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Autore: Martina Murdock    08/08/2018    2 recensioni
“Alexander.” Magnus lo interruppe con calma, senza nascondere la gentilezza che, suo malgrado, gli permeava la voce. Era assurdo. Erano passati anni da quando era stato gentile con un Shadowhunter, figuriamoci dall’ultima volta che ne aveva rassicurato uno! “Non esistono domande stupide. Puoi chiedermi qualsiasi cosa.” Il ragazzo lo guardò da sopra la tazzina, gli occhi spalancati, e allo stregone sembrò diverso da tutti i Nephilim che aveva conosciuto. Sembrava curioso, timido e per niente arrogante, niente affatto disgustato al pensiero che un Nascosto avesse bevuto dalla sua stessa tazzina, anche se questa naturalmente era passata dalla lavastoviglie. Alexander Lightwood non aveva l’aria di chi era lì per ottenere qualcosa. Aveva l’aria di chi era lì perché semplicemente ci voleva stare.
Il momento, mai descritto nella serie di libri, in cui Alec trova il coraggio di chiedere a Magnus di uscire, suonando inaspettatamente il campanello dell'appartamento dell'altro. Da immortale, Magnus ha vissuto un sacco di esperienze strane, ma questa sarà destinata a superarle tutte.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Nuovo inizio di una vita immortale

A Magnus Bane, Sommo Stregone di Brooklyn, di cose strane nella vita ne capitavano tante. Ma quello era troppo, perfino per lui. Il campanello era suonato già da qualche minuto e lui non aveva ancora aperto, troppo stupito a fissare il ragazzo che si trovava al di là dello spioncino.
Era terribilmente giovane, non doveva avere neanche diciott’anni. Anzi, Magnus era piuttosto sicuro che non fosse ancora maggiorenne. Attraverso la lente deformante, poteva vedere i capelli neri che gli coprivano quasi del tutto l’occhio sinistro, un po’ come quelli degli emo che andavano tanto di moda qualche anno prima, e l’altro occhio che, azzurro in una maniera assurda, spiccava in tutta quell’oscurità. Alexander Lightwood era bello, lo stregone non voleva certo metterlo in dubbio. Ma Alexander Lightwood era anche uno Shadowhunter, un appartenente alla razza che evitava i Nascosti come fossero cacche di cane lasciate per strada. Cosa accidenti ci faceva lì, fuori da casa sua, e perdipiù con quell’espressione tormentata? Per un istante, Magnus credette che fosse venuto ad arrestarlo, ma si rese subito conto che era l’abitudine a parlare. Avrebbero avuto un bel coraggio, la banda di ragazzini Nephilim di New York, ad irrompere in casa sua con minacce del genere! Nelle ultime settimane riteneva di aver fatto per loro più del necessario, e pure gratis: aveva aiutato Clary Fairchild, la figlia di Jocelyn, a capire la verità sui propri ricordi cancellati, aveva fornito informazioni a tutto il gruppo… aveva, solo un paio di giorni prima, mollato tutto per infilarsi nel mezzo di una battaglia per salvare un ragazzo dal veleno mortale di un demone. Lo stesso ragazzo, in effetti, che se ne stava in piedi al di là della sua porta.
“Non può essere venuto ad arrestarmi”, si disse, compiaciuto di essere arrivato a quella conclusione. Non era la giornata giusta per una fuga rocambolesca, e poi aveva già il biglietto per il concerto di quella sera. Se fosse dovuto sparire, tutti i suoi piani per la nottata sarebbero andati in fumo. Quando aveva lasciato Alec Lightwood all’Istituto, era ancora molto debole per il veleno e le ferite, e probabilmente adesso era lì per chiedergli qualcosa, tipo se dovesse prendere altre volte l’antidoto o roba del genere. Ecco. Quello sì che era un motivo ragionevole per bussare alla sua porta.
Sollevato, Magnus aprì. Quando il ragazzo vide comparire lo stregone sulla soglia, alzò gli occhi di scatto e gli lanciò un’occhiata che lui interpretò come puro terrore. E non solo. Osservandolo con curiosità, si rese conto che il giovane Shadowhunter era del tutto sgomento, come se mai e poi mai avesse pensato che gli avrebbe aperto. Come se, per lui, essere lasciato fuori non fosse una novità così grande. Sospirò. I Nephilim non gli piacevano, non gli erano mai piaciuti, ma quello sembrava così disarmato… così speranzoso… che pensò che forse non sarebbe stato così male passare qualche minuto in sua compagnia, adesso che finalmente lo vedeva sveglio.
E poi, naturalmente, c’era anche il fatto che fosse un gran bel guardare.
“Questa non me l’aspettavo”, esordì, socchiudendo appena gli occhi da gatto. Un “ciao” sarebbe stato più amichevole e avrebbe messo forse meno a disagio il suo nervoso interlocutore, ma si trattava pur sempre di uno Shadowhunter, e doveva fargli capire bene che di solito quelli come lui non avevano il permesso di presentarsi a casa sua come se niente fosse, a meno che non avessero la sua esplicita approvazione.
Il ragazzo arrossì e abbassò di nuovo la testa, mentre i capelli gli ricadevano a nascondere quasi tutto il viso. Avrebbe avuto bisogno di un taglio, pensò lo stregone distrattamente. Aveva l’aria di un ragazzo di strada, il genere che sarebbe stato molto più carino se solo si fosse tenuto un po’ meglio.
“Scusa”, mormorò, le mani che tiravano ansiose il maglione azzurro che doveva essere almeno tre taglie più grandi di quella che avrebbe dovuto comprare. “Non volevo disturbarti. So che sei il Sommo Stregone e che sei molto impegnato, e insomma…” Gli lanciò un’occhiata vagamente disperata, e Magnus decise di lasciar cadere la maschera d’indifferenza, almeno un po’. Se avesse continuato a guardarlo dall’alto in basso per qualche minuto ancora, avrebbe reso il ragazzino la più giovane vittima d’infarto nella storia dell’umanità.
“Non mi disturbi”, lo rassicurò, alzando appena le sopracciglia ma facendogli un sorriso gentile. Ed era vero. Del resto, aveva già concluso che non doveva essere venuto a dirgli niente di troppo sgradevole, e a conti fatti era stato proprio lui, la prima volta che si erano incontrati, a proporgli di chiamarlo con una strizzatina d’occhio. Allora il giovane guerriero aveva risposto alle sue avances con un balbettio e due guance rosse come il peperoncino sulla pasta, e Magnus non aveva creduto che l’avrebbe chiamato davvero, né presto, né mai. E infatti, non l’aveva fatto. Però adesso era lì, davanti a lui, e non poteva lamentarsi se il bel ragazzo con cui aveva flirtato era, come per magia, arrivato proprio sul suo pianerottolo. “Vuoi entrare? Ho ritrovato il mio gatto solo qualche giorno fa, e non vorrei scappasse di nuovo, a lasciare troppo aperto.”
“Il tuo gatto?”, fece Alexander, seguendolo in casa dopo una breve esitazione. “Ah, vuoi dire il Sindaco Miao…”
“Il Presidente”, lo corresse Magnus, ma sotto sotto era compiaciuto che l’altro si fosse ricordato. Be’, più o meno.
“Sì, giusto, il Presidente. Quello per cui facevi la festa. E’ tornato davvero, allora?” Notò che, mentre muoveva i primi passi all’interno del suo appartamento, si guardava intorno con la curiosità di un bambino, osservando ogni singolo oggetto sugli scaffali. Pareva un po’ cauto, come se un suo passo potesse aprire all’improvviso una botola segreta nel pavimento, ma allo stesso tempo era chiaramente affascinato da quell’ambiente così diverso dal suo.
“Sì. Probabilmente aveva fame.” Magnus scrollò le spalle. “E’ sempre stato un pessimo cacciatore. Chi ti dice che i gatti si mantengono da soli, non credergli! Spesso e volentieri ho più scatolette in ripostiglio che roba per me.”
“Oh.” Si vedeva che Alexander non sapeva bene come replicare. Lo guardava stupito, non avrebbe saputo dire se per ciò di cui parlava o se per la sua stessa presenza in quel luogo. “Anche noi abbiamo un gatto, Church. Ma è cattivissimo, e se ti avvicini graffia.”
Magnus gli rivolse un sorrisetto obliquo. Non gli servivano le spiegazioni del ragazzo per ricordarsi di quanto fosse stata dura, nel 1879, fare la traversata dell’Atlantico nella stessa cabina di quell’animale malefico. Aveva visto molte cose nella vita e una discreta parte di esser erano disgustose e perlomeno bizzarre, ma poche erano paragonabili al vomito di Church sulle lenzuola o al suo soffiare indispettito.
“Già, lui lo conosco. Siamo stati coinquilini per un po’, ma la cosa non ha funzionato. Suppongo possiamo dire che le nostre divergenze erano troppo grandi per essere appianate.”
Si aspettava che il ragazzo lo guardasse di nuovo come se fosse uscito di senno, ma, con una enorme sorpresa, il giovane Lightwood fece una risatina, che subito cercò di soffocare.
“Con tutti ha divergenze troppo grandi per essere appianate”, borbottò, un lieve sorrisetto sulle labbra che faceva apparire i suoi occhi azzurri ancora più luminosi. Erano i più belli che Magnus avesse mai visto, di un colore troppo puro per appartenere a qualcosa che non fosse un fiumiciattolo di montagna. Quelli di Will Herondale erano stati notevoli, a suo tempo, ma non avevano la forma particolare, appena allungata, di quelli di Alec, mentre quelli di Robert Lightwood, l’odioso padre del ragazzo, erano del solito taglio ma molto più scuri, di un bel blu intenso invece che del colore del cielo. Erano occhi sinceri, senza filtri, che concedevano tutto il loro contenuto all’interlocutore, se questi si dava la pena di prestare attenzione. Erano la prima cosa che Magnus aveva notato di lui, alla festa, e quella che aveva rimpianto di non vedere mentre aspettava che il ragazzo si svegliasse, guardandolo giacere immobile nel letto con le palpebre tragicamente abbassate. Forse era frivolo dare così tanta importanza ad una caratteristica fisica, ma lo stregone credeva fermamente nel potere della bellezza, e soprattutto era convinto che l’anima del ragazzo, comunque essa fosse, fosse racchiusa all’interno di quello sguardo limpido. Se conoscevi gli occhi di Alexander Lightwood, avevi trovato l’accesso anche per il suo cuore.
Divertito, Magnus ridacchiò, facendo un gesto pigro verso il bancone a isola della cucina. “Posso offrirti qualcosa?”
Il sorriso di Alexander si tramutò di nuovo in un’espressione di disagio: “No, io non… non bevo, grazie.”
Gli occhi dello stregone scintillarono. L’idea che desse per scontato che fosse pronto ad offrirgli un drink alcolico a neanche metà pomeriggio non lo infastidiva, anzi, lo faceva ridere. Il ragazzo sembrava il genere di persona che regge a stento un bicchiere di champagne, e probabilmente era rimasto spiazzato da tutto l’alcool che aveva visto girare alla festa. E sì, doveva influire anche un po’ il fatto che il loro amico, quello imbranato con gli occhiali di cui non ricordava proprio il nome, fosse diventato un topo dopo aver bevuto uno strano liquido blu.
“Allora mi stupisco che, in tutti questi anni, tu non sia ancora morto disidratato.”
Si stava divertendo. Alexander arrossì, scuotendo appena la frangia scura:
“No, io intendevo…”
“Lo so cosa intendevi” Lo stregone gli fece l’occhiolino e, se possibile, il giovane Shadowhunter divenne ancora più rosso. “Ma stai tranquillo, non voglio farti tornare barcollante all’Istituto. Ho idea che Robert e Maryse non ne sarebbero molto contenti. Non vuoi neanche un caffè?”
“Un caffè va benissimo. Grazie”, aggiunse l’altro sollevato, osservandolo mentre due tazzine si materializzavano nell’aria e andavano a posarsi delicatamente sul bancone, con cucchiaini e bustine dello zucchero già pronti lì accanto. Si era un po’ innervosito a sentir nominare i genitori, notò Magnus. Forse i cari, gentili, tolleranti Lightwood non avevano idea che in quel momento il loro ubbidiente primogenito stesse per bere insieme ad uno sporco Nascosto. Un Nascosto che loro odiavano, per giunta.
“Mmh, ma è buonissimo”, commentò il giovane dopo un istante, le labbra appena sporche di liquido ambrato e schiuma. Se le pulì con il tovagliolo, ma non prima che Magnus notasse la curva delle sue labbra, morbida e vagamente femminile.
“Non è brodaglia americana”, spiegò lo stregone, arricciando il naso nel ripensare ai bicchieroni da un venti litri che gli abitanti di quel paese mandavano giù, fatti più d’acqua che di qualsiasi altra cosa. “Questo è caffè vero, l’ho preso in Francia.”
“Sei stato in…”, la frase, pronunciata con entusiasmo, venne interrotta quasi subito in un colpo di tosse imbarazzato. “Be’, che domanda stupida, ovvio che ci sei stato. Sei uno stregone, sarai stato ovunque…”
“Alexander.” Magnus lo interruppe con calma, senza nascondere la gentilezza che, suo malgrado, gli permeava la voce. Era assurdo. Erano passati anni da quando era stato gentile con un Shadowhunter, figuriamoci dall’ultima volta che ne aveva rassicurato uno! “Non esistono domande stupide. Puoi chiedermi qualsiasi cosa.” Il ragazzo lo guardò da sopra la tazzina, gli occhi spalancati, e allo stregone sembrò diverso da tutti i Nephilim che aveva conosciuto. Sembrava curioso, timido e per niente arrogante, niente affatto disgustato al pensiero che un Nascosto avesse bevuto dalla sua stessa tazzina, anche se questa naturalmente era passata dalla lavastoviglie. Alexander Lightwood non aveva l’aria di chi era lì per ottenere qualcosa. Aveva l’aria di chi era lì perché semplicemente ci voleva stare.
Però, era ovvio, qualcosa doveva pur volere, che ne avesse l’aria o no. Visto che l’altro, ancora un po’ sbigottito, non parlava, fu Magnus Bane a rompere l’incanto.
“Eri venuto qui per un motivo in particolare, visto che a quanto pare le interviste non sono il tuo forte?” Aveva scostato per lui uno degli sgabelli, ma il ragazzo era rimasto in piedi, a sorseggiare il suo caffè proprio nel mezzo della stanza, con una linea retta a separarlo dalla porta d’ingresso. Lentamente, Magnus posò il caffè e lo raggiunse, appoggiandosi al bancone con una finta aria noncurante. In realtà, probabilmente non si era mai sentito così poco noncurante in tutta la sua vita.
Non voleva che quel ragazzo bellissimo e dai modi gentili se ne andasse. La violenza con cui aveva paura che una cosa simile accadesse lo spaventava, ma non aveva motivo di negare ciò che provava, con sé stesso, almeno. Voleva che Alexander Lightwood restasse, e il resto erano solo bazzecole.
“Ecco, sì, infatti”, borbottò il giovane, appoggiando la tazzina e guardando tutto a parte il viso dell’altro. “Ero venuto qui con un motivo. Io… scusa, avrei dovuto dirtelo subito.”
“Ecco, ci siamo”, si disse Magnus. “Ora partirà con i chiarimenti sull’antidoto, o con una nuova richiesta.”
Ma Alexander non disse nulla del genere. Con semplicità, come se stesse facendo la cosa più naturale del mondo, disse:
“Ero venuto per ringraziarti, e scusami, mi sono distratto e non l’ho fatto subito.”
Per un istante, Magnus lo fissò in silenzio, sbalordito. Uno Shadowhunter, un appartenente alla boriosa, stupida, elitaria società degli Nephilim l’aveva appena ringraziato? Era una cosa che non gli era mai successa, mai nella vita. Forse una volta con Will Herondale, massimo due, ma non ne era sicuro e comunque era una cosa diversa. Persino Will, gentile com’era diventato una volta liberatosi dalla maledizione, lo trattava bene come se fosse una concessione che gli faceva, non un suo diritto di Nascosto ma un privilegio che aveva acquisito in quanto suo amico. Nessuno l’aveva mai ringraziato come aveva appena fatto Alexander, con semplicità, scusandosi per non averlo fatto prima. Non era così che andava tra i Nephilim. Non andava così proprio per niente.
“Ringraziarmi?”, esalò alla fine, cercando lo sguardo azzurro dell’altro, che però non trovò. Gli occhi dello Shadowhunter erano di nuovo nascosti sotto la frangia scura, invisibili persino allo sguardo felino dello stregone.
“Sì, per quello che hai fatto all’Istituto. Per me.” Piano piano, il ragazzo alzò appena la testa, ancora più intimidito di prima ma stranamente deciso. “Io… non ricordo molto, però eravamo in una brutta situazione, ci avevano attaccato e non sarebbero arrivati neanche i Fratelli Silenti… non in tempo, almeno… e anche solo mettere piede nell’edificio era un ottimo modo per rischiare di venire uccisi. Ma tu sei venuto lo stesso.”
“Era il mio incarico”, fece Magnus, ancora sotto shock. “Hodge mi ha chiamato, ed è così che funziona il lavoro degli stregoni. La gente paga, e noi agiamo.”
Alexander scosse la testa: “Non ti ha pagato nessuno, guarda che lo so. Hodge ci ha… ci ha traditi, e se n’è andato, e Izzy mi ha detto che non hai voluto niente. Che lei voleva pagarti, ma tu non hai accettato.”
“I miei servigi costano troppo per degli Shadowhunters adolescenti”, commentò lo stregone, provando a raggiungere il giusto grado di distacco, ma senza riuscirci bene. Era troppo turbato. “Non volevo mandarla sul lastrico.”
Era sempre stato così, lui. Prontissimo ad assumersi il merito delle peggiori scelleratezze ma restio ad ammettere di aver fatto del bene, una volta tanto. Non era proprio da lui andare a vantarsi per le sue buone azioni, e non avrebbe iniziato quel giorno. Di questo, ne era assolutamente sicuro.
Ma Alexander sorrise. Nonostante la timidezza e il panico che minacciava di riaffiorare da un minuto all’altro, non aveva creduto a nessuna delle sue pessime ragioni, e lo guardava con riconoscenza e una dolcezza che con molta difficoltà avrebbe attribuito ad uno Shadowhunter.
“Non importa perché l’hai fatto”, disse il ragazzo. “L’hai fatto, ed è questo l’importante. Io… probabilmente non ce l’avrei fatta, se non ci fossi stato tu. E Izzy mi ha detto che sei rimasto… tutta la notte, voglio dire…” Qui s’impappinò e tornò a guardare a terra, la pelle bianca come la luna che a tratti tendeva al ciliegia.
Magnus lo fissò. Gli faceva tenerezza il modo in cui andava in panico, e al tempo stesso l’affascinava. Alexander sembrava un libro aperto, ma era anche una delle persone più misteriose che avesse mai incontrato, un adorabile controsenso umano.
“Volevo essere sicuro che stessi bene”, disse lentamente, per una volta in tono serio, senza staccare gli occhi da lui. “Me ne sono andato soltanto quando hai aperto gli occhi e ho visto che non era più un rischio lasciarti a sua sorella. Il veleno di quel demone è pericoloso, non è qualcosa che volevo sottovalutare. Anzi, stai bene, adesso? Tu non mi avrai ringraziato, ma è la prima cosa che avrei dovuto chiederti.”
“No, macché.” Alexander arrossì ancora, posto che fosse mai tornato al suo colore naturale. A Magnus fece un po’ tristezza, perché si vedeva che era abituato ad essere il tipo a cui nessuno si interessava, l’ombra del biondino che tutti si ostinavano a fissare e che lo stregone, invece, trovava noioso e irritante. “Sìsì, comunque sto bene, oggi sono tornato in missione per la prima volta.” Sembrava fiero di questa cosa, e il Nascosto fece spallucce mentalmente: come poteva andare a prendercele di santa ragione dai demoni piacere tanto agli Shadowhunters? A Magnus a volte sembravano appartenenti ad una setta, oppure a quei gruppi che tutte le mattine alle quattro vanno a correre e se non lo fanno per un giorno vorrebbero uccidersi dal senso di colpa.
“Bene, sono contento”, disse però, osservandolo bene. In effetti, Alexander Lightwood era mille volte meglio di quando l’aveva lasciato: tutto ciò che gli era rimasto era qualche livido sullo zigomo che ancora faticava a sbiadire e un’andatura appena appena zoppicante a causa della gamba ferita. Anche quei piccoli segni, però, sarebbero spariti in due, massimo tre giorni. Non aveva niente di cui preoccuparsi.
“Senti…”, gli disse, senza sapere bene cosa avrebbe detto. Forse l’avrebbe invitato con lui al concerto quella sera, o forse avrebbe saltato il concerto e gli avrebbe proposto di andare a mangiare da qualche parte, per esempio in quel thailandese che aveva aperto da poco e di cui tutti parlavano così bene. Alexander avrebbe risposto di no, ovvio, perché era uno Shadowhunter ed era così che facevano loro, anche i loro stranamente gentili che avevano parole di ringraziamento per un Nascosto, ma ci avrebbe provato lo stesso, perché lui era Magnus Bane e si buttava sempre, anche a costo di ricevere una grossa delusione. Ma non seppe mai cosa avrebbe fatto di preciso, perché, mentre cominciava la frase, il ragazzo ne cominciò una a sua volta, per poi interrompersi con una risatina imbarazzata. Era vicino alla porta, troppo vicino. Probabilmente gli stava per dire che grazie per il caffè, ma adesso doveva proprio andare. E se ne sarebbe andato davvero, portandogli via i suoi occhi azzurri e il sorriso esitante. Non doveva. Non poteva. Eppure, non poté fare altro se non lasciarlo fare.
“Prima tu”, gli disse con un sorriso, un po’ rassegnato ma consapevole che ci sarebbe stata un’altra volta, un’altra festa, un altro incontro. Un’altra occasione per invitarlo fuori, in cui forse l’altro gli avrebbe detto di sì. Non era tutto finito. Finché Alexander lo guardava in quel modo, c’era sempre speranza.
“Oh… ok.” Il giovane guerriero sembrava di nuovo in panico, e lanciava occhiate a Magnus e alla porta, alternando. “No, niente, è solo che oggi sono un po’ di fretta, vedi io… ho promesso a Jace che gli avrei fatto compagnia in perlustrazione, e allora…”
“Non c’è problema”, replicò Magnus, abbattuto. Cercava di negarlo, ma sotto sotto aveva sperato di avere torto, che il ragazzo gli avrebbe detto qualcos’altro e sarebbero rimasti ancora un po’ a chiacchierare. Ma non è l’ultima possibilità, si disse. Se non sarà oggi, sarà per un’altra volta. Ma era triste lo stesso.
“Mi hai già detto tutto”, aggiunse. “Non ti preoccupare, hai fatto quello che dovevi e sei anche rimasto per un caffè. Ora il tuo lavoro ti chiama.” Gli rivolse un sorrisetto, ma anche Alexander sembrava un po’ giù. Abbassò la testa e non rispose al sorriso.
“Già”, borbottò soltanto, aprendo la porta.
Prima di varcarla, però, si fermò. Guardò il pianerottolo, sospirò, poi i suoi occhi tornarono su di lui, Magnus, che era rimasto ad osservarlo da metà stanza. Aveva lo sguardo sbarrato di chi è terrorizzato, anche se lo stregone non vedeva nemmeno una ragione per cui avrebbe dovuto esserlo.
“Tutto bene?”, gli chiese, pensando alle ferite. Il ragazzo non rispose. Prese un respiro, e dalla sua posizione lo stregone vedeva il cuore martellargli nel petto, che si alzava e abbassava spasmodicamente sotto il maglione azzurro.
“Alexander, stai…?”
“Oggi sono di pattuglia, ma ti andrebbe di uscire insieme, una volta?”, lo interruppe il ragazzo, vomitando fuori le parole come se gli uscissero di bocca contro la sua volontà. Dopo averle dette lo fissò intensamente, gli occhi più grandi che mai sotto la cortina di ciglia scure.
Magnus lo fissò impietrito. In meno di mezz’ora, il ragazzo l’aveva spiazzato più di quanto molte persone avessero fatto in una vita. Prima le scuse, poi i ringraziamenti… e ora questo. Lo stregone aveva avuto molti appuntamenti, ovvio, sia con uomini che con donne, ma mai con uno Shadowhunter, maschio o femmina che fosse. Mai uno Shadowhunter (e assolutamente mai uno così carino) aveva pensato che lui andasse abbastanza bene per uno di loro, non solo per lavoro, sesso o amicizia ma per uscire insieme sul serio, come persone che si piacciono e vogliono conoscersi.
Come persone che possono piacersi.
E la cosa più strana di tutte è che avrebbe voluto invitarlo lui, e forse l’avrebbe anche fatto, ma… quel ragazzo era stato più veloce. Non aveva perso tempo, e gli aveva detto cosa voleva con una semplicità disarmante. Era coraggioso. Era ingenuo. Era bellissimo.
E Magnus non poteva dire di no.
Nel tempo che aveva passato a riflettere, però, il ragazzo si era già scoraggiato. Aveva fatto un passo verso la porta, mormorando:
“Ma se non vuoi non importa, io… Io te l’ho chiesto, ma devi volerlo anche tu… e insomma, magari sei anche impegnato, o…” Non finì la frase, forse si vergognava troppo, e ormai era quasi fuori dalla stanza. Se Magnus voleva fare la sua mossa, doveva farla adesso.
Quasi correndo, Magnus Bane attraversò il salotto e prese per un polso il giovane guerriero, un polso sottile e privo di peli che avrebbe potuto essere quello di una ragazza. Lo Shadowhunter si voltò, stupito, e i suoi occhi incontrarono quelli da gatto dello stregone.
“Certo che potremmo uscire”, gli disse questi, a voce bassa ma con un sorriso scanzonato. “Che ne dici di venerdì?”
L’espressione che Alexander gli rivolse fu luce pura, un miracolo di occhi azzurri e sorriso scintillante. Persino la sua pelle bianca sembrava fatta di luce.
“Davvero? Perché sennò io…”
“Shh”, Magnus gli posò due dita sulle labbra, facendolo arrossire. Quando le tolse, il giovane sorrise. “Davvero.”
“Io… ti lascio il mio numero, allora”, fece il ragazzo, le mani che tremavano appena mentre cercava nelle tasche dei pantaloni. “Così ti chiamo e… e ci mettiamo d’accordo meglio.”
“Okay”, disse Magnus, cercando di fare l’indifferente ma senza riuscirci troppo. Aveva voglia di chiamare Catarina, e subito. Aveva voglia di chiamare il mondo intero. Era una cosa stupida, da ragazzini, ma lui era vecchio, e non provava un sentimento del genere da molto tempo. Una simile emozione, in realtà, era tutto ciò di cui aveva bisogno, l’unica cosa che voleva in quel momento. E averla a causa di quello Shadowhunter bello e gentile gli sembrava il privilegio migliore del mondo. Si scambiarono i numeri, si salutarono e poi Magnus rimase ad osservarlo scendere le scale, mentre l’altro di tanto in tanto alzava gli occhi a guardarlo. Ogni volta che il loro sguardo si incrociava, sorridevano.
E quando sparì, e non fu più nell’edificio, Magnus stette alla finestra mentre il ragazzo si incamminava verso l’Istituto, le orecchie piene della musichetta stonata che stava cantando e il cuore, per la prima volta da molto tempo, gonfio di speranza.    
         

Nota dell'autrice: 
   Da appassionata di Shadowhunters e ovviamente della coppia Magnus-Alec, da un po' avevo in mente di buttare giù qualcosa su di loro, quindi mi sono detta "perché no? Proviamo a pubblicare una fanfiction". E adesso l'ho fatto. Il contesto è ciò che succede dopo il primo libro, "Città di Ossa", quando Alec va a ringraziare Magnus di avergli salvato la vita e nel frattempo gli chiede anche di uscire. Di questa scena si sa solo quello che Magnus racconta in poche frasi di "Le cronache di Magnus Bane", mentre io ho voluto descrivere la situazione così come io me l'ero immaginata, con i dettagli e tutto. Unica differenza: nella mia storia Alec e Magnus non si baciano, perché, nella mia mente, la cosa succedeva durante il primo appuntamento. Se sei arrivato/a fino in fondo, grazie di essere stato/a con me in questa storia, spero che ti sia piaciuta tanto quanto a me è piaciuto scriverla. Grazie sul serio. Martina Murdock

   
 
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