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Autore: darkrin    30/07/2018    0 recensioni
Damon è arrivato a Mystic Falls solo da poche settimane quando muore in circostanze strane e Caroline, con la sua nuova pelle di mostro, è l'unica a sospettare che l'improvviso ritorno di Klaus abbia a che fare con la morte del maggiore dei Salvatore.
Nell'interno scuro e pieno di ombre della sua casa, Sheila Bennett canta una vecchia canzone di Ella Fitzgerald: Some folks can lose the blues in their heart / But when I think of you another shower starts / Into each life some rain must fall / But too much is fallin' in mine.
(Quattro Cavalieri dell'Apocalisse!AU dalla s1 di TVD | Klaroline)
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caroline Forbes, Damon Salvatore, Klaus, Kol Mikaelson, Mikael, Rebekah Mikaelson
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Note:
Ho iniziato a plottare questa storia tantissimo tempo fa, senza mai mettermici davvero perché mi ero convinta di non essere in grado di scrivere long, ma la storia è rimasta lì a farmi compagnia, a volersi far scrivere e ho deciso che ci tenevo troppo per non provarci. 
- Il secondo capitolo (in cui verranno spiegate alcune cose) è già quasi pronto, ma conto di postarlo tra più o meno una settimana quando, spero avrò più o meno concluso o almeno impostato anche il terzo. 
- Tutti i titoli dei capitoli sono e saranno versi di Ocean's Brawl di Coeur de Pirate e in ogni capitolo ci sarà alternanza tra presente (più o meno o passato molto possimo) e passato. 
- Mi sto avventurando in luoghi a me ignoti, quindin pliiis, fatemi sapere cosa pensate di questo tentativo di scrivere più di una one-shot di sola e pura introspezione. :) E al solito non ho beta, quindi segnalatemi qualsiasi svista, errore, strafalcione. 
- E direi che con le note ci siamo. 

 
Prologo:
Hide-and-seek'd for far too long
 
 
 
C’è un appartamento in uno dei palazzi che sono stati costruiti dietro al Grill al posto delle vecchie villette fatiscenti che vi si trovavano e che sono state abbattute in un tentativo di compiere un’opera di speculazione edilizia, giustificata dal desiderio di bonificare la zona, che è costata la faccia a Carol Lockwood,
C’è un appartamento, dunque, e nell’appartamento ci sono tre stanze: un bagno dalle pareti bianche, un salotto con un angolo cucina dagli scaffali ancora pieni di biscotti e una camera, dominata da un massiccio letto matrimoniale dalle lenzuola scure.
Nella camera da letto c’è un armadio e in un angolo dell’armadio, sepolto sotto giacche di pelle e vecchie felpe, si trova uno scatolone di cartone pieno di cianfrusaglie: uno smalto rosso, due magliette da bambina, un vecchio reggiseno, un pacchetto di fazzoletti, qualche quaderno, un libro di poesie e un cerchietto spezzato e poi, sul fondo, un diario dai bordi sgualciti. Il diario ha la copertina scura e macchiata e sulla prima pagina, una Caroline bambina ha scritto, con calligrafia tonda e incerta:
 
23 giugno 2000
 
Caro Diario,
Questa sarà l’estate più bella della mia vita. Vado a trovare papà e andremo tutti i giorni al mare e mangeremo tantissimi gelati e la mamma non potrà più essere cattiva con me.
Diario, tu non lo sai, ma papà mi vuole tanto bene, non come la mamma.
 
 
***
 
 
La notizia della drammatica morte di Damon Salvatore –  questa mattina un giovane uomo è stato trovato morto nella sua macchina. La polizia cerca ancora di far luce sulle circostanze, ma c’è chi già punta sulla pista della vendetta personale – fa subito il giro di tutta Mystic Falls.
Damon era arrivato solo da poche settimane ed era avvenente e aveva il fascino pericoloso degli uomini di certi vecchi film e certe cose – certe morti efferate, certe macchie di sangue sui finestrini delle macchine abbandonate su un sentiero isolato – non accadevano in una cittadina pacifica come Mystic Falls.
- Fai attenzione – le dice sua madre, quando esce al mattino per recarsi sul luogo del delitto. – Fai attenzione e torna subito a casa, questa sera. –
Caroline annuisce, con la bocca piena di cereali, e Liz non aggiunge che la polizia sospetta che sia stato un omicidio e che l’assassino sia ancora in città e che sia un pericolo anche per altri. E lo è. pericoloso e un assassino e Damon è ben lungi dall’essere la sua prima vittima, ma Caroline ha smesso di temerlo così tanti anni fa.
Caroline pensa a come sua madre griderebbe al mostro, se solo sapesse, e pensa alla maglietta sporca di sangue che ha nascosto in un sacchetto scuro e gettato in un secchio dall’altra parte della città. Pensa al sapore della carne di Bonnie sulla sua lingua e all’anello che le stringe, come una condanna, il medio della mano sinistra.
Pensa: è tornato e riesce a trattenersi a stento dall’attraversare la città di corsa, con la nuova velocità che ha scoperto di possedere una mattina mentre rischiava di soffocare tra le lacrime che le rigavano il volto e il sangue che le scivolava nella gola e lungo il mento e che, improvvisamente, era diventato l’unica cosa a cui riuscisse a pensare, che potesse desiderare.
Un brivido le scorre lungo la schiena e un singhiozzo le si incastra in gola.
 
 
Caroline sapeva cosa voleva dire quel desiderio quando si era svegliata, riversa lungo il ciglio di una strada statale, con il collo spezzato ed il ricordo di un ghigno malevolo negli occhi. Quando aveva avuto appena il tempo di correre alla porta di Bonnie prima dell’alba. Immagina che a Damon – solo pensare il suo nome, il suo volto le fa accapponare la pelle – sarebbe piaciuto, oh così tanto!, l’idea di averla trasformata solo per farla morire arsa viva dai raggi del sole, solo per poter immaginare le sue urla mentre il fuoco la divorava.
Quando si era svegliata, con le gengive spaccate dal dolore, Caroline aveva pensato a quell’uomo che ora è tornato e aveva stretto tra le dita il suo cellulare con tanta forza da frantumarlo per resistere all’impulso di chiamarlo, di digitare quel numero familiare quanto quello di sua madre, quanto il colore dei suoi occhi per chiedergli aiuto, per supplicarlo di…
Era stata lei a ordinargli di andarsene. Era stata lei a dirgli che non aveva alcun bisogno della sua costante protezione, che era Caroline Forbes ed era in grado di cavarsela benissimo da sola. E non poteva, non poteva, non poteva chiamarlo ora e per dirgli cosa? Sono morta, da sola. Te ne sei andato e sono morta e. Sono. Morta.
Aveva ingoiato il panico che aveva rischiato di soffocarla e si era alzata dal ciglio della strada. Aveva rassettato il più possibile i vestiti e i capelli – per le macchie di fango e sangue non c’era nulla che potesse fare – ed aveva esalato un ultimo singhiozzo, prima di iniziare a correre più veloce che mai.
Anni prima, l’uomo che ora è tornato le aveva spiegato della forza e della sete di sangue dei vampiri; le aveva elencato tutti i vantaggi che derivavano dall’essere trasformati, mentre tracciava con le dita il contorno delle sue nocche, scivolava lungo la linea della sua vita, si fermava in un punto per mormorare con un sogghigno: eccola qui, tesoro, la tua staccionata bianca e i tuoi due figli biondi ed era scoppiato a ridere quando Caroline lo aveva allontanato con una spinta sulla spalla, che era stata efficace solo perché lui gliel’aveva concesso, e si era sollevata con uno sbuffo dal divano di pelle su cui era rannicchiata.
 
Quando era apparsa sulla soglia dei Bennett, con la maglietta sporca di sangue e terra e il collo ancora indolenzito, Bonnie aveva indugiato solo un istante prima di invitarla ad entrare in quella casa che Caroline conosceva come le sue tasche.
La ragazza le aveva offerto una tisana dal sapore acre e l’aveva osservata con sospetto da sopra il fumo che si levava dalla sua tazza.
Caroline si era morsa le labbra per tentare di frenare l’istinto di strapparle a morsi la gola e negli occhi scuri come pietre di Bonnie aveva visto la consapevolezza e il disprezzo.
- Non posso ucciderti – le aveva detto quella che era stata la sua migliore amica, accarezzando distrattamente il bordo caldo del boccale di ceramica grigia. - Non per ora – aveva continuato, lanciando un’occhiata all’interno scuro e profumato di erbe della casa, da cui Caroline sentiva provenire il rumore leggero di stoviglie e la voce di Sheila Bennett che intonava una vecchia canzone di Ella Fitzgerald: Some folks can lose the blues in their heart / But when I think of you another shower starts / Into each life some rain must fall / But too much is fallin' in mine.
Gli occhi come pietre di Bonnie si erano riposati su di lei e la bambina che Caroline aveva rincorso con una risata tra l’erba alta dei prati di Mystic Falls, la ragazza a cui era corsa a confessare il suo primo bacio, aveva affermato:
- Ma se torcerai un capello anche a un solo abitante di Mystic Falls, verrò personalmente a ucciderti. E non importa quale terrore si abbatterà su di me. –
Caroline si era morsa le labbra per non aggiungere: non sarà solo su di te, sarà su tutto quello che ami e su tutto quello che avrai mai toccato nella tua vita, tutto quello che avrà conosciuto anche solo l’ombra di Bonnie Bennett.
Si era umettata le labbra che sentiva secche e spaccate anche se erano prive di qualsiasi taglio:
- Non voglio far del male a nessuno, Bon. Non ho mai voluto che… finisse così  - aveva mormorato, rialzando lo sguardo sull’amica nella speranza che Bonnie vi leggesse qualcosa oltre le lacrime che Caroline sentiva pizzicarle gli angoli degli occhi.
L’ultima dei Bennett si era limitata a scuotere le spalle.
- Lo so, Care, ma le cose sono andate così. -
Bonnie le aveva dato del sangue, un anello che le aveva permesso di continuare a camminare alla luce del sole e le aveva portato via una migliore amica.
Una notte Caroline aveva scritto su un quaderno rosa, come lo smalto che si era passata sulle unghie in un tentativo di fermare il tremore che le scuoteva le dita, la lista di quello che aveva perso e di quello che aveva guadagnato e arrivata in fondo alla pagina aveva deciso che se l’era cavata, come gli aveva detto, come gli aveva gridato, mentre lo spingeva fuori dalla porta della sua stessa casa – e lui lasciava che lo facesse.
Se l’era cavata.
Era solo morta, nel frattempo.
E ora lui era tornato: non una parola, non una chiamata per mesi e lui era tornato e aveva ucciso Damon. Caroline non era così sciocca da credere che fosse una coincidenza.
 
 
Caroline non fa quasi in tempo a parcheggiare la macchina, che ha già sfilato le chiavi, afferrato la borsa piena dei libri di lezioni che non seguirà ed è saltata fuori dall’abitacolo.
La strada le è familiare, come se non fossero passati mesi dall’ultima volta che vi è venuta. La fioraia all’angolo la saluta con uno sorriso aperto e un allegro cenno della mano e non sembra sorpresa di rivederla.
Per settimane dopo che lui se n’era andato, Caroline aveva continuato a visitare quella casa vuota, ma la nostalgia, l’eco delle risate, delle discussioni, delle notti passate a tremare semi sepolta tra le sue braccia e le coperte per incubi che continuavano a tornare (- Sono passati anni, sono passati… perché non smettono? Klaus, perché non smettono? - - Lo so, tesoro - - Voglio solo dormire. Voglio solo… - ) erano ben presto diventate troppo forti perché lei potesse continuare a tornare in quell’appartamento in cui l’odore dell’uomo stava lentamente svanendo.
Per un attimo si ferma, davanti alla soglia, indugia, con il mazzo di chiavi stretto tra le dita che tintinna piano. Sente nell’aria il cambiamento dato dalla sua presenza – e non sa se sia perché è diventata un vampiro o perché è lui.
È tornato, ma non è detto che l’abbia fatto per lei. Non è detto che voglia vederla.
- Caroline. –
Il suo nome la fa sobbalzare.
Il suo nome, pronunciato da quella voce che non sente da mesi, con quel tono – l’affetto e la seduzione che si avvolgono intorno ad ogni lettera del suo nome - da oltre la porta chiusa, la fa sobbalzare e sente il cuore batterle nel petto come se non fosse mai morta, come se stesse tentando di prendere il volo.
- Caroline, hai le chiavi. Non costringermi ad alzarmi – continua l’uomo.
Riesce quasi a vederlo, stravaccato sul divano di pelle, i piedi poggiati sul tavolino di vetro e un bicchiere di bourbon stretto mollemente tra le dita da pianista. Cerca di trattenere il sorriso che la familiarità della scena rischia di strapparle e infila le chiavi nella toppa.
La serratura scatta con la stessa facilità di sempre e oltre la soglia l’accoglie la vista dell’uomo che le sogghigna da sopra lo schienale del divano e il leggero odore di carbone e zolfo – polvere da sparo, ha imparato negli anni – che lui si porta addosso ovunque vada.
- Quanto tempo, tesoro. –
- Klaus. -
E il suo nome non è veramente Klaus, non lo è mai stato, ma a quella parola il sogghigno si allarga sul volto dell’uomo.
 
 
***
 
 
30 giungo 2000
 
La prima cosa che nota, tra il sangue e le urla che le hanno lacerato la gola, la prima cosa che riesce a farsi strada nel terrore che le scuote le membra, è la mano che le si posa sulla spalla e Caroline ripensa, distrattamente, a un giorno di sole.
Era primavera e gli uccellini cinguettavano allegri, tra le foglie verdi degli alberi. C’era una festa e sua madre parlava con una donna che indossava un abito giallo che sembrava catturare tutta la luce del sole e aveva capelli scuri le ricadevano in ordinati boccoli lungo le spalle. Caroline aveva pensato che avrebbe voluto avere una mamma così: sorridente e femminile come le mamme dovevano essere.
Caroline ricorda di aver sentito sua madre parlare, mentre sfrecciava loro accanto, ricorda la voce e il tono e le parole.
- Ha dita lunghissime – aveva detto. – Sono proprio mani da pianista. -
Caroline non sa perché il ricordo – di quella giornata e quelle parole – le sia rimasto addosso, non sa perché le torni in mente ora, mentre quella mano le si posa sulla spalla e riesce solo a pensare: è proprio una mano da pianista e forse lo dice ad alta voce perché una smorfia sorpresa e divertita si fa strada sul volto dell’uomo che le sta di fronte.
Non c’è il sole e nell’aria c’è uno strano odore di carbone e zolfo.
Ha i capelli chiari e un leggero velo di barba gli copre il volto. Le labbra sono piegate in un sogghigno e gli occhi – Caroline non ne distingue il colore ed è un problema perché se fossero azzurri almeno potrebbe avere la certezza che si tratta di un principe e invece così è costretta all’incertezza – sono animati da una luce divertita.
Non c’è nessun divertimento, invece, nella voce con cui le si rivolge, con cui le dice:
- I vampiri sono morti, ora puoi smettere di urlare e disturbare la quiete del vicinato, tesoro. –
Non c’è nessuna gentilezza nella fermezza con cui le stringe la spalla e sembra volerla ancorare a sé, a quel momento e alla sua voce, che la fa rabbrividire perché è aspra e i vampiri non esistono, non…
È il verso esasperato che lascia le labbra dell’uomo che le fa realizzare la presenza delle grosse, pesanti lacrime che le stanno rigando il volto.
- Mi… mi dispiace – balbetta. – Ora… ora smetto. Giuro. È solo che… -
È solo che mio padre mi ha lasciato qui da sola e dei vampiri sono entrati in casa e voglio mio padre e…
Forse lo dice di nuovo perché, improvvisamente, l’uomo le si è seduto accanto, con uno sbuffo.
 
 
Anni dopo gli avrebbe chiesto cosa l’avesse spinto a farlo: a sedersi accanto a lei fino a quando non aveva smesso di piangere e a dirle: abito nella casa accanto, quando Caroline gli aveva stretto l’orlo della maglietta tra le dita e l’aveva supplicato di non andarsene, di non lasciarla sola e che cosa sarebbe accaduto se i m… mo… mostri fossero tornati?
Klaus si era voltato a guardarla, con un sopracciglio inarcato. Caroline aveva sollevato le dita dei piedi, infilati tra la schiena dell’uomo e lo schienale del divano in cerca di calore.
- Avresti smesso di piangere, se non l’avessi fatto? – le domanda e conoscono entrambi la risposta.
Sanno entrambi che è abituato a sopportare rumori ben peggiori del pianto di una bambina di otto anni. Che chissà quanti ne ha lasciati agonizzare dall’alto del suo sguardo indifferente. Il pensiero le fa scorrere un brivido lungo la schiena e Caroline si vergogna di sé stessa perché non è solo terrore, non è solo paura di fronte alle cose di cui quell’uomo è capace, ma è anche eccitazione perché ora è lì e lascia che lei gli metta i piedi in grembo, perché si ricorda, seppur con uno sbuffo, di comprarle i suoi biscotti preferiti. Perché lascia che pianga quando i ricordi di quello che suo padre ha fatto la tengono sveglia la notte.
Un ghigno piega le labbra della ragazza. Ha sedici anni, un maglione nero e un eyeliner troppo pesante intorno agli occhi. Ha sedici anni e nelle ossa un’inespressa voglia di ribellarsi e urlare contro sua madre e suo padre e tutti i segreti, contro Matt e la sua incapacità di vederla.
- Attento – lo avvisa e l’angolo delle labbra dell’uomo si solleva prima ancora che lei abbia finito di parlare. – O la gente inizierà a pensare che ci tieni. –
Klaus è quasi sorpreso dalla risata che gli lascia le labbra.
   
 
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