetto!
Marco si alzò dal tavolo, prese un solo biglietto e fece per andarsene. Si fermò sulla soglia della cucina e si voltò a guardarmi.
- Passo a prenderti alle quattro. –mi fece l’occhiolino.
 
Fu un po’ come la prima volta che lo incontrai.
Il tettuccio abbassato, la sua mano sul cambio mentre premeva il piede sull’acceleratore, acquistando velocità, il vento che scompigliava i miei capelli e premeva la sua felpa blu scuro verso il suo petto, il suo urlo liberatorio mentre sfrecciavamo sul viale deserto, il profumo di mare che mi inebriava le narici, la voce di Vasco sparata a tutto volume dalle casse.
Quando mi voltai a guardarlo, quell’istante, lui, fu come viverlo al rallentatore.
I suoi capelli in disordine, gli occhi luminosi di voglia di vivere, il sole che scottava sulla pelle abbronzata. Eravamo più veloci delle nuvole, più veloci del suono.
Mi ricordai della squisita pasta alla carbonara che mi aveva cucinato qualche mese prima, di quell’odioso portachiavi che non abbandonava mai, di come sapesse dannatamente farci con le donne e di quanto non riuscissi a togliermelo dalla testa.
Capii di esserne innamorata. Al punto di non ritorno.
 
Quella sera non andammo al concerto di Vasco.
Iniziammo una lunga passeggiata in riva al mare, mentre da lontano si vedevano le luci e si sentivano le grida provenire dallo stadio.
Stavamo passeggiando, guardando le stelle, quando ad un certo punto si fermò, in silenzio.
- Cosa... –non riuscii a finire la frase, che mi zittì con un gesto della mano.
- Shh. Ascolta. –si portò le dita all’orecchio e chiuse gli occhi, indicando con un dito in direzione dello stadio.
Ubbidii e mi misi all’ascolto. Non riuscii, in ogni caso, ad evitare di ammirarlo, approfittando del fatto che non mi potesse vedere.
E poi, piano, in lontananza, sentii la voce roca di Vasco intonare Sally, la canzone che Marco stava cantando quando ci siamo conosciuti.
- Ma forse, ma forse, ma sì... –canticchiò lui, sorridendo, aprendo lentamente gli occhi.
Mi tese la mano, continuando a cantare.
- Posso avere l’onore? –chiese.
Non ci pensai due volte. Presi la sua mano e lasciai che si portasse le mie dita alle labbra e che le sfiorasse. Lasciai che mi incatenasse con lo sguardo, mentre iniziavamo a dondolare in un lento reso maldestro dalla sabbia sotto i nostri piedi.
Ondeggiai tra le sue braccia, scoppiando a ridere quando mi pestava i piedi. Non gli ero mai stata così vicina. Riuscivo a vedere le sfumature castane in quei suoi occhi, riuscivo a sentire gli ispidi peli di una barba che, stamattina, si era dimenticato di radere. Riuscivo a sentirlo vicino, umano, reale.
Quando la canzone finì Marco si fermò, ma non sciolse il nostro gioco di sguardi.
Scosse la testa, come se stesse cercando di combattere le sue stesse emozioni. Dal modo in cui mi guardò poi, capii che aveva perso la battaglia.
- Scusami.
Fu l’unica cosa che disse prima di baciarmi.
Le sue labbra si scontrarono con le mie e non feci nulla per allontanarlo, perché, malgrado tutto, malgrado ci avessi messo un’eternità per ammetterlo anche solo a me stessa, lo volevo da morire.
Strinsi i suoi capelli neri tra le dita, li feci scorrere tra le falangi, morbidi come seta. Lasciai che le sue mani mi carezzassero la schiena mentre inspiravo a pieni polmoni il suo profumo, gemetti quando le sue dita, forse per errore o forse no, sfiorarono la mia pelle nuda dopo che l’orlo della mia maglietta si era appena sollevato.
Fu come riemergere da sott’acqua, fu come ricordarsi quanto dannatamente bello fosse respirare.
Quando Marco allontanò le sue labbra dalle mie, sentii il mondo dentro di me esplodere.
Quando mi sfiorò la guancia, quando si perse a giocare con i miei capelli, quando mi baciò la fronte, quando mi solleticò le labbra un’ultima volta con le sue, solo per ricordarmi quella sensazione distruttiva che avevo provato, quando vidi la sua maschera di sciupafemmine cadere definitivamente, quando...
Ogni singola cellula dentro di me urlava. Strillava, gridava, supplicava, chiedeva ancora.
 
Non penso di esagerare quando dico che Marco è stato l’apoteosi della mia vita.
Non penso di essere patetica quando dico che non amerò mai più nessuno come ho amato lui.
Sarà che fu il mio primo grande amore. Sarà che dopo di lui la sensazione fu quella di tornare sulle giostre dopo aver provato a cavalcare un cavallo vero.
Sarà, sarà, sarà...
Sarà qualunque cosa, ma non sarà mai come fu amare lui.
   
 
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