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Autore: arya_stranger    19/07/2018    2 recensioni
[TAEKOOK AU]
Jungkook è il guardiano di un museo e le sue giornate si ripetono uguali una di seguito all'altra finché uno strano ragazzo comincia a visitare ogni singolo giorno la sala a cui è addetto. Si ferma sempre davanti allo stesso dipinto e rimane ore fermo ad osservarlo. Un giorno Jungkook decide di parlargli e di chiedergli come mai sia così interessato a quel quadro.
Ma la risposta che riceve lo lascia sconvolto.
"È lui che me lo chiede."
"Chi?"
"Il quadro. Mi chiede di stare con lui."
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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The painting and the boy

 

Lanciai un rapido sguardo all’orologio che tenevo al polso. Tirai un sospiro scocciato quando mi resi conto che avrei dovuto aspettare ancora un’ora prima di poter andare in pausa pranzo. Ero esausto e non vedevo l’ora di potermi sedere su qualcosa di comodo e mangiare qualcosa di caldo.

Era da quella mattina che non facevo altro che starmene fermo in piedi in un angolo della sala ad accertarmi che nessun bambino maleducato provasse a toccare un quadro o che qualche turista sconsiderato decidesse di usare il flash per fotografare dipinti dal valore inestimabile. Ormai dovevo essere abituato a quel lavoro e a quella noiosa routine, ma forse non ci si abitua mai a stare ore e ore in piedi senza fare niente di particolarmente emozionante.

Abbassai il polsino della camicia che avevo alzato di qualche centimetro per controllare l’orologio. Tornai a posare lo sguardo sulla sala, e sui visitatori che camminavano pigramente passando da un quadro all’altro.

Un gruppo di studenti rumorosi prendeva appunti su blocchetti di carta; una coppia di anziani signori stava leggendo con interesse la didascalia posta sotto uno dei dipinti principali della sala, mentre si tenevano a braccetto e strizzavano gli occhi per poter mettere a fuoco le piccole lettere; un uomo vestito distintamente si era appena fermato di fronte ad uno dei busti in marmo che si trovavano al centro della sala e si passava distrattamente la mano sulla barba ben curata.

L’unico lato positivo di quel lavoro era la possibilità di poter osservare una grande varietà di individui. Avevo sempre trovato affascinante studiare le persone da lontano senza essere notato: era un passatempo che non mi stancava mai.

Alzai una mano per scostare una ciocca di capelli dal viso e nel compiere il gesto voltai la testa di qualche grado, giusto in tempo per far sì che il mio sguardo cadesse su una persona che era appena entrata nella sala. Era un ragazzo, piuttosto alto e senza dubbio bello. Indossava una camicia bianca, i primi bottoni slacciati e i polsini che facevano capolino dal pesante cappotto color cammello che faceva apparire le sue spalle larghe.

Entrò nella sala con passo sicuro, e si fermò non appena fu arrivato di fronte al primo quadro. Inclinò di qualche centimetro la testa e si mise ad osservare con attenzione l’opera che si trovava di fronte ai suoi occhi. I capelli castano chiaro assecondarono il suo movimento, spostandosi con lui, e le ciocche che gli incorniciavano il viso scivolarono sulla sua fronte.

Potevo affermare con sicurezza di essere in grado di riconoscere uno studente d’arte quando lo vedevo, e avrei potuto giurare che quel ragazzo fosse uno di loro. Avevano un modo insolito di studiare i dipinti e i loro occhi diventavano grandi e rotondi ogni volta che notavano un nuovo particolare o riportavano alla mente nozioni che avevano assimilato da un libro. Era impossibile confonderli con un turista o con un visitatore occasionale: la metodologia con cui si approcciavano all’arte era qualcosa di troppo unico e indescrivibile.

Il ragazzo distolse lo sguardo dal dipinto per portare le mani alla tracolla che avvolgeva il suo petto. Tirò fuori da essa un piccolo quaderno e una matita dalla punta affilata. Scrisse qualcosa mentre il suo sguardo oscillava fra la pagina di carta e la tela, poi chiuse il blocco e passò al dipinto successivo.

Non riuscivo a staccare lo sguardo dal suo vagare per la sala. I suoi occhi diventavano grandi fino all’inverosimile ogni volta che si metteva a studiare un dipinto o uno dei busti che si trovavano al centro della stanza. Non si lasciava sfuggire nulla e l’attenzione che riservava a ciascuna tela rasentava la devozione.

Ormai erano almeno venti minuti che il ragazzo si aggirava per la sala, e mancavano solo un paio di tele all’appello.

Il suo passo rallentò mentre si avvicinava a uno degli ultimi quadri della sala. La tela era protetta da una semplice cornice dorata che risaltava sulla parete bianca. Avevo visto quel quadro almeno un milione di volte e non aveva mai attirato la mia attenzione. Era una tela di modeste dimensioni e quasi scompariva fra i quadri alti più di due metri che occupavano la sala.

Raffigurava un mare in tempesta: le onde azzurro chiaro si infrangevano sugli scogli dipinti in primo piano, creando una schiuma bianca, che poi tornava al largo, confondendosi con la distesa infinita di acqua. Il cielo si confondeva coi colori freddi del mare creando un contrasto con gli scogli neri.

Non riuscivo a capire come mai quel dipinto avesse attratto così tanto l’attenzione del ragazzo. Al contrario di come aveva fatto per ogni altra tela della sala, non scrisse niente sul suo blocco. Le sue braccia erano distese lungo i fianchi, in una mano teneva stretto il quaderno, nell’altra la matita. Sembrava come incantato dalla vista di quel mare in tempesta, da quel cielo tetro e dagli scogli minacciosi. Stava semplicemente immobile di fronte al dipinto e parve rimanerci per un tempo infinito. Forse il suo comportamento avrebbe dovuto in qualche modo preoccuparmi, ma l’unico sentimento che riuscivo a percepire in quel momento mentre osservavo il ragazzo era confusione. Sentivo che qualcosa non andava. Era come guardare un puzzle in cui due pezzi con la stessa forma erano stati scambiati: nel complesso l’errore a malapena si notava, poiché ad un primo sguardo il puzzle sembrava completato, ma un osservatore un po’ più attento avrebbe notato un elemento di disturbo nell’immagine. Tuttavia non riuscivo ad individuare le due tessere che erano state scambiate.

Il tempo di sbattere un paio di volte le palpebre e il ragazzo si stava avviando verso l’uscita. Aveva saltato i quadri rimanenti: non si era soffermato di fronte ad essi nemmeno per un istante. Non appena svoltò l’angolo, uscì dal mio campo visivo. Rimasi a guardare il punto dal quale era scomparso alla mia vista per qualche secondo, finché non mi riscossi e mi dissi che il mio atteggiamento non era per niente professionale. Tuttavia, quella sensazione di fastidio che avevo provato mentre il ragazzo osservava il quadro, non sembrava andare via.

I minuti passavano e tutto quello a cui riuscivo a pensare era il mare in tempesta raffigurato sulla tela e le nocche del ragazzo che sbiancavano stringendosi attorno alla matita. La confusione che avevo provavo era diventata anche una sensazione di fastidio fisico: mi sentivo a disagio nel mio angolo della sala, ad osservare i visitatori che andavano e venivano. Il mio sguardo ogni tanto cadeva su quel quadro e, ogni volta che accadeva, quella fastidiosa sensazione non faceva che aumentare.

Quando arrivò l’ora della pausa pranzo, lasciai andare un sospiro di sollievo e abbandonai il museo quasi correndo, nella speranza che una tazza di ramen bollente potesse lavare via tutte quelle emozioni spiacevoli.

 

***

 

La mattina dopo arrivai a lavoro insolitamente presto. Avevo dormito male o, per meglio dire, non avevo proprio dormito. Avevo trascorso la serata e poi la notte a cercare di allontanare dalla mente quel ragazzo e quel quadro, ma più il desiderio di togliermeli dalla testa aumentava, più il ricordo si aggrappava alle pareti cerebrali. Alla fine mi ero arreso al fatto che non sarei riuscito a dormire, così mi ero preparato per la giornata ed ero arrivato al museo prima di tutti. C’era solo il guardiano notturno che, non appena mi vide arrivare, mi lanciò un’occhiata confusa per poi tornare subito dopo a fare qualsiasi cosa stesse facendo prima del mio arrivo.

Mi diressi verso la sala a cui ero addetto e senza pensarci camminai verso la tela del mare in tempesta. Per un momento pensai che quella sensazione di disagio mi avrebbe investito, tuttavia non notai niente di strano mentre stavo in piedi di fronte al dipinto.

Infilai le mani nelle tasche dei pantaloni e feci schioccare la lingua, pensieroso. Mi misi ad osservare l’immagine che mi trovavo davanti con attenzione quasi maniacale. Cercavo qualche particolare interessante che potesse dare una risposta alla mia domanda: perché quel ragazzo era sembrato così attratto dall’opera?

Passai interi minuti a fissare le onde in subbuglio, gli scogli aguzzi e il cielo in tempesta, ma non riuscii a cogliere niente che destasse in me particolare interesse. L’unica caratteristica degna di nota era la vividezza con cui era stato realizzato. Non era tanto l’accuratezza con cui era stato dipinto o la precisione che mirava a far sembrare reale il paesaggio. Ciò che saltava all’occhio era la tridimensionalità dei colori e delle sfumature che sembravano catturare l’osservatore all’interno del dipinto. Rimanendo qualche minuto ad osservare le increspature delle onde, riuscivo ad immaginare il mio corpo seduto sugli scogli o annaspante in mezzo all’acqua profonda.

Dovetti far appello a tutta la mia forza di volontà per distogliere lo sguardo dal dipinto e dirigermi verso il mio solito angolo dal quale facevo la guardia ai dipinti e svolgevo il mio noioso lavoro.

Con l’arrivo dei primi visitatori, riuscii finalmente a distrarmi dai pensieri che volteggiavano attorno al misterioso ragazzo e al dipinto. Quel giorno il museo era molto affollato, e la mattina trascorse senza nessun evento degno di nota.

Dopo la pausa pranzo tornai nel mio angolino. L’afflusso di persone durante le ore del primo pomeriggio era diminuito e il silenzio della sala, unito alla stanchezza che mi portavo addosso per la notte passata in bianco, contribuirono a far crescere in me una sonnolenza quasi insopportabile. Cercavo di tenermi sveglio scrutando i vari visitatori che andavano e venivano, ma non avevo molto materiale con cui intrattenermi. Le palpebre pesanti minacciavano di chiudersi da un momento all’altro, quando lo vidi entrare.

Quel giorno indossava una camicia color crema che stavolta aveva deciso di chiudere fino all’ultimo bottone. Il cappotto color cammello non avvolgeva le sua spalle ma era posato sul suo braccio. I capelli erano scompigliati e qualche ciocca cadeva disordinata sulla fronte. La cinghia della tracolla era poggiata con noncuranza sulla sua spalla e minacciava di cadere da un momento all’altro.

Non entrò col passo calmo e sicuro con cui lo avevo visto avanzare il giorno prima. I suoi passi erano incerti e cauti, come se qualcosa o qualcuno minacciasse di spaventarlo.

Distolsi lo sguardo non appena lo vidi dirigersi verso di me e feci finta di star compiendo diligentemente il mio lavoro di custode della sala. Mi passò accanto, lanciando occhiate distratte ai dipinti che scorrevano lungo la parete. Fece il giro della sala in una manciata di secondi e si fermò quando fu in prossimità del quadro che mi stava tormentando dal giorno precedente.
Cominciò a dondolarsi sui talloni, come se stesse aspettando qualcuno o non sapesse prendere una decisione su una questione che lo affliggeva. Prese a mordersi il labbro inferiore, staccando pellicine dalla pelle sensibile e screpolata. Avrei voluto smettere di fissarlo e lasciarlo alla sua privacy, ma vederlo mentre si tormentava in quel modo era insopportabile e mi procurava un dolore fisico. Non potevo capire la causa dell’angoscia che lo pervadeva, ma era come se il suo malessere si stesse trasmettendo anche a me.

Infine fece un piccolo passo. Notò che la tracolla stava scivolando dalla sua spalla e avvolse una mano attorno alla cinghia, facendola passare sopra alla testa in modo da assicurarla attorno al suo petto. Percorse gli ultimi metri che lo separavano dal quadro e, una volta che lo ebbe raggiunto, si fermò di fronte ad esso. Mi spostai di qualche metro per poter riuscire a scorgere il suo viso. Gli occhi grandi e marroni vagavano fra le onde del quadro come se si fossero persi e non riuscissero più a ritrovare la strada di casa. Sbatteva le palpebre troppo spesso, come le ali di una farfalla impazzita, e ogni tanto si stropicciava gli occhi come se fosse stanco o qualcosa gli desse fastidio.

Non so quanto tempo passò prima che tirasse fuori dalla tracolla il quadernino e la matita. Richiuse la borsa con cura e poi, tenendo stretti i due oggetti nella mano destra, si mise a sedere per terra. Incrociò le gambe e posò il quaderno aperto sul ginocchio. Cominciò a tracciare segni sulla carta, ma non riuscivo a distinguere niente dalla posizione in cui mi trovavo. Dal modo in cui alzava ogni tanto lo sguardo per osservare il quadro per poi tornare a lavorare con la matita, supposi che stesse disegnando il quadro, ma non ne avevo la certezza.

Il tempo continuava a passare e cominciai a chiedermi se non fosse mio dovere andare dal ragazzo e chiedergli di alzarsi. Probabilmente avrei dovuto fare una cosa del genere, alla fine era quello che richiedeva il mio lavoro, ma non ebbi il coraggio di avvicinarmi a lui.

Passò l’intero pomeriggio di fronte al quadro. Non appena ebbe finito il disegno, si alzò e rimase davanti all’opera senza fare niente in particolare se non osservarla. Le persone intorno a lui passavano senza fare troppo caso al ragazzo che fissava quella tela. Solo qualcuno lo guardò con perplessità cercando di capire cosa stesse facendo. Tuttavia lui sembrava immerso nella sua contemplazione e nient’altro sembrava esistere nel suo piccolo mondo oltre alle onde tracciare con la pittura azzurra.

Se ne andò quando mancava una manciata di minuti all’orario di chiusura. Per un momento temetti che sarei stato costretto ad andare da lui per annunciargli l’imminente chiusura del museo, ma per fortuna se ne andò da solo, senza che gli dovessi dire niente.

 

***

 

Non riuscii a dormire nemmeno quella notte. Il pensiero stava quasi diventando ossessivo e minacciava di prendere il controllo della mia vita. Presi sonno un’ora prima del suono della sveglia e arrivai a lavoro che a malapena riuscivo a reggermi in piedi. Mi diressi verso i bagni dei dipendenti e mi sciacquai il viso nel tentativo di svegliarmi. Quella mattina era ormai la centesima volta che cercavo di togliermi il sonno di dosso con l’acqua fredda e non aveva ancora funzionato.

Non appena entrai nella sala, il mio sguardo cadde sul quadro. Lasciai andare un sospiro di frustrazione. Quella situazione mi stava creando uno stress tale che a breve non sarei più riuscito a sopportare. E se non fosse stato lo stress a uccidermi per primo, sarebbe stata la mancanza di sonno.

Ciò che mi turbava era il fatto di non riuscire a comprendere la situazione in cui mi trovavo. La mia mente era affollata da un ragazzo che nemmeno conoscevo, il quale passava ore e ore a fissare un quadro e non riuscivo a spiegarmi il perchè.

Pensai che, forse, scoprire qualcosa in più sul quadro avrebbe soddisfatto almeno una piccola parte della mia curiosità e avrebbe placato l’angoscia che mi tormentava. Mi misi a vagare per il museo alla ricerca di una delle guide. L’ambiente era quasi deserto e si vedeva in giro solo qualche dipendente. Alla fine trovai vicino alla biglietteria Soomi, una delle ragazze che lavorava come guida.

Le feci un cenno con la mano mentre mi avvicinavo e lei ricambiò con un piccolo sorriso.

“Posso aiutarti?” mi chiese nel momento in cui la raggiunsi.

“A dire la verità sì” ammisi mentre cercavo un modo per chiederle di illustrarmi il quadro che si trovava nella mia sala senza risultare troppo strano. “C’è un quadro nella sala a cui sono addetto” cominciai, “lo trovo davvero molto bello e interessante. Ti dispiacerebbe dirmi qualcosa in più?”
Soomi annuì con convinzione, e mi precedette mentre ci dirigevamo verso la sala. La stanza era ancora immersa nella penombra: solo alcune luci erano state accese e le altre sarebbero state messe in funzione solo un paio di minuti prima dell’apertura.

Le indicai il quadro e Soomi si avvicinò incrociando le braccia al petto.

“Non mi capita spesso che qualcuno mi chieda informazioni su questo quadro” osservò, cominciando a studiare il paesaggio. “Di solito la gente a malapena lo nota.”
Non dissi niente e aspettai che fosse lei a continuare.

“Non si hanno molte informazioni su questo dipinto” iniziò con voce calma. “Il nome del pittore non è noto a nessuno, non si hanno fonti che ci indichino la sua identità e il dipinto non è firmato. Sul retro della tela non c’è scritto niente e dopo aver studiato i vari strati di pittura si è dovuta escludere anche l’ipotesi di un nome scritto e poi cancellato.” Soomi si fermò per qualche istante, come se stesse cercando di raccogliere i pensieri. “Sullo stile del dipinto ci sono varie correnti di pensiero e non avendo nessuna certezza per quanto riguarda la datazione dell’opera, il tutto è ancora più complicato. Molti critici affermano con sicurezza che il dipinto sia stato realizzato sotto una forte influenza romantica. Non so se ci hai fatto caso” disse spostando lo sguardo dal quadro al mio viso, come nel tentativo di coinvolgermi in una conversazione, “ma se lo osservi da lontano senza prestare molta attenzione ai dettagli sembra quasi un dipinto di Turner.”

“Hai ragione” annuii mentre la ragazza sorrideva soddisfatta.

“Beh” continuò con un piccolo movimento della testa, “sotto certi punti di vista non è corretto affermare che Turner sia un pittore romantico. Non voglio stare qui a farti una lezione d’arte, ma il suo genio è qualcosa che va ben oltre la collocazione all’interno di una corrente artistica. Tuttavia non possiamo negare che questo dipinto ne sia influenzato. Basti pensare al tipo di paesaggio: i mari in tempesta erano senz’altro uno dei soggetti che Turner prediligeva in assoluto. Anche la stesura del colore e l’uso della luce possono essere ricondotti allo stile del pittore inglese.”
Soomi interruppe il suo discorso in un punto che a me pareva cruciale, così le lanciai un’occhiata interrogativa.

“C’è un ma, non è vero?”
Lei annuì accennando con la testa alla tela. “Alcuni studiosi sostengono che il quadro sia stato realizzato prima che Turner fosse anche solo in grado di tenere in mano un pennello.”
“E allora?” chiesi, confuso e ansioso di sapere qualcosa in più. “Non stai mica cercando di dirmi che Turner ha copiato questo tizio sconosciuto?”
Soomi rise, portandosi una mano alla bocca. Abbassai lo sguardo, imbarazzato a causa della domanda ingenua che avevo appena posto.

“No” spiegò mentre la risata si spegneva, “non è questo che voglio dire. Il mio discorso aveva lo scopo principale di creare un po’ di suspense e mistero prima di rivelare l’unica cosa interessante che sappiamo su questo dipinto.”
La suspense e il mistero non erano certo due elementi di cui la mia vita mancava, e ne avrei fatto pure a meno. Tuttavia, vedendo lo sguardo soddisfatto di Soomi, non obiettai e la lasciai andare per la sua strada.

“Il quadro è incompiuto.”

“Come?”

Soomi agitò la testa annuendo. “Il dipinto non è mai stato finito.”

“E come possiamo averne la certezza?” Non riuscivo più a seguire il suo discorso. Non si aveva nessuna informazione su quel dipinto, e allora come era possibile sapere che non era mai stato completato?

“Non ce l’abbiamo.” Alzò le spalle con noncuranza. “All’inizio del secolo scorso un imprenditore tedesco ha confessato durante un’intervista di essere un discendente dell’autore del dipinto di fronte al quale ci troviamo. Nessuno gli ha mai dato ascolto, tuttavia raccontiamo sempre questa storia ai turisti per attrarre la loro attenzione.”
“E cosa raccontò durante l’intervista?”

“Disse di aver ereditato una villa nelle campagne a sud dell’Inghilterra. Nella soffitta di questa villa, affermò di aver trovato un diario, niente più che semplici pagine di carta ammuffita rilegate e messe a marcire in un baule. Il diario, a quanto raccontò, erano le memorie di questo suo antenato che a quanto pare sarebbe anche l’autore di questo dipinto. Tuttavia la discendenza del pittore si sarebbe mescolata ad una famiglia nobile tedesca, e di conseguenza il suo cognome sarebbe andato perduto. Per questo non conosciamo la sua identità.”

Annuii pensieroso. “E perché il diario non è mai stato pubblicato?”

“L’imprenditore tedesco sosteneva che il diario contenesse troppe informazioni personali riguardanti la sua famiglia e in particolare la vita privata del pittore, così ha deciso di secretare il tutto. Penso che neanche lui stesso abbia letto per intero le memorie. L’unica cosa che ha riferito è stata proprio la notizia sulla presunta incompletezza del dipinto.”

Aggrottai la fronte e volsi lo sguardo a quel paesaggio in tempesta. Cercai di capire cosa potesse mancare, ma non riuscivo a comprendere cosa il pittore avrebbe voluto aggiungere alla sua opera. Non mi sembrava che ci fosse niente lasciato a metà: lo sfondo del cielo era completamente riempito di colore, gli angoli era carichi di pittura scura e le sfumature erano graduali e congegnate alla perfezione.

Mi riscossi quando sentii una mano posarsi sulla mia spalla. “Non so cosa ci sia in questo quadro che ti turba così tanto.” Era la voce di Soomi che mi riportava alla realtà. “Ma ti posso assicurare che, oltre alla leggenda del presunto diario in possesso dell’impresario tedesco, non ha davvero niente di interessante. Sono tutte storielle messe in piedi da un vecchio uomo annoiato in cerca di attenzione o un collezionista che anni e anni fa, trovandosi in possesso di questo quadro e non sapendo come fare a vederlo, ha cercato di rendere la sua storia più interessante. Non perderci la testa” mi consigliò accompagnando le parole con un sorriso, “è solo uno dei tanti quadri orfani che affollano le gallerie.”

Apprezzai le sue parole di conforto ma riuscii a rispondere solo con un sorriso forzato e un debole “certo”.

Mi strinse la spalla cercando di rassicurarmi, poi, dopo aver lanciato uno sguardo all’orologio, mi salutò dicendo che era ora di mettersi a lavorare. Anche per me era ora di lavorare e non avevo nessuna scusa valida per non adempiere al mio compito di custode della sala.

Mi posizionai nel mio solito angolino, in attesa che arrivassero i primi visitatori.
Speravo che quella giornata sarebbe filata liscia come l’olio. Speravo che quel ragazzo non si presentasse anche quel giorno di fronte al dipinto. Rivederlo di nuovo non avrebbe fatto altro che aumentare la mia inquietudine. Ma in fondo sapevo di non voler nient’altro che quello.


Arrivò nel tardo pomeriggio, a meno di un’ora dalla chiusura. Aveva il volto arrossato e l’espressione trafelata, come se avesse corso fino ad una manciata di secondi prima. Non si guardò intorno ma si diresse verso il quadro. La mia attenzione da quel momento in poi fu rivolta solo al ragazzo. Si posizionò a qualche metro di distanza dal dipinto, come se volesse avere una visuale più ampia e completa della tela. Questa volta non fece niente: non inclinò la testa per studiare la pittura, non sbarrò gli occhi per lo stupore e la meraviglia, non tirò fuori il blocchetto e la matita per prendere appunti o disegnare.

Mancava poco alla chiusura e i visitatori si erano ormai dileguati. Nella sala rimanevano solo un paio di persone, oltre a me e al ragazzo, e dopo poco si diressero verso le altre sale per poter concludere la visita prima che il museo chiudesse.

Rimanemmo solo noi due. Un silenzio surreale cadde nella stanza e le pareti coperte di quadri parvero stringersi fino a lasciare solo un piccolo spazio largo a sufficienza da poter ospitare solo me, il ragazzo e il dipinto del mare in tempesta.

Mi avvicinai, un passo dopo l’altro, assicurandomi che le mie scarpe facessero rumore sul pavimento in modo da non prenderlo di sorpresa e spaventarlo. Mi misi accanto a lui, solo qualche centimetro a separare le nostre spalle, e cominciai ad osservare il quadro.

“Ti piace molto questo dipinto, non è vero?” La mia voce venne fuori leggermente roca e stanca, così cercai di schiarirla.

Si voltò verso di me e, non appena mi vide, i suoi occhi diventarono rotondi fino all’inverosimile. Sembrava che non si fosse accorto della mia presenza fino a quel momento, così assorto in quella contemplazione ossessiva che aveva un ché di inquietante.
Fece per aprire la bocca, nel tentativo di dire qualcosa, poi i suoi occhi vagarono su di me per finire sulla targhetta che avevo sul taschino della giacca e che indicava la mia condizione di guardiano della sala e quindi dipendente di quel museo. Le sue pupille tremarono e si tinsero di una nota di paura e preoccupazione.
“Tranquillo” lo rassicurai, “la mia era solo semplice e pura curiosità.”
Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo e annuì. “Pensavo volessi cacciarmi.”
“Non voglio cacciarti.” Il suo sguardo si rilassò e mi rivolse un sorriso tirato, come a volermi ringraziare. Notai solo in quel momento le profonde occhiaie che segnavano il suo viso. Anche il suo incarnato non aveva la stessa luminosità e la stessa freschezza che avevo visto la prima volta in cui aveva visitato il museo. La camicia che indossava era stropicciata, come se non fosse stata stirata o avesse dormito con quella addosso. Non impiegai molto a capire che erano almeno un paio di giorni che passava notti insonni.

“Vieni sempre qui, da questo quadro.” Avrebbe dovuto essere una domanda, ma una volta che quelle parole lasciarono la mia bocca, la frase si trasformò in un’affermazione.

Il ragazzo non rispose e ruppe il contatto visivo, imbarazzato. Cominciò a tormentarsi le mani e capii che parlare del dipinto lo metteva a disagio.

“Io sono Jungkook” feci, allora, nel tentativo di cambiare discorso.
Sembrò calmarsi e questa volta trovò la forza di parlare. “Taehyung.”
“Hai già cenato, Taehyung?” Scosse la testa. “Ti andrebbe di venire a mangiare qualcosa con me?” proposi.
“Non ho fame.” Il suo sguardo oscillava fra me e il quadro, come se cercasse con tutte le sue forze di distogliere lo sguardo dal dipinto ma non ci riuscisse. “Ma posso accompagnarti.”

Mi inumidii le labbra mentre gli rispondevo con un cenno di assenso. “Il museo sta per chiudere” osservai. “Puoi aspettarmi fuori mentre sistemo le ultime cose?”
Per un secondo pensai che si sarebbe rifiutato di andare via, poi annuì.

“Ci vediamo fra qualche minuto” promisi con un sorriso. Taehyung annuì nuovamente, lanciò un ultimo sguardo al dipinto e poi si diresse verso l’uscita.

 

Scesi in fretta le scale che si trovavano di fronte al museo e in fondo ad esse trovai Taehyung, le mani calate nelle tasche del cappotto e il mento sepolto nella pesante sciarpa di lana.
“Fa freddo, non è vero?” commentai cercando di iniziare una conversazione.

Era la fine di marzo, eppure l’inverno non sembrava intenzionato a cedere il passo alla primavera.

Ci dirigemmo verso un chiosco che si trovava vicino al museo, lungo il fiume. Vendeva hamburger e patatine fritte e, considerato il mio guadagno mensile, non potevo permettermi molto di più.

Taehyung non disse nulla per tutto il tragitto, e io non volevo costringerlo a parlare se non era quello che voleva. Quando arrivammo, riuscii a convincerlo a prendere qualcosa da mangiare e poi insistetti per pagare tutto io. Non sapevo come comportarmi e avevo paura di spaventarlo. Sembrava in continuo allarme, come se da un momento all’altro qualcosa avesse potuto attaccarlo o fargli del male. Teneva gli occhi sbarrati e all’erta, nonostante la stanchezza che riuscivo a intravedere in lui. Non c’era più niente del Taehyung sicuro e curioso che avevo visto quel giorno al museo. Al suo posto c’era un ragazzo confuso e spaventato. Spaventato di cosa, non riuscivo a capirlo, ma ero più che sicuro che ci fosse di mezzo quel quadro.

Ci sedemmo su una panchina lungo il fiume e mangiammo in silenzio. Taehyung prendeva le patatine una ad una, e le mangiava masticando piano, come se stesse compiendo uno sforzo immane. Ogni tanto prendeva qualche sorso di Coca Cola, aspirando dalla cannuccia. Le lunghe dita avvolte attorno al bicchiere tremavano e gli lanciai uno sguardo preoccupato, tuttavia non dissi niente e non glielo feci notare.

Non parlammo molto, le uniche informazioni che riuscii a ricavare furono il fatto che studiava storia dell’arte all’università e che un giorno sarebbe voluto diventare il direttore di un museo importante.

“Si vede che sei davvero appassionato d’arte” osservai mentre addentavo l’ultimo boccone del panino e mi pulivo le mani su una salviettina.
Lui incurvò le spalle, imbarazzato. “L’arte è un campo talmente vasto e misterioso che quasi mi spaventa” confessò. “Senza dubbio la amo più di ogni altra cosa, ma come tutte le passioni ha i suoi pro e i suoi contro.”

Non espressi nessun parere sulle sue parole, e lasciai che il suo pensiero si perdesse nell’aria che c’era fra noi due.

Mi offrii di accompagnarlo a casa, ma lui scosse la testa dicendo che aveva bisogno di stare un po’ da solo. Non insistetti e lo lasciai andare. Con quell’incontro speravo di trovare risposta ad almeno un paio delle domande che mi volteggiavano nella testa da un paio di giorni, ma mentre mi incamminavo sulla strada di casa, mi resi conto di essere solo più confuso.

Non ero riuscito a porgli nessuna domanda sul quadro e sulla sua ossessione nei suoi confronti. Non ne voleva parlare, era evidente, ma non era solo quello il punto: era terrorizzato dalla situazione in cui si trovava e non sapeva come tirarsene fuori.

Arrivai alla porta del mio appartamento e, dopo averla chiusa alle mie spalle, mi diressi verso la camera da letto. Feci a malapena in tempo a spogliarmi e infilarmi sotto le coperte che già gli occhi mi si stavano chiudendo.

Quella notte, finalmente, riuscii a dormire e sognai Taehyung di fronte al quadro.

 

***

 

Passarono due settimana. Taehyung continuava a venire al museo e l’unica cosa che faceva durante le sue visite era stare ore e ore a fissare quel quadro. Non sapevo come agire di fronte al suo comportamento, così lo lasciavo fare. Non mancava mai un giorno: che fosse tarda mattinata, primo pomeriggio o sera, lui sarebbe venuto e avrebbe trascorso almeno un’oretta nella sala. Non appena arrivava, cercava il mio sguardo e alzava la mano in segno di saluto, io ricambiavo con un sorriso e poi mi ignorava finché non era l’ora di andarsene.

Più i giorni passavano, più vedevo le sua guance svuotarsi e i suoi occhi contornarsi di cerchi scuri. Non serviva di certo un medico per capire che a malapena si nutriva e dormiva.

Ogni tanto lo portavo a mangiare al chiosco degli hamburger, ma riusciva a ingoiare solo qualche boccone. Avrei voluto chiedergli cosa c’era che non andava, avrei davvero voluto sapere cosa lo legasse così tanto a quel quadro, volevo davvero che mi dicesse cosa lo tormentava, ma non gli chiesi niente. La ragione del mio silenzio intorno al quadro era dettato dal semplice timore di spaventarlo e allontanarlo da me. Era chiaro ai miei occhi il fatto che quella tela fosse fonte di angoscia, se non addirittura terrore, per Taehyung, e non volevo riportare alla sua mente pensieri negativi mentre eravamo insieme. Così stavo zitto, nella stolta speranza che le cose si sarebbero risolte da sole col tempo.

 

La situazione degenerò un ventoso pomeriggio di metà aprile. L’aria stava diventando tiepida e i fiori cominciavano a sbocciare sugli alberi. Tuttavia, quel giorno pioveva, una pioggia fine e quasi invisibile attraverso le finestre del museo. Il cielo era scuro e le nuvole transitavano indisturbate portando con loro carichi d’acqua.

Stavo in piedi nel mio solito angolino, quando lanciai un’occhiata all’orologio e mi resi conto che mancava solo mezz’ora alla chiusura. Sarei stato felice nel ricevere una notizia del genere se non fosse stato per il fatto che Taehyung quel giorno non si era ancora presentato. Mi spostai in avanti di qualche metro per poter avere una migliore visuale dell’entrata, ma non lo vidi. Il museo era ormai quasi deserto e la mia sala, essendo una delle prime che si incontravano durante la visita, era vuota fatta eccezione per me.

Mi dissi che non c’era nessun motivo di preoccuparsi. Forse, come avevo sperato, Taehyung aveva superato quella strana ossessione per il dipinto, e avrebbe smesso di frequentare assiduamente la mia sala e il museo. Alla fine era così che le cose sarebbero dovute andare: non era normale che un ragazzo, anche se studente d’arte, andasse ogni singolo giorno in una galleria solo per stare ore a fissare una tela.

Pensai che si fosse reso conto dell’assurdità di quella situazione e che non sarebbe più tornato al museo, se non per sporadiche e occasionali visite da semplice appassionato e studioso.

Mi ero ormai arreso a quell’idea quando sentii dei passi veloci. Entrò nella stanza, e quella volta non si voltò verso di me e non mi salutò. Si diresse verso il dipinto, il fiato corto per aver corso fino a quel momento.

Lasciò che la tracolla della borsa scivolasse dalla sua spalla e cadesse per terra. Sentivo il suo respiro irregolare fino dall’angolino in cui mi trovavo e fui tentato di avvicinarmi a lui per accertarmi che stesse bene, ma non lo feci.

Arrivò l’ora della chiusura. Taehyung non si era mosso di un millimetro dal momento in cui era arrivato e la sua totale immobilità mi aveva messo addosso un senso di inquietudine che non riuscivo a mandare via.

Mi avvicinai senza fretta al ragazzo e quando gli fui accanto mi schiarii la voce. Non sembrò accorgersi di me, così gli posai una mano sulla spalla chiamando piano il suo nome. Lo vidi saltare per lo spavento e sbarrare le palpebre.

“Sono io” cercai di tranquillizzarlo, ma le sue pupille erano così tanto dilatate per la paura che i suoi occhi sembravano completamente neri.

“Non voglio andarmene.” La sua voce era disperata e angosciata, ma allo stesso tempo determinata: non aveva intenzione di lasciare la sala.

“Ti porto a mangiare qualcosa, ok?” proposi nel vano tentativo di dissuaderlo dal rimanere lì.

Lui scosse la testa, mentre mi guardava negli occhi. Non riuscivo ad interpretare bene il suo sguardo, ma sapevo che qualcosa non andava. Ruppi il contatto visivo e per caso i miei occhi finirono sul dipinto. In quel momento ebbi paura, non riuscivo a rintracciare l’origine di quel sentimento ma avevo paura. Le onde mi stavano inghiottendo: sentii il rumore assordante del mare nelle orecchie, percepii i miei arti venir sconquassati dalla potenza dei cavalloni e soffocai per l’acqua che entrava nei miei polmoni.

Durò solo qualche istante, ma furono gli istanti più intensi e terribili della mia vita. Per una manciata di secondi era stato come se mi fossi trovato in mezzo alle onde del dipinto che stava di fronte a me, e le sensazioni che avevo provato non erano solo sensazioni. Scacciai tutti quei pensieri dalla mente e decisi che l’unica cosa che volevo fare in quel momento era andarmene via da quella sala e soprattutto togliermi dalla vista quel dipinto.

Afferrai la mano di Taehyung senza pensarci troppo e feci per trascinarlo via, ma il ragazzo oppose resistenza. Lo guardai. “Taehyung” lo supplicai, “usciamo da qui.”
“Non posso.” La sua voce tremava, come se fosse sull’orlo delle lacrime. Scosse di nuovo la testa e mi osservò con un’espressione che non riuscivo a capire. A volte sembrava nascondere una tacita richiesta di aiuto, altre sembrava contenere un terrore immane, così grande da diventare anche paura nei miei confronti.

“Per favore” lo pregai una seconda volta. Non avrei resistito un altro secondo in quel posto.

Grosse lacrime cominciarono a sgorgare dai suoi occhi marroni: scivolavano sui suoi zigomi, arrivavano alle guance e finivano poi sul mento. All’inizio fu un pianto silenzioso, come se non riuscisse a trovare la forza di esternare la causa di quella sofferenza.

Mi voltai verso l’uscita, era così vicina eppure in quel momento sembrava irraggiungibile, poi mi voltai ancora una volta verso Taehyung, il quale se ne stava fermo al suo posto, irremovibile, la sua mano ancora nella mia.

“Non posso” ripetè.

“Perché?” sbottai. Taehyung si riscosse per la veemenza delle mie parole e i suoi occhi si spalancarono per lo spavento. Questo non fece altro che incoraggiare altre lacrime a scendere copiose sul suo viso.

“Devo rimanere qui” spiegò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Il pianto silenzioso si stava trasformando in un singhiozzo strozzato che gli scuoteva le spalle e il petto. “È lui che me lo chiede.”

“Chi?”

“Il quadro. Mi chiede di stare con lui.”

Il quadro... Il quadro gli chiedeva di stare con lui. Mi sarebbe piaciuto poter dire di non aver capito o di aver interpretato male le sue parole, ma sapevo che non era così.

Il suo pianto si fece sempre più forte, finché non diventò violento. I singhiozzi gli toglievano il respiro e si inginocchiò come se gli mancassero le forze per rimanere in piedi. Non aveva ancora lasciato la mia mano, ma io non sapevo cosa fare e mi limitavo a guardarlo, come se fossi in un sogno in cui non ero altro che uno spettatore inerme.

Mi accorsi che due uomini della sicurezza erano arrivai nella stanza, solo quando mi furono ad un paio di metri di distanza. Quella scena fu in grado di risvegliarmi dal torpore in cui ero caduto.

“Ci penso io” dissi ad uno dei due uomini in divisa. Lui annuì, tuttavia rimase dove era.

Strinsi la mano di Taehyung e lui ricambiò la stretta. Lo aiutai ad alzarsi e infine cedette quando cercai di portarlo via. Lasciai andare la sua mano solo per avvolgere il mio braccio attorno alla sua vita, e lui si abbandonò al sostegno che gli stavo offrendo.

Quando gli chiesi dove abitasse, scosse la testa. Senza sapere cosa fare, lo portai nel mio appartamento.

Arrivammo nel piccolo alloggio che era il luogo dove abitavo ormai da un paio di anni. Lo accompagnai fino al divano e lo aiutai a sedersi. Durante il tragitto il suo pianto si era calmato, ma ogni tanto qualche singhiozzo e qualche lacrima scappavano ancora al suo controllo.

“Aspettami qui” gli dissi mentre mi dirigevo verso la cucina. Accesi il bollitore e preparai della camomilla che poi portai a Taehyung. Gli porsi la tazza mentre mi sedevo accanto a lui.

Avvolse attorno alla ceramica entrambe le mani per riscaldarle e poi soffiò sulla bevanda bollente.

“Hai freddo?” gli domandai. Annuì. Presi la coperta che tenevo sempre ripiegata sul divano, e, dopo averla distesa, la posai sulle sua spalle. Si rannicchiò sotto il suo calore e sembrò rilassarsi un po’.

Cominciò a bere la camomilla a piccoli sorsi e nella stanza calò il silenzio. Ci sono tanti tipi di silenzio, ma non fui in grado di trovare una classificazione per quello che sperimentai in quel momento. Non era uno di quei silenzi imbarazzanti durante i quali gli interessati si cercano e poi si evitano con lo sguardo nel tentativo di iniziare una conversazione che però è destinata a morire ancora prima di cominciare. Non era nemmeno il silenzio confortevole di due amici che si conoscono da una vita e non hanno bisogno di parole per sentire le emozioni e i pensieri che affolano la mente dell’altro. Non si trattava nemmeno di un silenzio pieno di tristezza, come quello che si condivide quando il dolore è troppo anche solo per parlare e nessun discorso o incoraggiamento è in grado in levare quel peso immane dal petto.

Non riuscii a capire cosa si celasse nel nostro silenzio, ma era qualcosa di immenso, così vasto da togliermi il respiro e lasciare che una profonda angoscia mi risalisse il petto. Taehyung non ne sembrava turbato, anzi, il terrore e l’agitazione che lo avevano posseduto fino a qualche minuto prima erano scomparsi. Se ne stava tranquillo, seduto sul divano, avvolto nella coperta mentre sorseggiava le ultime gocce della camomilla. Non appena l’ebbe finita, poggiò la tazza vuota sul tavolino basso che si trovava davanti e noi, e afferrò i lembi della coperta per portarseli al petto. Poi si voltò verso di me e cominciò a scrutarmi con attenzione. Non si lasciò sfuggire niente e io lo osservavo con la coda dell’occhio, mentre cambiavo posizione, a disagio.

“Sei bello.” Quelle parole uscirono dalla sua bocca con naturalezza e dal tono che usò non risultarono altro che semplici sillabe pronunciate una dopo l’altra, con l’unico scopo di affermare una semplice opinione.

Aprii la bocca per rispondere, ma mi resi conto di non saper come replicare alla sua dichiarazione, così non dissi niente e abbassai lo sguardo.

Una piccola risata imbarazzata mi fece riportare lo sguardo sul volto di Taehyung. “Scusa.” La sua voce profonda mi vibrava nel petto e alla percezione di calore che il suo tono mi provocava, si aggiunse una strana sensazione. “A volte le parole mi escono dalla bocca senza che io possa controllarle.” Si tolse le scarpe e incrociò le gambe sul divano. Mi lanciò una breve occhiata come a chiedermi il consenso, ma io non dissi niente, così si mise comodo. Poggiò il gomito sul ginocchio e poi abbandonò la guancia sulla mano.

“Certe volte mi pare di non essere nemmeno io a parlare” continuò. Stavo ad ascoltarlo senza reagire: il numero di parole che aveva pronunciato in quei dieci minuti era maggiore di tutte le parole che mi aveva rivolto dal giorno in cui ci eravamo conosciuti. “Ma forse non te ne sei accorto” osservò. “In fondo non ti ho mai detto molte cose.”

Sarei dovuto essere felice del fatto che avesse deciso di aprirsi e di parlare, ma il quel momento avrei solo voluto che stesse zitto e che se ne andasse.

“Forse ti sarò sembrato un po’ strano.” Mi rivolse un sorriso che voleva essere rassicurante, ma io vi colsi solo una malizia celata che non riuscivo in alcun modo a collegare al Taehyung terrorizzato, fragile e in lacrime che avevo portato via dal museo nemmeno un’ora prima.

“Non mi sei sembrato strano.” Mi costrinsi a dire qualcosa, ma la voce mi venne fuori a fatica e desiderai essermene rimasto zitto perché un altro sorriso passò sulle labbra del ragazzo e un brivido mi attraversò la schiena.

Annuì soddisfatto e si schiarì la voce. “Pensavo di averti dato l’impressione sbagliata.”

Mi guardava negli occhi mentre parlava, e mi chiesi come riuscisse a sostenere lo sguardo di una persona per così tanto tempo senza nemmeno battere ciglio. Provai a imitarlo, sostenendo il suo sguardo il più a lungo possibile, ma non riuscii a tenere gli occhi alzati sui suoi per molto tempo. Le sue iridi scure mi stavano risucchiando, come pozzi neri pronti a inghiottirmi per sempre. Alla fine scostai lo sguardo, preso da quella sciocca paura di essere catturato dai suoi occhi profondi.
Non appena abbassai lo sguardo lo sentii avvicinarsi. La coperta nella quale era avvolto emise un fruscio mentre scivolava dalla sue spalle e veniva abbandonata sulla stoffa consumata del divano.

Mentre si avvicinava, prese il mio mento con una mano e mi alzò il viso. Sentii qualcosa dentro di me che mi urlava di scansarlo e di alzarmi, e quel grido fu così forte che quasi mi riscossi. Ma in quel momento il mio corpo fu più forte della voce che urlava, e così rimasi fermo quando Taehyung posò le sue labbra sulle mie.

Il grido che rimbombava nella mia testa rimase solo un eco lontano. Le labbra di Taehyung erano morbide e calde e su di esse aleggiava ancora il sapore dolce del miele che avevo messo nella sua camomilla. Assaporai per qualche istante quella pelle soffice contro la mia e socchiusi gli occhi mentre posavo una mano sulla sua vita. Spostò la mano con cui teneva il mio mento, finché non raggiunse la mia nuca. Mi avvicinò ancora di più al suo corpo, e io non mi opposi, lo lasciai fare.
Sentii il mio cuore battere nel petto: era un rumore pieno di ansia e inquietudine. Sentivo rimbombare nelle orecchie il frenetico scorrere del sangue, mentre Taehyung si scostava di qualche centimetro per poi riportare le sua labbra sulle mie.

All’inizio furono solo labbra umide che si incontravano e si scontravano per poi dividersi e rincontrarsi di nuovo. Sentivo il suo respiro tiepido sul mio viso. A tratti si confondeva col mio e non riuscivo a capire chi stesse sospirando.

Decise di approfondire il bacio, e io non glielo impedii. Schiusi le labbra e lui lasciò scivolare le lingua fra i miei denti. Trattenni per qualche secondo il respiro.

La mano che tenevo sulla sua vita scivolò verso la sua schiena. Percorsi con le dita tutta la lunghezza della sua spina dorsale e lo sentii rabbrividire sotto il mio tocco, nonostante ci fosse la stoffa della sua camicia ad impedire un contatto diretto.

Nella mia mente cominciò a formarsi una sorta di nebbia. In un primo momento fu rada, e ancora mi consentiva di pensare lucidamente, ma dopo un paio di minuti cominciò a diventare sempre più fitta.

Non percepivo nient’altro oltre al corpo di Taehyung sotto le mie mani, e non c’era nient’altro che importasse in quel momento. Eppure era come se non fossi io ad agire, avevo come la sensazione di non essere io a baciarlo e toccarlo. Mi sembrava di essere in un sogno, uno di quelli estremamente vividi, ma pur sempre un sogno. Mi sentivo come uno spirito che si osserva dall’esterno: su quel divano, insieme a Taehyung, non c’ero io con la mente, ma c’era solo il mio corpo inerme e il vero me osservava la scena, impotente.

Taehyung staccò le sue labbra dalle mie, e la mancanza di quel tocco mi procurò un giramento di testa. Ma quella sensazione di smarrimento durò solo una frazione di secondo. Sfiorò la mia gola con la sua bocca poi si volse verso le mie labbra dove stampò con impazienza le sue per poi tornare a baciare il mio collo. Succhiò la pelle sensibile sotto la mia mascella e mi lasciai scappare un gemito che Taehyung soffocò riappropriandosi delle mie labbra.

“Vieni con me.”

Lo guardai con un’espressione confusa mentre affondava una mano fra i miei capelli e mi guardava negli occhi.

Scostai lo sguardo. “Dove?”

“Con me” ripeté, stavolta con più enfasi. “Con me e con il dipinto.”

Aprii la bocca nel tentativo di replicare qualcosa, qualsiasi cosa. Ma lui si chinò nuovamente su di me e catturò le mie labbra impedendomi di parlare. La nebbia minacciava di tornare ad offuscare la mia coscienza, ma mi scostai dal suo bacio e sciolsi la sua presa.

“Taehyung” mormorai. Pensai di aver perso la voce, tanto mi era costato chiamare il suo nome. “Cosa stai dicendo?”

Rimase interdetto quando mi scansai da lui. Provò ad avvolgere le sua braccia attorno alle mie spalle, ma con un gesto della mano glielo impedii.

Sentii un groppo alla gola, una sensazione spiacevole che si impossessava di me. Guardai Taehyung e con i miei occhi cercai di fargli intendere tutte le domande che avevo in testa ma alle quali non avevo né la forza né il coraggio di dar voce.

“Che succede?” Mi resi conto di avere la voce rotta solo dopo averla sentita con le mie orecchie. I suoi occhi non lasciavano i miei nemmeno per un istante e il suo sguardo determinato e convinto mi spaventò.

“Niente” rispose con tono impassibile.
“Taehyung…”

Durò un istante. Nelle sue iridi si accese una luce e spalancò gli occhi, quegli occhi marroni e tondi che avevo notato sin dalla prima volta che l’avevo visto. Il suo sguardo perse tutta la determinazione e la risolutezza che aveva avuto fino ad un istante prima e in lui vidi solo paura e dispiacere.

Si allontanò da me di scatto. Si alzò urtando il tavolino e facendo quasi cadere la tazza che aveva poggiato su di esso. Poi si fermò, si guardò un attimo attorno finché non incrociò il mio sguardo.

Non gli dissi niente, d’altronde non avrei saputo cosa dire. Non valeva la pena parlare quando non si ha la situazione sotto controllo o quando, come nel mio caso, non si riesce proprio a capire la situazione.

Si muoveva come in una scena a rallentatore. Scosse la testa, come se si fosse appena reso conto di qualcosa e volesse negare l’evidenza a se stesso. Prese le scarpe che aveva abbandonato accanto al divano e se le infilò in fretta, senza preoccuparsi di allacciare le stringhe. Si guardò intorno un’altra volta, forse nel tentativo di capire cosa avesse sbagliato o cosa ci fosse che non andava.

I suoi occhi liquidi si riempirono di lacrime ma inghiottì quelle gocce di acqua salata con disperazione. Andò verso la porta, poggiò la mano sul pomello ma non l’aprì. Invece si voltò verso di me. Quello che mi stava guardando in quel momento non era il Taehyung che aveva deciso di parlare, né il Taehyung che mi aveva detto che ero bello, nè tantomeno non era il Taehyung che mi aveva baciato. Quello accanto alla porta era il Taehyung che osservava per ore la tela al museo, quello che si lasciava offrire un hamburger quando la mia insistenza lo faceva desistere, quello che avevo portato via in lacrime dalla sala.

Mi lanciò un ultimo sguardo e poi se ne andò. Avrei voluto seguirlo, avrei voluto fargli troppe domande. Avrei voluto capire cosa stesse accadendo, ma non feci niente di tutto ciò. Rimasi sul divano, lì, dove mi aveva lasciato. Mi distesi e mi avvolsi nella coperta. Mi addormentai dopo qualche minuto senza nemmeno accorgermene.

 

***

 

Il giorno dopo andai a lavoro, come sempre, cercando di far finta che niente fosse accaduto. Più cercavo di togliere dalla mia mente le immagini della sera prima, più la mia testa continuava a proiettarle davanti ai miei occhi.

Vedevo il suo volto sconvolto mentre piangeva nella sala del museo e mi diceva che era il quadro a chiedergli di rimanere: per questo non poteva andarsene. Poi sentivo le sua labbra sulle mie, la sua pelle liscia e il suo tocco delicato ma deciso. Infine lo vedevo andarsene, aprire la porta del mio appartamento e uscire.

Tutti quei ricordi si confondevano e affollavano i miei pensieri con violenza. Di tutti avrei fatto a meno, e l’unico che avrei voluto ricordare non esisteva: io che andavo alla porta per fermarlo e gli impedivo di andarsene.

Anche quel giorno Taehyung arrivò. Mi ero quasi illuso che avrebbe rinunciato a venire, dopo quello che era accaduto la sera prima, anche solo per evitare di vedermi, ma mi sbagliavo. Quell’inspiegabile legame che si era creato fra lui e quella tela mi era oscuro, solo una cosa mi era chiara: era fortissimo e non sarebbe stato facile scioglierlo.

Quel giorno non indossava la sua tracolla, quindi dedussi che non fosse andato a lezione. Poi mi ricordai che era domenica e quella realizzazione spiegò anche la notevole affluenza di visitatori.

Taehyung si fece spazio fra le innumerevoli persone che stavano visitando la sala e che passavano da un dipinto all’altro. Si posizionò di fronte al quadro con il mare in tempesta e cominciò ad osservarlo. Non c’era niente di nuovo nel suo atteggiamento, ormai veniva nella sala da settimane e mi ero abituato alla sua presenza, ma in quel momento percepii qualcosa di diverso. Non riuscii subito a capire cosa fosse, poi sentii il distinto e inconfondibile odore del mare. L’aria salmastra mi penetrò nelle narici e sentii lo sciabordio delle onde, sentii l’acqua che si infrangeva contro gli scogli e la schiuma del mare che si accumulava a riva.

Accadde all’improvviso: onde altissime entrarono nella sala e ricoprirono tutto. Le vidi arrivare al rallentatore, tuttavia non riuscii a muovermi e a fare qualcosa per mettermi in salvo o per mettere in salvo Taehyung. Metri cubi di acqua stavano entrando in una stanza piena di persone e rischiavano di annegare tutti, ma io non riuscivo a spostarmi di un centimetro.

L’impatto fu insopportabile. Il peso dell’acqua che si infrangeva sulla mia schiena mi tolse il respiro e mi fece mancare un battito al cuore. Poi fu il caos. Le onde mi strattonavano da tutte le parti e, nonostante cercassi di trovare l’orientamento per tornare in superficie, l’acqua mi inghiottiva senza sosta. Forse passarono solo una manciata di secondi, ma parvero ore infinite quelle che passai a combattere con l’acqua. Finì senza preavviso così come era iniziato: sentii mancarmi le forze e poi fu tutto nero.

 

***


Mi svegliai di soprassalto e la prima cosa di cui mi accorsi fu il mal di testa lancinante che premeva contro le mie tempie. Feci per alzarmi ma la stanza cominciò a girarmi intorno e fui costretto a distendermi di nuovo. Non appena posai la testa sul cuscino sentii un immediato sollievo, e la stanza smise di girare come una trottola. Mi voltai verso il comodino e lanciai uno sguardo all’orologio: erano appena le sei di mattina e mancava ancora un’ora al suono della sveglia. Tuttavia non sarei riuscito a riaddormentarmi con quel mal di testa.

Mi alzai, questa volta lo feci senza fretta e aspettai qualche secondo seduto sul letto prima di verificare se le mie gambe avrebbero retto il mio peso. Riuscii ad arrivare in bagno, dove aprii l’armadietto dei medicinali e mi misi a cercare qualcosa che potesse alleviare quel mal di testa insopportabile. Ingoiai una pastiglia bevendo un sorso d’acqua dal rubinetto e poi mi diressi in cucina.

Diedi uno sguardo veloce alla dispensa e mi resi conto che non avrei potuto mangiare niente di meglio che una tazza di latte e cereali. Valutai le opzioni che mi si presentavano e infine decisi che mi sarei fermato in un cafè per mangiare qualcosa mentre andavo a lavoro.

Mi preparai con calma, una calma che di rado sperimentavo durante le mie mattine, dato che la maggior parte delle volte ero sempre in ritardo. Alle sette e mezzo ero già pronto per uscire. Mi diressi verso l’attaccapanni che stava nel piccolo soggiorno e presi una giacca. Mentre la indossavo mi voltai verso il divano, e sul tavolino davanti ad esso notai una tazza. Non ricordavo di aver lasciato nessuna tazza sul tavolino la sera prima, tuttavia alzai le spalle e la portai in cucina. Probabilmente stava lì da giorni e non me ne ero accorto, o forse mi ero preparato qualcosa la sera prima e avevo dimenticato di averlo fatto.

Scesi per strada e cominciai a camminare, come tutte le mattine. Mi fermai in un cafè che trovai per strada. L’interno era quasi deserto: in fondo era ancora presto. Ordinai un caffè macchiato e un muffin. Pagai alla cassa e quando il mio ordine fu pronto andai a sedermi ad uno dei tavolini che si trovavano vicino alle finestre. Osservavo il via vai di gente che camminava per strada. Alcuni avevano un passo calmo e rilassato, altri avanzavano di fretta, a tratti quasi correndo.

Soffiai il caffè bollente e poi lo posai per dare un morso al muffin. Qualche briciola cadde sul tavolino, spargendosi in modo casuale sulla superficie; il modo in cui si erano posizionate mi ricordava quasi le stelle in cielo che si raggruppavano a formare le costellazioni.

Il mal di testa era ormai quasi del tutto andato, e mangiare qualcosa mi stava anche aiutando a recuperare le forze e mandare via quella strana stanchezza con cui mi ero svegliato.

Quando ebbi finito di fare colazione, mi alzai e ripresi a camminare, diretto verso il museo in cui lavoravo. Le vie si stavano popolando poco a poco, e spesso mi trovato costretto a fare lo slalom fra la gente.

Decisi di cambiare strada ed evitare le vie principali. Sarei passato lungo il percorso pedonale che costeggiava il fiume: avrei allungato un po’ la strada, ma avevo tempo e me lo potevo permettere.

Una leggera brezza, che prima non sentivo perché schermata dai palazzi, mi scompigliava i capelli e si infilava fra i miei vestiti.

Era la fine di marzo, tuttavia la primavera sembrava ancora lontana e il vento che tirava me lo stava ricordando. Passai di fronte al chiosco che vendeva hamburger e pensai che, magari, quella sera, dopo il lavoro, mi sarei potuto fermare a mangiare qualcosa lì.

Arrivai al museo e solo pochi dipendenti erano già lì. Vidi Soomi che portava fra le braccia una pila di documenti. La salutai con la mano e lei ricambiò con un sorriso. Andai verso la mia sala. Le lampade erano ancora spente, e l’unica luce che rischiarava la stanza proveniva dalle finestre che erano state aperte nella parte alta della parete. Occupai il mio solito angolino e mi misi ad aspettare l’arrivo dei primi visitatori della giornata.

Lasciai scorrere lo sguardo lungo la sala. Il mio lavoro aveva senz’altro i suoi lati positivi: ero tutto il giorno a stretto contatto con opere d’arte che toglievano il fiato per la loro bellezza, ma, dall’altra parte, era estenuante stare tutto il tempo in piedi a non fare nient’altro che osservare la gente che veniva e andava.

Lo sguardo mi cadde per caso su un dipinto, uno dei più piccolo, e forse insignificanti, fra quelli che si trovavano nella sala. Nella tela era rappresentato un mare in tempesta, un cielo scuro sul quale infuriava un temporale, e in primo piano, degli scogli, aguzzi e quasi un tutt’uno con le onde. Su di essi era seduta di spalle una figura, indifferente e imperturbabile di fronte alla furia della natura che si manifestava di fronte ad essa.

Mentre guardavo quel quadro, qualcosa mi attraversò la mente, tuttavia fu troppo veloce e non mi consentì di capire cosa fosse stato. Mi sentivo come se non riuscissi a ricordare un sogno e mi stessi spremendo le meningi per riportarlo alla mente. Rimasi un po’ di tempo a pensare al sogno che avevo avuto la notte precedente, ma non riuscivo a ricordarlo nemmeno sforzandomi al massimo delle mie possibilità. Forse era stato un sogno piuttosto movimentato, e proprio per quella ragione mi ero svegliato col mal di testa.

Lasciai stare il sogno scordato e il dipinto non appena arrivarono i primi visitatori.

Passarono un paio di ore e decisi di ingannare il tempo che rimaneva fino alla pausa pranzo osservando i visitatori di quella giornata.

C’erano degli studenti in gita con i professori che ascoltavano la spiegazione degli insegnanti e trascrivevano le parole più importanti su dei blocchetti per prendere appunti; due signori anziani, presumibilmente marito e moglie, camminavano per la sala tenendosi a braccetto, si fermavano davanti ai quadri e, dopo averli osservati con attenzione, leggevano le didascalie sulle targhette poste di fianco alle tele più importanti; un uomo vestito di tutto punto si era appena fermato al centro della sala, dove erano esposti alcuni busti in marmo.

Mi voltai verso l’entrata della sala e in quel momento vidi entrare un ragazzo. Pensai che fosse bello, di quella bellezza eterea ed elegante che non ti stanchi mai di osservare. Cominciò a visitare la sala, fermandosi di fronte ad ogni singolo dipinto e studiandoli tutti con insolita attenzione. Ero quasi sicuro che quello che mi trovavo davanti fosse uno studente d’arte, perché nessun turista o visitatore occasionale avrebbe prestato così tanta attenzione ad ogni singolo particolare di una tela.

Passava da un quadro all’altro e ogni tanto prendeva appunti su un blocchetto che aveva tirato fuori dalla tracolla che indossava. I suoi occhi diventavano grandi e tondi di stupore ogni volta che notava un particolare che fino al secondo prima gli era sfuggito. Il cappotto ondeggiava dietro di lui ogni volta che si spostava di fronte ad un quadro diverso, e i suoi movimenti erano lenti ma aggraziati e precisi.

Arrivò ad uno degli ultimi quadri della sala e sembrò immobilizzarsi, come se un brivido gli avesse attraversato la schiena. Il quadro che stava osservando era proprio quello che qualche ora prima aveva destato il mio interesse e aveva risvegliato in me una specie di sogno o di ricordo che non riuscivo a riportare alla mente. I suoi occhi diventarono enormi, ma questa volta non a causa dello stupore, piuttosto per colpa di una confusione che attraversava la sua mente.

Mi soffermai anche io a studiare quella tela. La figura in primo piano, nonostante fosse voltata di spalle, sembrava puntare i suoi occhi su di me. Ma quella sensazione durò poco. Il ragazzo passò al quadro successivo e, insieme a me, sembrò dimenticare l’esistenza di quella strana tela.

Finì di visitare la sala, tuttavia non passò subito a quella successiva. Si fermò esitante vicino all’uscita, e indugiò fermandosi di nuovo di fronte a qualche quadro.

Solo in quel momento mi resi conto che, dal momento in cui era entrato, non avevo distolto nemmeno per un secondo lo sguardo da lui. Abbassai gli occhi, imbarazzato e dandomi dello stupido per il comportamento poco professionale che avevo dimostrato durante il lavoro. Quando trovai il coraggio di alzare nuovamente la testa, lui non c’era più.


Fine


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Note dell'autrice:

Dopo più di un mese che lavoro su questa storia finalmente sono riuscita a pubblicarla. Spero vi sia piaciuta perché ci ho messo davvero tanto impegno.
Ho deciso di lasciare un po' il finale in sospeso, concedendo a voi la possibilità di immaginare cosa possa essere realmente accaduto. Se avete delle ipotesi o teorie mi farebbe piacere sentirle. 
Venitemi a fare un saluto su twitter
QUI e se vi va lasciate una recensione perché mi fa sempre tanto piacere leggerle ♥

Alla prossima,

arya.
   
 
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