Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
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Autore: sottoilsole    10/08/2018    0 recensioni
Insieme per tutta la vita, piccolo, dalle strade del Texas fino al nostro estremo Oriente.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Kim Namjoon/ RapMonster, Kim Taehyung/ V
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ho dimenticato di assumere la mia dose quotidiana di cazzate, questo soltanto perché tu eri assente. Se ci fossi stato te, mio caro, cosa avrei mai fatto? Mi sarei forse strappato i capelli dalla rabbia, e i vestiti dalla frustrazione. E poi mi sarei arrabbiato ancora di più, e ti avrei lanciato addosso le scarpe, con slancio. E forse non ti avrei colpito ma non perché non sono bravo a tirare ma perché non ti voglio davvero far male, mi piace soltanto spaventarti. Caro, caro mio, caro mio allegro giovinetto, che mondo sarebbe un mondo in cui la tua esistenza va ad annullarsi? Forse questo procedimento già è in corso, giacché la morte s'appresta a farsi vicina ma a noi poco importa, vero? Noi la salutiamo dalla nostra decappottabile, la morte, tu le sorridi pure, la salutiamo e premo con il piede l'acceleratore, sfrecciamo nel deserto del Texas e la polvere, al passaggio delle nostre possenti ruote, s'alza e ci disturba la vista. Amore, Taehyung, tu poi ti allunghi, stringi le dita attorno alla base della portiera, e guardi la striscia bianca della strada srotolarsi intorno a noi, verso nuovi mondi e orizzonti, sempre più distanti e complessi, sempre più vicini e noi sempre più pronti ad aprire le braccia nel tentativo di mostrarci familiari e pronti a capirli. Ci siamo incontrati che tu neanche pensavi di poter vivere una vita, amore, come ti eri ritrovato nei bassifondi di New Orleans, solo e triste, abbandonato e perduto? Dimenticato da tutti? Che forse ti piaceva l'idea di non essere più Kim Taehyung, di essere soltanto un muso giallo fuori rotta, un occhi a mandorla qualunque. Che, per strada, i barboni ti prendevano in giro e tu non ridevi con loro perché eri arrabbiato con te stesso e con quel mondo e con quella madre che ti ha dato la vita ma non l'opportunità di viverla con piacere e con cura, che l'ultima volta ti aveva accarezzato il capo scompigliandoti i capelli e aveva emesso un sospiro lungo e rotto, disilluso, poiché lei stessa pensava che forse non avrebbe dovuto farlo, metterti al mondo, s'intende, e una sera te l'aveva detto, non perché non ti volesse bene ma perché la miseria era tanta e voi avevate imparato a nuotare in quel pattume sperando che la tempesta non arrivasse mai e che quindi non annegaste. Camminavi con la tua inettitudine e gli occhi erano persi nel vuoto, rivolti verso un passato primordiale, preistorico, e speravi di trovare un po' di conforto e di felicità nei ricordi ma poi ti destavi d'un tratto da quel sogno ad occhi aperti e ti maledivi perché, appunto, erano ricordi ed erano una bugia, non capivi nemmeno se fossero reali o voluti dalla mente. Ed eri un po' un Mattia Pascal, un Kim Taehyung che aveva perso la propria identità, un ragazzino che camminava per il ghetto, per il quartiere nero e ascoltava il vero jazz, non entravi nei locali ma restavi fuori alla porta e il tuo piede sinistro batteva a ritmo con la musica. Ma tu non volevi concederti questi attimi di spensieratezza, amore, perché non volevi illuderti di trovare un po' di consolazione, che ti ricordavi Schopenhauer a memoria e questo ti tormentava la sera, prima di addormentarti per strada. Amore, ci siamo conosciuti che io ero un disgraziato come tanti, perso e distrutto, ma una casa in cui tornare ogni volta, benché questa non mi volesse, ce l'avevo e non riuscivo ad apprezzarla appieno. Avevo bevuto tanto e fumato tanto e mi piaceva sprofondare in questo stato estetico, senza voler mai provare l'esigenza di conformarmi all'etica, alla moralità costruita, alla religione; volevo seguire i miei pensieri e non una dottrina qualunque. Ci siamo conosciuti che puzzavo di fumo, di tabacco, di Messico, ed ero sporco perché appena uscito dal lavoro e lavoravo in fabbrica e non venivo pagato come avrebbero dovuto per via della mia nazionalità, e il mio capo pensava addirittura che non lo capissi l'inglese, nonostante mi sentisse ogni volta prenderlo per il culo. Ero in un bar, uno squallido bordello di New Orleans, frequentato da uomini perversi, bambini sperduti, adolescenti disperate, hipster da quattro soldi, artisti falliti. Era un macello e io ti avevo visto, troppo bello per un posto del genere, disarmonico e crudele. E ti avevo detto: "Perché un ragazzino come te dovrebbe frequentare un posto come questo?" e tu avevi alzato le spalle, non mi avevi guardato negli occhi, tenevi il viso alto, maestoso ed eri regale ed intoccabile come se, nonostante tutto, volessi mantenere in piedi la tua dignità. Eri pulito e profumato e ben vestito e, come mi capita spesso di fare, mi ero già innamorato di te ancora prima di conoscerti e mi torturavo pensando: Devo portarlo via da qui, subito; un fiore così incantevole non può permettersi di sfiorire. E mi avevi stretto la mano e ti eri lasciato portare via proprio perché non eri veramente legato alla vita, alla sicurezza e, insomma, non avevi niente da perdere proprio perché eri privo di qualsiasi cosa, dal denaro all'amore. Ti avevo portato nel primo motel trovato lungo la strada, pensavi volessi violare il tuo corpo ma non avevo alcuna intenzione di toccarti. Mi dicesti: "Ti dovrò chiedere un pagamento extra". E io ti avevo scosso le spalle con rabbia e tu non capivi, non riuscivi a farlo, la tua mente era annebbiata, offuscata. "Sei libero, okay?" ti avevo detto, "Dimentica quel posto, ragazzino". Scuotevi la testa, "Mi hanno confiscato ciò che restava dalla mia anima, straniero, non posso far finta di nulla". Indossavi una lunga camicia, più larga del necessario, e le tue belle clavicole erano in mostra. Chi avrebbe mai detto che poi saresti diventato linfa vitale per me. Allungai una mano verso di te, "Mi chiamo Kim Namjoon". Tentai di sorridere ma i sorrisi non mi venivano bene. Tu la guardasti, la mano, senza far nulla. Immobile, le tue labbra si schiusero e ancora una volta la compassione invase il mio petto. L'ho detto, ero già innamorato e forse era stato il tuo bel viso, i tuoi lineamenti fini e mistici, o forse era la mia tremenda voglia di salvare qualcuno, strappandolo dalle radici del male. "Sono sporco" mi avevi detto, "Non lo trovi rivoltante stringere la mano di qualcuno che ha toccato il fondo?". La camera prenotata era sudicia e mi chiesi come avrei potuto prometterti il meglio quando ti avevo portato in un posto se non peggiore, quasi. "No" risposi, "perché anche io ti faccio compagnia". Caro mio, mio amore, mia stella e luna, quella volta ti feci scappare un piccolo sorriso, un barlume leggero di una luce altrettanto fioca. "Taehyung" dicesti, e dovetti ripetere il tuo nome più volte, poiché non avevo mai pronunciato un nome così dolce e bello come il tuo, d'un sapore che mi riempiva la bocca di fiori e miele artigianale. Amore, solo mio, da quella volta ti presi in custodia e dormimmo assieme, nel letto, senza toccarci, solo che non chiusi veramente occhio perché la tua persona mi faceva tremare di febbrile eccitazione sotto le coperte. Ero allegro ed entusiasta. Cavolo, dentro lo stomaco avevo gli stessi fuochi d'artificio che scoppiettavano lungo le strade di Chinatown durante il capodanno. Il giorno dopo ti avevo portato in una Roadhouse e forse non mangiavi così tanto e così bene da tempo perché ti vidi affannarti quando la cameriera arrivò con le ordinazioni. Avevi fatto cadere una posata a terra e, senza farti grandi problemi, avevi iniziato a mangiare con le mani. Dicesti: "Namjoon, grazie" e nessuno mi aveva mai ringraziato con tanta sincerità e i tuoi occhi brillavano di luce propria. "Dobbiamo fare una cosa, insieme, tu ci stai?". Diavolo, amore bastardo. "Che cosa?". "Promettimi prima che lo faremo". Mi avevi stretto le mani con le tue, più piccole. Non saprei dire ciò che provai ma qualcosa in te mi diceva di farlo, ed ero succube ancor prima di saperlo. "Va bene". Allora alzasti di poco la tua camicia, con il quale avevi dormito anche la notte precedente, e tra la cintura dei tuoi pantaloni color cachi e la tua pelle pallida vi era incastrata una pistola calibro nove. Pochi secondi dopo, avevi già richiuso il sipario, d'altronde eravamo in un luogo pubblico. Mandai giù il pezzo di carne che stavo mangiando e mi guardai intorno velocemente. Mantenni la calma, ma mi stupì saperti con un'arma. "Perché hai una pistola?". "Dovresti sempre averne una quando sei solo e provi a sopravvivere". "È carica?". Non mi guardasti negli occhi ma ti vidi annuire col capo. "Cosa vuoi fare?" ti chiesi. "Voglio vendicarmi e ho bisogno del tuo aiuto, Namjoon". A causa tua, amore mio, diavolo del mio cuore, ho scoperto cosa significhi denudare dei propri averi un verme, un bastardo schifoso, e io, che avevo già dovuto utilizzare una pistola in passato, mi sporcai le mani del sangue caldo del proprietario di quel bordello, un uomo che meritava la vita quanto la morte, mentre tu confiscavi l'incasso dell'ultimo mese. Eravamo entrati in quel bar sparando al soffitto, una e altre due volte ancora, e mentre la gente urlava e scappava, nessuno ebbe il coraggio di chiamare la polizia giacché, allora, più della metà di quelle persone sarebbe finita al fresco insieme a noi due, amore. Tu iniziasti a gridare con ferocia e scoprii così come un angelo potesse trasformarsi velocemente in un demone. Scappammo con la mia decappottabile, amore, e da quella volta imparai a conoscerti e ad amarti e ad odiarti per poi amarti ancora con più passione. E non so ancora dire con certezza se è stato quell'omicidio a costringerci insieme o se, nonostante tutto, tu in me ci avevi creduto, proprio come io avevo riposto le mie speranze nella tua persona. Ora ascoltiamo del buon jazz, piccolo, e talvolta mi fai perdere la pazienza come pochi, come se tu fossi davvero un bambino, ma ti amo, amore, e non mi pento di nulla, come Bonnie e Clyde fino alla fine, Taehyung, fino alla morte, per sempre, nelle nostre anime, pregate per noi, diavoli, mentre voliamo nel cielo.
   
 
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