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Autore: elerim    05/07/2018    2 recensioni
In malora.
Ecco dove poteva andare.
Non a casa, non « a riflettere », non a schiarirsi le idee.
Direttamente in malora, lei e la sua chioma bruna sparita nella folla di Capodanno con cui non si sarebbe mai mescolato, se non fosse stato per assecondare il suo irragionevole desiderio di « uscire a festeggiare come le altre coppie. »
Si era confusa subito nel resto dei suoi simili, inutile, inadeguata, insignificante piccola umana come tante altre. Non sapeva nemmeno perché aveva perso così tanto tempo con lei.

FANFICTION SCRITTA PER IL CONTEST "SFIDA A CATENA - GARA A COPPIE" INDETTO DAL GRUPPO SU FACEBOOK "TAKAHASHI FANFICTION ITALIA
Fanfiction scritta a quattro mani con LarcheeX
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Rin, Sesshoumaru | Coppie: Rin/Sesshoumaru
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sono talmente orgogliosa di questa collaborazione, che ripropongo il brano anche sul mio account, nonostante sia già stato pubblicato da LarcheeX.
That means che è la stessa identica storia pubblicata un mesetto fa, potete evitare di rileggerla. Ma anche no :)
Ne approfitto ancora per ringraziare la mia fratella Larch, con la quale si lavora in grande sintonia; il POV di Sesshomaru è scritto da lei, quello di Rin da me.
Abbracci a voi lettori, vi lascio ai piccoli/grandi drammi quotidiani di questa coppia che, nonostante appesti il fandom, per vostra (s)fortuna continua ad affascinarci.






The small things
Bacio del buongiorno



Sesshomaru

LarcheeX


In malora.
Ecco dove poteva andare.
Non a casa, non « a riflettere », non a schiarirsi le idee.
Direttamente in malora, lei e la sua chioma bruna sparita nella folla di Capodanno con cui non si sarebbe mai mescolato, se non fosse stato per assecondare il suo irragionevole desiderio di « uscire a festeggiare come le altre coppie. »
Si era confusa subito nel resto dei suoi simili, inutile, inadeguata, insignificante piccola umana come tante altre. Non sapeva nemmeno perché aveva perso così tanto tempo con lei.
Non sapeva nemmeno il perché di quell’irritante inalberarsi, tutto all’improvviso.
Beh, se lo meritava, per essersi invischiato in inette mentalità umane nonostante non gli appartenessero.
Stizzito oltre ogni misura, si voltò verso l’insegna del locale che svettava nella notte con pomposa luminescenza, scrutando poi all’interno, tra le sedie trapuntate di stoffa color vino e i tavolini di legno scuro. Forse era rientrata e non se n’era accorto.
Incontrò lo sguardo della femmina di cane che in precedenza si era seduta vicino a lui, sul bancone, e lei lo salutò con una rapido movimento delle dita dagli artigli più lunghi del normale, indicandogli poi con malizia lo sgabello che aveva abbandonato per inseguire le paturnie di Rin fuori dalla porta.
Si voltò e si avviò nella direzione opposta a quella che aveva preso lei, senza premurarsi di non tagliare la strada alle persone che si erano riversate nelle vie della città dopo lo scoccare della mezzanotte.
Allungò la strada per tornare a casa, evitando di passare vicino alla festiva folla dei due templi sul suo percorso.
Più si avvicinava alla villa di suo padre, più la gente scemava, fino a che non si ritrovò completamente da solo.
Estrasse le chiavi dalla tasca, infilò quella del cancello nella serratura e fece scattare il meccanismo, chiudendoselo poi alle spalle.
Oltrepassò il giardino, e fece la stessa cosa con la porta di casa.
Suo padre si fece trovare sulle scale dell’ingresso, ancora vestito col frac con cui era uscito, ore prima. Gli dedicò un’occhiata sorpresa, accompagnata da un inopportuno: « Già qui? E Rin? »
« Sta’ zitto » sbottò, salendo i gradini senza guardarlo.
Aveva tutta l’intenzione di chiudersi in camera e ignorare ogni forma di vita, almeno fino alla mattina successiva. E quel proposito includeva ovviamente quel ficcanaso di suo padre.
« Ma ti ha confermato per il pranzo di domani? Ci terrei mol- »
« Non viene. »
Con quell’ultima, seccata risposta, si dileguò, girando a sinistra lungo il corridoio buio, il suono dei suoi passi furiosi attutito dal tappeto azzurro.
Si infilò nella propria stanza, serrò la porta con una mandata.
Bene, si disse, un po’ di pace.
Si sdraiò sul letto.
Si rialzò quasi immediatamente.
Non poteva dormire con tutta quella rabbia in corpo, sarebbe stato impossibile.
Fece qualche passo in cerchio, nella speranza di sbollire, ma più camminava più ripensava al fatto che Rin l’avesse piantato davanti a tutti, in quella folla soffocante, per un motivo irrilevante.
Più misurava il pavimento con le sue falcate, più rivedeva il suo viso accartocciato dallo sforzo e dall’orgoglio di non voler piangere di fronte a lui, per quella ragione che anche lei reputava infantile.
Più passava da una parete all’altra, come un animale in gabbia, più rifletteva su quanto fosse stupido quel proposito: non si era mai fatta problemi a piagnucolargli in faccia, perché era ritrosa tutt’a un tratto, perché aveva deciso di riesumare la sua boriosa ostinatezza solo in quel momento?
Non era difficile da immaginare: anche la sua testardaggine aumentava vertiginosamente quando era colpito, vergognoso, o ferito. E, tra le tre, Rin era sicuramente ferita.
Ma da cosa, diamine!
In malora! Non aveva né intenzione né voglia di passare il suo preziosissimo tempo con un’umana esagitata e irrazionale come lei e, se la sua vera natura era quella, poteva andarsene per la sua strada senza aspettarsi di essere rincorsa.
Ma senza un’umana a scandirlo, il suo tempo non era più così prezioso. Non avrebbe più dovuto preoccuparsi della sua vita corta e di godersi i momenti passati in sua presenza.
Meglio così, meno angoscia, meno cruccio, meno frustrazione.
Stronfiò e, finalmente calmo, si risedette sul letto.
« Dove vai? »
Un’insonnolita Rin era apparsa sulla soglia della porta della sua camera, da cui era appena uscito. Aveva i capelli scompigliati dal cuscino e gli occhi pesti, le sopracciglia contratte per la luce che si infilava con troppa forza tra le palpebre. Indossava una vecchia felpa larga e logora, ma sapeva che sotto non fosse vestita, sentiva ancora l’odore del sesso che avevano consumato la notte prima tra le sue gambe intenso e persistente.
« A casa. »
La sua espressione fu turbata da un fremito di preoccupazione: « È successo qualcosa? »
« Non lo so. Inuyasha ha detto che nostro padre non sta bene. »
Si chinò per prendere la scarpa che non trovava, scivolata sotto il divano del soggiorno mentre si spogliavano, la sera prima. Se la infilò di fretta e annodò i lacci.
Rin sparì di nuovo dentro la propria camera. Avrebbe preferito che non si svegliasse, non voleva disturbarla. Almeno si sarebbe potuta riaddormentare in fretta.
Prima che trovasse le chiavi, lei riapparve: si era rapidamente preparata, vestendo biancheria pulita, un paio di jeans e una felpa meglio assortita della precedente. Trotterellò fino all’ingresso, e si sedette per mettersi le scarpe.
« Che stai facendo? » le chiese, fermandosi a guardarla.
« Vengo con te, mi pare ovvio. »
« Perché è ovvio? »
Pronta, Rin si alzò e lo raggiunse, camminando adagio per non rovinare il pavimento, fino a che il suo viso non fu a pochi centimetri dal suo naso: « Perché sei cocciuto e ti tieni tutto dentro. E perché puoi contare sempre su di me. »
Si alzò sulle punte per sfiorare le sue labbra, poi si allontanò di nuovo per prendere la giacca. Sollevandola, trovò le sue chiavi, e gliele lanciò con un sorriso complice.
Le prese al volo.
« Si sentirà l’odore » le comunicò, alludendo all’accoppiamento.
« Ben venga! » ridacchiò lei in risposta: « Così sei costretto ad ammettere che mi ami anche senza parlare! »
Roteò gli occhi senza darle corda.
Uscirono dal suo piccolo appartamento, e lei gli prese la mano.
« Vedrai, andrà tutto bene. »
Angoscia, cruccio e frustrazione.
Rin gliene procurava in abbondanza.
Ma forse ne valeva la pena.
Perché lei non era né inutile, né inadeguata, né insignificante. Non era un’umana come gli altri.
Era indispensabile.
Si alzò, uscì dalla camera e percorse le scale di fretta.
Suo padre era ancora nell’ingresso, a leggere seduto su di una poltrona accanto a una delle lampade a muro. Lo guardò, divertito: « Esci di nuovo? Vai da Rin? »
« Non sono affari tuoi. »
« Potresti ricordarle del pranzo di domani? Sai che ci teng- »
« Sta’ zitto. »
Era quasi l’alba.
Percorse la strada fino al locale dove l’aveva lasciata andare via. Nel frattempo che rielaborava i propri sentimenti le serrande di quasi tutti i bar erano state abbassate o chiuse, e la maggior parte della ressa si era dissipata, rendendogli molto più semplice coprire la distanza che lo separava da lei.
La traccia del suo odore, corrotto appena dall’alcol e dal sudore di un’intensa rabbia, era ancora lì ad aspettarlo, sebbene fosse ormai poco chiara, mista a tutte le altre scie di coloro che avevano impestato la strada. Attento a non perderne il filo, la seguì senza fretta per non farsi confondere da sentori simili, proseguì lungo il viale, per poi girare a destra e a sinistra.
Esaurì i propri indizi di fronte a una fermata dell’autobus.
Doveva averne preso uno.
Alzò lo sguardo sul tabellone: a quell’ora tarda passava solo quello notturno, ed era probabile che l’avesse utilizzato per tornare a casa. Non sarebbe stato saggio vagabondare al buio.
Senza rifletterci ancora, corse lungo l’asfalto nero, fino al suo portone.
Fece per premere il pulsante accanto al suo cognome sul citofono, ma si rese conto che non fosse dentro: la sua traccia riprendeva all’esterno, doveva essere salita e poi uscita di nuovo.
Di nuovo, rincorse il suo odore fino al parco del suo quartiere.
Che diavolo stava pensando, di stare da sola, la notte, in un parco?
Dopo quella lunga corsa, finalmente, la raggiunse.
Si era raggomitolata su di una panchina, con la testa sulle ginocchia e i piedi sulla seduta. Aveva smesso il piccolo completo di camicetta e gonna che aveva prima in favore di una più pratica tuta da ginnastica, ma la sua chioma ancora odorava di lacca per capelli.
Non reagì al suo apparire, rimase immobile.
A disagio, si sedette vicino a lei.
Alzò un sopracciglio.
Stava dormendo.
Su una panchina.
In un parco.
Di notte.
Indispensabile, ma decisamente stupida.
In quel sonno scomposto, Rin si spostò, appoggiandosi allo schienale con un gomito.
Aveva il bordo delle ciglia ancora unto dalle lacrime.
Trattenendo un sospiro esasperato, allungò una mano sul rigonfiamento dei suoi pantaloni per recuperare le chiavi del suo appartamento, poi la prese in braccio.
La sentì agitarsi, provare a liberarsi e poi calmarsi quando lo riconobbe.
« Cosa vuoi » mugugnò, assonnata.
« Ti porto a casa. »
« Non mi va. »
La lasciò, e lei si andò di nuovo a sedere.
« Perché non sei a casa? » le domandò, dopo essersi di nuovo accomodato al suo fianco.
« Perché mi davano fastidio le foto. »
« Lei hai fatte tu. »
« Le ho fatte perché così non puoi negare che stiamo insieme. »
Inarcò un sopracciglio: « Non l’ho mai negato. »
« Ma non l’hai nemmeno mai affermato. Mai un bacio del buongiorno, o della buonanotte, o- qualsiasi cosa, accidenti! Se non fosse per le foto, non crederei nemmeno che stiamo insieme. »
« Non c’è bisogno di affermarlo. »
Rin sbuffò, e non continuò a parlare.
Era piuttosto irritata, e gli tornò in mente il ricordo che l’aveva spinto fuori dal letto, fuori di casa.
Si alzò, le porse la mano.
« Cosa vuoi? » gli domandò, brusca.
« La tua mano. »
« Per fare cosa? »
« Se non ti va me ne vado, allora. »
Fece per allontanarsi, ma Rin, umana e curiosa come suo solito nonostante l’inutile arrabbiatura, si alzò e accettò la cortesia. Come faceva a conoscerla così bene, se non stavano insieme, era quello che avrebbe voluto chiederle, ma si trattenne per evitare di alimentare il suo stato d’animo.
Cosa che, di nuovo, testimoniava quanto la conoscesse.
Ma anche su quello non si espresse.
Non appena riuscì a stringere le sue dita, si chinò per prenderla in braccio, e quella volta gli fu concesso.
Si alzò in volo, scatenando un suo gridolino sorpreso che gli trapassò i timpani.
« Stiamo andando in alto! » esclamò lei.
Volò fino alla cima del palazzo del suo appartamento, e si fermò sul tetto, tra le antenne.
« Potevamo prendere le scale » si lamentò Rin.
« Ti saresti stufata a metà e ti saresti fatta portare in braccio comunque. »
Il suo scontento si infranse per colpa di una piccola risata: « Accidentaccio. Mi conosci proprio bene, eh? »
« Non è questo, “stare insieme” ? »
Gli puntò un dito sulla spalla, picchiettando con puntiglio: « Sì, certo, ma non è che tu ti sprechi per ricordarmelo! »
Non rispose.
Si voltò verso l’orizzonte, seguito da lei.
La luce stava aumentando.
E il sole sorse.
Si chinò su di lei e la baciò. Era restia, ma dopo una lieve pressione la sua resistenza si sciolse, e si abbandonò alla sua cura, con le braccia sul suo petto.
Dopo un momento dall’indefinita lunghezza, si staccò.
« Buongiorno. »
Lei non rispose, ma gli sorrise.
Quando il sole si fu staccato dall’orizzonte, si chinò per prendere di nuovo Rin in braccio. Oppose una debole resistenza, prodotto dell’imbarazzo o degli strascichi della formalità dell’arrabbiatura, ma si arrese dopo aver constatato una presa molto più ferma della precedente.
« Avanti, non serve che mi porti per le scale… » provò a protestare: « Tutti sanno scendere. »
« Devi risparmiare le forze » l’ammonì.
La pelle di lei fu percorsa da un brivido, veloce come un colpo di frusta e caldo come la pelle infiammata dopo di esso, che si estinse nel rapido rossore delle sue guance quando il cervello riuscì a interpretare la reazione del corpo al suo tono solo in parte minaccioso.
Era diventata piuttosto brava ad afferrare i sottintesi del suo tono piatto, glielo doveva concedere.
La scintilla di eccitazione e sorpresa che lei aveva prodotto si ripercosse sul suo desiderio, che si accese con vigore nell’annusare la mutazione del suo odore: il sudore della rabbia che aveva unto le sue mani e il sale dell’intenso pianto furono sostituiti da curiosità, dallo sbalzo di qualche ricordo passionale, dall’aspettativa.
Due pietre focaie, si ritrovò a pensare, scendendo le scale.
La lasciò scendere solo per permetterle di aprire la porta.
Le sue dita magre appena sporche del trucco che aveva evidentemente strofinato via dal viso raggiunsero la tasca dei pantaloni e si strinsero attorno alle chiavi con quella che gli parve un’allarmante flemma, ma rimase immobile, in attesa, anche quando, con lo stesso esasperante ritmo, le infilò nella toppa metallica e le fece scattare.
Lo stava facendo apposta? Stava cercando di prendere tempo per capire cosa volesse fare?
Mentre la porta veniva chiusa alle loro spalle, fissando la sua nuca scompigliata, gli ritornò in mente lo stato di attonita irritazione con cui l’aveva lasciata andare, ore prima, e a come quella stessa nuca si fosse allontanata sempre di più, fino a sparire tra la folla.
Non sarebbe successo di nuovo.
La fece voltare serrando le mani sui suoi fianchi, lo sguardo fisso sulle sue guance ancora sanguigne, e l’accompagnò in avanti, fino a che il retro del suo ginocchio non si piegò, molle, al contatto col divano.
« As-aspetta! » la sentì mugolare nel tentativo di sfuggire alla presa dei suoi denti: « Le scarpe! La padrona di casa mi uccide se rovino il pavimento! »
Con sua sorpresa, riuscì a divincolarsi, attraversando il piccolo soggiorno e sedendosi sul gradino d’entrata per sciogliere i lacci delle scarpe da ginnastica.
Ancora una volta, si ritrovò a fissare la sua nuca con disappunto. I capelli cadevano in avanti mentre si chinava e scoprivano il suo collo innocente.
Ancora per poco.
Immobile, quasi offeso per essere stato relegato a un livello di priorità inferiore alle componenti del pavimento, la osservò con concupiscente insistenza fino a che non ebbe finito. Poi lei si alzò, e gli dedicò un’occhiata sfuggente, ma dalla riconoscibilissima sfumatura di compiacimento.
Aveva interpretato bene i suoi pensieri.
E godeva nel dilatare quel momento in cui sapeva di essere l’unico punto focale del suo sguardo, il traguardo dopo una lunga corsa, la detentrice del controllo.
Di nuovo, ancora per poco.
Non si mosse, ben conscia del fatto che se fosse tornata sul divano non avrebbe avuto scampo, e rimase ferma nell’ingresso, a tendere il filo di due arrabbiature passate ma non risolte: « Dovresti toglierle anche tu, sai? »
La fissò con sospetto, e lei ricambiò con un sorrisetto.
Distolse lo sguardo per dedicarsi ai lacci delle proprie scarpe, riportando l’attenzione su di lei solo quando ebbe finito: con un rapido fruscio, aveva fatto scivolare via dal proprio corpo gli abiti semplici che si era buttata addosso nella fretta, mostrandosi senza pudore, fasciata da biancheria intrecciata e finemente decorata, trasparente di tulle.
« Le avevo messe per te » confessò, compiendo una piccola giravolta.
« Sai che non presto particolare attenzione all’involucro. »
« Proprio per questo ne ho scelto uno trasparente. »
Sbuffò appena, divertito.
Non appena accennò ad alzarsi, Rin corse verso la propria camera.
Quella volta non la fece aspettare nemmeno un attimo.
La catturò prim’ancora che varcasse la soglia, spostò seccamente il pannello che li separava dal letto e ce la lanciò sopra. Non le lasciò il tempo di reagire se non con una soffice risatina che scivolò sopra il suo corpo già quasi nudo, già quasi pronto, illuminato a tratti dal sole del mattino che s’insinuava tra le imposte semichiuse della finestra.
« Baciami » si sentì ordinare. Quella era una richiesta che non aveva mai avuto problemi a esaudire: si avvinghiò alla sua bocca, strinse forte le sue labbra con i denti, ingoiò i suoi lamenti sull’orlo tra piacere e dolore.
Mentre la cullava tra quelle attenzioni, sentì il suo odore vacillare: l’eccitazione montante fu incrinata da un principio di stanchezza e dalla notte passata senza dormire, e fu per quella nota stonata nell’armonia dei suoi ansiti gradualmente più rumorosi che si staccò. Seguì la scia che il sole tracciava sulla sua pelle e corse con la lingua fino al bacino, fino alla biancheria che aveva selezionato con tanta cura. Sollevò i suoi fianchi per sfilargliela di dosso, già spronato dall’odore che lo invitava in mezzo alle sue gambe, ma non riuscì nemmeno a baciarla che, sollevando lo sguardo, si accorse che la tensione del suo collo preventivamente inarcato si era sciolta sul cuscino.
Si era addormentata.
Sconfitto, sospirò.
Si alzò per aprire un cassetto, rovistare al suo interno, recuperare una camicia da notte.
Si sedette al bordo del letto, dove Rin giaceva placida e spossata, con le ciglia chiuse. Delicatamente, infilò la testa nel buco apposito, facendo di conseguenza scivolare le mani e le braccia dentro le maniche, srotolando la stoffa lungo il suo corpo minuto.
Mentre compiva quell’operazione, il suo sguardo cadde su una delle foto che teneva sul comodino accanto al letto, uno dei tanti momenti che lei aveva deciso di rubare al tempo per ricordargli del legame che li aveva portati dietro lo stesso obiettivo.
Non era mai stato interessato a quel proposito, e il suo disinteresse traspariva pure dalla versione di se stesso incastrata nella cornice che, forse senza nemmeno farlo apposta, guardava lei.
E non avrebbe avuto altro da quelle foto, quando non avrebbe più potuto guardarla.
Sbuffò, stizzito dalla propria malinconia inopportuna.
Ci sarebbero stati tante altre albe prima di quel momento.
E tanti altri “buongiorno”.

Rin
elerim


Il tremito alle mani le rendeva difficoltosi i movimenti di precisione, come infilare le chiavi nella toppa, slacciare il cinghietto delle scarpe col tacco che aveva deciso di indossare, liberare la doppia fila di bottoni dalle loro strette asole.
Abbandonò borsetta, sciarpa e la lunga collana sulla prima sedia disponibile e il cappotto che vi buttò malamente sopra fece rovinare tutto a terra. Ma perché curarsene. Gli oggetti decorano un'esistenza piena, nel vuoto galleggiano inutili.
Il vuoto, il niente. La rabbia era scemata, inghiottita dall'indifferenza dell'intero cosmo. Le persone che aveva urtato percorrendo controcorrente il fiume di gente in festa, avevano ignorato lei e le sue scuse balbettate. Lei, la sua testa bassa, le sue mani strette al bavero, la sua voce strozzata, erano risultate trasparenti.
Scomode.
L'essenza del divertimento è l'oblio, così la sofferenza altrui viene attraversata, come fosse uno spettro; lascia un brivido di freddo e sfuma via.
L'autista dell'autobus notturno su cui era salita invece non era indifferente, era visibilmente scocciato. Chi sale sull'autobus la notte di Capodanno è perché si estrania dal luccicore o ne viene escluso. È un autobus di derelitti, persi nelle loro solitudini, che si sentono liberi – più che in altre situazioni – di manifestare il proprio stato d'animo. Vincere il turno serale a Capodanno è deprimente. L'autista l'aveva squadrata velocemente e aveva girato la testa verso la strada, emettendo uno schiocco di insofferenza con la lingua. 'L'ennesimo rottame, che noia', era sembrato dire.
Rannicchiata sul sedile, avrebbe voluto piangere ma non c’era riuscita, perché il suo dolore avrebbe solo generato altro fastidio.
Non aveva pianto nemmeno davanti a lui, poiché la rabbia aveva soffocato ogni altra emozione. A ben vedere, era stata la sua maschera di indifferenza la peggiore da sopportare. Mille volte peggio delle occhiate sprezzanti con cui soleva svalutare i suoi problemi e archiviare le sue richieste, con la superbia di chi li classifica tutti in 'capricci'. Sesshomaru reagiva sempre così: qualsiasi evento potenzialmente destabilizzante veniva prima di tutto respinto, lo aveva capito. Sapeva anche che l'evento veniva poi ripreso, soprattutto se coinvolgeva lei, e che sapeva anche ritornare sui suoi passi, ma il peso del suo primo giudizio restava difficile da accettare. Eppure l'aveva fatto, sempre, era riuscita a concedergli i suoi lunghi tempi e i suoi ampi spazi.
Il volto di pietra di quella sera, tuttavia, quell'assenza totale di emozioni – immobili gli occhi, le spalle, le mani – quel restare immutato davanti alla sua disperazione, non era disposta ad accettarli, tantomeno a dimenticarli.
Il vaso si era colmato quando quella si era sporta sinuosa verso di lui, arcuando la schiena e srotolando la coda che teneva avvolta in grembo, e lui era restato lì a guardarla immobile, senza fare nulla. Non se n'era andato, non l'aveva dissuasa, non lo aveva sfiorato il pensiero che lei fosse sola al tavolo, a rodersi il fegato.
Nemmeno lo aveva guardato, quando gli era passata accanto infilando la porta, con il cappotto malamente buttato sulle spalle, ma con la coda dell'occhio aveva registrato che la femmina di cane (così le chiamava e, in quel frangente, le era sembrato fin un complimento) perlomeno fosse ancora sul suo sgabello e non spalmata sul di lui.
Sesshomaru l'aveva raggiunta dopo pochi secondi, come prevedibile. E altrettanto prevedibile era stato il « Che ti prende? » con il quale le si era parato davanti.
Cosa le era preso!? C'era solo l'imbarazzo della scelta! Era stato più fastidioso e umiliante che il mutismo del viaggio d'andata avesse palesato la sua insofferenza verso quell'uscita, o che avesse optato per il tavolo più buio e isolato nonostante fosse troppo grande, o che la sua proposta 'Se vuoi puoi sederti qui', (vicino, invece che così distante, dall'altra parte del tavolo) fosse caduta nel vuoto? Che si fosse alzato con irritazione perché per whiskey e distillati bisognava chiedere al bancone e non fosse più tornato? Che quando si era sporta dalla sua postazione per individuarlo l'avesse scoperto tranquillamente seduto a sorseggiare qualcosa di così sublime da essere evidentemente indegno della sue presenza? Che quando si era sporta la seconda volta avesse visto, come da manuale, la statuaria e tutto-men-che-vestita demone di turno a ronzargli intorno? (Mano sul fianco, si era e appoggiata allo sgabello di fronte al suo alzando la coda ed esponendo il collo, già infoiata).
Oh, gliele avrebbe sbattute in faccia una per una le sue ragioni. Se non fosse che nel tono della domanda di Sesshomaru era già sottintesa la risposta e questa era una delle ragioni per cui ogni discussione con lui le era sempre sembrata persa in partenza. Era come se avesse detto « Quale sciocchezza ti frulla ora nella testa? » e, schiacciate dal pregiudizio, le sue ragioni si erano ridotte a capricci anche nella sua, di testa.
Non erano parsi più così rilevanti, i motivi del suo malessere, non erano gravi le azioni da lui compiute, non avrebbe potuto accusarlo di nulla, se non di non riuscire a capire, non provare a mettersi nei suoi panni... ma era poi una colpa? Con che diritto avrebbe potuto imporgli di cambiare, quanto sforzo di comprensione avrebbe potuto chiedere a un demone vissuto oltre mezzo secolo, che mai si era curato del genere umano?
Quando lui la guardava così si sentiva stupida, e ancor più stupido le sembrava poter pretendere qualcosa.
« Sesshomaru » le era uscito con voce tremante, e si era sforzata di mantenere un contegno, « io vo...volevo solo una serata normale, una serata insieme come fanno tutte le altre coppie a Capodanno… »
Aveva notato la sua espressione indurirsi all'accenno agli 'altri', sapeva bene quanto lo infastidisse il confronto con le relazioni fra umani.
« Lo so che per te questa serata è stata già un grande sforzo… »
« Appunto, lo sai » aveva rimarcato.
« Diamine Sesshomaru! » aveva alzato la voce in mezzo a una folla umana – la sua bocca era divenuta un segmento rigido – ma solo perché...
« Io ti amo, più di ogni altra cosa, ma non ce la faccio, Sesshomaru, non ce la faccio! »
Aveva tenuto il cuore in mano, aveva rimesso a lui tutta la sua sofferenza e la sua impotenza, tutto il suo essere piccola, umana, fragile e terribilmente innamorata.
E nulla.
Il nulla, il gelo di un angelo di pietra. Il suo cuore sofferente si era fatto di cristallo e si era frantumato al suolo, lui l'aveva lasciato cadere.
Era passato del tempo, probabilmente, perché quando si era riscossa aveva sentito le articolazioni irrigidite dal freddo. Per il resto, non aveva sentito nulla nemmeno lei.
Aveva buttato fuori tutto e dentro non le era rimasto niente.
Gli aveva dato le spalle.
« Dove vai? » aveva sibilato.
« A casa. A riflettere. »
Era riuscita a sfilarsi le calze senza romperle, evviva, mille punti a Rin.
Armeggiò con la cerniera e si impose di non pensare, non pensare a chi l'avrebbe dovuta aiutare. Artigli che scostano i capelli, un grugnito sordo di finto fastidio. Non pensarci.
In bagno disfò l'elaborata acconciatura – elaborata per i suoi standard, lui non vi aveva fatto cenno – badando di intercettare il meno possibile il proprio sguardo allo specchio. Certe cose di sé stessi è meglio vederle di sfuggita.
Entrando in camera accese la luce e sette paia di occhi la inchiodarono sulla soglia, togliendole il respiro.
Era lei, erano i suoi occhi a guardarla dalle foto appese alla parete.
Le percorse con lo sguardo una per una e mentre lo faceva sentì qualcosa di ingestibile montarle da dentro, spaventoso e ruggente come il rombo sordo del terremoto che si avvicina. Un maremoto, un'inondazione, in realtà; lacrime e singhiozzi scavalcarono gli argini e la costrinsero a inginocchiarsi al suolo, mentre un muscolo caldo, pulsante, dava battaglia nel suo petto per prendere il controllo. Un cuore raggelato può essere desolante, ma un cuore che si risveglia fa male, tanto male.
Si riscoprì viva, rassegnata a una differenza che continuava a vedere insormontabile ma nonostante ciò disperatamente innamorata. E lui... lui era magnifico, in tutti gli scatti, una superiorità tanto avvilente quanto ammirevole. E, in tutte le foto, guardava lei.
Si buttò addosso il primo insignificante abbinamento di felpa e pantaloni, afferrò le chiavi e si fiondò fuori di casa.
Aria, aveva bisogno di respirare. Aveva bisogno di lasciarsi alle spalle quelle immagini e di piangere tutte le lacrime all'idea che tutto quello che significavano fosse ormai parte del passato. Camminava oppressa dall'angoscia, restia a ingoiare la realtà. Non voleva arrendersi ad accettare che amarsi non fosse sufficiente per essere felici insieme e che l’inizio miracoloso di una relazione non implicava che dovesse funzionare.
Senza davvero volerlo era giunta al parco, si raggomitolò su una panchina e con le braccia serrò forte le gambe al petto.
Sentì lentamente svanire le forze, la lucidità, la determinazione.
Forse aveva sbagliato tutto.


Il suono della sveglia del cellulare la riportò alla coscienza dal sonno profondo, un'esperienza sempre sgradevole.
Assai più convincente come incentivo ad alzarsi fu l'odore del caffè che le giunse alle narici. Sorrise e si stiracchiò, scalciando via le coperte. I muscoli indolenziti diedero il via al fluire dei ricordi; era stata una notte terribile e a dire il vero fra loro non si era risolto nulla, ma lui ora era lì e le aveva preparato il caffè: quale miglior auspicio per un inizio di giornata?
Il secondo inizio di giornata, a ben vedere. Il primo era stato indimenticabile e per tutto il tempo in cui erano stati su quel tetto, i problemi, le discussioni, le differenze le erano sembrate irrisorie e lontane. Si fiondò giù dal letto, carica di energia, nonostante le poche ore di sonno.
Entrò in cucina e lo trovò intento a sfogliare una rivista – simulava, sicuro. Il caffè fumante era già nella sua tazza preferita.
Gli si sedette in grembo, costringendolo ad abbandonare – con uno sbuffo poco convincente – la lettura.
« Buongiorno »
« Meglio tardi che mai » rispose, guardandola negli occhi.
Lei rise: « Perché dici così? »
« Io te l'ho augurato più di cinque ore fa. »
« Sì. Me lo ricordo » si sentì arrossire. Mai si sarebbe sognata un 'buongiorno' così carico di significati.
Si appoggiò con la spalla al suo petto e finì di sorseggiare il suo caffè.
« Per quanto riguarda ieri sera... » iniziò.
« Mio padre ci aspetta per pranzo » tagliò corto lui.
Sorrise: « So che non ne vuoi parlare e che pensi sia inutile farlo, ma vorrei che mi ascoltassi. Per favore. »
Non disse niente ma lo sentì rilassarsi nuovamente sullo schienale e lo interpretò come un segnale di via. Certo che era diventata davvero brava a decifrarlo, avrebbe potuto scriverci un trattato, 'How to train your Yokai'.
« Probabilmente ho sbagliato fin dall'inizio. Non immaginavo che la serata ti sarebbe costata così tanto sforzo. »
« Il problema non è lo sforzo, bensì il non vederci uno scopo. »
« Il problema non è vedere lo scopo, bensì vedere l'occasione. »
« L'occasione di cosa? »
« Per me era un'occasione per stare insieme in maniera diversa, non io e te da soli come al solito. »
« Ti stai seriamente lamentando di come trascorriamo il tempo da soli? »
« Ma smettila! Lo sai che non mi riferisco a quello! » alzò la testa e gli lasciò un piccolo bacio sul mento. « A proposito, mi sa che questa notte ti ho lasciato in bianco. Mi sono addormentata, vero? »
« Sul più bello. »
In senso letterale, pensò.
Oh no, l'aveva detto ad alta voce! Nascose il volto sul suo petto.
« Sei proprio sciocca, ogni tanto »
« Sì Sesshomaru, sono una sciocca. Una sciocca tanto innamorata. »
Le accarezzò piano la nuca e le scostò i capelli dal viso: « Perché te ne sei andata ieri? »
« Perché mi hai lasciata sola. »
« Sono andato solo a bere un whiskey »
« Non potevi berlo al tavolo con me? »
« So che l'odore di quei whiskey ti dà fastidio. »
« Oh... capisco. »
Dolce e amaro, le si presentò in bocca il gusto di quell'ennesima incomprensione. Aveva dimostrato premura, ma era inutile verso un'umana. Cercò di spiegarsi senza offenderlo: « Sei stato gentile, ma non ti devi preoccupare, se il bicchiere è lontano anche solo così » fece segno con le mani: « io non sento l'odore. »
Sbirciò verso di lui e la fronte corrugata gli segnalò che stava comprendendo la portata del malinteso.
Si appoggiò nuovamente al suo petto con la spalla e lui le circondò la vita con la coda.
« Non avevo capito » continuò « pensavo di essere io la causa del tuo allontanamento. » La coda le si posò sulle gambe nude e lei vi appoggiò le mani, con delicatezza.
« Poi quando ho visto quella che ti ronzava intorno... »
Lo sentì irrigidirsi nuovamente.
« Rin, ne abbiamo già parlato. »
« Lo so Sesshomaru, io mi fido di te, » gli pose una mano sul petto per ammansirlo: « Solo che mi dà fastidio, tanto fastidio, che in qualsiasi occasione ci sia qualcuna che ci prova con te. Vengono da te arricciando le loro code, con tutta la mercanzia in mostra, e fanno come se io non ci fossi. »
« Sono demoni. »
« Sì, sono insignificante per loro, lo so. » Con la coda dell'occhio vide che gli scostava nuovamente una ciocca dal viso: « Tuttavia il problema è che anche volendo, Sesshomaru, non è facile capire che stiamo insieme... » aggiunse a bassa voce. Anche quello era un leitmotiv della loro storia, difatti lo sentì sbuffare.
« Dimmi cosa dovrei fare, Rin. Baciarti per mezzo minuto appena varchiamo la soglia di un locale? O tenerti la mano sul fianco per tutta la sera, come fanno alcuni? »
« Potrei avvinghiarmi alla tua coda, come ho visto fare da Jaken! » tentò di sdrammatizzare e guadagnò uno sguardo inorridito che la fece ridere. « Non lo so Sesshomaru, non so neanche io. Forse basterebbe una mano sul fianco ogni tanto, o un abbraccio, o un bacio di saluto... non so nemmeno io come spiegarti. Piccoli gesti che facciano capire che fra noi c'è qualcosa di speciale. »
Lo sentì sospirare. Le fece quasi tenerezza, nel suo sforzarsi di capire una questione di cui di certo comprendeva il fine, ma non aveva padronanza dei mezzi.
« Per i demoni come funziona? Basta l'odore? » chiese per deviare il discorso.
« Sì » tagliò corto lui.
« E su di me non sentono il tuo odore? »
« Sì, lo sentono. »
Lei lo guardò interrogativa.
« Non è rilevante. Per loro. »
Ah. « Non è rilevante che sia su un'umana, insomma? »
« Già. »
Riflettè per un attimo e poi sentenziò: « Stronze. »
Si portò indietro con la schiena e gli circondò il petto con le braccia – ci arrivava appena. Mantenne lo sguardo ben nascosto dalla frangia ma sentì i suoi occhi scrutarla, cercare un varco. Con sorpresa le circondò la schiena e lei si abbandonò al suo abbraccio di unghie affilate e morbida pelliccia.
Rimase silenzioso a lungo e lei, ancora una volta, gli regalò il suo prezioso e fugace tempo umano.
« Devi prepararti », disse infine.
« Mmhhh » si scostò controvoglia, si era quasi assopita. « Faccio in fretta, promesso. »
« Ci vediamo là. »
« Oh... » non la aspettava? Non sarebbero arrivati insieme? Di nuovo quella delusione strisciante.
« Devo cambiarmi, Rin » fu un tono quasi dolce, quasi colpevole: « Sono venuto a piedi. »
A piedi? Spalancò occhi e bocca. Ma lui abitava lontanissimo, doveva aver proprio fretta per non voler perder nemmeno il tempo di tirar fuori l'auto dalla rimessa... Oh. Fretta di giungere da lei.
Arrossì e le venne voglia di abbracciarlo di nuovo, ma si sentì sospigere in piedi delicatamente e si convinse ad alzarsi.
Si stirò, sbadigliò e cominciò a sfilarsi la camicia da notte.
« Sono stanchissima... » mugugnò.
« Pensa come sarai domani » si sentì rispondere con un'inflessione sospetta.
Con l'indumento ancora incastrato sulle spalle, sbirciò fra le braccia e gli scoprì in volto quell'espressione che adorava e la faceva avvampare dalla punta delle dita al più lungo dei capelli, e la faceva sentire come se fosse l'unica al mondo.
« Che intenzioni hai? » chiese con finta preoccupazione, poiché non aveva il minimo dubbio: « Sono una povera umana, non ho mica tanta resistenza! »
« Oh sì, che ne hai! » abbozzò un sorriso.
« Cagnaccio. » Si sfilò completamente la camicia e gliela tirò addosso.
« Sparisci » le intimò, e lei si affrettò a fuggire con un gridolino. Altrimenti, poco ma sicuro, l'avrebbe divorata.


Scese dall'auto sbattendo con eccessiva enfasi la portiera, a dimostrazione che pranzi e cene in quella villa secolare continuavano a generare in lei un contenuto disagio. Abbassò al minimo la suoneria del cellulare e ne approfittò per controllare l'ora un'ultima volta: non era in ritardo, ma naturalmente era l'ultima, come testimoniava l'appariscente auto sportiva di Inuyasha parcheggiata poco oltre la sua.
La domestica la accolse con il sorriso, solitamente radioso, velato da un'ombra di tristezza e questo la costrinse a riportare alla mente il vero motivo di quella riunione famigliare. Inu No Taisho, il Grande Generale degli InuYokai, protagonista della storia del Giappone e poi dell'intero continente asiatico per oltre sette secoli, era in procinto di partire, per un viaggio dal quale non sarebbe tornato. Nulla nel suo portamento fiero e nel suo aspetto ancora giovanile lasciava intendere che la sua esistenza volgesse alla fine, ma la stessa Rin, nell'ultimo periodo, l'aveva sorpreso talvolta affaticato e sovente assente.
E quando, poche settimane prima, Sesshomaru le aveva annunciato la decisione di suo padre, non era riuscita a trattenere le lacrime.
« Ma perché non può restare qui! Ce ne prenderemmo cura, lo aiuteremmo! »
« Siamo Demoni Cani, non moriamo accuditi » aveva risposto.
« E come morite? » aveva singhiozzato, appoggiando la fronte al suo petto.
« In battaglia. O lontani dal branco. »
« Soli, dunque » aveva sussurrato abbracciandolo e perdendosi nella sua imponenza.
Si era ripromessa di non fare scene pietose, ricacciò indietro pensieri e ricordi e sfoderò il suo miglior sorriso, varcando la soglia della sala da pranzo.
Si levò un duetto sincrono di saluti e Rin riconobbe la voce di Kagome – che le venne incontro per salutarla – e quella del Gran Generale, con un'espressione serena e benevola sul volto, che raramente gli aveva visto indossare. InuYasha bofonchiò un 'ciao' mentre presidiava – saccheggiava senza pudore – il tavolino degli aperitivi.
Esplorò velocemente la stanza con la coda dell'occhio, ma di Sesshomaru non v'era traccia.
Non fece in tempo a formulare una domanda, che una voce la sorprese alle spalle.
« Ciao. »
Si voltò e gli sorrise, d'istinto fece per avvicinarsi e poi, come al solito, impose un freno al proprio slancio e si limitò a posargli una mano sull'avambraccio.
Fu lui a sorprenderla, tuttavia, poiché proseguì il suo movimento e le si accostò. Vicino. Vicinissimo.
Rimase letteralmente senza fiato quando si chinò e la baciò.
Appoggiò appena le labbra sulle sue, poi si ritrasse con – finta, fintissima, ma perfettamente simulata – naturalezza, le cinse la vita con il braccio e la sospinse verso il tavolo.
Avvampò, rabbrividì, boccheggiò. E quando alzò lo sguardo incrociò quello del padrone di casa e ci lesse una tale felicità e soddisfazione che lei stessa si concesse di aprire il volto alla gioia più genuina.
« Vogliamo pranzare? » chiese Sesshomaru, rompendo il silenzio.
« Volentieri, quando Rin la pianterà di appestare l'aria con la sua felicità! » gli rispose Inuyasha.
Si sollevò lo stesso duetto di poco prima, al grido « InuYasha! » e Kagome attaccò il suo solito « Ma come puoi essere così » e bla e bla e bla, ma lei non stava mica a sentire. Cercò la mano di Sesshomaru e intrecciò le dita alle sue.
Non l'avrebbe mai lasciato solo.






   
 
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