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Autore: Adhara    28/07/2018    0 recensioni
Soltanto una nuova minaccia per il Mondo Magico poteva far riavvicinare l'Auror Potter col suo ex professore di Pozioni. Due uomini del tutto nuovi, vecchi rancori e una strega oscura sono gli ingredienti per una pozione ammaliante e... pericolosa.
Genere: Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altro personaggio, Il trio protagonista, Severus Piton | Coppie: Harry/Severus, Remus/Sirius, Ron/Hermione
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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16.

«Com’è che sei qua?» chiese subito guardando Ron, la fronte aggrottata.

«Ehm… ci sono un po’ di giornalisti in agguato, sia qui che a casa» rispose.

Hermione sospirò, andando a sedere alla scrivania. I due amici la imitarono, occupando le sedie libere.

«Immaginavo sarebbe successo» disse la giovane donna. «Tu Harry hai messo il sigillo?»

Per la seconda volta, Harry rispose positivamente.

«Bene» annuì Hermione. Gli altri pendevano dalle sue labbra, così sedette più comoda.

«Non abbiamo detto nulla di particolare, anche se siamo stati qua un’eternità» iniziò a raccontare, «Mi ha fatto vedere i fascicoli aperti su Inga e sulla sua fuga; è morto un ragazzo, sembra lei lo abbia convinto a farla evadere. Non l’hanno trovata da nessuna parte»

Harry abbassò la testa, fermandosi a metà nell’annuire. Lo sapeva, che Inga non era stata trovata, che stava avvicinandosi a loro, che una nuova minaccia stava apprestandoli. Per un momento una vocina fine, dentro di lui, gli domandò se, per caso, si sentiva stanco davanti a quella nuova sfida. Ma scacciò via quell’interrogativo, perché Harry Potter non poteva essere stanco, o comunque non ora.

«Insomma, sì, hanno trovato delle tracce nella neve, ma era già troppo tardi. Si è volatilizzata»

Harry parve rizzare le orecchie, in una disperata imitazione di un lupetto deputato a salvare il branco. Sbatté le palpebre una volta prima che la rabbia lo riempisse come un bicchiere di cristallo.

«Che cosa?» chiese.

Hermione annuì lievemente, chiarificando il dubbio opaco che in Harry si era delineato.

«Arrabbiarsi non serve a nulla ora, Harry» aggiunse la giovane strega. Il suo Auror migliore, seduto su quella poltroncina striminzita, apparve come svuotato, un pallone morso abbandonato in un angolo. «Ho provato a chiedere se avessero fatto abbastanza per trovarla, ma ovviamente ho trovato un muro di gomma…»

Davanti a quell’espressione babbana Ron assunse un’espressione confusa, ma non disse nulla: anche lui si era accorto dell’ira sconfortata di Harry.

«Ho visto la sua lettera» aggiunse Hermione, «però il Primo Ministro se l’è riportata via. Minacciava apertamente l’intero mondo magico e te, Harry…»

Hermione aveva imparato, ormai, che indorare le pillole al suo migliore amico non avrebbe aiutato. Lui infatti non ebbe particolari reazioni, anzi si limitò ad annuire ancora.

«E Severus?» chiese lui. I suoi amici si mossero sulle sedie in modo impercettibile, ma i suoi sensi allenati lo colsero. Certo, non era facile scendere a patti con la realtà della sua relazione col loro vecchio insegnante.

«I traditori, i bugiardi e i falsi misericordiosi» citò Hermione, spremendosi le meningi per ricordare parola per parola il testo. «Temo che la minaccia sia anche per lui. Ma non c’è da temere, Harry, hai apposto il sigillo»

«Resterò da lui, almeno finché non decide di rivolere i suoi spazi» disse piano l’Auror, sovrappensiero. «Preferisco essere pronto»

Hermione annuì e il silenzio cadde su di loro. Sembrava che, nonostante la loro gioventù, la loro abitudine al disastro e la loro buona lena, la minaccia di Inga li avesse sconvolti tutti. C’era un velo di ansia quasi palpabile teso su di loro, che impediva ora di parlare, di sorridere e di muoversi. Potevano solo stare seduti, abbandonati, a osservare a terra, o a osservarsi tra loro. Quel limbo durò per minuti interminabili, poi qualche temerario decise di bussare, e Hermione saltò in piedi.

«Oh, mi era scordata…» borbottò. Harry e Ron si alzarono a loro volta.

«Mi trovi in giro per il Ministero» la salutò dolcemente Ron, baciandola. Hermione annuì, accennando un sorriso, poi si allungò a prendere la mano di Harry.

«Cercami a Notturn Alley» disse lui come commiato. I tre si separarono. Fuori, gli assistenti di Hermione non aspettarono altro che vedere la porta aprirsi per riversarsi nell’ufficio. Harry e Ron risalirono la corrente umana che li investì, poi si fermarono là davanti alla porta, che venne richiusa.

«Teniamoci in contatto» disse Harry. Ron gli strinse una spalla.

«Per qualsiasi cosa chiamami» si assicurò. Harry gli restituì la pacca, poi con un gesto si salutarono, e Ron tornò nell’area visitatori. Harry, invece, riprese la propria via, diretto all’appartamento sopra alla bottega per Pozionisti.

Troppo preso dai pensieri che gli affollavano la mente, Harry Potter uscì dal Ministero andando ad inciampare dritto dritto nella tana dei serpenti. Come mossi da una folata di vento, una decina di giornalisti gli furono appresso, come lo staff di Hermione era saltato al collo di lei poco prima, e l’Auror ebbe il tempo di prendere un respiro e dare uno sguardo al briciolo di Londra che si apriva davanti a lui prima di cadere nel rumore.

«Harry Potter, anche stavolta al lavoro per salvare il mondo magico come lo conosciamo?»

«Chi è questa strega? Può darci delle informazioni su di lei?»

«Signor Potter, cosa ci dice riguardo la rubrica Indovina Io che ha ipotizzato che questa strega non sia altro che una sua amante in una crisi di nervi?»

Harry si fece largo nella folla, alzando le braccia.

«No comment!» esclamava a tratti, la testa bassa per sfuggire ai flash, muovendosi il più rapidamente possibile. La porta su quel lato del Ministero si aprì, e Harry vide con la coda dell’occhio un mago addetto alla sicurezza intervenire. I giornalisti fecero un passo indietro, ma non mollarono, finché Harry non fu abbastanza a distanza da poter salutare con un gesto l’impiegato ministeriale e poi Smaterializzarsi, ben nascosto dal crocicchio vociante.

Riapparve con un sonoro pop in un vicoletto di Notturn Alley, in un silenzio cupo rotto solo dal rumore di suole che se andavano via in fretta, portando altrove chissà cosa. Harry si guardò attorno: non si sarebbe lamentato se avesse potuto fare un arresto minore, nel mentre. Ma nulla di strano gli capitò sotto lo sguardo, chi stava nascondendo qualcosa se ne era andato e all’Auror non restava che andare a casa di Severus ad attendere.

Aveva smesso di nevicare; un pallido sole si faceva intravedere sotto la coltre di nubi, ma appariva solo come un medaglione nascosto da molti strati di lino, e non prometteva calore, né l’arrivo di un’imminente Primavera. Ma dentro casa Harry trovò un dolce tepore, quando aprì le porte che, notò, erano state stregate per lasciarlo entrare. Sorrise.

«Sono tornato» disse ad alta voce, guardandosi attorno.

«Sono qui»

La voce di Severus proveniva da una delle stanze che si aprivano attorno a Harry: dopo aver appeso gli abiti da esterno lo trovò affondato in una poltrona a leggere un grosso tomo polveroso, i capelli neri ficcati con malagrazia dietro le orecchie, il naso adunco nelle pagine. Harry ritrovò molto dei suoi anni a scuola in quel quadretto, ma sorrise, e si avvicinò a Severus rubandogli un bacio a fior di labbra.

«Novità?» chiese il Pozionista alzando gli occhi su di lui.

Harry prese la palla al balzo per levargli i capelli da dietro le orecchie: glieli tirò su goffamente, perché di capelli lunghi lui non ne sapeva molto, ma riuscì ad arrangiarglieli in un nodo alto, prima però che cadessero di nuovo. Severus allora sospirò, ma senza dire nulla gli allungò un laccetto che finora aveva tenuto legato al polso magro. Harry gli legò i capelli.

«Una strega oscura sta venendo qui per uccidermi e vendicarsi del mio partner» rispose Harry. «Quindi nulla di nuovo, direi»

Severus accennò una risata, ma non sembrava preoccupato. Anzi, picchiettò direttamente sul libro.

«Sai cos’è? Qualcosa non quadra» disse. «La ricetta di quel filtro. Sembra incompleta»

Harry aggrottò la fronte, facendosi attento.

«Cosa significa?» chiese.

«Non lo so» sussurrò Severus, pensieroso. «Devo fare delle ricerche»

Si alzò e poggiò il grosso tomo, poi tornò a Harry e gli cinse la vita. L’Auror sbatté le palpebre, osservandolo, e le loro bocche si trovarono con un sospiro.

«Posso aiutarti, se vuoi» disse piano Harry. Severus ghignò.

«Mi sono bastati quegli anni di incubo, grazie» rispose. «Tu puoi occuparti di altro»

Harry mise un broncio posticcio prima di baciare di nuovo Severus, allacciandogli le braccia al collo. Restarono stretti per un po’, lì, in piedi in mezzo alla stanza. Poi le finestre illuminate di argento tornarono al loro cupo oblio, grossi fiocchi di neve ripresero a turbinare, e i due dovettero andare ad accendere le candele per dare alle stanze una parvenza di vita.

 

Il Mare del Nord era una crosta grattata via da un quadro romantico. Grossi cavalloni si alzavano dalle sue profondità, più simili a figli degli oceani che di un mare. La neve, fine e farinosa, cadeva dal cielo plumbeo, apparendo molti piedi sotto le pance delle nubi, e svanendo a pochi palmi dalle onde, fusi nell’aria umidiccia. La nave, una piccola imbarcazione turistica, arrancava nella tempesta come un giocattolo di latta. Il capitano aveva spento le luci, ormai viaggiavano nell’oscurità da qualche decina di minuti. C’era stato chi si era lamentato della decisione, ma le hostess di bordo avevano messo a tacere le lamentele con parole secche e sguardi vacui. Sarebbero sbarcati sulle coste inglesi in mezz’ora. Per intanto, c’erano coperte in abbondanza.

Jacqueline, che quel viaggio lo aveva intrapreso con la voglia di svagarsi, e non di dare di stomaco su un mare in subbuglio, se ne stava raggomitolata nel sedile, avvolta nella ruvida coperta marrone che le avevano offerto. Teneva la borsetta in grembo e la valigia sotto ai piedi, che aveva liberato dalle scarpe da tennis. Erano partiti da Calais con un’ora di ritardo, quello che era bastato al capitano per decidere di intraprendere comunque l’ultima traversata della sera. E lei si era pentita di essere salita a bordo, ma il biglietto era costato caro e le era stato spiegato che se avesse deciso di tornare in albergo avrebbe perduto ogni diritto al rimborso. Così ora seguiva gli scossoni della nave col corpo magro, tenendo bene in mente che quel viaggio lo stava facendo per zia Ivonne, che da tempo le chiedeva una visita, sola com’era nella sua casa a Folkestone, a una ventina di minuti da Dover . Dopo che zio Maurice era mancato di un brutto male, zia Ivonne era rimasta isolata in quel paese straniero come una principessa rinchiusa in una torre. Era il minimo, per Jacqueline, sacrificare parte delle ferie per andare da lei.

«Mi scusi?» chiamò di botto Jacqueline nel suo buon inglese macchiato dal forte accento parigino. Aveva alzato la testa castana non appena, nel suo campo visivo, era entrata l’hostess. La ragazza, una giovane molto bassa, la squadrò – sembrava non vederla nemmeno.

«Dica» rispose. Jacqueline soffocò un sospiro. Per tutti i soldi che aveva speso, essere trattata così non le andava proprio. Si rizzò, quindi, e si chinò ad afferrare le scarpe da tennis: al diavolo l’acqua che voleva chiedere.

«Mi porti dal capitano, prego» disse quindi, duramente, e si alzò dopo aver infilato le scarpe alle bell’e meglio. La donna che sedeva poco lontano, reggendo il figlio addormentato, la guardò con una luce piena di rispetto negli occhi. La hostess, invece, non batté ciglio: la guardò ancora un istante, lo sguardo immobile, poi si voltò con un gesto rigido e Jacqueline le andò dietro, sussurrando alla donna di badare al suo bagaglio. La vide annuire, poi allungò il passo.

In effetti i traghetti che univano la Francia con la Gran Bretagna non li prendevano poi tanta gente, pensò Jacqueline. Non erano in più di trenta su quella nave, che però poteva contenere sino a cento passeggeri.

La hostess le fece imboccare un corridoio dove, da quanto aveva visto mentre ancora le luci erano accese, c’erano i servizi igienici. Il silenzio regnava ovunque, pasciuto dallo scontento dei viaggiatori. Finirono davanti ad una porta: Riservato, vi era scritto. La hostess si bloccò lì davanti: come un automa fece un passo indietro, poi alzò la mano.

«Prego» disse. Jacqueline la squadrò: la poverina doveva soffrire il mare. Certo era difficile lavorare così, cercando di non dare a vedere il proprio malessere. La giovane s’impensierì per lei, ma senza una parola la hostess se ne andò in quel preciso momento, lasciandola sola. Jacqueline guardò la porta. Poi la aprì.

«Permesso?» vociò subito.

La porta si aprì sulla cabina di comando, una piccola sala le cui pareti erano tutte vetrate. Da là si vedeva bene la costa inglese, nascosta dalla nebbia e dal buio, e le cime dei cavalloni che s’infrangevano sulla nave, alzando alti pennacchi bianchi di spuma. Davanti a quell’immagine, il capitano le dava la schiena, intento a manovrare. Alla sua sinistra, invece, era seduta una donna avvolta in una pesante pelliccia.

«È permesso?» chiese ancora Jacqueline, notando la figura seduta di lato. Un brivido di rabbia la colse: certo, il capitano non poteva lasciare a piedi la sua ragazza. Doveva partire per forza per lei.

«Vieni, vieni pure, Jacqueline» rispose allora la donna, senza voltarsi. La ragazza si gelò sul posto.

«Come fa a-?» balbettò, ma si zittì quando si vide avanzare: le sue gambe avevano mosso un passo senza che lei se ne accorgesse. Cercò di fermarsi, ma al secondo passo la porta si chiuse alle sue spalle. Solo allora la donna si voltò a guardarla.

 

 

  
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