16.
«Com’è che sei qua?» chiese subito
guardando Ron, la fronte aggrottata.
«Ehm… ci
sono un po’ di giornalisti in agguato, sia qui che a casa» rispose.
Hermione sospirò, andando a sedere alla
scrivania. I due amici la imitarono, occupando le sedie libere.
«Immaginavo sarebbe successo» disse
la giovane donna. «Tu Harry hai messo il sigillo?»
Per la seconda volta, Harry rispose
positivamente.
«Bene» annuì Hermione.
Gli altri pendevano dalle sue labbra, così sedette più comoda.
«Non abbiamo detto nulla di
particolare, anche se siamo stati qua un’eternità» iniziò a raccontare, «Mi ha
fatto vedere i fascicoli aperti su Inga e sulla sua
fuga; è morto un ragazzo, sembra lei lo abbia convinto a farla evadere. Non
l’hanno trovata da nessuna parte»
Harry abbassò la testa, fermandosi a
metà nell’annuire. Lo sapeva, che Inga non era stata
trovata, che stava avvicinandosi a loro, che una nuova minaccia stava
apprestandoli. Per un momento una vocina fine, dentro di lui, gli domandò se,
per caso, si sentiva stanco davanti a quella nuova sfida. Ma scacciò via
quell’interrogativo, perché Harry Potter non poteva essere stanco, o comunque
non ora.
«Insomma, sì, hanno trovato delle
tracce nella neve, ma era già troppo tardi. Si è volatilizzata»
Harry parve rizzare le orecchie, in
una disperata imitazione di un lupetto deputato a salvare il branco. Sbatté le
palpebre una volta prima che la rabbia lo riempisse come un bicchiere di
cristallo.
«Che cosa?» chiese.
Hermione annuì lievemente, chiarificando il
dubbio opaco che in Harry si era delineato.
«Arrabbiarsi non serve a nulla ora,
Harry» aggiunse la giovane strega. Il suo Auror
migliore, seduto su quella poltroncina striminzita, apparve come svuotato, un
pallone morso abbandonato in un angolo. «Ho provato a chiedere se avessero
fatto abbastanza per trovarla, ma
ovviamente ho trovato un muro di gomma…»
Davanti a quell’espressione babbana Ron assunse un’espressione confusa, ma non disse
nulla: anche lui si era accorto dell’ira sconfortata di Harry.
«Ho visto la sua lettera» aggiunse Hermione, «però il Primo Ministro se l’è riportata via.
Minacciava apertamente l’intero mondo magico e te, Harry…»
Hermione aveva imparato, ormai, che indorare
le pillole al suo migliore amico non avrebbe aiutato. Lui infatti non ebbe
particolari reazioni, anzi si limitò ad annuire ancora.
«E Severus?»
chiese lui. I suoi amici si mossero sulle sedie in modo impercettibile, ma i
suoi sensi allenati lo colsero. Certo, non era facile scendere a patti con la
realtà della sua relazione col loro vecchio insegnante.
«I
traditori, i bugiardi e i falsi misericordiosi» citò Hermione,
spremendosi le meningi per ricordare parola per parola il testo. «Temo che la
minaccia sia anche per lui. Ma non c’è da temere, Harry, hai apposto il
sigillo»
«Resterò da lui, almeno finché non
decide di rivolere i suoi spazi» disse piano l’Auror,
sovrappensiero. «Preferisco essere pronto»
Hermione annuì e il silenzio cadde su di
loro. Sembrava che, nonostante la loro gioventù, la loro abitudine al disastro
e la loro buona lena, la minaccia di Inga li avesse
sconvolti tutti. C’era un velo di ansia quasi palpabile teso su di loro, che
impediva ora di parlare, di sorridere e di muoversi. Potevano solo stare
seduti, abbandonati, a osservare a terra, o a osservarsi tra loro. Quel limbo
durò per minuti interminabili, poi qualche temerario decise di bussare, e Hermione saltò in piedi.
«Oh, mi era scordata…»
borbottò. Harry e Ron si alzarono a loro volta.
«Mi trovi in giro per il Ministero»
la salutò dolcemente Ron, baciandola. Hermione annuì,
accennando un sorriso, poi si allungò a prendere la mano di Harry.
«Cercami a Notturn
Alley» disse lui come commiato. I tre si separarono.
Fuori, gli assistenti di Hermione non aspettarono
altro che vedere la porta aprirsi per riversarsi nell’ufficio. Harry e Ron
risalirono la corrente umana che li investì, poi si fermarono là davanti alla
porta, che venne richiusa.
«Teniamoci in contatto» disse Harry.
Ron gli strinse una spalla.
«Per qualsiasi cosa chiamami» si
assicurò. Harry gli restituì la pacca, poi con un gesto si salutarono, e Ron
tornò nell’area visitatori. Harry, invece, riprese la propria via, diretto
all’appartamento sopra alla bottega per Pozionisti.
Troppo preso dai pensieri che gli
affollavano la mente, Harry Potter uscì dal Ministero andando ad inciampare
dritto dritto nella tana dei serpenti. Come mossi da
una folata di vento, una decina di giornalisti gli furono appresso, come lo
staff di Hermione era saltato al collo di lei poco
prima, e l’Auror ebbe il tempo di prendere un respiro
e dare uno sguardo al briciolo di Londra che si apriva davanti a lui prima di
cadere nel rumore.
«Harry Potter, anche stavolta al
lavoro per salvare il mondo magico come lo conosciamo?»
«Chi è questa strega? Può darci
delle informazioni su di lei?»
«Signor Potter, cosa ci dice
riguardo la rubrica Indovina Io che
ha ipotizzato che questa strega non sia altro che una sua amante in una crisi
di nervi?»
Harry si fece largo nella folla, alzando
le braccia.
«No comment!»
esclamava a tratti, la testa bassa per sfuggire ai flash, muovendosi il più
rapidamente possibile. La porta su quel lato del Ministero si aprì, e Harry
vide con la coda dell’occhio un mago addetto alla sicurezza intervenire. I
giornalisti fecero un passo indietro, ma non mollarono, finché Harry non fu
abbastanza a distanza da poter salutare con un gesto l’impiegato ministeriale e
poi Smaterializzarsi, ben nascosto dal crocicchio vociante.
Riapparve con un sonoro pop in un vicoletto di Notturn Alley, in un silenzio
cupo rotto solo dal rumore di suole che se andavano via in fretta, portando
altrove chissà cosa. Harry si guardò attorno: non si sarebbe lamentato se
avesse potuto fare un arresto minore, nel mentre. Ma nulla di strano gli capitò
sotto lo sguardo, chi stava nascondendo qualcosa se ne era andato e all’Auror non restava che andare a casa di Severus
ad attendere.
Aveva smesso di nevicare; un pallido
sole si faceva intravedere sotto la coltre di nubi, ma appariva solo come un
medaglione nascosto da molti strati di lino, e non prometteva calore, né
l’arrivo di un’imminente Primavera. Ma dentro casa Harry trovò un dolce tepore,
quando aprì le porte che, notò, erano state stregate per lasciarlo entrare.
Sorrise.
«Sono tornato» disse ad alta voce,
guardandosi attorno.
«Sono qui»
La voce di Severus
proveniva da una delle stanze che si aprivano attorno a Harry: dopo aver appeso
gli abiti da esterno lo trovò affondato in una poltrona a leggere un grosso
tomo polveroso, i capelli neri ficcati con malagrazia dietro le orecchie, il
naso adunco nelle pagine. Harry ritrovò molto dei suoi anni a scuola in quel
quadretto, ma sorrise, e si avvicinò a Severus
rubandogli un bacio a fior di labbra.
«Novità?» chiese il Pozionista alzando gli occhi su di lui.
Harry prese la palla al balzo per
levargli i capelli da dietro le orecchie: glieli tirò su goffamente, perché di
capelli lunghi lui non ne sapeva molto, ma riuscì ad arrangiarglieli in un nodo
alto, prima però che cadessero di nuovo. Severus
allora sospirò, ma senza dire nulla gli allungò un laccetto che finora aveva
tenuto legato al polso magro. Harry gli legò i capelli.
«Una strega oscura sta venendo qui
per uccidermi e vendicarsi del mio partner» rispose Harry. «Quindi nulla di
nuovo, direi»
Severus accennò una risata, ma non sembrava
preoccupato. Anzi, picchiettò direttamente sul libro.
«Sai cos’è? Qualcosa non quadra»
disse. «La ricetta di quel filtro. Sembra incompleta»
Harry aggrottò la fronte, facendosi
attento.
«Cosa significa?» chiese.
«Non lo so» sussurrò Severus, pensieroso. «Devo fare delle ricerche»
Si alzò e poggiò il grosso tomo, poi
tornò a Harry e gli cinse la vita. L’Auror sbatté le
palpebre, osservandolo, e le loro bocche si trovarono con un sospiro.
«Posso aiutarti, se vuoi» disse
piano Harry. Severus ghignò.
«Mi sono bastati quegli anni di
incubo, grazie» rispose. «Tu puoi occuparti di altro»
Harry mise un broncio posticcio
prima di baciare di nuovo Severus, allacciandogli le
braccia al collo. Restarono stretti per un po’, lì, in piedi in mezzo alla
stanza. Poi le finestre illuminate di argento tornarono al loro cupo oblio,
grossi fiocchi di neve ripresero a turbinare, e i due dovettero andare ad
accendere le candele per dare alle stanze una parvenza di vita.
Il Mare del Nord era una crosta
grattata via da un quadro romantico. Grossi cavalloni si alzavano dalle sue
profondità, più simili a figli degli oceani che di un mare. La neve, fine e
farinosa, cadeva dal cielo plumbeo, apparendo molti piedi sotto le pance delle
nubi, e svanendo a pochi palmi dalle onde, fusi nell’aria umidiccia. La nave,
una piccola imbarcazione turistica, arrancava nella tempesta come un giocattolo
di latta. Il capitano aveva spento le luci, ormai viaggiavano nell’oscurità da
qualche decina di minuti. C’era stato chi si era lamentato della decisione, ma
le hostess di bordo avevano messo a tacere le lamentele con parole secche e
sguardi vacui. Sarebbero sbarcati sulle coste inglesi in mezz’ora. Per intanto,
c’erano coperte in abbondanza.
Jacqueline, che quel viaggio lo
aveva intrapreso con la voglia di svagarsi, e non di dare di stomaco su un mare
in subbuglio, se ne stava raggomitolata nel sedile, avvolta nella ruvida
coperta marrone che le avevano offerto. Teneva la borsetta in grembo e la valigia
sotto ai piedi, che aveva liberato dalle scarpe da tennis. Erano partiti da
Calais con un’ora di ritardo, quello che era bastato al capitano per decidere
di intraprendere comunque l’ultima traversata della sera. E lei si era pentita
di essere salita a bordo, ma il biglietto era costato caro e le era stato
spiegato che se avesse deciso di tornare in albergo avrebbe perduto ogni
diritto al rimborso. Così ora seguiva gli scossoni della nave col corpo magro,
tenendo bene in mente che quel viaggio lo stava facendo per zia Ivonne, che da tempo le chiedeva una visita, sola com’era
nella sua casa a Folkestone, a una ventina di minuti
da Dover . Dopo che zio Maurice era mancato di un brutto male, zia Ivonne era rimasta isolata in quel paese straniero come una
principessa rinchiusa in una torre. Era il minimo, per Jacqueline, sacrificare
parte delle ferie per andare da lei.
«Mi scusi?» chiamò di botto
Jacqueline nel suo buon inglese macchiato dal forte accento parigino. Aveva
alzato la testa castana non appena, nel suo campo visivo, era entrata
l’hostess. La ragazza, una giovane molto bassa, la squadrò – sembrava non
vederla nemmeno.
«Dica» rispose. Jacqueline soffocò
un sospiro. Per tutti i soldi che aveva speso, essere trattata così non le
andava proprio. Si rizzò, quindi, e si chinò ad afferrare le scarpe da tennis:
al diavolo l’acqua che voleva chiedere.
«Mi porti dal capitano, prego» disse
quindi, duramente, e si alzò dopo aver infilato le scarpe alle bell’e meglio.
La donna che sedeva poco lontano, reggendo il figlio addormentato, la guardò
con una luce piena di rispetto negli occhi. La hostess, invece, non batté
ciglio: la guardò ancora un istante, lo sguardo immobile, poi si voltò con un
gesto rigido e Jacqueline le andò dietro, sussurrando alla donna di badare al
suo bagaglio. La vide annuire, poi allungò il passo.
In effetti i traghetti che univano
la Francia con la Gran Bretagna non li prendevano poi tanta gente, pensò
Jacqueline. Non erano in più di trenta su quella nave, che però poteva
contenere sino a cento passeggeri.
La hostess le fece imboccare un
corridoio dove, da quanto aveva visto mentre ancora le luci erano accese,
c’erano i servizi igienici. Il silenzio regnava ovunque, pasciuto dallo
scontento dei viaggiatori. Finirono davanti ad una porta: Riservato, vi era scritto. La hostess si bloccò lì davanti: come un
automa fece un passo indietro, poi alzò la mano.
«Prego» disse. Jacqueline la
squadrò: la poverina doveva soffrire il mare. Certo era difficile lavorare
così, cercando di non dare a vedere il proprio malessere. La giovane
s’impensierì per lei, ma senza una parola la hostess se ne andò in quel preciso
momento, lasciandola sola. Jacqueline guardò la porta. Poi la aprì.
«Permesso?» vociò subito.
La porta si aprì sulla cabina di comando,
una piccola sala le cui pareti erano tutte vetrate. Da là si vedeva bene la
costa inglese, nascosta dalla nebbia e dal buio, e le cime dei cavalloni che
s’infrangevano sulla nave, alzando alti pennacchi bianchi di spuma. Davanti a
quell’immagine, il capitano le dava la schiena, intento a manovrare. Alla sua
sinistra, invece, era seduta una donna avvolta in una pesante pelliccia.
«È permesso?» chiese ancora
Jacqueline, notando la figura seduta di lato. Un brivido di rabbia la colse:
certo, il capitano non poteva lasciare a piedi la sua ragazza. Doveva partire
per forza per lei.
«Vieni, vieni pure, Jacqueline»
rispose allora la donna, senza voltarsi. La ragazza si gelò sul posto.
«Come fa a-?» balbettò, ma si zittì
quando si vide avanzare: le sue gambe avevano mosso un passo senza che lei se
ne accorgesse. Cercò di fermarsi, ma al secondo passo la porta si chiuse alle
sue spalle. Solo allora la donna si voltò a guardarla.