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Autore: swimmila    02/07/2018    11 recensioni
Non può esserci risentimento nella stessa pena. Non può essere errore un canto d’amore.
Ancora una volta manga e anime inestricabilmente uniti dal mio capriccio.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Tra fieno e legno

L’eco dei miei tacchi a svegliare l’aria. Il colonnato, che cambia idea ad ogni mio passo. Il bacio bicromo del sole sul lastricato. Ombra. Luce.
Ombra. L’urlo incredulo della stoffa a toglierci il fiato.
Luce. Il vuoto, nello specchio ustorio del cortile.
Ombra. Un unico dolore a piangermi sul viso.
Luce. Mestizia calcinante nel silenzio del meriggio.
Ombra. Giuro su Dio che non ti farò mai più una cosa come questa.
Luce. Il tuo viso che ancora non vedo.
Ombra. Una rosa non sarà mai un lillà.
Luce. Un colpo secco nello stomaco. L’aria in contumacia nei polmoni. La forza dell’orgoglio a resistere alla seduzione del pianto. La dignità dei tuoi occhi nella finzione dei miei.
“André”
“Si?”
“A partire dal 15 Aprile prossimo sarò assegnata ai soldati della Guardia.” La verità, nelle mie parole. La menzogna, nella fermezza della voce. Il tuo sguardo, uno stagno di tristezza dove annaspa la mia pena.
“Bene”.
Il prossimo 15 Aprile. I soldati della Guardia. Le tue parole sono sassi che lapidano la compostezza dietro cui nascondo la mia vergogna. Brucia senza fine questa ustione di turpitudine e abiezione che sento addosso, ma riesco solo a soffocare di silenzio. Ti cedo le briglie di César, che ancora stringo in mano, e nel farlo sfioro inavvertitamente le tue dita. Mi impongo di non ritrarmi bruscamente per non sporcare la casualità di questo tocco fortuito. Ma tremo al pensiero che tu possa aver provato ribrezzo.
La mia paura di farti del male nelle tue dita che non trattengo. Il tuo sguardo spento a proseguire le ceneri del mio. La tua voce, a constringermi al presente.
“Oscar”
“Si?”
 
Ti ho chiesto il permesso di allontanarmi da palazzo Jarjayes per qualche giorno. Ti ho chiesto il permesso della vostra tenuta di Arras. Me lo hai concesso senza pretendere spiegazioni. Come sempre. Se servo e padrona siamo, il tuo arbitrio si finge libero nel recinto della mia volontà. Anche quando in silenzio ne ho allargato i confini per far spazio a riunioni clandestine di fermento popolare; per coltivare  il mio appoggio alla brillantezza criminale di Bernard. Se servo e padrona siamo, avresti ogni volta potuto cacciarmi come sarebbe stato in tuo potere fare. Invece, nel silenzio della tua profonda comprensione, hai sempre dimostrato per me pari rispetto.
Anche adesso che un attimo incontrollato di frustrazione si è corrotto in scelleratezza.
Avresti potuto mandarmi via dalla tua casa, dopo quello che è successo ieri sera. Non l’hai fatto. Ma ho paura, Oscar. Mai come ora ho paura di perderti: nemmeno alla vigilia del tuo duello con il duca di Germain; nemmeno quando ti ho vista sparire nel pensiero di Fersen: perché la pallottola più precisa può sbagliare mira e il conte più affascinante può uscire da un cuore. L’odio, invece, centra sempre il suo bersaglio, e seduce definitivamente il cuore che conquista.
Ho paura di aver perso tutto di te: il tuo affetto, la tua amicizia, la tua stima, la tua condivisione. Eppure, anche questa paura è più sopportabile del terrore di non esserti più accanto.
Posso resistere al flagello della ripugnanza nel tuo sguardo; sopportare in silenzio l’avversione nella tua voce; subire con coraggio il vuoto della tua assenza; persino sfiorare in segreto la speranza di non averti persa. Ma non reggo al pensiero di importi il disgusto della mia presenza. Crollo, nell’immaginarti logora di sforzo per coprire il rancore nel pubblico delle tue parole. Cedo, di fronte al pericolo di aggiungere finzione alle tue giornate già stremate di apparenza. Frano, all’idea di farmi altro dolore che allarga lo strappo nel tuo cuore.
Allungo la mia ombra sanguinolenta nella luce sanguigna di tramonto. La strada per palazzo Jarjayes nella memoria degli zoccoli di Aléxander.
Non resisterò a lungo, da solo, ad Arras. Non ho altro luogo dove stare, se non accanto a te.
 
La paura nei tuoi occhi, ieri sera, a fermare i miei ricordi.
La tua richiesta, oggi pomeriggio, a scorticarmi l’anima.
Mai in vita tua hai espresso un tale desiderio di solitudine. Mai, il tuo amore fatto d’ombra, ha preteso la mia consapevolezza.
Da quando, André, sei cresciuto di amore, silenzio, dolore?
Ed io, da quando sono una vigliacca oziosa sorda ad ogni tua sofferenza?
Ho colto l’amore negli occhi di una giovane principessa e di uno studioso svedese quando era ancora una crisalide vischiosa. Ma non ho saputo ascoltare il battito furioso e assordante delle ali spiegate del tuo.
Ho urtato gli occhi di Fersen. Tracimavano amore, passione, ardore, abnegazione. Inesperta, con lui li ho confusi, desiderati, amati. Nessun rischio nell’amarlo, nessun coraggio nel fingere di attenderlo: la certezza del suo amore irrealizzabile a proteggermi dalla paura di realizzarlo.
Ho inciampato nei tuoi occhi. Ho sentito il tuo richiamo. Ho temuto il possibile. Ho distratto il mio cuore.
Da sempre solo tua, per non sapere perché Dio mi abbia fatto nascere donna. Da sempre solo mio, per non attardarmi in paura e uniforme.
La notte di insonnia e rimorsi ad angariarmi la mente. Il tuo orrore del mio ad affrettarmi la strada. Nel galoppo di César l’ansia di dirti che non era paura, ieri sera.
Non era paura. Sulla mia pelle nuda. Nel lacrimare dirotto della mia anima. Nella porta dimentica di chiave. Mai potrei averne di un uomo che sa far frangere un oceano rabbioso di passione in dolce risacca. Che sa rimanere lucido nella malia brumosa della pazzia.
Ho rifuggito per anni lo splendore del tuo amore. Voglio ora cominciare dalla tua pena.
Non ti lascerò in sua solitaria compagnia. Non la lascerò indurirsi di cinismo e di difesa. Voglio lasciarla colare liquida, la tua ferita. Sgorgare copiosa come un pianto liberatorio. Sentirla calda e pulsante di vita. La voglio impetuosa di fiume in piena. Voglio raccoglierla nelle mie mani. Confonderla con la mia.
Asciugarle con aliti di riso.
Chiuderle con vino e violino.
 
Non sei ancora tornata: il posto di César è vuoto nelle scuderie.
I soldati della Guardia. Come farò a restarti accanto, Oscar? Non c’è posto per un attendente nella caserma della Guardia Metropolitana di Parigi. Solo soldati, colonnelli, ufficiali, comandanti. Nella fretta di lasciare la Guardia Reale e il tuo dolore, hai dimenticato me.
Impazzirò rimbalzando nel rimbombo di giornate vuote come l’eco. Le riempirò immaginandoti in millanta pericoli senza me al tuo fianco. Senza me al tuo fianco. Risuona di brocco e patetico, di frollo e ridicolo, di  romantico rottame.
Sarà tortura, Arras, senza di te. Saranno teneri ricordi spariti nel baratro di gelo e diffidenza che ho spalancato fra noi: non più un’alcova dove cullare il pianto del mio amore, ma una frustata di fionda che torna indietro dopo essersi intinta nell’inferno di questo presente.
Sarà tortura, dopo Arras, insieme a te.
Sarà sguardo che mi infilzerà. Silenzio che ci separerà.
Sarà scampo senza possibilità.
 
Le mie parole, ieri sera, urgenti d’egoismo. Di Guardia Reale da cui scappare. Di vita nuova da ricominciare.
Il tuo silenzio, ieri sera, affannato di verità. Da un dolore, la mia fuga. Da una vita, il tuo coraggio di soffrire.
La paura di perdere il mio fianco.
Una rabbia, di rosa e di lillà.
La grandiosità del tuo amore, travolgente all’improvviso.
La tua grandezza, nel guidarlo mite. Sul mio polso, stretto che non doleva. Nelle tue labbra, mute che non offendevano. Nel tuo bacio, impetuoso che non violava. Nei tuoi occhi, sgomenti d’orrore. Nel lenzuolo, timido di pudore. Nel solingo canto del tuo amore.
Fersen. Al limite della pazzia, il dolore di saperlo in guerra. Lenta, l’agonia che consuma il suo addio. Straziante, d’ora in poi senza di lui.
Ma inestricabili, i nostri destini. Impronunciabili, fra noi, parole d’addio. Inseparabili, ombra e luce.
Con l’audacia dei codardi ti chiederò di restami accanto.
Nella sfrontatezza della mia luce sarai per sempre la mia ombra.
 
“André! André!”
La voce del Generale irrompe nelle scuderie. La sua figura, annebbiata di controluce e di primi offuscamenti, riempie di imponenza gli stipiti di legno.
“André, devi dirmi perché Oscar ha lasciato la Guardia di Sua Maestà”.
La sua è una domanda dritta come una strada priva di dubbi; irruente come il suo inutile bisogno di sapere, perché niente ti riporterà sui tuoi passi.
Rispondo che il tuo annuncio era in verità un’Annunciazione: superflua di spiegazioni ed esigente solo d’ascolto.
“André, io sono convinto che tu sappia cosa passa nella mente di Oscar”
Mi conosce tuo padre. Sa che ho accesso alla tua anima. Ma sa anche che nulla mi impedirà di custodirla..
“André. Quando stamattina il Generale Bouillé mi ha informato del nuovo incarico di Oscar gli ho chiesto di arruolarti nei soldati della Guardia”. Sa che sei irremovibile, tuo padre. E non ha perso tempo.
Si avvicina, mi porge una busta chiusa: è la mia domanda di arruolamento. La prendo con mano tremante di incredulità.
Ora la sua voce tonante si sfilaccia in un’eco di preoccupazione. “André, ti ho messo al fianco di Oscar perché tu la proteggessi sempre. Ora più che mai devi continuare a farlo”.
Balbetto parole inconcludenti che dovrebbero irrigidirsi di obbedienza e che invece rompono le righe nella mollezza della riconoscenza. Reprimo l’impulso di abbracciare un uomo che ha intinto il dito nella pietà prima di indicarmi una nuova strada e lo lascio, in silenzio, voltarmi le spalle e sparire nell’orizzonte di gratitudine da cui è emerso.
Dovrei ricacciare indietro questa felicità speciosa che sento salirmi addosso perché so che presto si infrangerà sullo scoglio del tuo disappunto. Ma sono un naufrago che accoglie con benedizione la terra inaridente che allungherà la sua agonia.
 
D’abitudine rapido, nelle decisioni. D’esperienza pratico, nelle azioni. D’aruspice la mano, nell’improntare destini.
Fulminea, io, nel ritrarmi prima che i due uomini più importanti della mia vita si accorgano della mia presenza. Impellente, nel ritornare indietro prima che tu sparisca dai miei giorni.
Ti sento prima ancora di vederti. Riconosco il trotterellare di César; i tuoi passi un tantino frettolosi. Mi irrigidisco nello sforzo di prepararmi a ricevere l’affondo del tuo sguardo.
La tua calma, a cozzare col mio tumulto. Impossibile, l’acredine nel mio sguardo. La confidenza, nel mio avanzare verso di te.
Mi porgi le redini di César; le afferro, stavolta stando attento a non sfiorare la tua mano.
La mia paura di farti del male nelle tue dita che cerco e sfioro. Cruciale, la durata di un attimo. Di vita, la scintilla che squarcia lo sconforto compatto dei tuoi occhi. Di sollievo, la picconata che abbatte il muro che soffoca il mio cuore.
Porto César nel suo angolo di paglia e premure. Cosa volevi dirmi, Oscar, con quel tuo tocco lieve che sembrava una carezza? Forse che non ce l’hai con me per quello che è successo ieri sera?
Noi due, incisi nel legno. D’emozione, l’onda che mi scuote l’anima. In prima fila, schierate già le lacrime. La mia voce, morbida d’infanzia. Le mie parole, nella tua direzione.
“Ma certo che lo ricordo. E’ successo uno dei primi giorni che sono venuto in questa casa. Misuravamo la nostra altezza”. Come potrei dimenticarlo? Eravamo due bambini bisognosi d’affetto e di carezze. Tu li chiedevi con il piglio dell’orgoglio. Io te li davo nel segreto della tenerezza che già mi invadeva l’anima.
Accigliato, il mio infantile disappunto per quel segno più basso. Già colmo di dolcezza, il tuo sapermi calmare.
“Ci sei rimasta così male che io, per consolarti, ho promesso di cederti le mie razioni di torta perché tu crescessi prima e ti facessi più alta”. Ridiamo al ricordo. Eri già il mio splendido, fiero bocciolo di rosa, ma non potevo contravvenire agli ordini del Generale tuo padre, che ti lasciava crescere nel profumo di un lillà.
Ancora uno scampolo di sorriso. Ancora la voglia di quelle parole. Sempre più corta, la distanza fra me e te.
Ti avvicini a me. I tuoi occhi mi sospingono fermi, decisi, insistenti. Eppure, sono carezzevoli di una dolcezza che mi scioglie in una pozza di paura sollevata, di speranza rinata, di emozione soffocata.
Senza più scampo, il mio incalzarti.
Fingo di non avere la risposta. Invece ricordo benissimo cos’altro ti ho promesso, Oscar. Ma eravamo solo due bambini.
Le tue spalle, contro il muro della mia determinazione.
Mi arrendo. Ma prima mi vendico.
“Ti sei sollevata sulle punte dei piedi….”
Il mio pugno, nella tua burla che allenta l’emozione. Il tuo sorriso, felice di incassarlo.
“…mi hai abbracciato…”  proseguo. Ma devo abbassare la voce perché tu non ti accorga che si sta spezzando. Diventi un’onda nel mio sguardo liquido di nostalgia. Il mio diventa un sussurro che solo noi due possiamo udire.
“….e mi hai fatto promettere che non ti avrei lasciata più.”
Tra fieno e legno, nascosta una promessa. Fra me e te, un legame a candirla d’eterno.
Mi sorridi, finalmente soddisfatta; e poi taci nell’abbraccio del mio sguardo, mentre le mie parole colano dolci nell’oscurità che ci avvolge.
 
Ha il piede d’atleta, mia nonna, quando si tratta di rincorrermi con mestolo e improperi.
Tu ci guardi e non la smetti di ridere. Non posso darti torto: un uomo adulto inseguito attorno al tavolo da un’anziana tiranna. Ma non voglio toglierle questo suo modo di volerti bene. Naturalmente, per come la vede lei è colpa mia se hai lasciato la sicurezza della Guardia Reale. Dunque, merito di essere inseguito come il peggiore dei criminali.
Continui a ridere, ma poi la preghi di smetterla e le chiedi di prepararti i bagagli, che domattina io e te dobbiamo alzarci molto presto.
“E dove mai vuoi andare, bambina mia?”
Mi fermo di botto, colto di sorpresa dalla tua risposta. Il mio cuore perde un colpo. La mia testa ne prende uno.
Ha i riflessi di un’atleta, mia nonna, quando si tratta di colpirmi a tradimento.
 
Nel tuo letto, senza cena.
Nel mio letto, senza pena.
Della tua bocca, il mio ricordo.
Sulle labbra, a sorprendermi un sorriso.
D’emozione, il ritardo che ruba il sonno.
 
Ho lasciato la mia stanza, stamattina, con pensieri tetri e il cuore pesante. Vi faccio ritorno, questa sera, con animo soave e lo stomaco vacante.
Sorrido del sollievo stordito di chi è stato appena graziato: digiunerei un mese intero pur di vederti ridere ancora come hai fatto stasera.
Hai detto che domani dobbiamo alzarci presto, Arras è lontana. Ma io ho bisogno di attardarmi in un bagno caldo in cui sciogliere l’oppressione appiccicosa di questa giornata di tempesta schiarita nel sereno.
La stanza è ancora in penombra e l’occhio mi gioca uno scherzo: vedo una macchia sul letto che poco fa non avevo notato. Sbatto la palpebra più e più volte, ma la chiazza è sempre lì. Mi avvicino. E mi accorgo che non è una svista.
Sei venuta di nascosto a portarmi una fetta di torta, di scorza d’arancia profumata e di complicità intonsa.
Sei entrata nella mia camera per nutrirmi in segreto, come la bimba che ha scritto nel legno di altezza e di fato.
Hai lasciato una rosa bianca, insieme al dolce sul piattino. L’hai presa di nascosto dal vaso di fiori che mia nonna rinnova ogni mattino.
Era pieno di rose variopinte, un fascio stretto stretto. Hai scelto il tuo colore; me lo hai lasciato detto.
 
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Non me ne voglia chi di metrica e poesia ne sa sul serio. André ha sorpreso anche me con questa sua improvvisazione.
In quanto al Generale, stavolta non era mia intenzione dargli spazio. Ma quest’uomo meraviglioso trova sempre il modo di sorprendermi.
   
 
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