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Autore: deine    02/08/2018    2 recensioni
Katie Bell/Oliver Baston
Da qualche parte a Londra, in una piazzetta alberata, c'è un appartamento con le persiane celesti. Ma è vuoto.
Prima classificata al concorso "Narrami, o musa, del dolore..." indetto sul forum da Neera Sharim
Genere: Drammatico, Guerra, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katie Bell, Marcus Flint, Oliver Wood/Baston
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

 

 

Narrami, o Musa, del dolore che sento, giacché io non posso. Le parole mi vorticano in testa, quando riesco a concepirle mi scivolano via. Diventano gemiti lacrime strilli e mi assordano.

Narrami, o Musa, di questa casa che mi circonda; narrami dei giorni felici che ho sognato con lei, l'ordine e la vitalità che portava dentro la mia tana.

Copri le orecchie agli altri, o Musa, e sussurrami le fantasie proibite che quel giunco di fiume mi suscitava.

 

É la Musa che mi ispira le parole. Non sono un poeta; sono un uomo con mani troppo grandi e un cuore troppo vuoto.

Il dolore non mi spaventava, Katie, quando tu eri al mio fianco, ma adesso, quando il tuo ricordo mi provoca atroci fitte, ho paura: di odiarti per la sofferenza che mi provochi, di dimenticarti perché non me ne causi abbastanza.

Oh, Katie: il tuo nome ha il sapore di una notte troppo breve e caotica, di un'alba guardata attraverso le palpebre socchiuse, di perdita.

Vorrei follemente che fossi qui.

 

"Ho... paura..."

Anche io, tesoro.

Vorrei aver saputo dirtelo.

 

3 MAGGIO 1998

 

Why does the sun go on shining?
Why does the sea rush to shore?
Don't they know it's the end of the world?
'Cause you don't love me anymore

Why do the birds go on singing?
Why do the stars glow above?
Don't they know it's the end of the world?
It ended when I lost your love


 

Il cielo non è blu, questa notte. Io lo conosco bene, lo spazio siderale. Mi piace considerarmi parte di esso, addirittura. È l'unico luogo dove mi sento bene, dove mi sento libero.
Ma non dovrei pensare a questo adesso.
Ho fame.
Ho sonno.
Venerdì non sono andato a cena da mia madre.
Non sono andato neanche a lavoro.
Ieri queste cose mi sembravano importanti; oggi non hanno il minimo senso.
Neanche il cielo ha senso. Perché è rosso, come il sangue e come le mie lacrime e non dovrebbe. Dovrebbe essere ancora blu, di notte, di freddo, di pulizia.
Questo rosso osceno, arrogante, esibizionista e banale mi fa schifo. Mi fa rabbia.
Vorrei prendere quel sole maledetto, che spunta all’orizzonte, e ricacciarlo giù.
No, - vorrei dirgli - no: dammi un’altra notte. Sta' giù e dammi un'altra notte.

Quando avevo otto anni, ho preso di nascosto la scopa di mio fratello. Volevo salvare un gattino che era rimasto appollaiato sul pesco. Non ho memoria dell’evento: mia madre mi disse che avevo battuto la testa, cadendo dalla scopa, ma stringevo il gatto al petto, proteggendolo con il mio corpo.
"Hai passione, Oliver - mi disse, accarezzandomi i capelli - prendi a cuore le cose. Sei buono".
Oh, mamma.
Non penso di essere più tanto buono.
Forse Dio voleva avvisarmi, salvando il gattino. Un avvertimento: va bene per questa volta, ma non provarci mai più.
Mamma, sul mio petto c’è una creatura esile come un filo d'erba, bella come una ninfea schiusa, ancora calda come un cuore palpitante. Ma non respira più, la sua schiena è spezzata.
Si è rotta, mamma. Questa volta il mio corpo non l’ha protetta, oppure l’ho stretta fino a frantumarla.
Ora sorge il sole e io ho paura. Non so dove metterla, la mia rabbia. Tutti gli altri sono in pace, mentre io, io voglio solo spaccare qualcosa. Piangere, urlare. Mandarli tutti a fanculo.
La chiamavo colibrì. Katie, le dicevo, sei come un colibrì. Sei piccola, ma voli velocissima; lei rideva, sussultando.
Mi manchi già, Katie, e non ti ho neanche ancora lasciato andare.
La tua mano stringe ancora la mia.
Ti prego, Sole, resta giù.
Dammi un’ultima notte.


 

SETTE ORE PRIMA

 

"... ed è per questo motivo che dobbiamo disporre una guarnigione di difesa ai lati..."

Ascolto Lupin parlare, ma il mio sguardo è catturato da altro; so che sarebbe molto più costruttivo e prudente seguire le istruzioni, ma lei è magnetica per i miei occhi.

Katie annuisce e tiene le braccia incrociate sul petto in una posa risoluta. È mortalmente seria; lei sì che riesce ad ascoltare Lupin. Guardarla di sottecchi mi fa sentire così sciocco e infantile, come se fossimo due ragazzini a lezione, mentre dovrei rivolgere la mente a questioni ben più gravi. Per un secondo distoglie lo sguardo e incrocia il mio. Esulto: se tanto non riesco a stare attento, almeno sono riuscito a distrarre lei.

Questo è davvero infantile, e pericoloso.

"Katie, c'è qualche problema? È davvero importante che seguiate le istruzioni" le dice Lupin con voce carica di urgenza. Fantastico, l'ho distratta e fatta riprendere . Ora mi odierà davvero.

"Mi scusi, professore".

Lupin le sorride, grave ma indulgente. "Non c'è problema, avevo finito. Ricordate di restare lontani dai posti dove potete essere facilmente colpiti: il campo da Quidditch, il parco e i cortili sono i posti più pericolosi. Hanno sicuramente delle scope... Ora andate e fate attenzione. Katie, Oliver, posso parlarvi?"

Mi avvicino al mio ex-professore e Katie fa lo stesso. Sempre la stessa posa, il mento alto, le braccia incrociate e le labbra strette. Solo che non mi sembra più risoluta, ma ostinata: mi tiene a distanza, cerca di respingermi.

"Potrebbero servire anche a noi delle scope. Vorrei che scendeste nei magazzini e ne riportaste su almeno una decina. Le tengono ancora dietro gli spogliatoi?"

Alzo le spalle. "Suppongo di sì" risponde Katie, guardandomi male.

"Bene. Potreste andare subito?"

Annuiamo contemporaneamente e ci avviamo verso l'uscita della stanza delle Necessità.

 

Camminiamo in silenzio per un po'. Parla, fa' qualcosa, mi dico. Perché non riesco nemmeno a rivolgerle la parola? Lei cammina più avanti, sempre con le braccia strette al petto. Chissà se ha paura...

In questo momento non mi importa della guerra, di Voldemort, del resto. Non mi tange camminare di nuovo nel castello, vedere i visi preoccupati di studenti e professori, incrociare vecchi compagni di scuola che non vedevo da anni. Vorrei solo sentire la sua voce.

"Stai sbagliando strada".

Come se una divinità avesse ascoltato la mia preghiera, alzo la testa e lei mi ha parlato. Mi accorgo di essere a un bivio. Io ho imboccato istintivamente il corridoio di destra, mentre lei quello di sinistra.

"Se passiamo di qua arriveremo davanti al campo" continua. Senza riflettere, le vado dietro. Mi sembra di essere imprigionato dalla mia stessa ansia, mentre arranco dietro di lei. Sto addirittura sudando freddo e sento il cuore battere forte.

Al diavolo.

"Katie" dico, con una voce troppo gracchiante per suonare calma. Lei mi ignora e continua a camminare, ma io l'ho vista stringere ancora di più le spalle.

"Katie, ascoltami" insisto, "Tra due ore potrei essere morto. E lo stesso vale per te. Non voglio, insomma... Vorrei che tu... Che diamine, puoi fermarti un attimo?" esclamo esasperato.

Lei finalmente si ferma. Quando si volta posso leggere nelle sue gote, rosse come mele, l'imbarazzo e la rabbia che deve provare.

"Di che cosa vuoi parlare, Oliver?" mi chiede e la sua voce è troppo calma per essere sincera.

"Potremmo morire, stanotte. Non pensi che dovremmo..." di nuovo, non riesco a concludere la frase. Parlare di ciò che è successo solo pochi mesi fa, riportare a galla il dolore, la vergogna che abbiamo provato, il male che ci siamo inflitti, sembra una pena insopportabile.

"Vuoi parlare di quello che è successo? Di quello che hai fatto?" dice, allargando le braccia come se fosse esasperata.

"Sì".

Non so perché, ma sembra spiazzata. "Adesso? Mentre stiamo attraversando una specie di... campo minato, sul punto di affrontare una battaglia?"

Mi avvicino, preso dal fervore. "C'è un momento migliore?" ribatto "Katie, cosa succede se stasera io... o tu..." non riesco neanche a finire di dirlo. Non mi ero reso conto di avere così tanta paura della morte, finché non ho realizzato che potrei non vederla più.

"Se moriamo, intendi dire? Adesso hai paura di perdermi? Sei sparito per due mesi, Oliver!" esclama. La sua voce rimbalza sul soffitto e mi torna indietro. Sento il cuore affossare da qualche parte, non appena Katie finisce di parlare. Mi ritorna in mente il ricordo di questi mesi senza di lei, quanto sembrava vuoto il mio appartamento, derubato della sua stravolgente allegria.

"Sono stato un idiota..." mormoro, abbassando gli occhi.

"Stavamo insieme da tre anni! Tre anni a fare su e giù dal tuo appartamento al mio e, non appena decidiamo di andare a convivere, tu sparisci. Hai idea di quanto mi hai fatto male? Lo sai?"

È implacabile nella sua ira, e giusta. Apro la bocca per rispondere, ma, prima che possa anche solo decidere cosa dire, Katie ha ricominciato a camminare.

 

 

SEI ORE PRIMA

 

Gli spogliatoi sono come li ricordo. Percepisco lo stesso odore di muffa, polvere e sudore stantio che ha accompagnato i momenti più intensi della mia carriera scolastica. Qui ho aspettato l'inizio della mia prima partita, qui quello dell'ultima.

Sento i passi di Katie alle mie spalle; deve provare qualcosa di molto simile al senso di umida malinconia che fa tremare il mio cuore. Sbatto le palpebre diverse volte, per rimettere a fuoco la realtà e riprendere il controllo delle emozioni.

"Eravamo una bella squadra" dice Katie e io ripenso ai volti dei miei compagni più cari, con cui ho diviso tutto: Fred e George, Alicia, Harry, Angelina... Ma la mia mente recupera in fretta il filo della ragione e le parole di Katie diventano chiare: per una volta – realizzo – il Quidditch non c'entra niente.

Mi investe come una folata di vento il ricordo di quel bacio impacciato dopo la partita decisiva, al mio ultimo anno, quando rimanemmo soli nello spogliatoio.

"Sì, lo eravamo". La voce mi viene fuori strozzata e io capisco che è tutta la sera che ingoio a forza le lacrime. Capisco che più di aver paura di morire, ho paura di perderla; capisco che vorrei rimanere chiuso in questa baracca puzzolente per tutta la notte, stretto al suo seno. Realizzo, con una scarica di adrenalina che non ho mai provato prima, neanche nelle partite più emozionanti, che la amo alla follia.

Quando mi volto verso di lei, il cuore mi batte così forte che il petto mi duole. Ho paura e contemporaneamente spero. Spero follemente, come mai nella mia vita.

Ma neanche quel miscuglio di emozioni è paragonabile allo sgomento euforico di capire, senza neanche che lei parli, che Katie sta provando le stesse identiche cose.

È lei a fare il primo passo, io sono pietrificato. Il suo bacio è tanto dolce quanto è impacciata la mia risposta, ma Katie non sembra curarsene.

"Katie... Katie..." mormoro, tra un contatto e l'altro. Vorrei avere più tempo, ritracciare sul suo corpo tutti i percorsi che conoscevo a memoria, scoprirne di nuovi, assaporare la riconciliazione con calma e pazienza.

Dimentico la guerra, Harry Potter e Voldemort.

Può esistere la morte, mentre succede qualcosa tanto bello e buono?

Io non credo.

 

 

CINQUE ORE PRIMA

 

"Ti amo".

"Ti amo".

"Fa' attenzione. Rivediamoci qui tra un'ora".

"Va bene. Ti amo".

"Ti amo. Adesso vai".

"Ti amo".

 

 

QUATTRO ORE PRIMA

 

Corro; ho le mani protese in avanti come un cieco, inciampo e scivolo a ogni passo, ma corro, vivo. Avevo talmente fretta di incontrare Katie – verificare che sia ancora viva – che non mi sono neanche pulito dal sangue che mi ha sommerso, quando quel Mangiamorte grande e grosso ha fatto esplodere la testa di un ragazzo davanti a me. Come un pomodoro maturo: ha schizzato tutti di sangue e cervello, tra le urla orripilate degli altri. Io ero troppo scioccato persino per vomitare.

Katie non c'è, ma lo immaginavo: è andata a dare una mano sulla torre di Astronomia, dall'altra parte del castello.

È solo in ritardo; non ha nemmeno l'orologio.

Comunque sta arrivando, non devo preoccuparmi.

Katie è davvero un'ottima duellante: persino Piton ha dovuto farle i complimenti una volta, per la destrezza con cui ha disarmato Warrington.

Va tutto bene.

Poi è molto veloce, non solo sulla scopa, anche nella corsa. Probabilmente potrebbe schivare tutte le maledizioni semplicemente correndo. Come no.

Devo stare tranquillo.

Sono tranquillo.

Vado a cercarla.

 

Mentre corro in giro per il castello, d'un tratto mi succede una cosa stranissima: imbocco un corridoio completamente deserto. Ogni altro anfratto del castello è saturo di gente ferita, di morti, di combattimenti, mentre questo piccolo corridoio è perfettamente integro e tranquillo. Da una finestra riesco a vedere il cielo infinito sopra di me e la luna sapiente che tutto osserva, placida. C'è una pozza d'acqua che si allarga sulle lastre consunte del pavimento. Da dove viene tutta quest'acqua', mi chiedo, avvicinandomi.

Prima di raggiungere il capo opposto scorgo un bagno, semi nascosto dall'angolo in fondo al corridoio. Mi avvicino e spalanco gli occhi: in piedi, vicino a un lavabo, c'è una figura umana. È quasi inquietante nella sua immobilità, sembra una statua di sale, ferma eppure fragile. Mi accorgo che ha il capo piegato in avanti e le braccia rigide puntellate sul lavandino. La mia mano si stringe intorno alla bacchetta.

Mi chiedo chi sia – amico o nemico? – ed è solo quando la luna, crudele, mi rivela i suoi capelli ramati e i lineamenti noti che il mio cuore fa un balzo. Inizio a correre e non mi fermo finché non sono oltre la soglia. Lancio un'occhiata alle ciocche sudate appiccicate alla fronte, agli occhi lucidi, alla pozza di sangue sulle piastrelle e accorro al suo fianco. Le tocco il viso: è calda e bagnata come un sogno estivo.

"Oliver, stai bene?" mi chiede. Ignoro la sua domanda.

"Che cosa ci fai qui? Cosa ti è successo? Perchè non c'è nessuno?".

"Una trave si è staccata dal soffitto e mi ha colpito; ha anche spappolato la testa del Mangiamorte che mi aveva messo al tappeto, però. Non hai sentito? Voldemort ha dato a Harry un'ora per consegnarsi. I Mangiamorte si sono ritirati".

Ecco spiegata la pace nel castello, quel corridoio immutato nella sua placidità notturna. Un'ora di pace. Non è un futuro, ma è qualcosa.

Ma adesso la guerra è finita, almeno per me. "Vieni" dico a Katie, aprendo un braccio. Lei si accoccola accanto a me.

"Ti ricordi il giorno in cui sono andato via?" le chiedo.

"Oliver..." Katie sembra pregarmi di non rivangare, ma io devo continuare.

"Quel giorno dovevamo andare a vedere un appartamento. A Barnes, ti ricordi? In quella piazzetta rotonda con i tigli. Avevamo un appuntamento alle tre, davanti al portone. Tu hai pensato che io non mi fossi presentato, ma io c'ero". Mi fermo per valutare la sua reazione; Katie mi guarda attenta, con gli occhi spalancati puntati nei miei. "Ti ho osservata mentre guardavi le finestre dell'appartamento al secondo piano. Era grande, almeno da fuori. Aveva le persiane celesti, del tuo colore preferito. Sapevo che l'avremmo amato, se l'avessimo visto insieme. Ma ho avuto paura, Katie. Sono stato un vigliacco, ma tutto quello che riuscivo a vedere eravamo noi due, seduti sulla stessa panchina, con un paio di bambini in braccio. Era un quadro proprio carino, sai?, ma mi ha spaventato a morte. Non ero pronto e non sapevo come dirtelo. Tre anni... Non volevo ferirti. Così sono sparito". Prendo una boccata d'aria e mi preparo a finire la mia storia, nervoso come prima di una partita di campionato.

"In questi due mesi sono passato davanti a quell'appartamento, nella piazzetta con i tigli, almeno una volta al giorno. A volte mi sedevo sulla panchina, a volte prendevo un caffè seduto nel dehor di un bar. Chiudevo gli occhi e immaginavo: io e te, i bambini, impegnati in mille piccole attività di tutti i giorni. Noi che usciamo dal portone, noi che facciamo colazione insieme, noi che facciamo un pupazzo di neve a Natale.

E ho capito, Katie: ho capito che ti amavo e ti desideravo. Ho capito che volevo una famiglia con te e che volevo quell'appartamento con le persiane celesti. Così l'ho comprato".

Katie trattiene il respiro. Ha gli occhi pieni di lacrime e le trema il labbro inferiore. "Per me e per te" sussurro, prima di lasciare ricadere la testa sulla ceramica fredda.

 

 

TRE ORE PRIMA

 

La voce di Tu-Sai-Chi è come il veleno che Claudio versa nell'orecchio di Amleto padre. Sento Katie tremare contro di me e un muro di sconforto e di paura mi viene incontro. È finita, abbiamo perso, Harry è morto. La gamba ferita le strappa un gemito, mentre sollevo Katie per il polso e la porto via con me. Sento le urla, lo scherno dei Mangiamorte attraverso l'incantesimo di Tu-Sai-Chi.

Mi dirigo verso uno dei cubicoli, ma mentre sto per aprire la porta, sento una risata disumana e un urlo.

Neville!, ha strillato qualcuno.

Katie inizia a trascinarmi verso la finestra, da cui si può vedere meglio il castello. Abbiamo perso, dovremmo nasconderci; allora perché corriamo nella direzione opposta, torturati dalla voglia di vedere, di essere accanto agli altri nostri compagni di battaglia?

Negli occhi di Katie c'è la stessa domanda, ma come me non esita a sporgersi di più, a protendere il mento, già in bilico sulle punte dei piedi.

"Vedo qualcuno... è Neville! Sta bruciando vivo!" esclama, concitata e sconvolta. Io riesco solo a focalizzarmi sul suo viso terrorizzato, bloccato dalla mia impotenza: per un attimo avevo dimenticato tutto... ma sono stato uno sciocco. Non ci sarà nessuna casa con le persiane celesti, nessuna coppia di bambini paffuti, nessun caffè con la schiumetta al bar, perché noi abbiamo già scelto.

Abbiamo scelto di combattere.

Ci sono mondi in cui essere felici è da egoisti, e i nostri figli non nasceranno in questo mondo marcio.

Non è vero che non mi importa della guerra, capisco: ho passato tutta la notte a raccontarmi una bugia, perché faceva meno paura pensare al perdono di Katie che alla battaglia, ai morti, alla malvagità. Mi importa da morire, come a tutti gli altri che si trovano qui, nel centro dell'inferno.

E ora mi sento sicuro, mi sento potente, perché non sono solo. Katie è al mio fianco in questo bagno di sangue e io so, lo so, che vinceremo. Nessuna battaglia combattuta per amore è persa.

La bacchetta sembra contorcersi nella mia mano, mentre un formicolio impaziente mi scuote i muscoli.

La vita è una partita, e io devo andare a giocare.

"Non ti troveranno" le dico, prendendola per le spalle. "Uccidi, se devi. Tornerò a prenderti". Considera per un attimo di darmi retta, poi, sconvolta dalla sua stessa debolezza, scuote energicamente la testa.

"Non resto qui, mentre tu..." Prende un respiro profondo. "No".

"Sei ferita, puoi a malapena camminare. Resta vicino alla finestra, cercherò di farmi vedere. Ogni tanto". La mia voce suona suadente e tranquilla e vorrei proprio sapere come sia possibile, visto che il mio cuore sta scalpitando per uscire dalla cassa toracica.

Sta riflettendo.

"L'unica a poterti scagliare un Avada Kedavra sono io, ricordatelo".

"Sissignora".

 

 

DUE ORE PRIMA

 

L'inizio della fine.

Mi volto, dopo aver appena Schiantato il mio avversario – lancio un'occhiata fugace al terzo piano e a un paio di begli occhi che non mi perdono di vista – e vedo il fuoco. È potente, feroce, ruggisce come un animale, mentre gli spogliatoi e i magazzini delle scope collassano su loro stessi. Le urla mi gelano il sangue, quando incominciano: c'è qualcuno intrappolato dentro! Ma chi potrebbe essere così sciocco da...?

Non mi rispondo – la gente in battaglia è autorizzata a fare cose molto sciocche – e corro verso il campo.

"Aguamenti" strillo. Una, due, tre volte non hanno effetto: le fiamme continuano fiere e indisturbate la loro opera di distruzione, le urla sono sempre più stridule e più acute, come un disco che arriva alla fine.

Ma perché non cercano di uscire?, mi chiedo disperato, impotente. Mi posiziono davanti alla porta, prendendo la rincorsa per sfondarla, sono pronto, carico, la spalla in prima linea, il fianco sinistro in avanti... vado.

Ma non succede niente. Rimango immobile, come uno yo-yo trattenuto dal filo; e, come uno yo-yo, un attimo più tardi rimbalzo indietro con forza. Il selciato è troppo vicino e io sono lanciato a tutta forza contro di esso; la botta mi mozza il fiato e l'articolazione della spalla infiamma i nervi di dolore, mentre rimango immobile, sdraiato sulla schiena.

Non ho tempo di chiedermi cosa è stato, perché un ghigno ben noto si insinua nel mio spazio visivo.

"Bene, bene, Baston. Quattro anni di panchina non ti hanno reso più intelligente" ridacchia Flint, i denti coniglieschi esibiti in un sorriso che non si estende agli occhi. Punta la bacchetta verso di me, sempre sorridendo e inizia a sillabare l'incantesimo, con la calma di chi sa di aver già vinto.

"Crrruuuu-" canticchia, una voce infantile da bambino.

Ma non ha vinto.

Con un colpo di reni, rotolo via e ristabilisco la presa sulla bacchetta. Il suo Crucio, concluso frettolosamente, mi manca di pochi centimetri, mentre ribatto con uno Schiantesimo. Flint è veloce, anche se tozzo e robusto, attacca schiva ribatte, senza errori. Non è ferito, lui. Il nostro è un duello tra ex-rivali, animato da una competizione che non si è mai davvero spenta e che compie una parabola pericolosa, mentre i nostri incantesimi si fanno più rabbiosi. Flint agita la bacchetta con grandi movimenti circolari, badando più alla velocità che alla precisione, mentre io ho abbandonato gli innocui Schiantesimi per passare a fatture più dannose; in particolare, ha appena schivato il mio Reducto volto a spappolargli la gamba.

Dal castello proviene un boato: è Voldemort, che grida di... rabbia? Flint si distrae un attimo, gli occhi colmi di paura, e porta la mano destra sul braccio sinistro coperto dal mantello; mi basta per farlo cadere con un incantesimo, tuttavia, mentre sto per legarlo, lui urla "Expelliarmus!" e io vengo sbalzato a dieci metri di distanza, da dove vedo il mio avversario Appellare una scopa dal magazzino perfettamente intatto – quando è diventato così bravo con le illusioni? – e librarsi in volo.

Potrei lasciarlo scappare, penso, ma è solo un'idea fugace, mentre Appello a mia volta una scopa e inizio a inseguirlo. Forse, se fosse un altro Mangiamorte, un altro ragazzo della mia età dalla parte sbagliata, lo lascerei andare; ma lui non è un nemico, è Flint: quello che mi ha rotto il naso con un Bolide e poi mi ha lasciato cadere dalla scopa, anche se era il più vicino di tutti e avrebbe potuto salvarmi; quello che mi ha rubato la coppa; quello che ha sfruttato per anni l'ingiustizia di Piton per far allenare i Serpeverde più degli altri; quello che ha sempre giocato più duro di tutti.

Allora lo inseguo, senza guardarmi indietro.

Nel tempo che ci mette per girarsi e fronteggiarmi, riesco quasi a Schiantarlo: ho la spalla dislocata, probabilmente, e reggermi con la sinistra dolorante sulla scopa mentre cerco di mirare con la destra non è facile.

Quando Flint si volta, c'è una rabbia nei suoi occhi che non ho mai visto.

"Levati di mezzo, Baston" ringhia, la bacchetta saldamente puntata su di me.

"Scordatelo, Flint" ribatto, volandogli più vicino. Il suo primo incantesimo non mi prende di sorpresa: con una virata schivo la maledizione e mi rimetto in posizione d'attacco. "Avanti, Flint: è tutto quello che sai fare? Sembravi abbastanza sicuro sul campo da Quidditch, o sbaglio?"

Egli ghigna. "Abbiamo un conto in sospeso, Capitano" ribatte, volandomi intorno come un avvoltoio. Sul momento non ci accorgiamo di quanto sia pericolosa la china su cui stiamo scivolando: mischiare la competizione sportiva con la guerra non è una grande idea, eppure eccoci qui, a prenderci in giro come durante una qualsiasi partita di campionato.

Flint se ne accorge per primo e questo quasi mi uccide. "Avada Kedavra" urla, e un raggio verde fuoriesce dalla sua bacchetta; riesco a schivarlo all'ultimo grazie a una picchiata che riesco ad arrestare solo dieci metri più in basso.

Flint galleggia spavaldo sopra di me, pronto a colpirmi ancora. "Incarceramus" grido, ma lui lo para con un Protego, poi ribatte con un'altra Maledizione senza Perdono. Combatte per uccidere.

Il braccio sinistro mi duole sempre di più e diventa più difficile restare in sella, cercando nel frattempo di non farmi ammazzare. Intanto, ci stiamo avvicinando al castello dove la battaglia continua.

Sudo freddo, continuando ad attaccare e a difendere, ma ancora per quanto? Un formicolio sottopelle mi informa che sto per perdere la sensibilità nella mano e questo mi manda nel panico. Flint è veloce a sfruttare il mio momento di distrazione: colpisce, preciso come non lo è ancora stato, con una maledizione Cruciatus. In questo momento, mi sembra che tutto rallenti: miracolosamente ho il tempo di lanciare un'occhiata impotente alla bacchetta, di guardare il suolo, lontano almeno trenta metri, di sentire il mio stesso respiro affannato. La maledizione, sempre più vicina, rosseggia in modo inquietante, come a promettermi atroci sofferenze.

Quando agisco, lo faccio in fretta: la mano destra si stringe intorno al manico di scopa, mentre la bacchetta passa nella sinistra. Il raggio di luce si avvicina, ma il mio corpo non è più a cavalcioni della scopa, bensì appeso a essa, sostenuto dalla presa della mano destra. L'incantesimo di Flint colpisce in pieno la scopa, che compie un balzo all'indietro di diversi metri, catapultandomi vicinissimo alla torre di Astronomia. L'unica mia speranza è raggiungerla, perché risalire sulla scopa è impossibile; Flint lo sa e si prepara a colpire, quando, come per magia, la sua bacchetta gli sfugge di mano, vola all'indietro e precipita nel vuoto. Stupefatto, mi guardo intorno: se non ho fatto io l'incantesimo, chi...

"Ehi, Flint" dice una voce alle mie spalle, "chi non muore si rivede". Metà del sangue nel mio corpo si gela, mentre l'altra ribolle. Katie, pallidissima ma concentrata, è dietro di me, affacciata al parapetto della Torre.

Non è il momento di chiedersi come diavolo sia riuscita ad arrivare quassù, soprattutto perché Flint è ormai un animale braccato – ergo, pericoloso – e io sono ancora appeso a una scopa per un braccio.

Riesco in qualche modo a puntare i piedi sul parapetto e a darmi la spinta necessaria per rimettermi in sella, pur gemendo di dolore quando torco inavvertitamente la spalla. Scambio con Katie un sorriso affaticato, in cui cerco di mettere tutta la gratitudine che provo.

Per un attimo sembriamo dimenticarci di Flint, ancora tenuto sotto scacco dalla bacchetta di Katie.

Ma questa notte ho rischiato la vita troppe volte per essermi distratto, così ci metto un secondo in meno del normale per capire che qualcosa non va. Non basta. Il braccio di Flint agguanta Katie e si allontana dalla torre, mentre la mia bacchetta cambia di nuovo mano e io lo inseguo, il sangue completamente congelato nelle vene.

Siamo di nuovo sul campo da Quidditch. Flint, gli occhi accesi di una luce completamente folle, regge il braccio di Katie con la sinistra, mentre lei si dimena e grida, disperatamente aggrappata al mio avversario.

"Oliver!" strilla, quasi piangendo.

"Flint, non fare cazzate. Lasciala andare" dico, cercando di suonare ragionevole, "Anzi, no: posala a terra" rettifico, accorgendomi del mio errore.

"Molla la bacchetta, Baston" mi risponde, in un ringhio, "e io ti rendo la ragazza. Se provi anche solo a inseguirmi..." minaccia, ma sa benissimo che non lo farò, come lo so io. Come a Flint importa più solo di fuggire, io vedo solo più Katie, sospesa a trenta metri da terra.

Lascio cadere la bacchetta. Non guardo neanche dove va a finire. Katie, c'è solo lei nel cielo stasera. Sulla gamba ha una fasciatura di fortuna, ma ha perso tanto sangue. Ne ha dappertutto.

Flint sembra tranquillizzarsi; è un giocatore abile e conosce il campo di Quidditch meglio di tutti. So che non intende uccidere Katie, non vuole. Quello tra me e lui è un gioco senza regole, nel quale non ci possono essere né arbitri nè intrusi. Katie è solo una vittima innocente, nemmeno per Flint merita di morire.

Quindi, quando la lascia cadere – e lei strilla, strilla da spaccare i timpani – io so e lui sa che riuscirò a prenderla. Per questo se ne va senza voltarsi indietro: sa che ce la farò.

Ma a volte si inserisce il caso: anche le tattiche migliori possono essere rovinate da dettagli insignificanti come le condizioni metereologiche o il fisico di un giocatore.

Mi butto, senza esitare, e la mano di Katie stringe la mia nel tempo di un battito del cuore. Ma poi tutto va male. La sua mano, scivolosa di sangue, mi sfugge tra le dita. Cerco disperatamente una presa su qualcosa, per un attimo riesco addirittura a stringere il suo maglione, esulto internamente, ma poi...

la stoffa si strappa con un rumore secco, le dita cercano invano un appiglio, gli occhi di Katie si spalancano su di me in un ultimo, struggente, disperato sguardo d'amore. Poi cade e il mio mondo si ferma.

 

 

3 MAGGIO 1998

 

I wake up in the morning and I wonder
Why everything's the same as it was
I can't understand, no, I can't understand
How life goes on the way it does

Why does my heart go on beating?
Why do these eyes of mine cry?
Don't they know it's the end of the world?
It ended when you said goodbye

Flint. Vorrei poter dire che ho ucciso quel bastardo, che mi sono vendicato, ma non è vero. L'ho visto, la morte negli occhi e nel cuore, seguire la caduta di Katie. E, mentre picchiavo verso il basso, gli ho lanciato un'occhiata. Mi fissava. Chissà cosa voleva dire, con quello sguardo sconvolto? Forse le ultime parole – mai pronunciate – di Marcus Flint sono state delle scuse. E, mentre io raggiungevo la mia ragazza, l'ho visto cadere – o gettarsi? – con la coda dell'occhio. Ma, francamente, nemmeno quando l'ho sentito spiaccicarsi come un'anguria poco più in là me ne è importato nulla.

Avevo occhi solo per Katie.

La cullo tra le braccia escoriate. Non è più nulla ormai.

Mi sono lanciato dalla scopa cinque metri prima del suolo e ho corso per raggiungerla. Era bellissima, nel momento in cui la vita lasciava per sempre il suo corpo.

"Katie, Katie, Katie..." ho mormorato, in una nenia infantile, prendendole una mano.

Poi lei ha cercato di parlare: ne è uscito una specie di rantolo.

"La casa... con le persiane turchesi... i bambini..." ha detto, trovando non so dove la voce. Non guardava me, ma il cielo, come se sul manto blu fosse proiettato un film solo per lei.

"Katie..." ho singhiozzato, come un bambino. Volevo stringerla, come se potessi evitare l'inevitabile, come se potessi tenere la vita dentro di lei a forza di braccia. Non mi importava di farle male, volevo solo che restasse con me. Ho odiato il mondo in quel momento: perché mentre tutti esultavano io riuscivo solo a piangere, e quando il giorno dopo tutti si sarebbero svegliati liberi, io sarei stato ancora in prigione, sentenziato a trascorrere il resto dei miei giorni senza Katie.

"Oliver... li vedo. Vedo la piazzetta... con i tigli... in primavera... vedo tutto, Oliver..." ha detto ancora. Scorrevano le lacrime sul suo volto, mentre guardava il cielo e le sue parole perdevano significato. Poi si è voltata verso di me.

"Non... non voglio andare..." ha singhiozzato. "Ho... ho paura... paura".

È morta all'alba, tra le mie braccia.

Ma io non la lascerò andare, non riusciranno a portarmela via. So che cercheranno di prendermela, prima o poi. Devono solo provarci.

Non la lascerò mai andare.

 

 

KATIE BELL

12/11/1978 – 3/5/1998

Ha combattuto fino alla fine

per un mondo più libero.

 

 

MARCUS FLINT

8/7/1976 – 3/5/1998

Il suo ultimo atto

è stato di redenzione.

 

 

 

 

Note:

Mentre concludo la storia, mi attanaglia la possibilità che sia necessaria una spiegazione. Così, sebbene preferirei che essa si spiegasse da sola, ho deciso di fornirla a beneficio del lettore. La sinossi iniziale è ambientata in un momento successivo agli eventi narrati e costituisce i pensieri di Oliver. Poi – ma in realtà è un prima – vediamo Oliver cullare il cadavere dell'amata, la mattina del 3 maggio, conclusa la battaglia. Tutto ciò che succede in mezzo è il racconto della battaglia, che chiude il cerchio con un paragrafo nominato "3 maggio" come il primo, che si ricollega al primo paragrafo.

So che è laborioso, ma ho riflettuto molto e ho deciso che questo era il modo migliore di narrare la storia; se qualcuno vorrà spiegazioni più accurate, sarò lieta di fornirle.

La storia partecipa al contest "Narrami, o Musa, del dolore..." indetto da Neera Sharim sul forum.

I personaggi e l'ambientazione di questa storia non mi appartengono e non ne ricavo alcun beneficio economico.

Barnes è un bel quartiere residenziale di Londra, vicino al Tamigi.

Il titolo è preso da un libro di Gabriel García Màrquez.

La canzone è "The end of the world", cantata da moltissimi, di cui io conosco solo la versione di Julie London.

Grazie, grazie, grazie alla giudicia per i pacchetti, per la proroga che mi ha permesso di finire questa storia, e a tutti quelli che la leggeranno.

   
 
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