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Autore: Feles 85    30/06/2018    5 recensioni
***Questa fanfiction si è classificata prima nel contest "Raccontami una Storia- Fanfiction Edition " indetto da Milla4***
Prendendo ispirazione da alcuni episodi storici, come la Battaglia di Azio del 31 a.C che decretò la sconfitta di Antonio e Cleopatra contro Ottaviano, mi sono voluta innoltrare in una delicata trama di relazioni che legava Marco Antonio, Ottaviano e sua sorella Ottavia, moglie di Antonio ripudiata in favore di Cleopatra. Il racconto narra vicende che sarebbero accadute tra Antonio e Ottavia, il giorno in cui Antonio la ripudiò, decretando così la guerra ventura tra Roma e l'Egitto.
Genere: Angst, Erotico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caio Ottavio, Marco Antonio, Ottavia dei Giulii
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Roma e Amor'
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Ubi Gaius ubi ego Gaia



Il vento era cambiato all’improvviso. Una gentile brezza stava soffiando da Ovest, rinfrescando quell’arsura opprimente.
Non era ancora avvezzo a quel clima, pensò, nemmeno dopo aver trascorso in Egitto tutti quegli interminabili anni. La notte era infine giunta, portando il sollievo in quel suo tumulto, morale e fisico.
  Era stata una brutta giornata, per Marco Antonio. Era stata una giornata fatale, cruda, una giornata in cui lui aveva dovuto prendere una decisione che non avrebbe cambiato la sua vita, non più di tanto, ma avrebbe cambiato il corso della Storia di Roma. La Storia bussava ancora alla sua soglia e gli annunciava la guerra, forse quella definitiva.
  Si accasciò nel suo giaciglio disfatto, ingombrato da quelle lenzuola di pregiato lino, intessute di fili dorati e turchesi, così tipiche dell’Egitto.

Un letto lussuoso e disfatto... come me?  

  Non rispose a questa domanda interiore, come non rispose ad un altro quesito, più temuto, più occulto, che fermentava tra le pieghe più ombrose del suo animo fiaccato.
  Avrebbe dormito solo, quella notte. Aveva tenuto lontana la Regina d’Egitto dalla sua alcova. Proprio la Regina, la “Gloria del padre”[1], il Faraone  dell’Alto e del Basso Egitto, egizia sovrana di sangue macedone... sua consorte di fatto, da quel giorno in cui aveva pubblicamente ripudiato Ottavia.
Eppure non avrebbe disdegnato il dolce oblio a cui la Regina lo aveva abituato. Ma quella notte voleva dormire in solitudine e sobrietà, lungi, per un attimo, dall'ebbrezza di piacere e potere che Cleopatra, come una mela stregata, gli porgeva ogni giorno e a cui lui, consapevolmente, cedeva sempre con pigrizia.  
  Il vento soffiò più forte da Occidente, portando fresche folate tra le tende di giunco, ancora abbassate a proteggere la finestra. Antonio si alzò come trasognato, dirigendosi verso la finestra, intenzionato a levare quelle inutili coperture di giunco, che spesso salvavano gli abitanti dell’Egitto dal patire il languore della canicola opprimente, specie di giorno. La grossa mano incallita si mosse veloce, strappando letteralmente la tendina cigolante. Il vento penetrò poderosamente nel vano, recando così il retrogusto marino di cui era foriero l’Occidente. Guardando fuori, vide il bagliore tenue del grande Nilo, baciato dalla luna calante sulle sue onde tremule.
  «Sì! Vento dei morti[2], vieni, investimi delle tue grazie!» esclamò, quasi urlando.
  Poteva sentire la minaccia, in quel vento. Poteva sentire una minaccia e una promessa, tra quei sibili.

 Roma mi vuole morto perché ho tradito...

  Roma, incarnata dall’esile e giovane figura di Ottaviano, già insanguinava il giavellotto di corniolo [3]e issava le insegne di guerra per venire a prendere lui; lui! Lui che di Roma era stato emblema feroce e indomabile, lui che era stato il braccio destro di Cesare in Gallia, lui punitore dei Cesaricidi, lui paredro preferito di Marte luperco! 
Già, ma che ne era stato dell’antico Luperco [4]?
 Antonio si guardò le spalle e le braccia, un tempo ruvide e possenti, temprate da anni passati tra le fatiche della legione. Non avevano perso spessore ma, era innegabile, avevano assunto contorni più morbidi e rilassati, illanguiditi dagli unguenti pregiati. Il suo ventre, il suo busto, sebbene ancora sodi, avevano perso la loro durezza, ingentiliti dall’ozio e dai banchetti infinti che consumava nel palazzo del Faraone.
  Era la prima volta, dopo anni, in cui il fu luogotenente di Cesare, si guardava con attenzione. Con sgomento s’accorse che le ferite di guerra, che erano state il suo orgoglio, si erano attenuate, merito sempre degli agi di corte e di quei portentosi unguenti. 
  Per sua fortuna non c’erano specchi di bronzo, in quella stanza, a ricordargli di come i suoi occhi fossero ora decorati col nero kajal, altro tradimento che lui aveva perpetrato nei confronti di Luperco...

 Luperco mi ha abbandonato perché mi sono offerto in sacrificio all’aspide...

  A quel pensiero si mise a ridere debolmente. Non era da lui nemmeno crogiolarsi così in certe meditazioni, come invece solevano fare Bruto o Cicerone. Ora Roma voleva anche il suo sangue, come prima aveva preteso il loro. Chi avrebbe vinto, ora che Luperco, sua vera e intima forza, l’aveva abbandonato?
Un lento brivido freddo gli corse lungo la schiena.




 

*





Tum Tum Tum

Qualcuno aveva bussato.
  Si era svegliato bruscamente, interrotto più da un torpore che da un vero e proprio sonno. Un torpore non privo di sogni, di immagini ricorrenti che lo avevano ottenebrato per lunghi istanti; l’ultimo fantasma che l’aveva assalito prima del risveglio, erano stati due occhi pallidi, a lui così famigliari, ora animati da un guizzo predatorio. Gli occhi di Ottaviano.
  Provò ad aprire la bocca per dire che non voleva nessuno, che la Regina non era gradita quella notte, ma le forze gli mancavano. Bofonchiò qualcosa a cui rispose un breve silenzio, sospeso nel buio. Era ancora notte, notò pigramente, ed era più buio e più freddo di prima. Il vento ora ululava e la luna era già tramontata, portando la tenebra azzurra di quella notte a trionfare sublime.
  La porta si aprì piano, facendo irrompere nella stanza una presenza, accompagnata da una debole lucerna.
 Marco Antonio allora, si fece forza sulle braccia e si levò a sedere sul giaciglio, strabuzzando gli occhi ancora impastati.
 Quasi non gli sembrò di essersi svegliato quando, alla luce della lucerna, si vide di fronte quegli stessi occhi verdi, che nel dormiveglia lo cercavano assassini.
Un fiotto di paura gli invase il petto, svegliandolo del tutto.
 
Ottaviano?! No...

  «Ottavia!» esclamò Antonio.
  L’adrenalina l’aveva ridestato completamente e ora poteva constatare che la scena era reale; quegli occhi, così simili a quelli del fratello minore, non erano né duri né ferali. Erano i malinconici, grandi e lucidi, occhi di Ottavia. 
  La figura femminile di fronte a lui, avvolta in una lunga stola grigio-azzurra, annuì sospirando. Poi, spinse le ante della porta, chiudendole. Il silenzio tornò a regnare nell’aria, facendo udire i grilli, che cantavano fuori, in lontananza.
  Ottavia allora si liberò dalla stola, scuotendo le sue lunghe masse di riccioli bronzei; e, prima ancora che lui potesse dire qualcosa, si sedette al suo capezzale. 
Alla luce della lampada, il volto di Marco Antonio appariva straniato, con la bocca ancora aperta dallo stupore. Un particolare che Ottavia notò subito e a cui ammiccò un cenno di sorriso.
  «Come... come sei entrata? Come hai fatto?» riuscì infine a chiedere lui.
  «È stato Voreno ad aiutarmi.» rispose lei, dopo un attimo di esitazione.
  «Vore... ma cosa... Voreno che dà retta a te e mi disubbidisce?!» ringhiò debolmente Antonio.
  «Non prendertela con lui. L’ho ricattato in modo vergognoso, per entrare qui.»
  «Ricattato?»
  «Ho minacciato di uccidermi in modo plateale, se lui non mi avesse aiutato. Un po’ di melodramma ha aiutato, in questo senso.» concluse lei con un amaro sorriso.
«E lui, ovviamente, ti ha creduta...»
«Ovviamente...»
Già poteva immaginare il disagio del catoniano Voreno, alle prese con una matrona che minaccia di uccidersi al cospetto di tutti, come fece la leggendaria Lucrezia...
  Ancora silenzio, quella notte. Marco Antonio guardava quella che, fino a prima di ripudiarla pubblicamente, era stata la sua legittima moglie, la sua Mater Familias, come se la vedesse per la prima volta. 
  «E... per quale motivo hai corso questo rischio? Lo sai che Cleopatra non vede di buon occhio la vostra presenza qui? Oggi c'è mancato poco che vi facesse arrestare, quando siete venute a palazzo!» domandò lui confuso.
  A questa domanda diretta, la sicurezza di Ottavia ebbe un tentennamento che le fece abbassare lo sguardo, reso più cupo dalla penombra.
  «Ho capito, è un’idea di Azia!» concluse lui, quasi sollevato da questa intuizione. 
  «NO! Mia madre non sa nulla! È stata una mia iniziativa...» rispose seccamente la giovane donna.
  «...»
Lo stupore tornò ad invadere l’animo di Antonio. Com’era possibile che quella fragile ed esile ragazza, sempre in disparte, sempre discreta, sempre succube della volontà di sua madre, avesse corso volontariamente un rischio così grande? Per quale motivo poi?
  «Allora forse, sei venuta ad uccidermi per conto del tuo fratellino indisponente?» ammiccò lui con ironia.
  «Taci! Non dirle nemmeno per scherzare queste cose!» lo rimproverò lei, assumendo un’espressione grave in volto.
  Tacquero ancora, tenendo in sospeso il cuore che animava tutta quella bizzarra situazione.
  Marco Antonio si ergeva ora con tutta la schiena, facendo emergere dalle lenzuola di lino il suo corpo nudo, indifeso. Era strano come un uomo come lui potesse sentirsi inerme di fronte allo sguardo di chi aveva sempre ritenuto innocuo, come aveva sempre creduto fosse Ottavia. Invece, dopo questa rivelazione, sentiva di essere lui, adesso, quello indifeso, scoperto nel parossismo del suo languore, della sua debolezza.
  «È kajal quello che hai sugli occhi?» chiese lei appoggiandogli un dito fresco sotto la palpebra. 
  «Non cambiare discorso!» sbottò lui, svincolandosi dal suo tocco, punto sul vivo «Che ci fai qui, Ottavia? Perché hai fatto la messinscena con Voreno e rischiato la vita per venir qui?»
Ottavia emise un lungo e profondo respiro, prima di prepararsi a parlare. 
  «Torniamo a Roma, Antonio.» sentenziò.
  A quelle parole, l’uomo la fissò in silenzio per un lungo istante. Gli occhi gli si erano dilatati dalla sorpresa, tanto che con il kajal assumevano un’aria ancora più stranita. All’improvviso scoppiò a ridere, anche se non erano risa allegre.
  «Ottavia, che ti prende? Non mi hai mai voluto, mi evitavi nel talamo nuziale e adesso... dovresti essere contenta che ti abbia ripudiato: sei libera! O lo fai per tua madre?» incalzò l’uomo, scemando le sue risate.
  «Ti ribadisco che mia madre non c’entra nulla. Nemmeno mio fratello, se è questo che temi. È stata una mia scelta: voglio che torni a Roma, con me.»
  Parlare di Ottaviano dava sempre una scossa di inquietudine all’atmosfera e Antonio pensò che, per un attimo, avrebbe anche creduto che lei nascondesse un coltello tra i suoi lunghi riccioli, in parte acconciati dietro la nuca, come era solita fare.
In quell’istante gli passò di fronte l’immagine di Ottavia che, alle prime luci del mattino, soleva acconciarsi quei lunghi capelli serpentini da sola, senza l’aiuto della schiava... quei capelli, ossia l'unico dettaglio selvaggio che sua moglie sembrava possedere.

  Come sono diventato fiacco... una volta ricordavo altro...

  «Non c’è nessuna macchinazione politica, dunque?» riprese a domandare lui, dopo una breve pausa.
  «Nessuna macchinazione che potrebbe nuocerti... » vagheggiò lei, scemando la voce e puntando il suo sguardo verso la finestra aperta.
  «Ormai è tardi... » le fece eco lui, guardando a sua volta verso quel quadrato nero che sembrava proiettarsi sul nulla.
  Il vento soffiava instancabile dentro la stanza rendendo più solenne il buio di quella notte, ormai orfana della luna.
  «Quali sono le tue intenzioni... perché vuoi che torni a Roma? Ormai il dado è tratto [5]ricordi? Ti sei improvvisamente innamorata di me, forse?» chiese ancora lui, canzonandola di nuovo.
   «Io... non voglio che tu muoia.» sussurrò Ottavia con voce fievole.
  Queste parole, seppur dette con un filo di voce, pesarono come lapidi incombenti sulle loro teste. Aveva carpito anche lei, la nota fatale che vibrava nell’aria, aveva intuito che la sua fuga in Egitto non era solamente una faccenda personale ma quasi un richiamo incomprensibile? Quelle poche e semplici parole erano quanto di più intimo e sconcertante avesse mai condiviso con qualcuno. Solo Cesare era stato in grado di leggere questi segni nel suo animo, a volte. Solo Cesare e, raramente, Ottaviano... un guizzo d’odio gli emerse dallo stomaco, al sol pensiero del biondo erede di Cesare.

  ”Tu non devi giocare a dadi con lui... perdi sempre perché il tuo Genio teme il suo [6]" gli aveva detto, un giorno, un augure.

  Io non temo proprio nulla!

  «Antonio... io... credo di sapere perché sei fuggito qui.» continuò lei, puntandogli di nuovo quei suoi verdi occhi in faccia. Occhi così simili a quelli del suo nemico eppure così diversi.
  «IO SONO UN LUPERCO, NON TEMO NULLA!» le inveì contro Antonio, preso dall’ira.

  Come fa... come fa lei a capire... è come lui!

  Come poteva lei, che era sempre stata distante da lui, pure nel talamo dove lui l’aveva posseduta brutalmente, riuscire a leggergli dentro cose che persino lui faticava ad ammettere? 

  Tu non devi più giocare a dadi con lui... con lui... con lui...

   Era come se quella sentenza sibillina avesse preso forma nell’aria e ora lo tormentasse come un' Erinni fa con i parricidi.
 «IO NON HO PAURA DI NESSUNO!» le urlò ancora in faccia, afferrandola per le esili spalle e trovandosi a fronteggiare quei suoi occhi, che più di tutto lo inquietavano.
 «Torna con me o morirai!» gli sbraitò contro lei.
 «Che ne sai tu, eh? Potrebbe essere il tuo dannato fratello a rimetterci stavolta! Ci sarà la guerra! Tu da che parte starai? Sarai moglie del luogotenente di Cesare o sarai sorella del suo erede?» ribattè Antonio, con gli occhi stravolti.
 «NON VOGLIO CHE TU MUOIA! Torna da me!» gli urlò a sua volta lei.
«Da te? Cosa ti succede? Non mi hai mai desiderato... perché dovresti avere cura di me, ora che ti ho anche umiliato pubblicamente?» rispose l’uomo, abbassando la voce.
«Io... io... sì, sei sempre stato rozzo, scostumato... eri l’amante di mia madre... ora mi hai umiliato, è vero... ma...ma... » 
  Qui Ottavia s’interruppe con la voce carica di angoscia e si distaccò velocemente da lui, andando a rifugiarsi vicino alla finestra, cominciando a respirare a pieni polmoni.
 «... se penso alla tua morte il gelo mi prende. Non riesco a sopportarlo... non so il motivo. Ma non riesco a tollerare l’idea della tua morte. Forse... sono reduce da troppi lutti... ho già perso un marito.» 
 «...»
 «Antonio, ti scongiuro, vieni via con me, stanotte: Voreno ci ha preparato la strada. Lascia perdere l’orgoglio, la rivincita, l’odio verso mio fratello. Torna con me, ci sono le nostre figlie che ti cercano. Ce ne andremo lontani da Roma, così che tu non ne abbia a soffrire. Ti scongiuro, Antonio... Non cominciate un'altra guerra civile... Antonio... » 
  La ragazza si fermò di nuovo, trattenendo le lacrime che cominciavano a pizzicarle gli occhi. Si voltò quindi verso la finestra, per calmarsi ancora.
Nel petto del generale eruppe improvviso ciò che gli stava fermentando dentro: un ribollire subitaneo di forti sentimenti, mentre intravedeva nella penombra la sagoma sottile di quella che era stata sua moglie, di quella che lui aveva reputato solamente la fatua figlia della prosperosa Azia, di quella che apparteneva per sangue e fisionomia alle fattezze del suo nemico più profondo. A colei importava di lui e in modo sincero. 
A colei, che l’aveva fissato in modo vacuo il giorno delle nozze concordate, importava davvero della sua incolumità. Nemmeno Cleopatra, nemmeno Azia, avevano mai manifestato nulla di simile per lui.
Fu come un'epifania fuliminante.  Il cuore gli ruggì furioso nel petto e Marco Antonio lo assecondò, come era solito fare un tempo; la raggiunse fulmineo, afferrandola per le spalle e obbligandola ancora a fronteggiarlo.

Ecco dunque che il Luperco riemerge...

  «E se fossi io il vincitore, verresti lo stesso via con me o mi odieresti? Mi odieresti se uccidessi Ottaviano?» le chiese lui con un sussurro, prendendole il viso con una mano.
   I loro occhi s’incrociarono ancora, quella notte e, sebbene il buio fosse ormai imperante, potevano distinguersi quasi nitidamente. Erano occhi di brace quelli che s’incrociavano in quel momento, quasi paragonabili agli sguardi, feroci ed infuocati, che si scambiano i nemici che si abbandonano all’orgia fatale, quando infuria la battaglia...
 «... Io non voglio che tu muoia!» ribadì lei ostinata, rifiutando di rispondere a quella spinosa domanda.
  La reazione dell’uomo fu lesta come un tempo. L’afferrò per quella vita sottile, da ninfa giocosa, con estrema facilità, la sua forza era rimasta poderosa nonostante la sua egizia condotta accidiosa, e la sbattè vigorosamente su quel giaciglio disfatto, incombendo poi sopra di lei.
  Accanto al letto, la luce era più forte, poiché la lucerna stava appoggiata sopra un piccolo treppiede in un angolo lì vicino. A quel fioco lucore, i loro volti riemersero dalle ombre, più straniati e sconvolti di prima, e poterono specchiarsi ancora l’uno nell’altro. Il viso di lui era quasi una maschera dèmonica, preso da un terrore profondo e una passione violenta ad un tempo, resa più terrifica dal kajal; lei aveva le guance lucide e gli occhi virenti e accesi, sgranati dall’ansia e da un sentimento che mai avrebbe creduto di poter nutrire per quell’uomo. Ottavia gli passò le dita fredde sugli occhi truccati, facendo il gesto simbolico di pulirli.
  «Tu appartieni al latino Luperco, non all’Egitto morente...» sibilò lei, tergendogli gli occhi.
  Senza aggiungere altro le loro bocche si unirono in un bacio soffocante, come mai era successo prima d’allora. Le loro labbra fremevano, mordevano, succhiavano.
Antonio cominciò avidamente ad afferrare le forme muliebri della moglie, frugando tra le pieghe della veste e inciampando le dita tra i suoi riccioli superbi. E lei se lo premeva addosso, sentendoselo immane e bollente come una fiera furibonda, tirando, ogni tanto, i corti capelli scuri del marito.   Poi, Ottavia si sentì fremere come una foglia tormentata dal vento, mentre lui le agguantava quel vestito leggero con facilità e lo spostava dalle sue spalle, dalle sue gambe, scoprendole le reni. E lei s’inarcò, offrendoglisi nuda e bianca, come una ninfa sotto gli occhi ferali di un fauno.
   Lesto le allargò le gambe e la penetrò con forza, facendo cigolare il ferro battuto del giaciglio.
  «Ah!» sospirò Ottavia, mordendosi poi la lingua per frenare l’impulso di gridare e di incitarlo.
  A quella reazione lui si fece più impetuoso, memore della prima notte di nozze, ove lei aveva giaciuto passiva sotto di lui, come un albero morto.
Un fiotto di calore le era nato dal ventre, mentre lui la possedeva come fossero in uno strano sogno.
  «Facciamo un patto... tornerò da te dopo aver vinto quel dèmone di tuo fratello! Non possiamo esistere entrambi... e il suggello fatale sei proprio tu... posso anche lasciare il potere, l’Egitto e tutto... tutto...» così dicendo le aveva ficcato le unghie nella carne tenera della schiena.
  Ottavia mugolò qualcosa, trovandosi presa da una sensazione dolce e amara assieme.
 «Torna con me ora!» gli disse battendogli i pugni su quel petto immane.
  
 ”Tu non devi giocare a dadi con lui... perdi sempre perché il tuo Genio teme il suo... teme il suo... teme il suooo...”

  «NO! O io o lui, è il Fato ora a decidere... e anche tu: per chi offrirai ai Lari, per me o per tuo fratello?» disse e la incalzò più violentemente.
  Gli occhi verdi di lei si infiammarono di un lampo crudele e, per un istante, divennero identici a quelli di Ottaviano. E lui prese a possederla furiosamente e quasi non gli sembrò di vincere la battaglia ventura contro il di lei fratello... poiché Eros e Thanatos entrambi appartengono a Marte, a Luperco.
  Ottavia raggiunse il parossismo dell’estasi, mentre lui le azzannava quel collo candido. A vederli potevano sembrare due forze cosmiche in lotta: lui scuro, imponente e guerriero, lei così chiara, sottile e delicata, con i riccioli sparsi in quel letto sfatto e tragico.
  «Il patto è suggellato, Ottavia: se vinco vengo con te. Sono un guerriero e tu, stanotte, me l’hai ricordato, risvegliandomi. Un guerriero non può sottrarsi al destino...» le sussurrò all’orecchio quando lei, esausta, giaceva semi addormentata, dopo l’amore.
Per un istante, la giovane donna aprì gli occhi, tremando. Ma fu solo un attimo prima di richiuderli.

 

*





  Il patto è suggellato...

  Il vento soffiava da Ovest, rinfrescando l'aria ferma ed opprimente di Agosto. Ancora le riecheggiavano nella mente e nei ricordi quelle ultime parole, dopo la Battaglia di Azio e dopo la notizia che le annunciava il suicidio di Marco Antonio per mezzo del gladio.
Era morto, Antonio, proprio come lei gli aveva detto...
C'era stato il trionfo di Ottaviano, suo fratello; un trionfo dimezzato dalla dipartita dei due antagonisti: Cleopatra si era data la morte, facendosi mordere da un'aspide. Antonio si era trafitto il petto con un gladio, una rude spada romana. Infine aveva ritrovato se stesso, nella morte. Al posto delle loro spoglie, sfilarono due mute statue, come simulacri dei due sconfitti.  Ottavia aveva guardato con sguardo vitreo quei due simulacri, che sfilarono silenti in trionfo, al posto di Antonio e Cleopatra.

   Il patto è suggellato... è suggellato... è suggellatooo...

   Quelle parole ormai la seguivano ovunque, di giorno negli spazi vuoti dei suoi pensieri, di notte nei suoi sogni tormentati.
  Antonio era morto e lei aveva visto il preludio di quella morte, ne aveva presentito l'avvento prima ancora di quella infuocata notte egizia. Ma il destino era già stato filato...

  «Quindi, vuoi prenderti cura di Elio e di Selene, anche se sono figli di Cleopatra e di tuo marito?» domandò Ottaviano alla sorella, giorni dopo dopo il giorno del gran trionfo.
  «... cresceranno insieme ad Antonia maggiore ed Antonia minore.» rispose la sorella con tono piatto.
  «E vuoi continuare ancora a vivere qui, nella sua domus
  «Ubi gaius, ubi ego gaia» sentenziò lapidaria Ottavia, vera sposa occulta del grande Marco Antonio.
Il vento soffiò più forte.





Note:

***Il titolo si riferisce alla formula nuziale che la sposa pronunciava come promessa allo sposo e significa "Ovunque tu sia felice, io sarò felice"***


1)   Cleopatra, in greco vuol dire letteralmente “Gloria del padre”.


2)   Vento dei morti: l’Occidente nella tradizione sacra etrusca, romana è connessa alla zona degli Dei degli Inferi, degli Dei Mani, essendo il luogo ove “muore” il Sole. In questo caso è un preludio alla futura morte di Marco Antonio, che lui presagisce.


3)   La lancia di corniolo, insanguinata sulla punta, era una primigenia teofania di Marte nella Roma prisca: esso veniva messo sui confini dei campi a difesa e veniva scagliato nel territorio nemico dai sacerdoti Feziali, quando i Romani dichiaravano guerra.


4)   “Luperco”: figura mitica, metà lupo e metà capra, legato sempre al Marte romano, che veniva incarnato durante il rituale invernale dei “Lupercalia”, festa dove dei giovani uomini venivano divisi in due fazioni, rapprsentanti le fazioni di Romolo e Remo, e vestiti solo di pelle di capra correvano intorno al pomerio frustando a scopo purificatorio gli astanti. Marco Antonio incarnò Luperco durante gli ultimi Lupercalia, poco prima del Cesaricidio.  


5)   “Il dado è tratto”: qui Antonio parafrasa la famosa frase che Cesare sentenziò quando varcò il Rubicone, ossia “Alea iacta est”. Si narra che Cesare avesse avuto numerosi presagi riguardo la sua morte, di conseguenza, questa frase assume una certa nota fatale che qui Antonio fa sua.


6)   Si narra che Marco Antonio perdesse sempre quando giocava a dadi contro Ottaviano. Un augure gli disse che ciò accadeva perché il Genio di Marco Antonio, spirito tutelare di ogni uomo secondo i Romani equivalente al Daìmon greco, temeva il Genio di Ottaviano.
  
 










 
 




























 




 
 




 

 

   
 
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