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Autore: Martina Murdock    17/08/2018    1 recensioni
E forse sarebbe stato davvero così. Forse la loro amicizia si sarebbe limitata a quello, un breve pomeriggio di giugno a cavalcare nel bosco. Ma poi Michael disse:
“Pazienza, tanto ora è estate e non facciamo niente di che. Non ti perdi nulla. Ti va se vengo a casa tua, dopo?”
Robert lo guardò stupito: “Domani?”
“Quando, sennò? Ti devi svegliare, Lightwood, altrimenti anche domani ti straccio di brutto.”
“Questa è tutta da vedere”, lo rimbeccò il bambino, ma non poté fare niente per nascondere il sorriso che gli rendeva ancora più luminosi gli occhi color cielo notturno. Era felice da spezzare il cuore, un ragazzino che aveva ricevuto tutto insieme Natale, compleanno e festa della prima Runa. Un ragazzino che, per la prima volta, non era più solo.
Il primo incontro tra Michael Wayland e Robert Lightwood bambini, visto dagli occhi di un Michael che vuole a tutti i costi conoscere il ragazzino taciturno che se ne sta sempre da solo e non ha addosso nessuna runa. L'inizio di un'estate, e allo stesso tempo di un'amicizia destinata ad essere la più importante delle vite di entrambi.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Michael Wayland, Robert Lightwood
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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L’inizio di un’estate

 

“Michael, dove vai?”, gli aveva chiesto sua madre vedendolo uscire, per una volta tanto senza lamentarsi dei capelli scompigliati o delle macchie d’erba sui jeans nuovi. Lui l’aveva guardata per un attimo, poi aveva scrollato le spalle.
“In giro. Guardo se c’è qualcuno degli altri ragazzi.”
“Non fare tardi, però. Ti abbiamo regalato l’orologio perché tu lo guardi, di tanto in tanto.”
“Sì, mamma.” Il ragazzino aveva alzato gli occhi al cielo. In realtà, aveva da qualche giorno il sospetto che l’orologio fosse rotto, ma non se l’era sentita di dirlo in casa, non ancora. Probabilmente avrebbe tirato fuori con noncuranza la notizia una volta avuti i risultati degli esami, se avesse ricevuto dei buoni voti. Sperava di sì, perché non sapeva proprio cos’altro avrebbe potuto distrarre i suoi genitori dalla triste fine di un orologio che doveva valere almeno cento franchi svizzeri. Ma con lui era così. Le cose si rompevano, i fogli degli appunti venivano persi, gli appuntamenti e (soprattutto!) gli orari di ritorno completamente dimenticati. Michael non aveva tempo di ricordarsi tutte queste cose noiose, non quando c’erano talmente tante altre idee che gli ronzavano nella testa. Come poteva sua madre sgridarlo perché aveva fatto tardi per la cena, se era stato tutto il pomeriggio acquattato dietro un cespuglio aspettando che un picchio verde tornasse al suo nido? E come potevano i ragazzi di Alicante guardarlo un po’ straniti, se di tanto in tanto si distraeva per riflettere sul modo migliore per catturare un tasso? Michael era un vulcano di inventiva, ma spesso le persone non capivano che per partorire delle buone idee ci voleva tempo, e probabilmente anche qualche passeggiata con la testa per aria, rivolta verso le chiome degli alberi.
Forse, aveva pensato il ragazzino uscendo di casa, tutto sommato quel giorno non sarebbe andato a cercare gli altri. Forse era arrivato il momento di fare quella cosa. Quella cosa a cui pensava già da un po’. Sentì un brivido di eccitazione lungo la schiena al solo pensiero, e in quel momento fu assolutamente certo che quella sarebbe stata, se non la migliore, almeno una delle idee più fantastiche che avesse mai avuto.
“Mamma!”, chiamò, riaffacciandosi alla porta. La donna sospirò, vedendolo rientrare. Era abituata al fatto che Michael tornasse indietro almeno tre volte, prima che fosse veramente pronto ad andare.
“Sì?”
“Posso prendere Cresta?”
Cresta era il nuovo cavallo della famiglia, il più piccolo e il più coccolato. Michael lo adorava perché, anche se ancora non era proprio un adulto fatto e finito, aveva una resistenza incredibile e una pazienza ancora più grande. Era in grado di seguire le sue scorrazzate per un pomeriggio intero e, al contrario di quelli dei suoi amici, non si faceva scoraggiare dai rami bassi che di tanto in tanto ostacolavano il cammino nella foresta di Brocelind. Si limitava a sbuffare appena e poi cercava un’altra strada, come se non fosse successo niente.             Da quando l’avevano comprato, il ragazzino aveva chiesto almeno una ventina di volte di poter dormire con lui nella stalla, ma per il momento le sue richieste erano rimaste inaccolte.
“Prendilo, ma non ammazzarlo di fatica, per piacere. Papà gli ha appena messo i ferri nuovi.”
Michael annuì, troppo concentrato sulle sue prossime mosse per badare troppo a raccomandazioni che comunque non avrebbe seguito. E poi era inutile ripetergli di trattare bene Cresta. A parte i suoi genitori e il cugino Anthony, che purtroppo viveva in Francia e non vedeva mai, era l’essere vivente a cui il ragazzino voleva più bene al mondo.
“Lo sai”, disse quel giorno al cavallo, mentre lo tirava fuori dalla stalla e gli allungava una carruba, giusto per renderlo un po’ più bendisposto verso quel pomeriggio di scorribande. “Oggi non ce ne andiamo in giro con Mark Laceking. E neanche con il gruppo di Lucius Hawkbrook. Oggi abbiamo una missione speciale.”
Come se potesse capirlo, l’animale scrollò appena la testa, e il bambino lo interpretò come un segno di partecipazione.
“Scommetto che lo vuoi proprio sapere dove andiamo”, gli disse con un gran sorriso, montandogli in sella con una velocità data dall’abitudine e dal fatto che avesse le gambe molto più lunghe degli altri ragazzi della sua età. “Va bene, se proprio insisti te lo dico, ma deve rimanere tra noi. Poi lo dirò alla mamma”, aggiunse pensieroso, osservando la fila di cipressi del viale che si snodava di fianco a loro. “Ma per ora non sa niente, perché mi aveva fatto promettere di non andare a fare il maleducato. Ma non facciamo i maleducati, tranquillo!”, si affrettò a specificare, d’un tratto preoccupato che il cavallo potesse non essere d’accordo. “Andiamo solo da una persona, come quando il papà va a salutare i suoi amici delle altre famiglie. Andiamo da una persona e gli diciamo se ha voglia di fare un giro con noi. E’ una persona speciale, lo sai?”
O almeno, Michael sperava che lo fosse. A voler essere sinceri, conosceva Robert Lightwood, un bambino di undici anni come lui, da quando nessuno dei due sapeva reggere in mano neanche un pugnale. I bambini di Alicante si conoscevano tutti, specie quelli che, come loro, vivevano nelle tenute in campagna e frequentavano il centro città solo per andare a scuola. I ragazzini della “provincia” facevano gruppo a dispetto degli altri, con cui si incontravano solo per le lezioni o per le feste in città, avvenimenti rari ma sempre entusiasmanti. Ma non aveva mai avuto occasione di fare amicizia con Robert, non per davvero, perché il bambino gli era sempre stato alla larga. Non solo da lui, a voler essere onesti, ma anche dagli altri. Usciva con loro, sì, e partecipava ai loro giochi, ma era troppo timido, troppo insicuro, per proporre lui qualcosa, o per rischiare di coprire gli schiamazzi degli altri con i propri. A Michael era sempre sembrato… controllato, ecco qual’era il termine giusto. Come un adolescente nel corpo di un bambino, che deve stare con i propri coetanei ma che al tempo stesso è a disagio tra loro. Certo, ora il problema del disagio non esisteva più. Qualche mese prima Robert si era fatto la prima runa durante quello che doveva essere il rituale per renderlo uno Shadowhunter a tutti gli effetti, ma qualcosa era andato storto. Il suo corpo non era stato pronto a ricevere il marchio, e aveva… be’, Michael non sapeva bene come fossero andate le cose, sapeva solo che il ragazzino era quasi morto e che aveva lottato con la runa per settimane. Credendo di non essere ascoltati, aveva sentito i suoi mormorare tra loro che i genitori di Robert non avevano voluto che i Fratelli Silenti gli togliessero il marchio, ma il bambino non sapeva niente di certo. Ciò che invece sapeva con precisione era che da quando il piccolo Lightwood aveva rifiutato la runa, gli altri bambini non lo trattavano più come prima. Non era più il benvenuto se se ne andavano in giro o se giocavano tutti insieme, e forse, anche lo avessero incluso, non si sarebbe lo stesso trovato a suo agio. Tutti, Michael compreso, avevano la pelle coperta di tatuaggi, e si sfidavano in continuazione a farsene di nuovi. Cosa avrebbe fatto Robert, tra loro?
Ovviamente, questo era quello che dicevano gli altri. A Michael non importava che Robert avesse le rune o no, e non gli importava nemmeno se adesso si faceva vedere poco in giro. A lui quel ragazzino pelle e ossa con strani occhi azzurri dalla forma affusolata sembrava interessante, e quello era quanto. Non sapeva nemmeno lui perché, ma aveva una voglia matta di vederlo, fare con lui un giro a cavallo e riempirlo di domande. Gli altri ragazzi dicevano sempre tutto ciò che passava loro per la testa, nel loro carattere non c’era niente di misterioso, ma Robert… Robert era come l’eroe cupo di una storia, apparentemente inavvicinabile ma con un gran cuore nascosto sotto i modi bruschi. Michael non era certo che avrebbe voluto parlare con lui. Poteva darsi che l’avrebbe mandato via, o che l’avrebbe fatto sua madre, dicendo che si era ripreso da troppo poco tempo per scorrazzare in giro a cavallo. Aveva paura di quest’eventualità, perché da qualche settimana conoscere Robert Lightwood era diventata un’idea fissa, ma era certo che in qualche maniera se la sarebbe cavata. Sua mamma diceva sempre che sarebbe stato in grado di far parlare anche una parete, quindi riuscirci con un ragazzino taciturno non sarebbe stato così difficile, no?
“Vedrai che ce la facciamo”, disse Michael a Cresta, battendogli amichevolmente la mano sul collo. “Io andrò per primo, e se fallisco toccherà a te. Dovrai usare tutto il tuo fascino, te lo dico fin da subito così ti prepari, ma non ti preoccupare che andrai alla grande. Te la ricordi la zia Clementine? Lei odia i cavalli, ma dopo cinque minuti di occhioni dolci era già lì a farti le coccole…”
Comunque, ormai non c’era più tempo per riflettere. Casa Lightwood era a meno di un centinaio di metri, pochi secondi e sarebbe stato davanti alla porta. Rallentò fin quasi a fermarsi, poi scese proprio di fronte all’ingresso, tenendo Cresta ben stretto per le redini.
“Ci siamo”, sussurrò, e in quel momento nella sua mente la grande villa di campagna era tale e quale alla tana di un demone drago, o alla torre in cui una malvagia donna stregone teneva rinchiusa una principessa. Esitò per un solo istante, poi bussò alla porta, talmente forte che difficilmente si sarebbe detto che a fare quel rumore era solo un ragazzino smilzo con mani e piedi troppo grandi per il proprio corpo.
Fissando il legno, rimase per qualche minuto buono in attesa, trepidante, finché una donna non si affacciò all’entrata. Vedendolo, assunse un’aria sorpresa.
“Sei il piccolo Wayland”, commentò, asciutta.
Ora, a Michael sentirsi chiamare “piccolo Wayland” a undici anni suonati sembrava poco rispettoso, ma decise, solo per quella volta, di lasciar perdere la forma in nome della propria missione.
“Sì, sono Michael”, rispose, cercando di far capire alla donna che era così che voleva essere chiamato. “Robert è in casa?”
A quel punto la donna parve molto più che sorpresa. Era completamente esterrefatta. Così a prima vista, al ragazzino non piaceva molto, gli sembrava per davvero una strega delle fiabe: era alta, magra, con lunghi capelli castani raccolti in una specie di crocchia e un naso un po’ troppo dritto. Aveva la faccia aguzza come un… be’, Michael non sapeva cos’altro potesse avere una faccia altrettanto aguzza. Comunque non gli piaceva molto, anche se non sembrava pronta a mandarlo via a suon di scopa: anzi, una volta passata la sorpresa apparve anche un po’ più bendisposta nei suoi confronti.
“Sì, è in casa, vuoi che te lo chiami?”
“Sì, per favore”, fece il ragazzino con un sorriso spudorato, mettendo nelle parole un’educazione che avrebbe reso fiera sua madre. “Volevo chiedergli se voleva fare un giro a cavallo, ma se non volete non c’è bisogno che tiriamo fuori il vostro, può venire su Cresta. E’ abbastanza grande per tutti e due.”
In realtà non era proprio sicuro che Cresta avrebbe apprezzato la cosa, ma pazienza. Ormai l’aveva detto. La donna lanciò un’occhiata al cavallo, poi scosse la testa con un sorrisetto: “Vado a chiedere a Byron se tira fuori Oliver. Robert!”, urlò poi, sporgendosi in direzione delle scale. “C’è Michael Wayland per te, muoviti a scendere!”
Di nuovo, il ragazzino sorrise. La prima parte era stata molto più semplice di quanto si sarebbe aspettato. Ora, però, doveva convincere Robert.
La donna si spostò dall’ingresso ma non lo invitò ad entrare, quindi Michael rimase sulla porta, fissando le scale come se potesse far apparire l’altro con la forza del pensiero. Dopo neanche due minuti, un ragazzetto magro comparve sul pianerottolo, guardando verso il basso con la solita espressione stupita della madre. Era magro almeno come Michael, ma di una testa più basso. I capelli neri coprivano un viso che non era affilato come quello che aveva appena visto, ma che forse lo sarebbe diventato, e un naso abbastanza importante ma che nel contesto non stava affatto male. La cosa che Michael vide prima di tutte le altre, però, furono gli occhi. O meglio, li vide più tardi, mentre il bambino scendeva e si avvicinava a lui, ma gli fecero dimenticare all’istante tutto il resto, come se Robert Lightwood fosse solo un paio di occhi fluttuanti. Erano blu, di un blu incredibile, che non sembrava neanche vero. Michael sapeva che tra i Mondani esistevano persone che usavano lenti a contatto colorate, una specie di pellicola in grado di cambiare il colore dell’iride e, se non avesse saputo che era impossibile, avrebbe giurato che Robert ne stesse indossando un paio.
“Ciao”, gli disse il ragazzino moro quando arrivò in fondo alle scale, la voce appena percettibile. Sembrava estremamente a disagio, anche se cercava di non darlo a vedere. A dispetto del borbottio da “non me ne importa niente se ti piaccio o no” che gli era uscito dalle labbra, aveva le guance un po’ arrossate, e i suoi occhi blu non si soffermavano mai per più di qualche istante in quelli di Michael. Si vedeva che aveva voglia di chiedergli “che ci fai qui?”, ma che allo stesso tempo non sapeva come farlo senza sembrare un maleducato.
Michael decise di non concedergli altro tempo per rimuginare, e gli fece un gran sorriso.
“Ciao”, fece. “Hai voglia di fare un giro a cavallo? Il mio è già qua fuori.”
Robert lo guardò con tanto d’occhi e anche una punta di sospetto. Forse aveva paura che quella dell’altro fosse solo una scusa per prenderlo in giro, forse una volta uscito nel vialetto ci sarebbe stata tutta la banda ad aspettarli, sulle bocche già pronte parole cattive da lanciare al ragazzino pelle e ossa senza neanche una Runa.
“Io…”, borbottò alla fine il bambino, guardandosi le scarpe. “Sei da solo?”
“Già, e non ho voglia di rimanerci”, disse allegramente Michael. “Dai, ti prego, passavo vicino a casa tua e mi è venuta l’idea di chiamarti. Dopo un po’ mi annoio, a cavalcare in silenzio.” Lo fissò con insistenza, e vide chiaramente il momento in cui Robert Lightwood cedette. Fu come se una maschera di timidezza ed indifferenza avesse cominciato lentamente a sgretolarsi, con piccole stilettate di luce che si infilavano in aperture sempre più grandi.
“D’accordo”, stabilì Robert, lanciandogli un’occhiata in tralice. C’era un sorrisetto in essa, un sorrisetto che presto si trasferì anche agli angoli della bocca sottile. “Ma io vado piuttosto veloce. Dovrai starmi dietro.” In quelle parole Michael sentì un po’ dell’arroganza che i suoi genitori gli avevano detto essere tipica dei Lightwood, ma la cosa non lo scosse minimamente. Era sempre pronto ad accettare una sfida.
“Fidati, quella è l’ultima cosa di cui ti devi preoccupare, Lightwood.”
“Le rune non sono valide, però!”, gli ricordò il bambino, mentre entrambi si avviavano alla porta. “Se hai fatto delle rune della velocità sui ferri del tuo cavallo o roba del genere non partecipo!”
“Per chi mi prendi? Io gioco pulitissimo.”
L’altro gli lanciò un’occhiata scettica: “Guarda che controllo.”
“Controlla pure.” Michael rideva mentre si tirava su le maniche del giacchetto a mostrare i pochi segni sbiaditi che gli decoravano le braccia. “E non ho quasi niente neanche addosso. Né agilità, né prontezza di riflessi, né equilibrio… niente di niente.”
“Potresti essertele fatte sulle gambe”, osservò Robert, ma insieme al sospetto c’era qualcosa… simpatia? Speranza? Di colpo Michael si rese conto che il bambino non voleva davvero sapere se avesse rune sulle gambe, ma lo stava semplicemente infastidendo. Come facevano gli amici, o perlomeno le persone che lo sarebbero diventate.
“Forse, ma dovrai vivere con il rischio. Non mi metterò in mutande per te, Lightwood.”
“No, che schifo! Non ci provare neanche!”
Al pensiero di Michael con i calzoni calati nell’elegante vialetto della villa, entrambi scoppiarono a ridere, i loro occhi intrecciati per la primissima volta. Dopo qualche secondo la risata si spense, ma qualcosa rimase lo stesso tra loro, qualcosa che non se ne sarebbe andato altrettanto presto.
Poi Michael montò a cavallo, seguito un minuto dopo da Robert, che aveva appena ricevuto il suo. Finché non lasciarono il vialetto, Michael continuò a chiacchierare incessantemente, raccontandogli di Cresta, degli allenamenti, del rospo gigante che aveva trovato sulle scale del suo ingresso quella mattina e dei suoi tentativi di addomesticarlo. Quando furono fuori dai cancelli della proprietà, iniziò la gara vera e propria, e per un paio d’ore scorrazzarono per i campi, offendendosi a vicenda nei modi più creativi che conoscevano. A voler essere onesti, il ragazzino biondo era più ferrato in quel gioco, ma anche Robert tirò fuori qualche idee sorprendentemente originale, tanto esilarante che l’altro per poco non cadde da cavallo.
Tornarono a casa solo verso sera, sudati, esausti ma con un sorriso da un orecchio all’altro. Durante il ritorno, anche il bambino moro aveva iniziato a raccontargli qualcosa, prima timidamente, poi con sicurezza sempre crescente, ma, quando furono davanti all’ingresso della tenuta dei Lightwood, il suo sorriso si affievolì appena.
“Peccato che non posso venire agli allenamenti, domani”, commentò, guardando l’altro con aria dispiaciuta. “La mamma ha detto che mi riammettono dal prossimo mese.” Sembrava davvero deluso, come se adesso i due avessero perso ogni speranza di rivedersi in futuro. Come se quel giorno fosse destinato a rimanere l’unico.
E forse sarebbe stato davvero così. Forse la loro amicizia si sarebbe limitata a quello, un breve pomeriggio di giugno a cavalcare nel bosco. Ma poi Michael disse:
“Pazienza, tanto ora è estate e non facciamo niente di che. Non ti perdi nulla. Ti va se vengo a casa tua, dopo?”
Robert lo guardò stupito: “Domani?”
“Quando, sennò? Ti devi svegliare, Lightwood, altrimenti anche domani ti straccio di brutto.”
“Questa è tutta da vedere”, lo rimbeccò il bambino, ma non poté fare niente per nascondere il sorriso che gli rendeva ancora più luminosi gli occhi color cielo notturno. Era felice da spezzare il cuore, un ragazzino che aveva ricevuto tutto insieme Natale, compleanno e festa della prima Runa. Un ragazzino che, per la prima volta, non era più solo.
“A domani, allora!”, esclamò Michael quando alla fine si allontanò, agitando la mano in maniera talmente scomposta che il cavallo sbuffò di fastidio.
E l’indomani si rividero davvero. E così il giorno dopo. E quello dopo ancora. Passarono insieme quasi tutte le giornate di quella lunga e afosa estate e, quando la famiglia di Michael andò in vacanza, Robert li accompagnò. Giocavano, scherzavano, andavano in giro e facevano decine di discorsi stupidi che difficilmente qualcun altro avrebbe capito. Si lanciavano sfide, prendevano in giro altri bambini e rubavano la frutta dagli alberi dei vicini, non perché loro non l’avessero, ma per il puro gusto di farlo. Facevano il bagno nel lago, si spruzzavano e spesso tornavano a casa solo quando entrambi erano stati affogati almeno una dozzina di volte per uno, con i capelli sulla faccia e la pelle spellata dal sole. In ogni momento di quell’estate, l’unico posto in cui Robert voleva stare era al fianco di Michael, e viceversa.
Quando arrivò settembre, erano migliori amici.

Nota dell'autri
ce:
Leggendo "Cronache dell'accademia Shadowhunter" mi sono innamorata di Michael e Robert e del loro rapporto, quindi era già da un po' che mi trastullavo con l'idea di scrivere di loro. Ma da dove partire? Quasi all'istante ho deciso "dalle origini, ovvio." E quindi eccoli qui, ancora piccoli, ancora senza tutti i dubbi e le paure che porterà l'amore di Michael, ancora in tempo per cambiare tutto ciò che è andato male. Mi sono ritrovata a parteggiare per i Waywood quasi per caso, e adesso eccomi qui, alla fine di una storia che spero vi piacerà. Grazie per essere rimasto/a fino in fondo, probabilmente tra un po' pubblicherò qualcosa su di loro da ragazzi.
PS: I capelli di Michael sono a libera interpretazione. So che li avrebbe castani, ma io me lo sono sempre immaginato biondo e ho scoperto che non lo è troppo di recente per riuscire a togliermi questa sua immagine dalla testa. Quindi niente, biondo resta e spero che lo accettereteugualmente ;) 

Martina Targioni Writer
   
 
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