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Autore: yonoi    06/07/2018    5 recensioni
Nel braccio della morte, denominato il quartiere delle nebbie, un detenuto è in attesa della sua ultima ora. Nella sua solitudine, e mentre il suo tempo si fa più breve, potrà contare su un'unica vera amicizia.
Seconda classificata pari merito al contest "Raggio di Luna" indetto da Mystery Koopa sul Forum di EFP
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Da bambini siamo stati spinti nel buio
e poi siamo tornati,
ridendo o tremando, nella luce.
Morire è essere spinti nel buio
e non tornare più”
(F. Caramagna)

           Separarsi è un sì dolce dolore


1. Il quartiere delle nebbie


            Stretti, perché per quant’era piccola quella cella in due erano già troppi, senza nessuna cura ma anche senza rancore, soltanto con la fretta di chi è costretto a compiere un lavoro sgradevole e in grado di suscitare persino una certa repulsione, erano indaffarati a sgombrare gli oggetti di chi aveva occupato la cella sino ad allora: il più massiccio e incallito tra i due agenti, un certo Ramirez, li scaraventava dentro a un grosso sacco di plastica ad uso spazzatura, che l’altro teneva aperto e pronto ad ingoiare libri e ritagli di giornale, fotografie strappate con un unico colpo deciso dalla parete, dove lunghe strisce adesive le tenevano incollate alle rughe del muro.
            Per la foga che Ramirez metteva nel suo lavoro, saltavano insieme al nastro anche scaglie d’intonaco, mentre gli oggetti più disparati, tra cui una saponetta e un asciugamano di pezza, dentifricio e spazzolino dall’estremità arrotondata, pacchetti di sigarette s’impilavano tra le sue braccia abbronzate: di là, cadevano a ingrossare il ventre nero del sacco, lanciati alla rinfusa in quella grande bocca di plastica spalancata.
            -“Ma quanta roba riusciva a tenere quello là, in due metri quadrati?”-
            C’erano soprattutto libri. Anche quelli, lanciati con la noncuranza di chi ha fretta di cavarsi dai piedi un impaccio, andavano a cadere nel sacco aperti e sgualciti: nel loro rapido volo, battevano le ali candide delle pagine lasciando scappar fuori cartoline illustrate, foglietti fitti di appunti scritti con una bella calligrafia lineare, qualche fotografia.
            L’agente più giovane, un tipo dal volto latteo, seguiva il volo dei libri reso più impaziente dai modi dell'altro, più che dalla necessità di finir presto il lavoro. Sulle spalline dell’uniforme, ordinata quanto l’altro appariva trasandato, recava le mostrine di un grado superiore:
            -“Hai controllato che non sia roba di biblioteca? Se hanno il contrassegno, tocca restituirli”-
            Ramirez se ne fregava. Dalla sua aveva il doppio dell’età e il triplo dell’esperienza, ed era molto meno puntiglioso, soprattutto per quanto riguardava la sorte di quei volumi che, a suo parere, potevano tornare utili tutt’al più a reggere le gambe a un tavolo traballante. Mentre ancora continuava a trafficare, si voltò sghignazzando verso il suo superiore:
            -“Se c’è qualche rivista di quelle che dico io, la terrò nel mio archivio. Tanto a lui, oramai, mica servono più. Il porno è per i vivi. Tra gli angeli, si cantano le lodi del Signore. E all’inferno, quelle del diavolo”- aggiunse, senza avere alcun dubbio sul genere di coro a cui quello là, nel giro di poche ore, sarebbe stato ammesso a lodare in eterno.
            -“Il regolamento dice che ogni oggetto rimosso dev’essere registrato”- insisteva il più giovane.
            -“E infatti io e lei siamo qua col sacco dell’immondizia. Lo sappiamo benissimo che tanto, questa roba, non la chiederà indietro nessuno. È stato qua dieci anni, e in tutto questo tempo non è venuto neanche un cane a trovarlo. A parte la mogliettina, e solo per il divorzio”-
            -“Aspetta, quella è una Bibbia”- il giovane superiore chiuse istantaneamente la bocca del sacco -“la Bibbia non si butta. Quella, la prendo io”-
            L’altro sbuffò gettando il volume da parte:
            -“Ma chi glielo lo fa fare, di assistere quel maniaco. Uno stupratore di bambini, disabili, per di più. Si vede che lei non ha figli. E poi, per queste cose c’è il cappellano”-
            -“Neanche tu hai figli, Ramirez. E poi lo faccio solo perché me lo ha chiesto”-
            Il più giovane si passò una mano sul viso. Pensava alla sua domanda di trasferimento, presentata da anni e molto probabilmente smarrita da qualche parte nei meandri di quell’inferno dalle pareti bianche.
            Una volta rimosse le foto dalla parete - due bimbi sorridenti abbracciati a un gatto rosso, una donna in prendisole ormai ingiallita ai bordi - la cella era tornata al consueto anonimato: una terra di nessuno, peggio, un luogo di transito.
            Serrata da quattro pareti talmente vicine che ad allargare le braccia si poteva toccarle, la cella si sviluppava soprattutto in altezza: il soffitto era alto apposta per impedire all’occasionale ospite di appenderci una corda, magari ricavata dalle lenzuola di quella branda da mezza piazza che, insieme al cesso a vista e a un tavolo di metallo fissato al pavimento, costituiva l’unico pezzo di arredamento.
            Non c’erano finestre e la luce pioveva, incandescente e senz’ombre, da una lampadina chiusa dietro a una grata, a sua volta fissata al soffitto da bulloni che ad ogni nuovo arrivo venivano ispezionati.
            Anche il tavolo e la branda erano assicurati al pavimento alla stessa maniera: onde evitare che qualche condannato dalla testa particolarmente calda se li caricasse in spalla, allo scopo di scaraventarli senza troppi complimenti in testa agli agenti. Nonché per evitare che qualcun altro, più disperato che astioso, li ammucchiasse al solo scopo di raggiungere la grata, e appendere la corda di cui si è detto sopra. Secondo il regolamento, non era consentito a nessuno andarsene all’altro mondo senza un ordine di esecuzione regolarmente firmato dal giudice, e farla in barba al boia prima del tempo: anche le perquisizioni che avevano luogo ogni volta che il detenuto entrava o usciva dalla cella erano previste e puntualmente eseguite al medesimo scopo.
            Il graduato dal volto latteo ricordava ancora quel tizio che per mesi aveva nascosto sotto alla lingua le benzodiazepine che l’infermiere del carcere gli passava ogni sera, per aiutarlo a dormire. Con la cura dei bambini che accumulano monete nel porcellino salvadanaio, il tizio le aveva conservate in un’apposita scucitura del materasso: il giorno del suo trasferimento allo Chalet aveva provveduto lui stesso a buttarle, tutte in gola e in una volta.
            Alla stanza delle esecuzioni, in gergo lo Chalet, era arrivato praticamente già pronto a esser chiuso in quel sacco che lo attendeva alla fine della procedura; ma poiché il protocollo andava rispettato, era stato ricoverato d’urgenza all’ospedale della contea, e quando aveva nuovamente riaperto gli occhi al mondo, dopo una lavanda gastrica coi fiocchi, era stato rispedito sul lettino dell’iniezione letale.
            Era stato precisamente dopo quell’episodio che il sergente viso pallido aveva sentito pungere la nostalgia dei bei tempi in cui si occupava di furti di bestiame e liti tra confinanti, diritti di passaggio col trattore sopra a un podere, o di raccolta legna nello sperduto paese di cui era originario: la sera stessa in cui quel detenuto passava dalle benzodiazepine in compresse ai barbiturici pesanti della prima iniezione, viso pallido stava già compilando il modulo per il trasferimento. Modulo che, evidentemente, era andato a finire dentro a qualche altro sacco: in quello per il riciclo della carta in amministrazione, nell’ufficio del direttore o in qualsiasi altro meandro di quel posto dannato, dove non si faceva altro che riempire dei sacchi.
            Fatto sta che la risposta non era mai arrivata.
            Viso pallido, noto altrimenti ai suoi come il sergente Thiene, si stava per l’appunto domandando se non era il caso di procurarsi un altro modulo.
            Più in là c’era una dispensa. Ramirez cominciò a sfogliarla con aria divertita:
            -“Qui ci sono addirittura i Sonetti di un certo Shake… Shape… che nome del cazzo”- Ramirez aprì a caso e scoppiò a ridere -“E qualsiasi angoscia che adesso sembra mortale, in confronto al perderti, non sembrerà uguale”. È un tipo istruito, il tuo amico. Chissà, forse recitava poesie a quei bambini, mentre se la spassava”-
            La vecchia dispensa aprì le ali per volare nel sacco, ma viso pallido bloccò il collega a metà strada:
            -“Lasciamela da parte. La prendo io anche quella”-            
            Sulla branda, le lenzuola erano già state smantellate dall’agente Ramirez e stipate nell’apposita busta per la lavanderia. L’agente le aveva praticamente strappate dal letto ancora intatto, perché la notte prima del suo trasferimento definitivo allo Chalet, il condannato non era riuscito a chiudere occhio.
            Adesso, nella cella, del detenuto Roseland non c’era più traccia.
            Di lì a poche ore, un terzo sacco si sarebbe richiuso sopra alla sua testa, annodato ben stretto: alla stessa maniera con cui l’agente Ramirez era intento a chiudere la bocca al bestione in plastica nera a cui aveva dato in pasto gli ultimi averi del condannato.
            -“Abbiamo finito, direi”- Ramirez si sfregava le mani soddisfatto -“e adesso, avanti un altro”.
            Dall’intonaco strappato insieme all’adesivo delle fotografie, cadeva senza rumore una manciata di polvere.

 
******
           
Per il giovane giudice Anders, quello relativo al detenuto 021069 Roseland rappresentava il primo ordine di esecuzione che si trovava a dover firmare in tutta la sua carriera, peraltro ancora agli inizi: in mancanza di una sua firma in calce a quel documento, il meccanismo che avrebbe condotto il condannato a uscire dalla porta di servizio dello Chalet, non poteva mettersi in moto. Si trattava di un ingranaggio già pronto e ben oliato, che attendeva soltanto di essere avviato da chi di dovere: e a quel dovere Anders non poteva sottrarsi, dal momento che i numerosi ricorsi presentati dalla difesa di Roseland, arrampicandosi su tutti gli specchi legali del caso, erano stati puntualmente respinti.
            Anders, che solo pochi anni prima era ancora uno studente convinto che il mondo si dividesse in buoni e cattivi come nei western, e che quella differenza fosse una garanzia per la buona coscienza, adesso cominciava a dubitare di quella sua visione priva di sfumature: chissà perché aveva pensato che stare dalla parte del giusto fosse facile e chiaro come sbattere in gattabuia un ladruncolo sorpreso con le mani nel sacco. Roseland, in realtà, non era stato colto in flagrante: sulla sua testa, ora appesa a una semplice firma, si erano accumulati dapprima semplici indizi, in seguito testimonianze che la giuria aveva ritenuto sicuramente attendibili, pagine di verbali e scritti di avvocati.
            L’idea che la sentenza fosse stata decisa da altri, e che a lui spettasse solo di darle un seguito, non contribuiva a levargli dalle spalle neanche un grammo della cappa di piombo che si sentiva addosso: aveva rimandato per tutto il giorno il momento in cui si sarebbe trovato a prendere la penna in mano e a dover sottoscrivere, tra tutte le scartoffie che ingombravano il suo tavolo, anche quel documento.
            Alla fine aveva firmato tutte le carte, in fila e di spinta. Anzitutto, quattro sentenze di proscioglimento in esito ad altrettanti processi, anch’essi ereditati dal suo predecessore Hopkins: il quale aveva pensato bene di andarsene in pensione all’indomani del suo terzo attacco cardiaco, peraltro verificatosi proprio durante l’ultima udienza sul caso Roseland.
            In fondo alle altre carte, quasi senza guardarle per evitare ulteriori ripensamenti, aveva controfirmato l’ordine di esecuzione, che stabiliva il giorno, l’ora e - con puntigliosa e burocratica precisione - anche luogo e modalità con cui la condanna a carico di Roseland sarebbe stata eseguita.
            Subito dopo, aveva consegnato l’intero pacco delle scartoffie all’addetto della cancelleria, e quel che c’era da fare ormai era stato fatto. Tornare indietro non si poteva, buttar giù un buon bicchiere si poteva senz’altro, ma in quel momento il giudice Anders dubitava di tutto. Persino del fatto che un goccio del whisky che conservava come un tesoro in un cassetto per i momenti bui, l’avrebbe aiutato a dimenticare il volto giovane e disarmato di Roseland, che campeggiava da mesi su tutti i giornali: e che aveva tutta l’aria di poter campare cent’anni se non fosse intervenuta, a un certo punto, una firma a fare la differenza.
            Tanto per farsi del male, e forse per compensare con un atto di contrizione alla rapidità con cui aveva firmato, si soffermò a osservare di nuovo quella foto, che spalancava gli occhi sopra alla prima pagina del quotidiano locale. Quegli occhi sgranati dalla stampa scadente del giornale, i lineamenti tersi descrivevano Roseland per quello che era, almeno apparentemente: un educatore professionale di quarant’anni, esperto nell’accompagnamento di bambini disabili a cui insegnava a leggere, scrivere, disegnare, e per i quali organizzava campi scuola e campeggi, allegre gite nei boschi. Peccato che da una di quelle escursioni due dei suoi fragili allievi non fossero più tornati, se non in forma d’ossa sparpagliate qua e là sui versanti della montagna, dopo che gli animali e la calura estiva avevano fatto il loro dovere: spolpandoli così bene che il gruppo di cacciatori che si era trovato a passare di là, in una mattina limpida di novembre, all’inizio li aveva scambiati per pezzi di plastica.
            Peccato anche che ai primi ritrovamenti ne fossero seguiti altri. Il più recente era stato scoperto ancora integro, grazie al manto nevoso che l’aveva conservato, con addosso ancora i segni della violenza e il cranio sfondato. Un altro, che doveva aver subito un trattamento analogo, era risultato parzialmente mummificato per via delle caratteristiche del luogo - secco e ben ventilato - in cui era stato rinvenuto con le gambine aperte: una vecchia legnaia usata in altri tempi dai boscaioli per riporvi gli attrezzi, prima che la segheria a fondo valle chiudesse.
            Le analisi effettuate dai medici legali avevano consentito di identificare in quei resti alcuni bambini scomparsi e mai più ritrovati negli ultimi anni.
            Peccato, infine, che le vittime più recenti fossero puntualmente sparite dopo gite, lezioni e intrattenimenti organizzati da Roseland, o ai quali l’insegnante era stato presente.
             Così, quel volto dolce era dapprima diventato un enigma, di seguito - per la giuria e l’opinione pubblica - l’emblema di una mostruosità senza pari: chiunque altro, al posto del giudice Anders, non avrebbe esitato a firmare quell’ordine, e delle due si sarebbe sentito più in colpa per non averlo fatto immediatamente, tra i primi affari da sbrigare nella mattina.
            Dal canto suo, Roseland si era sempre dichiarato non colpevole: a riprova del fatto che era uno psicopatico, aveva sostenuto l’accusa; a conferma del fatto che due più due non fa sempre quattro e che i sospetti non sempre fanno la verità, aveva sostenuto la difesa, fino all’ultimo.
            Da un lato i sospetti c’erano stati fin dal principio, perché da un pezzo si vociferava che Roseland nutrisse simpatie non sempre limpide e chiare verso il mondo dei piccoli. Dal sospetto alla certezza, in molti casi, c’è solamente un passo: tanto che persino in carcere l’avevano dovuto tenere separato dagli altri, per evitare che a qualcuno - magari a più di uno - venisse in mente di fargliela pagare per le spicce e senza tutta quella burocrazia di avvocati, giurie e verbali.
            Dal canto suo Roseland, convinto a torto o a ragione della propria innocenza, malgrado le acrobazie dei vari avvocati che s’erano assunti l’onere improbo della difesa, non era mai riuscito a fornire un alibi verosimile alle diverse circostanze imputate a suo carico; ad ogni addebito rispondeva puntualmente di non aver niente da dichiarare, e ovviamente si era sempre rifiutato di confessare tutto ciò che ai numerosi testi, alla giuria e al resto del mondo pareva più che evidente; sembrava più interessato a litigare con i propri legali che a cercare una via di fuga sostenibile, a ricusare i membri della giuria popolare e lo stesso giudice Hopkins, a protestare per le condizioni di detenzione in carcere, appigliandosi ai cavilli più inverosimili: di fatto, si era spianato con le sue stesse mani la via in discesa verso la sentenza capitale.
            Persino lo stesso Hopkins, che in vita sua non aveva mai messo a morte nessuno, aveva tenuto ferma la voce e il cipiglio, nel momento in cui aveva fatto alzare l’assemblea per la lettura della sentenza. Subito dopo, era crollato dallo scranno insieme alle sue carte in preda a un infarto: a quel punto, Roseland era saltato fuori dal banco degli imputati sfuggendo alla presa dell’agente Ramirez, che aveva abbrancato l’aria mentre il condannato era già accanto al vecchio giudice, a praticargli un massaggio cardiaco in emergenza. Quella manovra tempestiva aveva impedito a Hopkins di rimetterci le penne o di restare a vita su una sedia a rotelle, alimentato per sonda, col cervello fuori servizio e la bava alla bocca.
            Anche i soccorritori intervenuti in seguito con defibrillatore, barella e tutto l’armamentario per salvare vite umane, avevano riconosciuto che l’intervento di Roseland era stato decisivo per consentire a Hopkins di finire i suoi giorni a potare le rose e tagliar l’erba in giardino, piuttosto che in un ospizio per cerebrolesi.
            La notizia aveva fatto discutere per giorni la gente al bar e i giornali, ma entrambi erano giunti alla logica conclusione che si trattava solo di una prova in più del fatto che Roseland era uno psicopatico, che agiva senza alcuna logica prevedibile e che evidentemente, si sentiva padrone delle vite degli altri: con l’arbitrio di toglierle oppure di preservarle a seconda di quel che girava nella sua mente malata.
            La stessa rapidità con cui si era mosso, saltando dal banco degli imputati come un gatto, scansando la presa degli agenti di custodia e del servizio d’ordine, doveva considerarsi la prova lampante della sua natura di predatore, dotato della capacità di colpire in maniera inesorabile e senza nessuno scrupolo.
            Anders continuava a fissare quel volto, quegli occhi che parevano - forse per via della scarsa qualità della stampa - febbrili e persi nel vuoto. O forse il suo era solo lo sguardo della lepre presa al laccio dal cacciatore, che si volta a fissarlo con uno sguardo incredulo prima del colpo di grazia: l’unica cosa certa era che, quella sera, un bicchiere soltanto del suo famoso whiskey non sarebbe bastato al giudice Anders per mettere a tacere i dubbi della coscienza e favorire il sonno.  

 
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Dopo la pronuncia della sentenza, aveva avuto luogo il primo dei trasferimenti che il protocollo prevedeva in quei casi. Il detenuto 021069 Roseland era stato trasferito dall’ala riservata ai detenuti comuni al quartiere delle nebbie: nel gergo carcerario, così era chiamato l’edificio isolato che sorgeva a occidente, immerso in una palude ormai fuori dal mondo e avvolta da una foschia malsana in ogni stagione. Il braccio della morte, tanto per essere espliciti.
            I compagni di prigionia, vedendolo passare mentre reggeva da sé, tra i ceppi, il primo sacco di una lunga serie a venire, l’avevano salutato alla loro maniera, sbracciandosi dalle celle:
            -“Roseland, non temere, il culo te lo apriremo, a costo di venire a scovarti all’inferno”-
            Gli sputavano dietro e quello si scansava, il volto impenetrabile ma apparentemente sereno, come fosse a passeggio per una via del centro. L’agente Ramirez, che gli stava alle calcagna da quando quello stupratore di minorenni era stato scodellato, nel giorno del suo arresto, dal cellulare che l’aveva prelevato alla scuola dove insegnava, gli avrebbe fatto il culo volentieri e prima degli altri, col diritto di precedenza dovuto alla sua carica:
            -“Giuro che se la scampi, e mi ritorni qua anche con cento ergastoli”- gli sibilava all’orecchio mentre lo strattonava, riportandolo più vicino alle celle per fargli avere quello che gli spettava, sputi e persino fiotti di urina mirati ad arte -“ci penso io a sfondartelo, maledetto maniaco, pervertito del cazzo”-
            -“Ti piacerebbe, eh, Ramirez?”- gli rispondeva Roseland senza neanche voltarsi, sempre impassabile come se tutto quel pandemonio non lo riguardasse affatto.
            L’agente alle sue spalle, che lo sovrastava con il doppio della sua mole, gli tirò un calcio diritto negli stinchi: il prigioniero si limitò a scartare con un gemito trattenuto, mentre Thiene viso pallido riprendeva il collega arpionandolo per la cinta, e rimettendolo al passo:
            -“Taglia corto, Ramirez. Sta’ al centro del corridoio, cosa vuoi scatenare, una sommossa generale? Stando così vicino, li ecciti solamente. Spostati al centro, è un ordine”-
            Prima di darci un taglio, il grosso agente ispanico aveva soffiato di nuovo il suo odio nelle orecchie del condannato: all’improvviso si era reso conto di detestarlo per la pelle bianca e curata, gli occhi chiari e freddi, i capelli folti e ravviati in onde scure quando a lui invece era toccata la pelata; per la nascita fortunata in una famiglia istruita, immigrati dall’Austria di terza generazione, quando a lui erano toccati un paese calcinato dal sole e dalla miseria, lavori occasionali prima dei nove anni, dieci fratelli stretti in una casa ch’era poco più di un container e puzzava di cane, di tacos e del piscio di tutti quei bambini; poi il posto in polizia e il consueto appellativo di messicano di merda.
            Quando si ricordò delle origini di Roseland, Ramirez colse al volo l’occasione per rincarare la dose:
            -“Ti apro il culo, nazista, giuro che lo faccio uscire dalle orecchie”-
            -“Ti ho detto di farla finita o ti spedisco a lavare i cessi di tutto il penitenziario, a mani nude, possibilmente”-
            Thiene condivideva con Roseland le origini europee, ma a differenza dell’impassibile condannato, che ora si trovava a varcare l’uscita e ad attraversare il cortile, stringendo gli occhi chiari alla luce del giorno, razzista lo era davvero: lo era diventato per colpa di Ramirez, che delle sue mostrine appuntate sulle spalle se ne fotteva alla grande e lo trattava da pivello, secondo quel criterio di gerarchia non scritta in uso dalle sue parti, nelle bande di trafficanti.
            Dopo un tratto brevissimo, nel cortile spazzato dalle ramazze e da un vento che si attorcigliava alle caviglie e sapeva di temporale in arrivo, giunsero al furgone che avrebbe condotto Roseland, in compagnia di una scorta armata fino ai denti, al quartiere delle nebbie: stazione di partenza per il viaggio di sola andata in direzione dello Chalet.
            Il quartiere delle nebbie non era ancora lo Chalet, la camera delle esecuzioni che si trovava venti chilometri più avanti, ancora più fuori dal mondo: ma ne condivideva l’identico clima da fossa dei disperati, immerso in un’area paludosa e malsana che non vedeva mai il sole ed era sempre avvolta da una bruma lattiginosa. Quella nebbia perenne, algida in pieno inverno e brulicante di insetti nei mesi estivi, puzzava d’acqua marcia per via dei canali aperti in cui defluivano, con la lentezza dei tempi eterni, gli scarichi fognari di tutta la città.
            Terreno adatto a far proliferare ratti e zanzare, i primi grossi come castori e le seconde come elicotteri della Marina, si trattava di un luogo che avrebbe richiesto una bonifica intensiva: cavallo di battaglia per tutti i candidati a sindaco della città, che puntualmente ne promettevano il risanamento e altrettanto puntualmente se ne dimenticavano, a elezioni finite. Tanto quel luogo era per i dimenticati, gli scarti del genere umano e di ogni società civile che si rispetti.
            Thiene ricordava addirittura che un candidato aveva promesso ai suoi elettori di sfruttare un tratto di quell’inferno di liquami viaggianti, ad uso smaltimento delle ceneri dei condannati: così da risparmiare sulle spese di sepoltura a carico dello Stato e dei contribuenti, nel caso in cui nessuno si fosse presentato a richiedere il corpo dopo l’esecuzione. L’idea aveva scatenato così tante proteste da parte degli attivisti e persino nell’opinione pubblica internazionale, da indurre l’estremista di turno ad abbandonare convention ed elezioni, e a ritirarsi a vita privata nella sua villa, tra i campi di cotone assolati del sud.
            Liberato dal sacco che venne caricato prontamente nel bagagliaio, Roseland salì sul furgone senza opporre resistenza. Da quel momento in poi si chiuse in un mutismo assoluto, limitandosi a fissare il panorama che scorreva piatto dietro alle griglie del finestrino, con quei suoi occhi chiari, apatici e insondabili.
            All’arrivo, una sorpresa attendeva Thiene e Ramirez: un regalo dell’amministrazione carceraria che risultò poco gradito soprattutto dal primo, già sollevato all’idea di avere finalmente espletato la consegna e poter ritornare nel suo tranquillo e più confortevole girone di detenuti comuni.
            -“Ve ne occuperete voi”- aveva detto il responsabile del braccio, ricevendoli nella guardiola di accettazione dove Roseland era stato perquisito per la seconda volta: la prima alla partenza, all’uscita dalla cella, la seconda all’arrivo, insieme alla sua sacca di effetti personali. Dopo di che, gli era stata consegnata la speciale divisa del quartiere, bianca come le anime dei morti trapassati, ed era stato spedito alle docce dietro sorveglianza speciale. Ramirez stava per incamminarsi al suo seguito, pregustando la lezione che avrebbe impartito a quello stupratore di bambini disabili, e stava già iniziando il consueto e specifico elenco di ciò che gli avrebbe fatto, quando il sergente Thiene, insieme al responsabile del quartiere delle nebbie lo richiamarono indietro:
            -“Agente, dove va? Ci sono da firmare le carte del trasporto, e anche quelle relative al vostro trasferimento”-
            -“Catturerò uno di quelle nutrie che girano da queste parti, e te la ficcherò su per il culo”- aveva fatto a tempo a inveire Ramirez, ormai passato al surrealismo più visionario, mentre il detenuto 021069, dopo essere stato registrato, si avviava alle docce scortato da altri due agenti.
            -“Si può sapere perché dobbiamo rimanere?”- aveva chiesto Thiene, seccato.
            -“Ho tre agenti malati, questo posto è un inferno che avvelena la gente”- aveva risposto il responsabile del braccio, che proprio quel giorno aveva inviato alla direzione una domanda di trasferimento a prova di bomba, corredata da sette certificati medici che lo dichiaravano ormai con un piede nella fossa, inabile a qualsiasi altro incarico che non fosse l’ufficio fotocopie. Aveva allegato soprattutto da una lettera di raccomandazione firmata dal vice governatore in persona, parente di sua moglie. 
            -“A noi, però, nessuno ha detto niente”- osservò il sergente Thiene, masticando tutto l’amaro del mondo -“io soffro di allergie, vi farò avere al più presto tutta la documentazione, e protesterò in direzione”-
            -“Lei faccia come crede”- il responsabile del braccio non aveva battuto ciglio, ben consapevole del fatto che per schiodare qualcuno dal quartiere ci voleva ben altro che un misero certificato -“al momento, però, siete assegnati qua”-
            -“Io resto volentieri”- s’era intromesso quel bestione di Ramirez, che Thiene non aveva mai sopportato neppure quand’era di stanza ai comuni, e che ora si ritrovava ad essere l’unica faccia nota in quel luogo dimenticato da Dio e dagli uomini.
            Dopo un poco era tornato il detenuto Roseland, vestito di bianco come un’anima del paradiso, a parte i ceppi che gli stringevano mani e piedi e che con gli angeli del cielo avevano poco a che fare.
            La cella che gli era stata assegnata era appunto quel cubo di calcestruzzo anch’esso dipinto di bianco, con il soffitto alto, la lampadina chiusa da una grata a otto bulloni, e gli arredi saldati al pavimento onde evitare usi impropri. Bianco su bianco - perché non appena era entrato nella cella era impallidito, ed ora anche la faccia era in tinta col resto - Roseland aleggiava sullo sfondo simile ad un fantasma, come se fosse già morto. Del resto, quello era l’augurio che l’agente Ramirez gli aveva rivolto al momento di chiudere la porta, in acciaio a quattro mandate e dotata di un minuscolo finestrino di sorveglianza, anch’esso chiuso da un grata:
            -“Da qua uscirai soltanto per andare a stendere le gambe, razza di depravato, merda del genere umano. Ormai sei al capolinea, la società ti ha buttato nel cesso e resterai a galleggiare finché non verrà il momento di tirare lo sciacquone”- a titolo di miglior comprensione del paragone, Ramirez allegò una serie di rumori esplicativi. Thiene, che lo seguiva trascinandosi dietro il sacco del prigioniero, non aveva neppure più voglia di richiamarlo. Preferì rivolgersi a Roseland, che lo fissava attonito come se fosse già all’altro mondo, già puro spirito ancor prima di partire per lo Chalet:
            -“Se ha bisogno di qualcosa, usi questo citofono”- finalmente si decise a spingere via il collega -“noi siamo a disposizione, per lo meno io lo sono. Si concentri sugli appelli, i suoi avvocati possono venire ad incontrarla in qualsiasi momento. Per familiari e amici, è prevista una visita una volta alla settimana, di solito alla domenica. Buona fortuna, Roseland”-

 
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Contrariamente alle aspettative di Ramirez, lo sciacquone sul caso Roseland non poté tirarlo nessuno, quanto meno per i dieci anni seguenti: tempo in cui gli avvocati si diedero da fare per regalargli una manciata di mesi, di settimane, di anni, riuscendo a ottenere più volte una sospensione tramite le richieste di rinvio e i ricorsi, argomentati in tutte le maniere possibili.
            Nei fatti, però, non erano emerse nuove prove a sostegno della non colpevolezza di Roseland, che continuava a fondarsi esclusivamente sulle dichiarazioni dell’imputato. Una volta esauriti tutti gli argomenti e tutti i cavilli processuali possibili, le successive richieste di revisione del processo cominciarono a essere respinte una dopo l’altra, abbattute come birilli dalle contestazioni ben più solide dell’accusa.
            Gli avvocati avevano ormai esaurito non solo gli argomenti, ma anche la fantasia.
            Da qualsiasi parte le si girasse, le prove a carico di Roseland restavano schiaccianti: le osservazioni della difesa non facevano più effetto del vento che, di notte, urlava contro alle mura di cemento armato del quartiere delle nebbie, senza riuscire a smuovere neanche una tegola.
            In quella cella alta e stretta, illuminata di giorno dall’unico occhio della lampadina imprigionata dietro alla grata, di notte da una fosforescenza verdastra, che proveniva da una placca collocata in cima alla porta, il detenuto Roseland ignorava che là fuori ci fosse il vento.
            Non sapeva nulla della foschia che esalava dalla palude i suoi umori viziosi, non sapeva neppure che al di là dello spazio, ormai sempre più ristretto, che gli era destinato ci fosse una palude, con le famose nutrie che l’agente Ramirez aveva minacciato di fargli conoscere: ignorava il significato del nome che là era usato per definire il braccio della morte e la stanza delle esecuzioni, sicché Thiene dovette spiegargli perché il quartiere delle nebbie si chiamava così.    
            Dovette spiegargli anche cos’era lo Chalet, che sorgeva in un luogo ancora più isolato, a venti chilometri di bosco e palude da lì, e prendeva il nome dalla sua struttura centrale, simile ad una baita rivestita di legno: c’erano addirittura le tendine alle finestre, ma soltanto perché nessuno potesse vedere da fuori la morte che c’era dentro - il lettino per le iniezioni, la stanza riservata alla preparazione dei farmaci, l’aula dei testimoni.
            -“Mi auguro che lei non debba mai arrivare in quella maledetta casa dei sette nani”- aveva sussurrato Thiene, attraverso la buca, una sorta di spioncino da dove, tre volte al giorno, scivolava nella cella il vassoio dei pasti. Negli ultimi tempi, spesso tornava indietro ancora sigillato.
            All’inizio, il detenuto aveva occupato il suo tempo nella lettura, accumulando in cella quella pila di libri che più tardi Ramirez avrebbe fatto volteggiare dentro al sacco mimando lanci da basket.
            Più tardi, quando le cose iniziarono a mettersi davvero male e gli ultimi ricorsi ad essere respinti, aveva cominciato a rifiutare il cibo. Trascorreva sempre più tempo sulla branda, le membra abbandonate nell’uniforme bianca sempre un poco più grande, lo sguardo perso nel vuoto: sul volto un’aria di malinconia così dolorosa che spesso Thiene tirava dritto quando si ritrovava a passare per di là, pur di non sentirsi stringere cuore e visceri per la rabbia e per il senso di impotenza che provava in quei momenti. Molte altre volte, invece, si costringeva a fermarsi e a infilare due parole e un’occhiaia attraverso la buca:
            -“Non me ne frega un cazzo se la legge lo prevede”- diceva, e neppure sapeva se parlava a Roseland o a se stesso -“non m’importa neppure quello che lei ha fatto. Io sono contrario, punto. Ci tenevo che lo sapesse”-
            -“Io sono innocente”- si ostinava a replicare, con voce atona, Roseland -“ma tanto, neppure lei mi crede”-
            L’unica cosa certa era che, esattamente come avevano fatto prima di lui i suoi avvocati, Roseland stava iniziando a tirare i remi in barca: non aveva più denaro per le spese legali, e se qualcuno là fuori avesse subodorato che l’ultima parcella l’aveva saldata Thiene, sarebbe successo il finimondo. Thiene sarebbe stato spedito a sorvegliare qualche carcere per orsi polari in Alaska, e lui avrebbe perduto il suo unico amico, quanto meno l’unico che ancora non lo trattava come se fosse già carne marcia. Dal giorno della condanna, sua moglie era venuto a trovarlo una volta sola al quartiere delle nebbie, carica di vergogna: a causa sua, non poteva più entrare in un negozio senza essere inseguita da sguardi incandescenti e commenti al vetriolo. Al lavoro, la sua presenza era semplicemente tollerata, almeno finché non fosse saltato fuori un motivo legittimo per licenziarla.
            Era la moglie di quello, di certo qualcosa sapeva e aveva preferito starsene zitta. Questo, a casa mia - pensavano la portiera, il ragazzo che consegnava il giornale, i colleghi, il suo capo - si chiama concorso in omicidio, in omicidio plurimo e aggravato, come avevano scritto i giornali.
            Avrebbero dovuto metter dentro anche lei e buttar via la chiave, affidare i suoi figli all’assistente sociale per evitare che diventassero anche loro dei mostri: questo era addirittura il pensiero dei loro amici e parenti, e la cosa peggiore era a forza di portarsi dietro le chiacchiere come un cane la coda, Emma Roseland s’era convinta che avessero ragione.
            Era caduta in una depressione profonda, e alla fine s’era decisa a chiedere il divorzio e a trasferirsi altrove. Aveva già fatto domanda per riprendere il proprio cognome da ragazza, e di fatto era venuta al quartiere delle nebbie solo per far firmare al marito le carte per la separazione legale:
            -“Non ti chiederò mai più niente. Ti prego solamente di fare questo per me e per i bambini”- 
            Roseland aveva firmato, lasciando scivolare i suoi occhi chiari e apatici sui punti che Emma gli aveva indicato, volta a volta sui moduli. Non l’aveva più rivista: i primi tempi, ogni tanto arrivava una lettera o una cartolina coi timbri di un altro Stato. Poi, evidentemente, Emma aveva pensato che in qualche maniera Roseland, pur rimanendo chiuso nel suo cubo di calcestruzzo, potesse rintracciarla in quella remota località delle Montagne Rocciose dov’era andata a vivere: insieme ai figli e al gatto che compariva nell’ultima foto che aveva inviato, e che ormai risaliva a dieci anni prima.    
            Da quel momento in poi non era arrivata più nessuna notizia, e anche i ricordi di Roseland si erano fermati a dieci anni prima: col tempo era volata l’infanzia dei suoi bambini, mentre lui trascorreva due ore d’aria al giorno a fumare da solo dentro ad un altro cubo, non di calcestruzzo ma fatto di nebbia e reticolato, sotto vigilanza armata.
            In quelle lunghe ore d’aria e di solitudine, spesso si abbandonava ai ricordi e alla nostalgia dei suoi figli: rivedeva i loro salti di gioia quando aveva portato a casa il gattino rosso, che aveva trovato incastrato nel motore dell’auto; i bambini disabili con cui andava a raccogliere le foglie nei boschi, mostrando loro i colori e le diverse forme, l’odore che lasciavano attaccato alle dita. Una volta tornati a scuola si divertivano a dipingerle e a incollarle sui fogli, formando stelle e fiori, piccoli doni da regalare alle madri.
            Intanto le stagioni portavano fiocchi di neve che d’inverno si posavano come corolle candide sopra al filo spinato. Il tempo andava avanti con il tepore della primavera e le foglie d’estate, che il vento di un temporale menava fin là, nella spianata di cemento tra il cubo e le torrette di sorveglianza. Le stesse foglie, in autunno, tornavano a passare picchiettate di giallo, con ditate di rosso come usavano fare i suoi piccoli allievi dei corsi di sostegno.
             Una volta era passata, barcollando qua e là, una farfalla sontuosa, con le ali allungate da lunghe code a strascico, di velluto marrone sui bordi e poi arancione: un fiore in volo che aveva smarrito la via dei campi, e che trovando lui vestito di bianco e con gli occhi chiari, era venuta a posarsi leggera sulla sua manica: era da molto tempo che qualcosa non si posava su di lui dolcemente, senza strattonarlo con sgarbo o rinchiuderlo in quei ceppi che segavano i polsi.
            Aveva allungato un dito e la bella vanessa gli era salita sopra, continuando evidentemente a scambiarlo per un fiore e solleticando il suo polpastrello con la tromba del suo apparato boccale.
            Roseland aveva sorriso: persino da vicino quella creatura appariva graziosa, con la vitina stretta, un abitino di peluria morbida e bruna e i grandi occhi compositi, sovrastati da lunghe ciglia da signora. Era rimasta un attimo, la bella visitatrice, il tempo di rendersi conto dell’equivoco, poi era volata via.
            Quella era stata l’ultima visita che il condannato Roseland aveva ricevuto, là nel quartiere dimenticato delle nebbie: un mese prima aveva compiuto quarant’anni e il suo viso riflesso nello specchio di plastica lucidata e protetto anch’esso da una grata, era sempre lo stesso.
             Pareva che il mondo intero e addirittura il tempo si fossero dimenticati di lui.
             Ma si trattava solamente di un’impressione.
            Una mattina, accompagnato da Ramirez, da Thiene e dal responsabile del quartiere, si era affacciato alla sua cella il direttore del carcere, un omino stempiato con gli occhiali tondi e l’aria da bibliotecario: l’ennesima richiesta di rinvio era stata respinta, l’ordine di esecuzione era stato controfirmato dal giudice Anders, la data già fissata per il sabato successivo, giorno undici giugno.
            Nel tardo pomeriggio di venerdì, il condannato Roseland avrebbe lasciato la sua cella nel quartiere delle nebbie, per essere trasferito sotto scorta allo Chalet.
            Durante tutto il tempo della sua detenzione, Roseland aveva scambiato solo poche parole col cappellano: se però desiderava la presenza del reverendo, o di qualcun altro che fosse in grado di assisterlo, era ancora in tempo per farne richiesta. Il suo assistente avrebbe potuto effettuare per conto suo le telefonate necessarie: poteva chiedergli di avvisare amici o familiari, nel caso fosse interessato a incontrarli per un’ultima visita, o ad averli per testimoni.
            -“Testimoni di cosa?”- aveva chiesto Roseland, in un soffio.
            -“Della sua esecuzione, come prevede il protocollo di Stato”-
            Poi il direttore aveva cavato fuori un modulo, da restituire compilato e firmato:
            -“Questa è la richiesta per il suo ultimo pasto”- cercava di nascondersi dietro alle procedure, per ovviare all’imbarazzo. Dopo tanti anni di carcere e decine di esecuzioni, ancora non riusciva a farci l’abitudine. Con il naso nel foglio come dietro a un riparo, continuava a parlare:
            -“Lei ha il diritto a richiedere tutto ciò che desidera, fino a un costo complessivo di… vediamo un po’, quindici dollari”-
            Calò un silenzio di piombo mentre Roseland, annichilito, prendeva in consegna il modulo.  
            In quel momento, gli pareva di sentire tutto più amplificato: il rumore delle porte delle celle che si aprivano e i passi dei detenuti scortati all’ora d’aria o nello stanzone soffocante delle visite, catene che tintinnavano, di nuovo porte blindate che si chiudevano con un tonfo, giri di catenaccio.
            Lui vestito di bianco in una cella bianca, un foglio da riempire, la lampadina che sfrigolava sulla sua testa bruciando vivo un insetto entrato da chissà dove.
            Quando il peso del silenzio divenne insopportabile, quanto meno per lui, Ramirez si decise a infrangerlo di schianto:
            -“Ti consiglio cheeseburger e patatine fritte. Lo chef è uno in gamba, vedrai, ti faremo avere una porzione abbondante”- si picchiò sulla pancia e non era per scherno, era semplicemente tutto ciò che aveva da offrire.

 
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