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Autore: Anya_tara    12/07/2018    1 recensioni
Roma, 1503. Una giovane donna è costretta da un delitto a mettere i suoi talenti al servizio di uno dei Papi più tremendi che la storia ricordi: Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia. pur di scoprire chi ha ucciso suo padre, Giuseppe, non esita a macchiare le proprie mani col sangue dei nemici del vicario di Cristo, avvelenandoli.
Può l'amore redimerla veramente dai suoi peccati, come e meglio dell'assoluzione di un Pontefice dissoluto? o non è altro che l'ennesimo veleno da cui deve guardarsi, perché non uccida lei stessa e l'uomo che ama?
P.S: ovviamente anche questa one-shot fa parte di "Nemesis".
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Capricorn Shura, Leo Aiolia
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Voglio amarti, ma è meglio che non tocchi 
voglio stringerti ma i miei sensi mi dicono di fermarmi 
voglio baciarti, ma lo voglio troppo 
voglio assaporarti, ma le tue labbra sono un veleno velenoso

il tuo veleno, scorre nelle mie vene
 Alice Cooper, Poison
 
 
 
Roma, Italia
1503
 
 
Il gorgoglio nell’alambicco.
Un suono gioioso, vivo. sembra incredibile possa essere foriero di morte.
Tagliuzza la stella di Betlemme, una delle piante più velenose che il mondo conosca. A dispetto del nome quasi religioso. Aconito, e un pizzico scarso di polvere raschiata dall’angolo più buio di un lupanare, anche se è difficile trovare qualcuno che non sia immune a tutte le sporcizie, a i malanni che vi si possano contrarre a furia di frequentare i postriboli.
Non verbena, stavolta; nulla che induca la tranquillità favorendo un dolce trapasso. In genere lo preferisce, ma questa volta no.
E’ male comunque, a conti fatti. Sofia lo sa, prendere consapevolmente la vita di un essere umano è un peccato tremendo, anche se tentando di farlo in modo un po’ più misericordioso dei soliti.
Ma lei non ha nulla da temere, per la sua anima. Il vicario stesso di Dio in Terra ha già firmato la sua assoluzione, vita natural durante, quasi nello stesso giorno in cui è salito al soglio di Pietro, acquistato a caro prezzo; anzi, lui stesso le ha ingiunto di provvedere a quella bisogna. Ogni suo nemico è nemico anche di Cristo, della Santa Madre Chiesa: apprestarsi a toglierlo dal mondo è causa di onore e vanto, oltre che la garanzia di un posto nel Regno dei Cieli.
Sofia cala con la punta del coltello un millesimo della mistura di erbe spezzettate. Lei a quel Regno dei Cieli ci crede ancora, malgrado il suo lavoro le imponga di dover scendere a patti con la propria coscienza; e non perché è sottoposta all’autorità del Papa, bensì perché lo sente nel cuore, laddove l’orrore celato in altre stanze sotto sete e broccati, profumi di spezie esotiche e sottili lamine d’oro non è riuscito ad annidarsi anche nel profondo della sua anima.
La luce è più forte. La luce è viva, pulsante, e lei la custodisce strenuamente, in ogni suo gesto, in ogni suo respiro, anche mentre è costretta … da forze più grandi di ella medesima a cedere ai ricatti della carne e del sangue.
Non importa ciò che lei fa. Importa ciò in cui crede. E la sete di vendetta, l’istinto di sopravvivenza, la necessità di piegarsi all’utile, seppur insopprimibili, non reggono il confronto con la vena stillante che le attraversa il seno bruciandole dentro.
Anche se deve rinunciare.
Una lacrima le corre sul viso, s’insinua nel corpetto dell’abito da casa, semplice, di un celeste pallido. Un abito che se potesse parlare, dovrebbe raccontare storie che nessun orecchio umano, perlomeno un orecchio innocente, dovrebbe mai udire.
Strega. Avvelenatrice. Puttana. Tutto, hanno sentito le sue. L’hanno infamata in mille modi, additata per strada, un tempo; ora nessuno ardisce più di guardarla in viso. Anni prima, spesso si è travestita da ragazzo, per meglio passare inosservata; ora potrebbe andare in giro coperta di pietre preziose e tessuti ricercati, e nessuno dei briganti che infestano le vie di Roma oserebbe torcerle un capello. La temono tutti; non si fidano solo delle sue capacità di erborista, le donano poteri soprannaturali; si narra che basti un suo sguardo a far cadere stecchito, come trafitto da una lama affilata, chiunque si ponga di traverso per la sua strada.
Non è vero, naturalmente. Anche se le è stato insegnato a battersi con la spada, e all’occorrenza saprebbe maneggiare bene anche una lama, come quelle erbe. 
Ma forse qualche capacità sovraumana la possiede ugualmente. Non le serve udire i passi familiari giù nel cortile; non lo scampanellio della vecchia Isidora che l’avverte della visita. L’ha mandata fuori, concedendole di andare a trovare la figlia inferma in tutt’altro capo di Roma, con un blando miscuglio per allentare i dolori della malattia: con la preveggenza dettatale dal suo angelo custode, o meglio dal suo demone benefattore, la voce dentro la sua testa, ha intuito che sarebbe stato meglio che l’anziana servitrice non fosse presente. Non può crederla disinteressata, Sofia: per troppi anni ha trafficato nella corte della Sacra Famiglia, spia alle dipendenze della Beata Madre prima, della Divina Figlia e della Sposa di Cristo in seguito. Titoli blasfemi, proferiti a denti stretti nei corridoi e nei vicoli, a meno che non si volesse avere a che fare con il Diletto Figlio in persona.
Ma non è già questo di per sé, blasfemo? Un Papa con un figlio, anzi quattro, di quelli riconosciuti almeno; anzi tre, dopo la morte del prediletto Juan, per mano ignota.
Ignota, per gli altri, forse. non per lei, che quella mano ha baciato, come fosse davvero quella di un santo. Ornata dell’anello vescovile, poi cardinalizio. E ora, consacrata dalla spada.
Rabbrividisce senza volerlo.
E’ tempo. La sabbia nella clessidra sta per finire. Deve portare in salvo tutto ciò che può.
A qualunque prezzo.
Due lievi colpi alla porta. Stringe le palpebre, lasciando cadere l’ultima lacrima, il veleno più dolce e più amaro insieme, nella mistura violetta. Va alla porta, risistemando la stola sopra la veste da casa.
No. non è mai davvero pronta ad affrontare quegli occhi. Verdi, come gli smeraldi che tante volte ha visto indosso a Giulia, a Lucrezia, alle dame della corte papalina. Ma più puri di essi, più luminosi, più vividi.
Anche adesso che le stanno di fronte, le forze le vengono meno. La vena pulsa più forte e il sangue non riesce a coagulare; il fluido immateriale del suo spirito scorre via, e lei non conosce medicamento atto a fermarlo.
<< Francesco >>, mormora, e sulle sue labbra quel nome ha il suono di una profezia.
Sapeva ch’è tornato a Roma, sfidando la sorte, anch’egli. Ma non come lei, nell’ombra, tessendo, rimestando, pesando e bollendo; no. Lui la sfida a viso aperto, come gli eroi del mito, quelli di cui tante e tante volte suo padre, di cui ancora cerca di vendicare la morte provocata da un vile codardo che l’ha pugnalato per una delle vie più infime della Capitale lasciandolo poi a morire nel suo stesso sangue, le raccontava le gesta gloriose. Ettore, Achille, Ercole, Paride, nomi che ancora si inseguono nella sua mente durante le notti vuote di sonno e preda degl’incubi, di visioni orrende, della fiamme dell’Inferno, e di tutti quei volti conosciuti che ardono incenerendosi in esse.
Non le chiede di entrare. Oltrepassa la soglia, senza distogliere lo sguardo da lei. << Cosa stai facendo? >>, le domanda. E per un attimo Sofia teme che si riferisca a quello che sta facendo della sua esistenza, quell’essersi consacrata ad una causa già perduta in partenza, sorella anche lei di sventura di quella Lucrezia che ha conosciuto bambina, e poi andata in sposa secondo la necessità politica, resa madre, poi tornata vergine, quasi per un miracolo dello Spirito Santo, o meglio del Padre Santo, e poi ancora madre e infine vedova.
Alla fine il padre premuroso l’ha destinata ad un nuovo matrimonio, il terzo, di cui Sofia forse ha saputo prima ancora della diretta interessata: aveva una fonte di prima mano, che le dava le notizie direttamente nel letto. Con rabbia, prima, nel vedere la sorella amata forse non troppo fraternamente fungere da pedina nei giochi di potere del Padre, quando invece c’era lui che potrebbe solo reggere e cambiare le sorti del mondo; e con gioia sacrilega, quando ha potuto liberarla da quel legame che minacciava di farsi troppo stretto, per i suoi gusti da padrone assoluto.
Negli ultimi tempi però era più rassegnato. Pensava più ai casi suoi, e meno a quelli di Lucrezia; ma non certo perché aveva preso moglie anche lui, là nella lontana Francia. E’ perché aveva una guerra da combattere, nuovi orizzonti da conquistare: una Guerra Sacra, benedetta dal Padre- Papa in persona, davanti al concistoro dei cardinali riuniti, che lungi dall’avere intenzione di versare il proprio sangue per la Santa Romana Chiesa, come l’abito vorrebbe, pensano più ad intascare quattrini e impinguare le loro rendite.
Adesso la sorella era meno presente nei suoi pensieri, è vero; ma ciò non gl’impedirebbe di tornare a lei ad un nuovo ghiribizzo di quella fame spietata, di spagnolo vorace, rapace, che tutto vuole e nulla concede in cambio, sempre ammesso che il Fato gliene conceda il tempo e l’occasione.
Sofia l’ha ben sperimentata, quella fame. Da vittima e da carnefice. Non per nulla, anche lei ha nelle vene il sangre caliente della Spagna. Anche così l’hanno chiamata, i Romani: catalana maledetta, anche se lei è nata in Italia, e la sua famiglia non è originaria della Catalogna, ma della Castiglia; e non è imparentata per via di sangue alla Famiglia – quella con la F maiuscola- ma per altre vie, più oscure, più traverse.
Solo lui non l’ha mai giudicata. E di questo Sofia ne ha conto con dolore: anche Francesco, per quanto la ami, non è riuscito a non farsi anche lui del numero di coloro che non comprendono la sua vera natura. La Conoscenza, di cui quel suo mestiere terribile è parte ben remunerata, è dentro di lei, nel fondo della sua anima: lei deve sapere.   
Non è forse per questo, che l’hanno chiamata così?
Sofia. La Conoscenza.
In ogni nome vi è il destino di un uomo o di una donna. Il suo protettore si chiama Rodrigo, “ricco di gloria”; e di gloria, oltre che di ogni bene possibile, egli è davvero stato generosamente ricolmato dal proprio, di Protettore, che molti ritengono non sia l’Iddio nei Cieli ma il suo diretto avversario sotto terra; da Papa ha preso l’appellativo di Alessandro, “il difensore degli uomini”, ma solo di quelli che rientrano nelle sue grazie. Suo figlio Cesare porta il nome di colui che fu il più grande di Roma; ma forse ha voluto, Alessandro, dimenticare i colpi di pugnale sotto cui cadde, trafitto, colui che venne additato come tiranno. Forse l’unica fortunata è stata Lucrezia; la nobildonna romana moglie di Collatino, che si uccise davanti al padre e al marito dopo essere stata stuprata dal figlio di Re Tarquinio. Anche se lei è stata venduta tre volte al miglior offerente, in cambio di alleanze più o meno valide, a seconda dei casi, almeno le è stata risparmiato quest’affronto, e seppure non sempre ha potuto scegliere di propria volontà chi avere nel letto, ha saputo fare buon viso a cattivo gioco e trarne ogni beneficio possibile, da vera figlia del suo tempo, e di suo Padre.
L’uomo che ha dinanzi si chiama Francesco. Colui ch’è libero.
E tocca a lei renderlo tale. Spezzare quella catena, con tutti i mezzi a propria disposizione.
Anche se ciò vuol dire … fargli del male. Per il suo bene. Per proteggerlo, lui, e il fratello che la madre morta di parto tanti anni prima gli ha affidato.
Lei ama quel bambino, una creatura davvero innocente, pura. E desidera solo di difendere quella purezza, quella ingenuità; vuole che cresca con al fianco una degna sostituta della madre che ha perso.
Non può essere madre, Sofia. Non con la strada che si è scelta. Ha visto i figli di Lucrezia crescere senza padre; gli stessi figli di Rodrigo accolti in una casa straniera, senza amore, solo per l’utile a cui sono stati sacrificati uno dopo l’altro. Ha visto Laura, la figlia di Giulia La Bella, la concubina papae, un’altra piccola bastarda che porta il nome degli Orsini quando invece nelle vene ha il sangue dei Borgia. Di quale ben non si sa, dacché padre e figli si sono contesi le stesse grazie nei lunghi meandri bui del Palazzo Papale.
Ha visto Sancia, la napoletana, andare in moglie al piccolo Jofré. Moglie sulla carta: nel letto anche lei ha avuto i fratelli maggiori del marito, entrambi. Voci maligne dicono che prima era stata l’amante del fratellastro ora sul trono di Napoli, cugino di quell’Alfonso andato in sposo a Lucrezia in seconde nozze. E di questa, poi, si sono riferite cose turpi, oscene, a cui non si sa se dar fede o meno tanto sono orribili. A sentir Roma, i concistori sono divenuti baccanali, con le donne Borgia a far da baccanti, concedendosi ora a questo ora a quello.
Sofia sa che nemmeno lei è salva da quel continuo scambiarsi di carni e letti. Ha accolto nella propria carne, nel proprio letto una parte di quello scempio; il male che ha colpito il Valentino per colpa di tanti pellegrinaggi per nulla santi ha risparmiato lei, che sapeva come cautelarsi, ma quelle piaghe raccontano i vizi, le mostruosità di una vita senza Dio, da parte di chi quel Dio se l’è messo al dito e ai piedi, pronto ai propri comodi. 
Perlomeno, però, non l’avidità, non la lussuria, o l’interesse l’hanno condotta a quella scelta. E’ stata una sorta di affinità con quel ragazzo dagli occhi di avvoltoio, che l’ha presa senza chiedere, ma senza nemmeno forzare. In un certo qual senso, gli si è data coscientemente: sapeva che una volta apposto su lei il sigillo dei Borgia, la sua missione sarebbe stata consacrata, e lei non avrebbe più potuto perdersi in altro.
L’altro che adesso aspettava una risposta. << Io … >>.
<< Cosa stai facendo, Sofia? >>, le domanda ancora. Le sue iridi scintillano di giusta furia, d’amore, di possesso, di tutti quei sentimenti che lei rifugge, perché li teme.
Non per lei. Non può desiderarli per sé, Sofia. Ha fatto una scelta, una promessa, e sa di doverla rispettare.
Vede quegli occhi posarsi sul tavolo da lavoro, e intuisce che Francesco in realtà vuole sapere a chi è destinata la pozione che ora vira al verdastro, continuando a fermentare nell’alambicco.
<< E’ … un esperimento >>, mormora, senza abbassare il proprio sguardo. Le iridi nere che le hanno restituito lo sguardo dai vetri offuscati di infiniti specchi, nelle viscere della Terra, a Castel Sant’Angelo: dove i prigionieri, i ribelli vengono condotti per venire torturati. Lei non ha mai preso parte agli spietati maneggi dei soldati di Cesare, o di lui stesso; si è limitata ad approntare medicamenti quando abbisognava allungare la vita a quei disgraziati, perché subissero altri atroci tormenti, e confessassero infine i loro peccati in nomine Patri, Fili, et Spiritus Sanctii.
E la loro assoluzione era spesso la garrota del Corella. Un altro servo della Famiglia, al pari di lei.
<< Chi? >>.
<< Non ti riguarda >>. Il tono di Sofia si fa duro; fa per voltarsi ma la mano di Francesco, quella mano grande, salda, irruvidita e brunita dal lavoro si serra attorno al suo polso esile e bianco.
Per un istante si sente anch’ella come i manufatti nella fornace da cui l’uomo trae le sue meraviglie. Liquida e incandescente, fragile e pericolosa, informe. Come la sabbia silicea, che grazie al fuoco fonde e col suo respiro paziente, amoroso, con l’incessante danza delle dita intorno al soffione riprende forma e senso, cristallina purezza e posto nel mondo.
Quella stessa mano che accarezza i ricci del piccolo Jacopo, il bambino ch’è costato la vita alla sua giovane madre. Così l’ha conosciuto lei, solo con un bimbo di cui occuparsi, aiutato da una vecchia governante e con il suo mestiere di mastro vetraio, giunto dalla lontana Venezia. Suo padre si era rivolto spesso a lui, per i suoi alambicchi e i suoi imbuti; solo Francesco era in grado di giocare con gli dei del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra, una sorta di mago in grado di padroneggiare gli elementi per tirare fuori quegli incantevoli oggetti, fragili come bolle di sapone, eppure capaci di dare la morte se andavano in pezzi.
Com’è accaduto a lei. Mai avrebbe pensato di poter essere capace di uccidere, finché non era andata in pezzi.
Solo se fosse stata nuovamente fusa nel fuoco dell’amore puro e ardente di Francesco, forse avrebbe potuto mondarsi dalle scorie e riacquistare una forma nuova, diversa. Non una fiala per l’arsenico, non un flacone per conservarvi la cantarella, veleno inventato da suo padre e perfezionato da lei stessa; ma una boccia attraverso cui guardare il cielo, le stelle che ne abitavano le notti catturate per qualche istante in quella bolla sospesa tra le dita, potersene fingere custode, illudersi di poterle stringere nel palmo della mano. Oh, poter vedere l’Universo più vicino … foggiare quel vetro in modo da poter osservare i moti misteriosi degli astri, per vedere s’era vero che potevano condurre le vite degli uomini nati sotto l’influenza or di questa or di quell’altra stella, come narravano quei pazzi sapienti per le strade e nelle corti  … quante volte ha confidato a Francesco quel suo pensiero inopportuno, e lui l’ha guardata con quegli occhi spalancati, più luminosi di quelle stesse stelle lassù nel nero profondo, senza dir nulla, forse credendola un po’ matta, un po’ strana, un po’ strega davvero. 
Non era anche questo, un peccato? Voler scrutare più da vicino ciò che solo a Dio era permesso conoscere, dacché Egli le aveva create e poste lì, una ad una? Voler sapere tutto, ogni cosa, possedere i segreti del mondo, del cielo, degli abissi.
Una donna, a cui doveva essere permesso solo di far figli, e occuparsi della casa.
Una donna, il Ripensamento di Dio. Anche Rodrigo, che le ama tanto, non vede altro che in loro mezzi per ottenere il proprio piacere, per deliziare i sensi con le loro grazie e le loro arti femminili, la musica, la danza, la conversazione; e insieme ricettacoli per generare altri eredi da usare per legare a sé terre sempre più vaste, in quel suo sogno di conquistatore insaziabile.
E sono in pochi a non pensarla come lui. Anche le stesse donne del suo tempo, costrette a muoversi dall’ozio delle corti alle sale dei palazzi, rinchiuse nei loro corsetti, nelle loro sottogonne, nei loro gioielli e liberandosene soltanto per rivestirsi di nuove schiavitù. In poche, come Giulia o Vannozza, la madre di Lucrezia, sono abbastanza abili da ricambiare con la stessa moneta, ricorrendo sempre alle lusinghe della seduzione per ottenere ciò che desiderano.
Ma Sofia spregia di simili compromessi. Lei vorrebbe solo essere libera di sapere, d’imparare, di far tesoro di ogni granello di conoscenza, per poterlo poi ritrasmettere, ai posteri; non per smania di superbia, ma solo per amore e desiderio di condivisione.
Sì, anche questo è peccato.
Oppure, ritornando a piedi in Terra, divenire più concretamente una boccetta per custodirvi il profumo della pelle di quell’uomo … con tutta la sua arte lei era conscia di non poter creare nulla di lontanamente simile, neanche se avesse chiesto a Papa Alessandro di farle pervenire le erbe, i balsami, le fragranze e i legni più rari dall’Oriente, o dalle Nuove Indie. Poterlo distillare per averlo con sé in eterno, simile a quell’incenso che ormai serviva solo a mascherare il lezzo della corruzione, della carne rancida, marcescente di porporati indegni, e cortigiane imbellettate, di parassiti e lenoni e puttane e buffoni, e giovinetti impudichi.
D’un tratto la coglie la nausea. Non un’impressione, ma una vera e propria stretta fisica allo stomaco. << Sofia, cos’hai? >>.
<< Nulla. Vattene, Francesco >>. Porta la mano alla fronte, madida di sudore. Il cuore in petto le accelera, si sente mancare.
<< Sofia, c’è la malaria. Il Napoletano è già caduto sotto la sua falce, e oggi è arrivata a Ostia, l’ho sentito in Piazza del Mercato. Andiamo via. Sono venuto per questo … per condurti via >>.
<< No >>. Si ribella, Sofia. Con la forza della disperazione cerca di sottrarsi all’abbraccio forte, caldo di lui. Ora come non mai è quel vetro fuso, e solo tra le sue mani può trovare forza e stabilità, pace e coraggio …
Ma la promessa le risuona nelle orecchie. Non può. Deve metterlo in salvo. << Vattene. Torna da tuo fratello >>.
<< Non senza te, Sofia >>.
<< Vattene, Francesco. Va’ via, ti supplico >>.
La fiamma si scuote, per poi danzare più alta e forte. Quando lui la stringe per le braccia, serrandola contro il bordo del tavolo.
Vita contro morte. Alle sue spalle, il veleno che bolle; davanti a lei, il sangue vivo che guizza.
Poi Iddio, o forse qualche entità maligna si ricorda di lei. La stola scivola piano dalla spalla, le scopre il ventre.
E Francesco si scosta inorridito. << No … >>.
Sofia non trova il coraggio di dir nulla. Distoglie lo sguardo, ansimando, massaggiandosi il polso ora libero. Fiori rossi come i papaveri sono spuntati sulla pelle candida. Ma non vi è succo che tenga, per obliare quei momenti.
Sa che li rammenterà in eterno, notte dopo notte. Guardando quelle stelle, e toccandosi i polsi. Uno dei rari tocchi che Francesco le abbia mai riservato.
Non ha mai voluto che la possedesse. Per ritegno, per la purezza di lui, per la sua inviolabilità. Lei è corrotta, non può stendere la propria ombra su quell’innocente, anche se lo ama.
Anzi. Proprio perché lo ama. << E’ suo? E’ di … quel mostro? Di quell’essere … indegno … che si onora di essere figlio del Papa? >>.
<< Shhhh! >>. Sofia ritrova presenza, congiunge le mani alle labbra. << Taci. Taci, per l’amor di Dio. Il Valentino non è uomo da perdonare le ingiurie. Ha spie dappertutto, pronte a correre da un canto all’altro  anche soltanto per riferirgli una tale pochezza. Ha fatto scorticare vivo un uomo che aveva osato dir che sua sorella era una poco di buono, e solo dacché si è maritata due volte >>.
<< Perché, non è forse vero? E non c’entra nulla che si sia maritata due volte, ma tutto quello che c’è nel mezzo! >>.
<< Taci, taci! >>. Il tono di Sofia ora è di preghiera disperata. << Va’, corri, prendi tuo fratello e fuggi. Torna a Venezia … lei è ancora neutrale, si è rifiutata di entrare nella Lega del Papa. Se puoi, corri ancora più lontano, va’ fuori d’Italia. Tra poco arriverà l’Apocalisse, quella vera, e dovrai trovarti molto, molto lontano da qui >>. E’ lei adesso ad avvicinarsi. Brama stringerlo al petto, tenere la sua cara testa sul cuore, baciargli la fronte e affidarlo all’Unica Vera Madre, quella che tutto Sa, e tutto Perdona.
Ma lui indietreggia, fissando il suo ventre. Sembra che vi veda dentro il seme dell’Anticristo … e in un certo senso, ha ragione. Davvero quell’uomo è un demonio, uscito dall’Ade per portarvi quante più anime possibile, trascinarle giù con sé, prima di farvi ritorno anch’egli.
Eppure Sofia ricorda anche di quand’era giovinetto, che sfogava la sua inesauribile forza fisica cavalcando, lottando, esercitandosi con le armi. Nulla lasciava ancora presagire il mostro, nel volto di Cesare fanciullo.
Poteva essere stato corrotto dal mondo, anche lui? Dalla guida di persone malvage e irrispettose di qualsivoglia umana compassione?
E’ tardi per domandarselo.
E’ tardi per tutto, ormai. I Cavalieri della fame, della guerra, della peste e della morte viaggiano veloci per le strade d’Italia irrorandole di sangue; l’unico modo per sfuggirvi è allontanarsi, quanto più possibile.
<< Va’ via da qui >>, sussurra, in un filo di voce. 
<< No >>. A quella nuova cacciata Francesco si ridesta, dimentica l’orrore per abbracciarla, cercarla di nuovo, le spalle, le guance, lo sguardo. << Perdonami, non me lo aspettavo. Non importa … non importa, Sofia. Non conta chi l’ha generato, conterà la famiglia in cui verrà cresciuto. Lo … terrò come fosse mio. Lo amerò come amo mio fratello, perché per metà è tuo … e tu sei pura, Sofia. Rinuncia alla tua promessa. Rinuncia a tutto. Ricomincia, lontano, con me. Orazio ha un amico dall’altra parte dell’Adriatico, in Grecia. Andiamo lì. Andiamo … a vivere insieme, io, tu, Jacopo e … questo bambino >>. Nei suoi occhi brilla una lacrima, bellissima, perfetta. Scivola giù lungo la guancia, si raccoglie sul mento prima di caderle in seno. Piccolo miracolo, della stessa consistenza del vetro.
Per un istante Sofia sta quasi per cedere. Non ha più forze per combattere, dentro e fuori di lei è un turbinio di ricordi, emozioni, sale come il vento e si condensa in tempesta, di folgori e luce, come quei fenomeni che ogni tanto si verificavano in cielo e in cui i buoni Padri vedevano il dito accusatore della Collera Divina … le gira la testa, lo stomaco si serra assieme alla gola.
Tra le braccia di Francesco sente di star per morire. I sensi vacillano come la volontà, l’aria fugge via … finendo catturata dalle labbra di lui, che gliela restituiscono immediatamente assieme alla vita.
Sulla sua bocca Sofia ritrova la pace. Una pace che ha perso da tempo infinito, forse già dal primo giorno in cui è venuta al mondo. Gl’infila le dita tra i capelli e tira con forza, non per strapparlo da sé ma per sentirne la vitalità, la potenza, la passione trattenuta fino a quel momento. 
E Francesco non la delude. Il bacio, il primo che mai abbiano scambiato, si fa intenso, profondo, quasi morso. A stento riesce a non gemere, di sofferente desiderio.
Lasciar cadere quel veleno, rinnegare tutto. Il suo passato, le sue ombre, le sue colpe. Prendere e fuggire, svanire, inventarsi una nuova vita, un nuovo nome … potrebbe prendere quello della sua amica Costanza, colei che l’ha introdotta nella dottrina segreta di Lux. Dove tutti coloro che credevano in un mondo nuovo, senza più religioni, lingue, usanze a dividere, ma tutto ben accetto nel nome della fratellanza, dell’amore universale, dove a far da padrone è la scienza a servizio dell’umanità. Cure, invenzioni, scoperte, tutto, per un futuro di pace, come quella che sta provando adesso Sofia.
Costanza le ha parlato della Grecia, le ha narrato le meraviglie che custodisce la Patria degli antichi eroi dei racconti di suo padre. Le ha parlato di luoghi bellissimi, selvaggi, sconosciuti ai più, ove si compiono cose che per altri sarebbero stregonerie belle e buone. Dell’India, da cui giungono spezie rare e stoffe pregiate, dove si trovano santoni in grado di digiunare per mesi, senza mai dormire, solo seduti a meditare; e della Cina, dove esiste un muro che potrebbe dividere l’intera Penisola in due.
<< Tu sei una predestinata, figliola. La tua sete di conoscenza è superiore a quella di chiunque io abbia mai incontrato fin qui, persino i nostri amici di Lux, qui a Roma e in Spagna >>. Aveva sorriso del suo sorriso buono, rassettandosi la crocchia di capelli argentei. << Un giorno, potresti essere tu quella che cambierà le sorti del mondo. Liberare le donne, ma anche gli uomini che come te bramano di sapere, senza ritenere che sia un peccato mortale, ma anzi lo considerano un mezzo per giungere ancora più vicini all’Onnipotente. Un giorno, quelli che predicano dai pulpiti che conoscere è male, che per aver voluto aprire gli occhi Eva ha indotto Adamo in errore e a causa sua siamo stati scacciati dal Paradiso Terrestre, comprenderanno che invece è la Conoscenza l’unica chiave per ritornarvi, e smetteranno di mandare al rogo quelli come noi >>.
Sofia aveva un attimo dubitato delle sue parole, ribattendo che per lei forse era un discorso differente, che aveva impiegato i suoi talenti al servizio del male, che uccideva la gente con la sua scienza.
<< Siamo purtroppo figli e figlie del nostro tempo, Sofia. Ma verrà un domani in cui tutto questo non esisterà più, in cui gli uomini non saranno nemici, ma fratelli. Forse non vivremo abbastanza per viverlo di persona, ma con la nostra crociata sappiamo di gettare i semi per quel giardino >>.
<< Semi velenosi >>, aveva sentenziato amara Sofia.
<< E’ vero. Ma è possibile che i peccati ti vengano rimessi, in funzione del tuo giuramento. Anche se … io non credo che tuo padre avrebbe desiderato questa vita, per te, è comunque giusto che segua la tua strada, che decida liberamente per te stessa. Non sarà per sempre così. Questo mondo non conosce requie, Sofia. Potrebbe cambiare tutto anche domani stesso, e noi con lui >>.  
E così era stato, infatti, anche se in peggio. Qualcuno, mentendo anche se a metà, ha fatto giungere in alto loco la diceria che i facenti parte di Lux tramavano contro Sua Santità in persona, e contro l’autorità della Chiesa. Che volevano sovvertire l’ordine morale – quale ordine?, aveva pensato Sofia sorridendo amara-  e propagare dottrine diaboliche, false, corrotte.
Il colmo però era stato spargere in giro la voce che effettuassero sacrifici umani a potenze oscure. Quelli che in realtà erano interventi disperati atti a salvare vite umane, purtroppo poi falliti per scarsità di medicamenti efficaci a scongiurare le infezioni nate dalla sporcizia, o dalle condizioni disastrose di vita e di salute in cui spesso quei poveretti versavano già prima di venire operati.
Basta poco per divenire strega davvero, a Roma. Basta tanto così. 
Il popolo in rivolta aveva invaso il luogo in cui si raccoglievano gli accoliti, uccidendoli brutalmente e straziandone i cadaveri, prima di dare tutto alle fiamme.
Sofia era scampata perché un ordine di Sua Santità l’aveva trattenuta a Castel Sant’Angelo. Una spia del cardinale Giuliano Della Rovere, irriducibile avversario del Borgia divenuto improvvisamente loro amico al tempo delle nozze di Cesare in Francia, l’anno precedente, era stato riconosciuto in una taverna dagli uomini del Corella mentre tentava di assoldare altri assassini come lui; condotto in catene, era stato ridotto ad una poltiglia maciullata di ossa e muscoli dalle cosce in giù. Ma ancora non aveva confessato: era toccato a lei, tenerlo in vita quel tanto che bastava a strappargli, più o meno sinceramente, le vere intenzioni del suo mandante, che nel frattempo si trastullava lontano da Roma.
Non era servito a nulla, fino all’ultimo respiro rantolante aveva negato di sapere le intenzioni del Della Rovere; anzi, giurava davanti a tutti di non sapere neppure chi fosse, questo Della Rovere.
E lei si era sentita nuovamente sporca, colpevole per aver usurpato un potere che spetta all’Onnipotente, mantenere in vita una persona, solo per prolungarne l’agonia; e insieme, per aver contaminato una volta di più la sua sapienza sottomettendola ai capricci dell’ingiustizia. Un attimo che la prendeva sempre, malgrado fossero ormai più di dieci anni che fosse al servizio del Santo Padre.
Aveva ascoltato i suoi lamenti, visto il sangue condensarsi in pozze sempre più larghe sotto quei poveri arti devastati, sentito il rumore della carne che si lacerava e delle ossa che si trituravano nella morsa dell’attrezzo che stavano usando su di lui le guardie.
Quando aveva saputo di ciò ch’era successo a Costanza e agli altri, era corsa dal Papa, piombando nel suo studio privato senza aver chiesto udienza, senza neppure farsi annunciare. Lo aveva trovato in compagnia di una delle belle che avevano sostituito nelle sue grazie quella di un tempo, Giulia Farnese; per nulla imbarazzata, aveva atteso che la ragazza si rivestisse e uscisse, lasciandoli da soli.
<< Voi sapevate? Sapevate della rivolta? >>, gli aveva chiesto, senza pensare che poteva farla uccidere in un secondo, solo schioccando le dita tozze, irruvidite dagli anni, a contar denari, a palpar cosce e seni, a impartire benedizioni infette e sollevare ostie inquinate dalle malefatte di colui che doveva elevarle al Cielo; non aveva distolto lo sguardo un solo istante dal suo volto ormai anziano, ingrigito, rugoso, ma per nulla arreso.
Negli occhi di quel catalano Sofia aveva letto il nulla, il buio più perfetto, un’ignoranza talmente assoluta da risultare difficilmente credibile. A Roma persino i complotti contro di lui, le maldicenze venivano manipolate da lui stesso. Non una foglia, non un sasso del Tevere, non un ratto della Suburra o di Subiaco potevano muoversi senza che lui lo sapesse.
<< No, figliola cara >>.
Una volta di più Sofia aveva morso la lingua in bocca, fremendo di rabbia per quel titolo carpito all’unica persona che davvero aveva potuto pronunciarlo con affetto, con sincerità.
Suo padre Giuseppe.
Questo l’aveva indotta a mutar di tono. Il debito che aveva con lui non era ancora estinto, non poteva permettersi il lusso di venir buttata in galera, uccisa o esiliata.
Aveva ancora troppo lavoro da fare. << Avevi … conoscenze, tra le vittime? >>.
<< Sì. Costanza era una vecchia amica di mio padre. E anche mia >>, aveva rivelato, provando a placare la furia mostrata poco prima.
<< Sono dolente per la tua amica. Pregherò il Signore affinché perdoni i suoi peccati, e quegli degli altri >>. Il tono era palesemente contrito, ma Sofia conosceva bene il guizzo ferino che gli storceva l’angolo della bocca, quando si compiaceva del suo feroce, sottile sarcasmo.
Non aveva capito, Rodrigo, che quella che gli stava di fronte era una valida avversaria. Era nata il suo stesso giorno, il Capo dell’Anno, anche se più di quarant’anni dopo. Conosceva bene le sue armi, Sofia.
<< Non scomodatevi, Santo Padre >>, aveva risposto, in tono più serio, quasi noncurante. << Costanza era ebrea. Ma questo suppongo lo sapeste già, dacché ha comprato da voi il permesso di venire a Roma dopo la Cacciata dalla Spagna >>. Era una frecciata ben mirata: ancora non tacevano coloro che dicevano Rodrigo un marrano, un ebreo falsamente convertito, una serpe in seno alla Chiesa, seduta sul trono di Pietro, per farne scempio fin dalle fondamenta. Un vero e proprio capro, con tanto di corna e coda biforcuta, come per spregio alcuni Romani avevano dipinto sul suo stemma nobiliare il giorno della sua elezione, al posto del toro di prammatica.
Rodrigo non aveva risposto. L’aveva guardata con un misto di ammirazione e alterigia, giocherellando con il tagliacarte.
Anche lei aveva uno stiletto addosso, legato alla coscia. Aveva sentito il pulsare del sangue alle tempie, furibondo, assordante.
Sapeva senza che gliel’avesse detto. Era stato lui, ad ordinare quel massacro. E l’aveva tenuta lontana perché gli era preziosa; perché le servisse anche come avvertimento, per non immischiarsi più in tali faccende.
Non era che paglia, nelle sue mani nodose. Un gesto e l’avrebbe dispersa.
<< Come procede l’interrogatorio? >>, aveva domandato subito dopo, in tono totalmente diverso, quasi affabile.
<< Male, Vostra Santità. E’ morto senza dir nulla. Messer Corella sarà da voi tra poco, dopo aver lavato dal suo corpo il sudiciume del colpevole >>. Anche Sofia aveva cambiato di nuovo tono: era scientemente leggero, quasi divertito. Come a fargli intendere che aveva capito, quell’uomo non era né una spia né un assassino, solo un povero diavolo ubriaco torturato perché servisse di pretesto.
Per questo aveva mescolato all’ultima dose di medicamento un forte dose di laudano. Perché morisse nell’incoscienza, soffrendo il meno possibile. Anche se ancora non sapeva nulla dell’accaduto a Tor di Nona, nella base segreta di Lux, aveva comunque scelto di abbreviare l’agonia di quel poveretto, dacché non era raro che avvenissero di tali orrori solo perché le guardie si annoiavano.
Borgia aveva riso. << Tu, Sofia, usare un linguaggio così triviale nelle sacre stanze del Vaticano? Il suo corpo … cosa ne sa, una fanciulla come te, del corpo di un uomo? >>. Il guizzo ferino era tornato, più lascivo, meno crudele adesso.
E certo. Sapeva anche questo, che era l’amante di suo figlio, una delle tante, da tempo ormai.
Non che questo avrebbe cambiato qualcosa, se avesse puntato pollice verso. Anzi. Forse avrebbe chiesto a Cesare stesso di sbarazzarsi di lei.
<< Puoi andare. E mi raccomando. Continua a lavorare su quel certo liquore >>. Mai si usava il termine “veleno”, tra quelle mura. “Liquore”, o “belletto”, erano gli eufemismi utilizzati.
<< Sempre, Santità >>.
Così si era congedata.
Per il momento.
E adesso, sta per venir meno a quella promessa data nuovamente un attimo dopo essersi richiusa dietro la porta di quello studio. E a quella nuova litania aggiuntavi, chiedere vendetta anche per il sangue di Costanza e degli altri suoi amici periti quella notte.
<< Lascia che ti ami, Sofia. Lascia che ti salvi … vieni via con me >>, le sussurra Francesco senza staccarsi da lei. << Permettimi di prendermi cura di te, e di tuo figlio >>. La mano le accarezza il fianco, spingendosi verso il ventre appena arrotondato.
A quell’accenno Sofia torna in sé. Scaccia tutto, quell’abbandono, quel calore, tornando roccia, pietra inanimata.
Non può. Lei non può. Non è padrona della sua esistenza: a nessuno può concedere di salvarla.
Solo al suo giuramento deve fedeltà.
E dopo essersi macchiata di quell’ultimo, imperdonabile peccato, non potrà più davvero esserlo.
Non da lui.
E dacché Francesco è l’unico che ne sarebbe in grado, sa già di essere perduta.
<< Non posso >>, è la sua ultima, fredda replica.
Guarda il “liquore” nell’alambicco. Ora è denso, di un rosso cupo quasi nero. Come sangue raggrumato.
Sul sangue ha giurato. E non può tornare indietro.
Nemmeno per Francesco.
Soprattutto per Francesco.
Lui capisce che non c’è nulla da fare. La lascia andare, piano, e Sofia gli volta le spalle fissando quel nero vischioso dai riflessi borgogna, come vino.
Al vino va appunto mescolato. Come feccia, ma senza sapore, senza odore, insidioso e letale. Pronto a ristabilire gli equilibri, fare giustizia degli empi, degli assassini scellerati che hanno ucciso non solo suo padre, ma anche sua madre. Perché sì, la donna che ha creduto morta di parto nel darla alla luce, come la madre di Francesco, in realtà era stata barbaramente sgozzata nel suo letto, accanto alla figlioletta di tre anni, mentre suo marito si trovava nel Palazzo dell’allora cardinale Borgia.
Sono occorsi anni, ma alla fine l’ha scoperto.
Per questo lei non può essere madre, perché per lei “madre” vuol dire sacrificio.
E lei non è vittima. Non è abbastanza innocente per esserlo.
<< Vattene >>, gli dice, senza guardarlo.
Francesco corre via, spaventato quasi, da quel gelo improvviso. Come se qualcosa si sia impossessato di lei, e non sia più Sofia, non soltanto.
Come se d’un tratto le voci che la vogliono strega, dannata, schiava del demonio fossero improvvisamente divenute realtà.
Ma il cuore all’ultimo le dà un palpito doloroso e allora corre al balcone, fuori, nella notte a guardarlo andar via. Quasi sentendola Francesco si volta, la guarda ancora, un misto di rimpianto, orgoglio ferito, amore implacabile e tant’altro gli brucia nelle iridi.
Se si potesse vedere da più vicino quei piccoli globi … forse scopriremmo che sono fuoco, e non aerea luce, come raccontano. Come le sfere incandescenti che tu ruoti nella fornace.  
Per un ultimo attimo le loro anime si parlano.
Poi Francesco si volta, e fugge via, calcandosi il cappuccio della mantella sul volto.
Sofia lo sa. Non si arrenderà, gliel’ha sentito pronunciare chiaramente senza che dovesse aprir bocca. O che stranezza, sapere le cose come se gliele avessero sussurrate all’orecchio, senza che gli altri parlino.
La stessa voce che le sussurra altre cose, strane, a volte maliziose, a volte tremende. La stessa voce che le mette in testa idee, tarli che vi scavano gallerie infinite.
La stessa … che le ha ispirato quell’inganno.
Infila la mano sotto la veste, tira una, due, tre cordicelle. Il corsetto si sfila, il guanciale imbottito cade al suolo con un lieve tonfo.
Non aspetta alcun figlio. Sa come impedire il concepimento; come ha detto, lei non può esser madre, tranne che delle sue creature, i suoi veleni. E’ stato solo un espediente a cui è ricorsa nel tentativo di dissuadere Francesco, quando sarebbe venuto da lei. Da settimane, appena quel ronzio le aveva mormorato che stava per tornare da Frascati, si era provveduta in tal senso, portando notte e giorno quel rimedio, nascondendolo sotto la stola per impedire alla vecchia Isidora di accorgersene. Non che gliene importi, in realtà: Cesare non viene a trovarla da prima della partenza di Lucrezia per Ferrara, ma questo Francesco non poteva saperlo. Tuttavia, anche ammesso fosse stato vero, ha altro a cui pensare, non si prenderebbe certo pena per un altro bastardo. Ne ha già a bizzeffe, pronti a maledirlo appena precipiterà dall’apice della sua gloria, iniziata con la conquista degli Stati della Romagna, e che ora guarda a Sud, verso Napoli, l’eterna preda ambita da sempre.
Guardati, o Babele, poiché grande sarà la tua rovina, tanto grande fu la tua superbia. Così sarebbero finiti tutti, quei catalani. Sprofondati nell’abisso da loro stessi aperto.
Ecco perché si sta preparando. Il “liquore” a cui lavora da mesi e mesi ormai è pronto. E’ giunta alla perfezione, al suo di apice: come nei processi alchemici, dal piombo ha purgato l’argento, e l’ha sublimato in oro, con un’anima di diamante.
Eccola, la pietra filosofale. Un veleno che non lascia traccia, impossibile da individuare, e che dà sintomi simili a quelli della malaria, rendendo così impossibile comprendere che vi sia stata intossicazione, lasciando intuire che si sia semplicemente contrato il morbo tanto familiare. Un veleno il cui aspetto è del tutto simile a quello del comune inchiostro, e che può facilmente venir celato in un calamaio. Un veleno per cui non esiste rimedio, poiché nessuno si sognerebbe mai di somministrare antidoti a qualcuno che sta morendo di malaria.
Sofia raccoglie il libro degli appunti su cui ha meticolosamente segnato i vari passaggi dell’opera, dall’inizio alla fine, in codice perché nessuno potesse intuire il senso di quelle parole. Dosi, ingredienti, tempi e modi di preparazione e cottura: tutto svanisce in un lampo, avvicinato e preso alla fiamma sotto l’alambicco. Lo getta sotto il camino, e man mano vi aggiunge tutto ciò che trova: anni e anni di lavoro, suo e di Giuseppe, quaderni, fogli spaginati, mozziconi di pergamene ingiallite, ricette segnate su pezzi di papiri vecchie di secoli: tutto nella bocca vorace, insaziabile del fuoco.
Mentre i ricordi di due vite ardono, spegne la fiamma e scosta l’alambicco perché si raffreddi. Poi tira fuori il baule da sotto il letto, ci rovescia dentro gli altri alambicchi, filtri, imbuti, tubi, pesi, ogni strumento del suo mestiere finisce anch’esso ingoiato dal fondo buio. Sente il vetro andare in frantumi, con piacere perverso continua a rompere, distruggere. Se potesse li schiaccerebbe con i piedi, in una sorta di rituale d’addio, versare il suo sangue in sacrificio a quell’amore perduto, da vera strega quale mai è stata, o forse si è solo rifiutata di ammetterlo.
Quando il tavolo è vuoto, estrae lo stiletto dalla sua custodia di pelle di pecora trattata assicurata alla coscia destra. Una ciocca dopo l’altra, le sue lunghissime, lucenti onde corvine piovono come neve nera insieme nel baule. Li taglia corti, quasi come un ragazzo; con la stessa furia si strappa quasi il vestito e la stola di dosso, gettando anch’essi li dentro.
Va nella stanza riservata al bagno, versa l’acqua dalla brocca e si lava, in piedi, nuda, rabbrividendo malgrado sia quasi la fine di luglio. L’aria è ammalata: porta la condanna malsana della malaria.
Ma Sofia non la teme affatto. Si asciuga col telo in fretta, va’ al cassettone e ne trae fuori gli abiti con cui un tempo girava per le vie travestita da ragazzo. E’ ancora abbastanza giovane da potersi far passare per tale; stringe i seni e i fianchi sottili nella rozza tela del corsetto, facendo svanire le curve da donna. Indossa il camiciotto, le ghette, calca il cappello sulle ciocche corvine scomposte e si guarda nello specchio.
Sotto il camino è rimasta la cenere.
Con la complicità del buio trascina il baule fuori di casa, fino alla riva. Il Tevere scorre melmoso e placido, le sue acque hanno accolto segreti inconfessabili e cadaveri sfigurati. Don Juan, duca di Gandia, ripescato dopo due giorni, gonfio, livido; a lei era toccato di rimetterlo in sesto, perché fosse presentabile per il magnifico funerale approntato da Sua Santità; Astorre Manfredi, bellissimo giovinetto di appena diciott’anni, signore di Urbino, strangolato e gettato con le catene ai polsi, dopo mesi di prigionia in Castel Sant’Angelo. Lei lo aveva visto una sola volta da lontano, in quelle celle, ma non le era stato concesso di aiutarlo, né curandolo, né provvedendogli un rimedio che gli concedesse una fine più misericordiosa.
E tanti, tanti altri ancora. Complici, servitori, spie, assassini, uomini di rango, principi e pesti, amanti divenute scomode: tutto mescolato, senza dignità. Il Tevere si era fatto cimitero, carnaio anzi, in mano a quei maledetti.
Ma la resa dei conti è ad un passo.
Sofia spinge il baule. Le acque nere lo accolgono con spruzzi, poi ristagnano placide sopra di esso. Torna in casa di corsa, guardandosi le spalle; che a Roma anche i muri hanno occhi e orecchie.
Raccoglie la cenere sotto il caminetto e la infila in un sacco, accertandosi che non vi siano brandelli di formule, che potrebbero sciaguratamente turbare la mente di qualche innocente curioso abituato a frugare nei rifiuti e suggerire delitti. La sua macchia riguarda lei sola, e basta.
Anche se quel testardo non ha voluto capirlo. Perfino a questo era pronto, ad accettare un figlio non suo, il figlio di un uomo che aborriva e disprezzava, come avrebbe dovuto aborrire e disprezzare lei.
Pazzo. Pazzo lui, e pazza lei, d’amore, sì, quell’amore che sa essere il più mortale dei veleni.
Ripensa a Costanza, ai suoi racconti di come alcuni popoli non credessero nell’Inferno e nel Paradiso, ma nel ritorno in Terra in altre sembianze, in nuove vite, per rimediare agli errori delle precedenti.
Se è vero, forse c’è speranza, allora. In un’altra vita, in cui le sue mani sarebbero rimaste pulite, forse, avrebbe potuto cedere a quell’amore.
Ma ora no. Non adesso che sta per mantenere fede al suo impegno.
Costanza si sbagliava, in fondo, su una cosa. Lei non ha scelto liberamente di divenire quella che è; ha dovuto. Fin dal giorno in cui è nata, le sue stelle erano destinate a venire imprigionate nel vetro dell’inganno, della menzogna, della vendetta. In una bolla piena di veleno, e romperla avrebbe significato spanderlo e rischiare di rivoltarsi contro colui che avrebbe voluto liberarle perché tornassero ad illuminare la notte buia di quell’esistenza.
Sì, è davvero troppo tardi, ormai.
Infila lo stiletto nella custodia, lo allaccia intorno alla pancia tornata piatta: ora, senza gonna, deve portarlo per forza così. Dovrebbe anche provvedersi una spada, ma a questo ci penserà in seguito.
I suoi pochi vestiti li lascia lì. Isidora potrà regalarli a sua figlia, o a chi le pare. Sofia non ne ha più necessità, adesso.
Tocca con un dito l’alambicco. Ora è freddo abbastanza per travasare il veleno.
Da uno scompartimento sotto l’assito del legno, tira fuori una scatola che ha tenuto rinchiusa per anni, da appena ha messo piede in quella casa donatale dal Papa. Non l’ha mai messa fuori, mai.
La apre, facendo scattare il complicatissimo meccanismo a molla. Apparteneva a suo padre: se l’era fatta costruire da un artigiano arabo, in Spagna, quando era ancora un ragazzo con la testa piena di sogni, e i suoi esperimenti erano innocenti, volti al bene.
Dentro, apparentemente è una comunissima custodia per gioielli, una graziosa scatola di legno intarsiato mirabilmente con boccioli di fiori, steli e fronde; nel doppio fondo, ben nascoste e impossibili da trovare per chi non conosceva il trucco, vi sono quattro fiale di vetro differente da quello degli altri strumenti. Ha un’anima speciale, che isola il fluido impedendo che le sue proprietà vadano disperse nel tempo. Né freddo, né calore intenso, né luce, né pressione possono alcunché: una magia di Francesco, che ha compiuto solo quella volta, per Giuseppe, e poi mai più.
<< Somigliano a tua figlia. Sembra così fragile, ma dentro ha un’anima come questa >>, aveva detto, sorridendole. Lo conosceva poco, allora, ma non importava: era già innamorata perdutamente di quell’uomo che sembrava possedere la chiave per manipolare la natura a suo piacimento. Un po’ come lei: anche lei, aiutando suo padre, giocava con le erbe, e col fuoco, per estrarre tutto ciò che poteva uccidere o salvare.
E aveva bisogno di Francesco, per tenerle insieme. Era la chiave che le consentiva di praticare la sua, di magia.
Con un sussulto di rabbia gelida raccoglie le forze, solleva la cassetta sul tavolo e con mano ferma, da esperta, travasa il liquido denso senza perderne neppure una goccia. Una. Due. Tre. Quattro. Perfetto. Le ha riempite tutte e quattro.
Le rimette veloci a posto, richiudendo la scatola dopo avervi infilato tre o quattro chincaglierie senza valore comprate al mercato e spacciate per rarità della Persia, e un libro intonso di pura, pregiata pergamena, regalo prezioso per quei tempi, l’ultimo ricevuto da Costanza. Così, per sviare i sospetti. E’ piccola abbastanza da stare in una bisaccia.
Si guarda intorno, prima di prendere l’alambicco ormai vuoto. Scende di nuovo alla riva, con un colpo secco lo spacca in pezzi lasciando che galleggino sull’acqua per qualche instante, prima di cadere anch’essi, come petali di vetro appassiti.
Guardandoli affondare chiude gli occhi, li rialza al cielo per un istante.
E’ l’ultimo istante in cui è Sofia. In cui può guardare le stelle pensando che forse, qualcuno prima o poi scoprirà un modo per osservarle più da vicino.
L’ultimo pezzo cade giù.
Da adesso sarà qualcun altro. Qualcuno senza più casa, né origini, né futuro, senza sesso; sarà solo occhi e orecchie, e attenderà che quell’ultimo granello di sabbia attraversi il collo della clessidra.
Nella notte tra il ventidue e il ventitré luglio del 1503 Sofia muore, annegando nel Tevere con tutti i suoi segreti, i suoi misteri, le sue lotte, interiori ed esteriori. Abbandona la sua esistenza, e ne abbraccia una nuova, in cui non ci saranno più pozioni e formule, studi e nottate perdute a mescolare e pestare. Non dovrà più guardarsi le spalle, temere le vendette incrociate di falsi amici e veri nemici.
Sofia svanisce, e dalle sue ceneri, dalle acque del Tevere rinasce Giustizia. Questo sarà il suo nome, finché non troverà modo di mantenere la sua promessa.
E dopo … sarà ciò che Dio Vorrà. Certa che quel Dio, stavolta, non parlerà con la bocca di Alessandro VI.
 
Il quattro agosto, alle prime luci dell’alba, si spande una notizia incredibile, rapida come i tanfi di marcio, di putrido che salgono coi calori del giorno: il Borgia è in fin di vita, e con lui suo figlio, il Duca Valentino. La sera prima, hanno presenziato ad una cena sui Colli Romani, ospiti del Cardinale Adriano Castellesi, subito indicato come autore dell’avvelenamento. Ma i sospetti scemano ben presto: si parla di malaria, i sintomi sono quelli dell’epidemia che ha devastato mezza Italia, la stessa che sembra aver scampato miracolosamente i piani di Cesare.
Nessuno ha fatto caso ad un giovinetto che si aggirava silenzioso nelle cucine, mescendo il vino. Un ragazzo dal viso scarno, smunto, dagli occhi di brace e le mani delicate, mascherate sotto le maniche dai larghi risvolti assieme ad una piccola fiala. Un garzone come tanti.
Quindici giorni dopo, il Papa muore, tornando all’Inferno da cui era venuto. Suo figlio si salva, stremato ma vivo, soltanto per andare incontro a nuove sventure: si rifugerà a Nepi, prendendo consiglio mentre attende l’elezione del nuovo Pontefice: un uomo anziano, malandato, che prima s’impegna a non permettergli di tornare a Roma e poi cambia idea, per quanto gli concedono i suoi ventisei giorni di regno. Il 31 ottobre – ma Samhain non era ancora conosciuta dai Romani, né tanto meno da Cesare, che altrimenti avrebbe creduto di veder tornare gli spiriti delle sue vittime dall’Oltretomba per chiedergli conto delle sue malefatte- sale al soglio pontificio Giuliano Della Rovere, il nemico di sempre, con il nome di Giulio II. Il Duca viene imprigionato, prima a Napoli, poi in Spagna, a Chinchilla vicino Valencia e infine a Medina del Campo, nella regione del Leòn, nel 1505. Riesce ad evadere nell’ottobre del 1506, prova a riunire i suoi beni, i suoi affetti: scrive a Lucrezia, duchessa di Ferrara da anni ormai, e alla moglie, abbandonata in Francia subito dopo le nozze. La fine lo aspetta a Viana, sotto le mura del castello, l’undici marzo del 1507.
Chissà se qualche volta, rinchiuso nelle fortezze, nei lunghi solitari pomeriggi della sua prigionia ha mai ripensato a quella giovane che a causa della sua Famiglia ha messo in gioco tutto, fino a perderlo. Una giovane a cui ha nascosto abilmente di essere stato complice del codardo che ha ucciso Giuseppe, per ordine del Papa, perché aveva scoperto che era entrato a far parte di una setta segreta che promulgava pace, amore e che non credeva nella autorità della Santa Chiesa per come la intendeva Alessandro VI.
Una giovane che sentendo addensarsi la tempesta era sparita, abbandonando Roma, senza lasciarsi dietro altro che degli abiti usati. La governante, rientrata il giorno dopo, era corsa a riferire al suo contatto al Palazzo che la sorvegliata in secretum era svanita dalla faccia della Terra.
Forse aveva pensato che fosse scappata con quel pezzente, quel veneziano che le vendeva i vetri, chissà. O che soffocata dai rimorsi si fosse gettata nel Tevere, e il suo cadavere sarebbe riaffiorato prima o poi, ripescato da qualche barcaiolo, com’era avvenuto per gli altri.
Ormai era più scomoda, che altro. La sua cattiva reputazione non giovava all’immagine della Famiglia; l’essere tacciata di stregoneria aumentava il rischio che finisse al rogo, trascinando tutti in un nuovo scandalo. Adesso che si accingevano ad una nuova impresa, era meglio che si fosse levata di mezzo.
Non avevano visto il pericolo che correvano da quella parte. Nessuno avrebbe potuto vederlo.
Quattro anni dopo, tuttavia, quella giovane era più vicina di quanto potesse supporre.
Partita quella notte stessa, dopo aver lasciato Roma e raggiunto Ostia, aveva preso il mare. Via, dai marmi del Vaticano e dalle lotte di potere sugli altari di Cristo; via dalla Pietà del Michelangelo e dal laccio del Corella. Via, dalle risate di Lucrezia e Giulia dietro le maschere dorate e dalle urla selvagge di dolore dei seminterrati bui di Castel Sant’Angelo. 
Via, dal suo passato.
Senza sapere dove andasse quella nave, se nel Nuovo Mondo o in Sardegna, se sulle coste dell’Africa o in Oriente; si era finta ragazzo e impegnata come mozzo, lavando i ponti e pulendo reti, rimettendo a posto il sartiame e mescendo il vino ai marinai. Senza mai dire una parola, alla fine era sbarcata in Spagna, e con un senso di perduto aveva abbracciato quella terra che conosceva soltanto dai racconti del padre. Camminando, salendo ora su questo ora su quel carretto, aveva raggiunto Barcellona; il Monastir de Piedralbanes accoglie quell’umile fanciulla muta, che tiene gli occhi bassi, vestita solo di una rozza tunica sdrucita e con una bisaccia in cui custodisce un libro dalle pagine mute come lei.
Il resto, assieme alla cassetta che lo custodiva, riposa sul fondo del Mediterraneo. Il Grande Verde degli Egizi, il centro del mondo, di numerose civiltà che sono passate ai posteri come quelle che hanno gettato le basi dell’umanità, nel bene e nel male, nel corso dei millenni.
Entrata nel convento, pronuncia interiormente voto solenne di silenzio, e prende il velo di monaca di clausura. Il suo nuovo nome, donatole dalla Badessa, sarà Suor Esmeralda Maria del Carmen. Un nome strano, insolito: Madre Agnés è donna colta, però, e le insegna, senza sapere se lei può comprendere, che quel nome significa speranza.
Ha barattato la sua Sapienza con la Speranza. E di quelle pietre che le sono ancora così care – non può smettere, nonostante tutto, di ricordarlo nelle sue preghiere, ogni giorno, ogni notte, anche se le stelle sono oltre il solido muro di pietra e non può più vederle-  conserva la speranza appunto, forse non troppo pia, che un giorno possano di nuovo scintillare dinanzi ai suoi occhi. Non in questa vita, ovviamente.
Nel 1571 si spegne, senza mai aver proferito una parola. Tutto ciò che aveva da dire, i suoi ricordi, l’intera sua esistenza l’ha narrata alle pagine di un diario: la sua estrema confessione, nella speranza di un’assoluzione più piena di qualsiasi avesse potuto ricevere dalle labbra di un uomo; esala l’ultimo respiro senza immaginare che da lì a poco, nel 1609, un geniale scienziato di nome Galileo Galilei inventerà uno strumento che permetterà agli uomini di osservare le stelle più da vicino, proprio grazie ad un gioco di vetri. E sarà anch’egli perseguitato dalla stessa Chiesa che lei aveva provveduto a mondare almeno da una delle sue piaghe, non l’unica, né tanto meno l’ultima.
Non poteva sapere, la clarissa muta che chiudeva gli occhi al mondo, che all’incirca tre secoli dopo un giovane uomo chiamato Carlos Mercader y Palmas, giovane studente di teologia appassionato di antichi manoscritti, avrebbe ritrovato quel diario. E l’avrebbe preso con sé, custodendolo con cura, portandolo nei suoi lunghi viaggi in quell’India che anche lei aveva vagheggiato, con i suoi misteri, i suoi santoni, e la promessa di un’altra vita durante la quale rimediare agli errori della precedente.
Non può sapere che le sue preghiere silenziose sono state ascoltate, anche se dovranno trascorrere altri lunghi decenni, secoli, prima che esse trovino finalmente compimento.
Ma questa è un’altra storia. E le stelle, prigioniere nel vetro, riusciranno infine a liberarsi, per continuare a splendere, nei secoli, dei secoli.
 
 
Angolino di Saga: eccoci qui. Una veste insolita, questa, per i nostri amici Shura e Aiolia. Vorrei poter dire ch’è tutta farina del mio sacco; ma Sofia e Francesco sono ispirati ai protagonisti del romanzo “Il veleno dei Borgia”, di Sarah Poole, in cui è lei a chiamarsi Francesca, e lui Rocco. Fin dalla prima volta in cui l’ho letto ho subito visto in loro due – ma ormai dov’è che non li vedo, io, quando ci sono storie di amori tormentati? XD- due perfette incarnazioni di Leo e Capricorn; chi ha letto Nemesis intuirà immediatamente dov’è che sono comparsi in queste vesti. C’è poi da dire che amo il periodo storico, il Rinascimento Italiano a cavallo tra Medioevo ed Età Moderna, il ritorno dell’antichità classica. E potevamo forse non tirare in ballo una delle famiglie più conosciute, odiate, denigrate di tutti i tempi? Giammai! Ho una vera ossessione per i Borgia, non certo di ammirazione – anche se le voci corse nei secoli probabilmente non erano tutte vere, e inoltre l’accusa più grave mosse contro di loro era l’essere catalani, stranieri, dacché tutti i Papi di quei secoli si comportavano pressappoco in quel modo, anche lo stesso Della Rovere-.  Diciamo che ne sono affascinata, e siccome amo mettere nelle mie storie tutto ciò che cattura la mia attenzione, ecco servito il “disastro”. Spero lo apprezziate e … be’, in caso contrario, sempre a disposizione!
Bacioni,
Anya ( ex-Saga)

 
 
   
 
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