Had I known
Step one, you say we
need to talk
He
walks, you say sit down, it's just a talk
Lo
rincorse anche
quella volta.
Rischiò
di inciampare a
ogni passo, giù per i dolci pendii del parco di Hogwarts,
finché decise di
abbandonare le graziose scarpine di raso giallo e di recidere
nettamente l’orlo
della veste troppo lunga con un Diffindo;
poi riprese
a correre, la gonna di velluto color topazio che ondeggiava nel vento,
i
riccioli dorati che rimbalzavano sulla sua schiena.
«Aspetta! Ti prego, fermati a parlarne per un
momento!»
gridò, mentre la figura alta e slanciata
dell’uomo spariva, oltre la fitta boscaglia alla base del
fianco del colle.
Senza
la minima
intenzione di desistere, le guance piene color porpora e gli occhi
grandi
stretti per la determinazione, accelerò
il passo con
un altro sbuffo.
«Ti
prego, Sal… aspet-» il respiro le si mozzò a
metà quando sentì un vuoto sotto un piede,
affondando in una buca; prima che potesse rendersene conto, stava per
rotolare
giù dalla collina.
Si
preparò all’impatto
con l’erba secca e la dura terra ghiacciata sottostante,
dandosi della sciocca
per non aver tenuto la bacchetta a portata di mano.
Improvvisamente,
però,
la sua caduta si arrestò, e un paio di mani affusolate la presero
per le spalle e la trascinarono in piedi. Spalancando gli occhi per la
sorpresa, alzò lo sguardo sull’uomo slanciato che
le stava davanti: portava una
veste nera e un lungo, pesante mantello color smeraldo bordato di
pelliccia;
sul volto pallido e affilato cadeva qualche ciocca di capelli neri, e
la bocca
contratta in una smorfia di disprezzo e rabbia era nascosta da una
lunga barba
nera. Gli occhi la fulminavano minacciosi e malevoli.
Come
sempre.
La
donna spostò uno
dei tanti riccioli biondi e ribelli dietro l’orecchio, con un
gesto automatico,
e rabbrividì appena nella gelida aria invernale.
«Grazie».
«Quante
volte ti ho
detto di non chiamarmi Sal,
Helga?» sibilò lui, la
voce venata di velenoso disprezzo.
La
strega corrugò la
fronte «Iniziai
a chiamarti così non appena ti
presentasti. Perché dovrei smettere ora?»
«Perché me ne sto andando, Helga, non mi
hai
sentito prima? Non calcherò questo suolo maledetto e impuro
mai più, finchè
avrò vita e oltre»
disse duramente,
con lo stesso tono affilato, irato.
Tentò
di farlo ragionare,
anche quella volta.
«Sì,
ti ho sentito
prima, urlavi a sufficienza
perché ti
si sentisse in ogni angolo del castello» ribattè con
tono di rimprovero la bionda. «Hai spaventato a morte tutti
gli studenti… o,
per meglio dire, abbiamo spaventato
a
morte tutti gli studenti» ammise, ravviando dietro l’orecchio
un altro ciuffo biondo.
Salazar
storse la
bocca in una smorfia ancora più disgustata.
«Perché mai mi dovrebbe interessare? Quei
patetici Sanguesporco
non sono più affar
mio, non lo saranno mai più»
sibilò con cattiveria.
«Adesso
stai
esagerando, Sal!»
lo redarguì, portando le mani sui
fianchi come quando rimproverava gli studenti per essersi messi nuovamente a duellare nei corridoi, o
quando
scopriva Godric a rubare mele dal suo frutteto. «Ora torniamo
indietro e ci
sediamo con calma a parlarne, risolveremo tutto come abbiamo sempre
fatto, e tu
e Godric…» lasciò la frase in sospeso,
perché in verità proprio non sapeva come
sarebbero potuti
migliorare i loro rapporti. «… Non
andartene, Sal».
Lui
rimase lì, immobile
e simile a un blocco di ghiaccio, a fissare un punto alle spalle di
Helga, un
vuoto lontano che la strega sapeva di non poter in alcun modo
raggiungere, né
colmare.
Ma ancora poteva tentare.
«Sal,
io… so che è difficile, da quando Elinor è-»
«No,
tu non lo sai»
sbottò aspramente il mago,
tornando a fulminarla con gli occhi neri come abissi in tempesta.
«Né tu, né
Rowena, né tantomeno quel tronfio borioso di Godric, sapete
cosa voglia dire perdere la propria
famiglia!».
L’uomo
avanzò di un
passo ma Helga non si mosse, pur percependo quelle mute e gelide ondate
d’ira e
odio: le pizzicava la pelle, tanta era la Magia Oscura che trasudava
dall'alto
e consumato uomo che era… o era stato, suo amico.
«Erano
mia moglie e
mia figlia, Helga, dannazione» aggiunse, abbassando il capo
di scatto, la voce
ridotta a un sussurro spezzato.
Lo
sguardo della
strega s’incrinò, riflettendo il dolore di Salazar
in una muta vicinanza:
Godric le diceva di lasciarlo perdere
da tempo, diceva
che non c’era più speranza, che Salazar era
cambiato irrimediabilmente da quel giorno.
Helga
non poteva
negarlo. Non poteva negare che aver perso loro…
aveva divorato Salazar come un veleno, uno di quelli con cui amava
tanto
giocare nei suoi sotterranei, spesse
volte sotto gli
occhi ammirati e famelici dei suoi ragazzi, altre con la meticolosa
compagnia
di Rowena; qualche volta, dopo avergli portato qualche erba
particolarmente
rara che le aveva chiesto con settimane di anticipo, permetteva persino
a lei
di assistere a quei piccoli esperimenti visionari.
Ma
non succedeva più, non da quando la Caccia aveva
preso Elinor e la
figlia che portava in grembo; non
dal giorno in cui avevano trovato la sua bacchetta spezzata, ai confini
della
Foresta Proibita, ben al di fuori dei territori di Hogwarts.
Non da
quando, sotto
tortura, un Babbano aveva confessato di aver catturato la donna assieme
a un
altro gruppo del villaggio.
Non da
quando Salazar
aveva spazzato via quel villaggio, trucidando coloro
che
avevano arso vive sua moglie e sua figlia.
All’inizio
pensavano
che non ne sarebbe mai uscito, che sarebbe rimasto chiuso nel suo
dolore fino
alla sua morte; persino Godric si era incupito in quei giorni, e ogni
discussione fra gli studenti era cessata.
Ed
Helga, silenziosamente, cercava di recargli conforto:
davanti alla porta di quercia dei suoi appartamenti, lasciava sempre un
cesto.
Torta alla melassa, fasci di erbe rare, compendi di pozioni arrivati da
terre
lontane, persino qualche serpente esotico: se non le permetteva di
stargli
vicino con le parole, avrebbe fatto di tutto per farlo
altrimenti.
Il
cesto veniva svuotato
ogni volta.
Quando
infine il
pallido mago era tornato nella Sala Grande, accolto dalle solenni e
poderose
pacche sulle spalle di Godric, quando aveva ripreso a insegnare,
avevano pensato
che sarebbe tornato tutto come una volta.
Lo
avevano pensato
davvero.
Poi
erano iniziate le
vecchie discussioni, più accanite e aspre che mai; avevano
provato, Helga e
Rowena avevano parlato a lungo, cercando di riportare la ragione nella
sua
mente annebbiata dall’ira e da un odio ormai troppo radicati.
Ma le liti proseguivano,
Maledizioni e Anatemi rimbalzavano
nei corridoi ogni volta che Salazar e Godric s’incrociavano;
e il laboratorio
di Pozioni era sempre vuoto, mentre il suo proprietario spariva per
ore,
qualche volta per giorni, senza dire a nessuno dove se ne andasse.
Tra
gli studenti si
vociferava di una camera segreta, nascosta nel castello.
D’un tratto, anche Rowena aveva smesso di parlare
con lui.
Ma
Helga no, lei continuava a cercarlo, a tentare di
distrarlo, di fare breccia in quella barriera impenetrabile
d’odio, mentre la
coltre di Magia Oscura continuava a pulsare sempre più
frenetica e minacciosa
attorno al mago; eppure lei non desisteva.
Perché
lei era quella
che lavorava duro, che non si arrendeva mai, che non si lamentava mai,
che
faceva sempre del suo meglio. Per
sé, per i suoi studenti,
per i suoi amici.
Fece
del suo meglio,
anche quella volta.
«Hai ragione, non potrò aver vissuto
quello che hai
vissuto tu, non potrò capirlo come puoi fare tu. Non so
tante cose, in verità,
non sono Rowena» iniziò, tirandosi indietro un
ricciolo biondo dagli occhi;
occhi che il mago di fronte a lei si ostinava
a non
guardare. Corrugò la fronte e posò le mani sul
petto dell’uomo. «Ma
so quanto dolore ti porti qui dentro, Sal.
E so che dare la caccia ai Babbani e rifiutare i loro
figli che portano la scintilla della magia, non
guarirà questo dolore. Non le
riporterà indietro»
lui continuò ad ascoltarla, in silenzio.
O,
forse, aveva smesso
di ascoltare da tempo.
«Salazar, hai degli amici qui. Hai ancora una famiglia, qui. Hogwarts
è casa tua».
Ma
il suo meglio non bastò.
Salazar
Slytherin alzò
gli occhi neri come la notte sulla bionda, indecifrabili e freddi come
non mai;
prese le mani di Helga fra le sue e le tolse dal suo petto, lasciandole
ricadere lungo i fianchi.
La
guardò per qualche
minuto, in silenzio.
Poi,
prese un ricciolo
ribelle che ricadeva sul volto di Helga e glielo spostò
dietro l’orecchio.
«Addio,
Helga».
Ruotò
su sé stesso
in senso antiorario e scomparve con uno schiocco.
Lungo
la guancia di
Helga, scese una singola lacrima.
Se
n’era andato, solo,
con l’odio verso sé
stesso e tutto ciò che lo
circondava come unica compagnia. Mentre tornava lentamente al castello,
Helga Hufflepuff lo
faceva portandosi dentro una consapevolezza:
che, stavolta, Salazar non sarebbe tornato mai più.
L’aveva perso per sempre.
Se solo
avesse saputo come salvare una vita…
He
smiles politely back at you
You
stare politely right on through
Sorrise,
quando lo
vide. Un sorriso tirato,
più simile a un sogghigno divertito.
Oh,
avrebbe potuto prendersi
gioco di lui, ne era consapevole; in verità, se solo si
fosse saputo, in molti
si sarebbero potuti prendere gioco di lui, della sua debolezza.
«Finalmente
ci rincontriamo, Albus».
Dritto
davanti a lui,
il mago non rispose.
Solo
qualche attimo,
gli serviva solo un ultimo momento
per scavare a fondo, trovare quel coraggio che lo aveva spinto fin
lì; quel
coraggio che lo aveva visto assegnato ai Gryffindor; quel coraggio che,
era
doloroso ammetterlo, gli mancava da troppo tempo.
Sospirò
profondamente,
poi piegò la bocca nella pallida imitazione di un sorriso.
«Penso
che dovremmo
saltare i convenevoli, Gellert»
«Ah sì? Non mi vuoi chieder come sto?
Come me la
sono passata in tutti questi anni?»
sul suo volto il
ghigno divenne più marcato e malevolo, gli occhi che
brillavano come quelli di
un predatore. «Non mi vuoi chiedere se
li
ho trovati?»
Albus
sembrò ritirarsi di scatto a quelle parole, come
se fosse stato colpito da un invisibile colpo di frusta.
Gellert,
dal canto suo, non trattenne una risata secca e
delirante, piegando all’indietro la schiena scossa dai
singulti. «Ma
certo, ovvio che tu non ti sia più azzardato nemmeno a nominarli da allora, non è
vero, Albus? Ma li hai pensati, oh, li
hai pensati di certo! Ti sei consumato nel desiderio di riprendere la
ricerca,
ti sei crogiolato nei vecchi sogni in cui diventi il Padrone
della Morte, non è vero? Non mentirmi,
Al…».
L’alto
mago biondo non
ricevette alcuna risposta mentre attendeva la risposta
dell’amico di un tempo, gli occhi luccicanti come quelli di
un predatore
pigramente fissati sulla figura davanti a lui. Annuì
lentamente, senza smettere
di sogghignare, quasi quel ghigno fosse l’unica espressione
che potesse
produrre.
«Beh,
non ne parlerai,
non ne hai il coraggio,
rischieresti
di piombare nel rimpianto… Il Ministero non voglia, eh?»
«Non
ne parlerò perché
non è necessario, Gellert»
la voce di Albus
Silente fu pacata
e ferma, sorprendentemente ferma.
«Quello
che è accaduto, quello che abbiamo
fatto…» il rosso si
interruppe
di colpo, stringendo le labbra come per trattenere quelle parole che,
lo
sapeva, non si poteva permettere.
Gellert
Grindelwald
scoppiò in
una nuova risata gelida e sferzante, mentre un lampo tempestoso
illuminava i
corti capelli chiari
redendoli bianchi. «Oh,
non parleremo di questo, oggi, non ti affliggere. L’ho
già visto»
disse in tono febbricitante, umettandosi le labbra e picchiettandosi
lievemente
la bacchetta sulla fronte. «Una volta ti avrei costretto ad
affrontare i tuoi
demoni, Albus, a sottometterli…
ma, francamente, il patetico essere inerme che sei diventato
non mi serve
più, e non voglio perdere altro
tempo!»
La Maledizione partì dalla sua bacchetta fulminea e letale
come un colpo di frusta
ma non riuscì a cogliere di sorpresa l’avversario,
che lo parò con un
altrettanto rapido e fluido movimento.
Non vi
furono altre
parole, in quella notte di tempesta.
Non venne
lasciato spazio ad alcuna provocazione, ad alcun inganno, a niente che
non fosse
il violento cozzare d’incantesimi e maledizioni, il ruggire
dell’aria che si
spostava al passaggio della magia, l’odore di bruciato e
distruzione che li
circondava. La sua risata secca come un
tormento.
Come se non ricordasse la sua risata nella
soffitta,
a Godric’s Hollow, quella vera.
Albus
stringeva i denti, assottigliando lo sguardo
dietro le lenti a mezzaluna per non perdersi nemmeno un movimento dello
stregone di fronte a lui, che scivolava dietro le sagome fumose dei
loro
incantesimi come un’ombra che si nasconde nel buio. Mentre
parava un potente
getto di fiamme, lo intravide muovere il polso come a vergare eleganti
lettere
nell’aria e, trattenendo appena il respiro, si
sbrigò a gettarsi dietro la
carcassa di un albero abbattuto dal loro scontro: il fascio ustionante
di magia
che ridusse in polvere il blando scudo fu il risultato di
ciò che la mano
avversaria aveva tracciato nell’aria.
Come se non lo avesse visto scrivere, con quelle
stesse mani, centinaia di lettere, di prove, di bozze e saggi
accartocciati che
lui stesso aveva aiutato a produrre, con una dedizione, una convinzione
e una
fiducia di tali profondità da renderlo ancora più
ridicolo, palese stolto e
marionetta di un’utopia crudele.
Ricambiò
l’attaco con
eguale forza, ma si ritirò di scatto dalla linea
di fuoco quando sentì la carne del braccio sinistro aprirsi
sotto il violento
impatto di un incantesimo sfuggito al suo scudo.
Come se quel dolore fosse in qualche modo
paragonabile… paragonabile
al risultato dei suoi
vaneggiamenti, al corpo freddo di Arianna fra le sue braccia, al letale
rancore
del fratello, alla distruzione di tutto ciò che rimaneva
della famiglia
Silente.
E il
senso di colpa,
quello era qualcosa che non se ne sarebbe mai andato via, che nessuna
azione
eroica o scoperta rivoluzionaria, nessuna opera di bene o saggio
consiglio
avrebbe mai potuto lavare via dalla sua coscienza e dalla sua solitaria
esistenza.
Per Arianna, morta perché era troppo
cieco per capire che
l’unico Bene che importava era sotto il suo
stesso tetto.
Per Aberforth, per la famiglia che aveva tradito
così vilmente, lasciandolo a sé
stesso e alle cure
della sorellina, mancando alla promessa fatta alla madre, rendendo
ancora più
inutile l’atto di folle vendetta del padre.
Un
Anatema Che Uccide
lo sfiorò, scompigliandogli i capelli e la barba, e la sua
bacchetta rilanciò
con naturalezza un Incantesimo in grado di frantumare il corpo di una
persona
come fosse un ramoscello.
… Per Gellert.
Un’altra
risata di
scherno tagliò l’aria mentre il suo tentativo veniva
abilmente schivato e fatto tornare al destinatario come un boomerang
crepitante
di magia.
Perché non aveva avuto il coraggio di
affrontarlo
fino ad allora, di
riparare ai suoi errori, di fermare
il suo avanzare distruttivo.
Annullò
l’incantesimo
con un ampio gesto del braccio ed evocò uno Scudo per quello
successivo.
… Perché non era abbastanza
forte da salvarlo.
Albus
si maledì
per essere
incapace di concentrarsi solo su quella battaglia furibonda e
devastante,
imponendosi di aumentare la velocità dei suoi movimenti, la
potenza dei suoi
attacchi, l’urgenza di farla finita.
Per
questo non poteva
lasciare il minimo spazio allo stregone dai capelli biondi, non poteva
permettersi nemmeno la minima esitazione o avere più alcuna
riserva.
Perché il tempo di parlare era passato
da molto
tempo, troppo.
Ed era stato lui a lasciare che succedesse.
Era ora di finirla.
Lanciò
un urlo di
frustrazione, Albus,
mentre si Smaterializzava a
pochi metri di distanza per sorprendere il nemico – il nemico
– con una gigantesca detonazione
che incendiò e distrusse una buona porzione della strada che
presidiava.
Lo
ferì
superficialmente, ma quello fu il segnale, ben recepito anche da un sogghignate Gellert Grindelwald:
era finito il tempo di giocare.
Il loro tempo.
Il
duello che ne seguì
è storia, è leggenda.
Gellert
Grindelwald
morì nel
1998 per mano di Lord Voldemort, negli anfratti freddi e disgustosi
della
prigione magica di Nurmengard,
dove venne spedito in
seguito alla cattura da parte di uno dei
più grandi maghi di tutti i tempi, Albus
Silente.
Non ci
fu giorno in
cui Albus non rimpianse
ciò che aveva fatto, non rimpianse
di aver agito troppo
tardi, non rimpianse l’amico – l’amante,
l’amore – che aveva lasciato libero di
proseguire lungo quella strada di morte
e disperazione finita in quella prigione maledetta.
Un
altro peso sulla
coscienza, un’altra colpa inespiabile.
Se solo
avesse saputo come salvare una vita…
Some sort of window to your right
As he goes left, and you stay right
Between the lines of fear and blame
You begin to wonder why you came
Sirius
aveva odiato profondamente suo fratello.
Non
nel modo peggiore in cui si
potesse
odiare qualcuno, probabilmente: se avesse dovuto compilare una Top Five
delle
persone che più aveva odiato nella
sua vita, non sarebbe stato Regulus
Black quello che
svettava in prima posizione.
…
Beh,
magari in seconda o terza sì, però.
Trovandosi
in una Casa straripante di puri di cuore e moralisti, prima fra tutti
quella saccentella
dai capelli rossi che aveva finito per sposarsi James, non era
capitato poche volte che il suo continuo ignorare Regulus
venisse visto come il risultato di una qualche invidia tra fratelli, di
motivi
sciocchi come la sua perenne impeccabilità, o la sua aria di
pacata e
spocchiosa superiorità, o il modo disgustoso in cui soleva
convenire sempre con
ogni stronzata che uscisse dalle
bocche dei coniugi Black, Walburga e Orion (che
Merlino li maledisse).
Non
che tutte queste cose aiutassero, certo.
Ma il vero motivo era un
altro. Il vero motivo era che ti esce difficile andare
d’accordo con una
persona se quella decide di stamparsi il Marchio Nero su un braccio, specialmente se si tratta di tuo
fratello minore e specialmente se
ti
trovi tra i principali obbiettivi
proprio dei
cattivoni col tatuaggio sull’avambraccio.
Già,
quello era proprio il tipo di dinamiche che minavano il rapporto tra
fratelli,
lo aveva certamente letto da qualche parte, magari su uno dei Settimanale delle Streghe impilati sul
comodino di Marlene.
In
verità, sul momento non ci pensò quanto avrebbe
dovuto, almeno non quanto una persona normale
avrebbe fatto. Fu
parecchi anni più tardi, che si soffermò su quello.
Se ne
stava lì, in piedi in mezzo a una delle stanze segrete del
Ministero, anche se
in piedi lo sarebbe stato ancora per
poco: la vedeva,
quella luce verde, vedeva come si faceva sempre più grande e
luminosa ai suoi
occhi, quasi come un bizzarro palloncino luminoso che si gonfiava a
rallentatore.
Quella
sensazione… lo riportò indietro, a una di quelle
partite ad acchiapparella con Regulus:
non lo prendeva quasi mai, ma quando accadeva
ci metteva sempre un paio di secondi a realizzarlo,
a realizzare di aver perso per pochi centimetri di pelle rimasti in
contatto
con le dita del fratellino per la durata di un battito di ciglia.
Sì, fu
quasi come una di quelle volte: il lampo verde, bollente, ustionante, poi gelido in un modo che
gli fece rimpiangere quel
calore ustionante, bussò alla sua pelle per
la durata di un battito di ciglia. Preso? Davvero? Lui?
Oh,
aveva perso. Però
non lo assalì il solito basito e
accecante nervosismo, quello fatto di è
stato solo per così poco e se
solo mi
fossi mosso un centimetro più in là o ha
barato, sicuramente. No, non successe nulla del genere.
Lui scivolò.
Più
come quella volta in cui si era addormentato davanti alla credenza in
cui si
era nascosto Regulus
per sfuggire alle urla furibonde
dei genitori che litigavano. In silenzio, senza farsi notare- lui che
si faceva sempre
notare-,
Sirius si era seduto fuori da quell’antina che puzzava di
muffa, fingendo di
non aver sentito i singhiozzi del fratello, fingendo di non essere
neanche lì.
Non
pensò solo a lui, a uno di quelli che aveva odiato di
più. Ma
ci pensò.
Pensò
quello che mai aveva voluto pensare,
pensò e se…
E se
non fossero mai diventati quello che erano diventati?
E se… fosse stato più vicino al suo fratellino?
Se si fosse accovacciato più
volte davanti alla sua porta, se gli avesse permesso qualche volta in
più di
prenderlo, se avesse resistito a qualche provocazione in più
dei genitori per
passare la notte a parlare con lui…
Se il suo fratello
di sangue fosse stato anche suo fratello vero?
Per un
attimo, della durata di qualche fotogramma, lo vide: a scannarsi con
James sul
risultato dell’ultimo derby Grifondoro-Serpeverde dopo aver
scolato qualche
birra, ad alzare gli occhi al cielo con Remus, a farsi strofinare il
capo con
malcelato affetto da Lily.
Accanto a lui mentre
trovava i loro corpi esanimi.
In tribunale mentre
testimoniava contro Peter.
In prima fila mentre
sposava Marlene.
A ridergli dietro
mentre cercava di capire da che
verso andasse tenuto Harry…
E se.
E se.
E
Se
…
Se solo
avesse saputo come salvare una vita…
wvw
LUMOS
Ok,
piccolo progetto
che sto portando avanti da un po’: "How
to save a life"- The Fray, è questa la canzone
che per due settimane, aprecchio tempo fa, non sono riuscita a
togliermi dalla testa, e attorno a cui ruota questa ff. Fatemi sapere che ne pensate e se vi va di leggere il
resto ;3
NOX