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Autore: _Nimphadora_    08/09/2018    2 recensioni
Lilith ha diciassette anni quando perde i suoi genitori ed è costretta a trasferisti a Ravenfield, una minuscola cittadina dell’Illinois, perché affidata a un completo estraneo che si rivelerà un uomo ricco ma ostile.
Ma Lilith porta dentro di un segreto terribile, e le cose continueranno a peggiorare. Sembra quasi una calamita per le stranezze. L’unico che sembra essere sinceramente gentile con lei è Bill, il tuttofare del maniero del suo tutore, eppure anche lui sembra nasconderle qualcosa.
Chi è che suona il pianoforte di notte, quando tutti dormono, e si dilegua puntualmente un attimo prima che Lilith riesca a vederlo?
C’entra qualcosa con il ragazzo che continua a comparirle in sogno?
E perché tutti i domestici continuano a ignorare le cose strane che accadono intorno a loro?
Dalla storia:
«Ti ho osservata a lungo, e ti ho aspettata. Sapevo che mi avresti trovato prima o poi.»
Lilith deglutì a fatica, era assurdo.
«Sei reale?»
Lui rise, la stessa risata dei suoi sogni, la sentì riecheggiare intorno a lei.
«Hai paura che lo sia?»
Strinse i pugni.
«No.»
«Allora vieni più vicino.»
(...)
Sapeva fosse sbagliato, sapeva non avesse senso, ma una parte di lei voleva disperatamente che lui la toccasse.
Genere: Mistero, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo | Contesto: Sovrannaturale
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Ravenfield era una piccola cittadina circondata da boschi di aceri, situata nella contea di St. Clair, Illinois.

Quel tipo di città in cui si conoscono tutti e in cui all'apparenza non ci sono segreti che la moglie del panettiere non possa svelarti.

Un bel cambiamento per chi come Lilith Burke veniva da Chicago ed era abituato a passare inosservato tra le luci e i rumori di una grande città.

 

Inutile dire che se fosse stato per lei non si sarebbe mai trasferita. Aveva altri progetti, altre cose che l'aspettavano. Ma non aveva scelta. 

Tutto era andato in pezzi quattro mesi prima, il primo aprile del 2017.

Il giorno in cui aveva perso tutto.

 

Così ora era in viaggio verso quella cittadina dimenticata da Dio, con solo due valige al seguito e la voglia che quel dannato treno non si fermasse mai. Che non arrivasse. 

Che continuasse ad avanzare all'infinito.

 

Odiava il fatto di avere ancora diciassette anni. Tra pochi mesi ne avrebbe compiuti diciotto, ma per la legge era ancora una minore e quindi necessitava di un tutore. 

 

C'era voluto tempo per trovare qualcuno, per gli assistenti sociali Lilith era stata una vera e propria gatta da pelare. Dopo quello che era successo la sua era una situazione delicata. Poi dal nulla erano sbucati dei documenti firmati dai sui genitori.

Degli strani documenti.

Nell'esigua eredità che le avevano lasciato, seicento dollari e la vecchia auto di papà, figurava anche una lettera.

Era curiosa e breve.

In poche parole vi era scritto che nel caso fosse successo loro qualcosa Lilith doveva essere affidata ad Arthur Honeycutt, loro fidato amico. 

Quasi come se sapessero che...

 

Non avevano parenti, e Lilith non aveva mai sentito quel nome in tutta la sua vita. 

Di certo nemmeno Honeycutt sembrava entusiasta della cosa. Ha tenuto trattative con gli agenti sociali per più di un mese prima  di accettarla in casa sua.

 

Lilith non ne fu ferita. Dopotutto era una completa estranea, una grana che ti capita all'improvviso e non sai come gestire. Probabilmente anche lei avrebbe avuto le stesse remore. Soprattutto visto che tutti la consideravano la responsabile di quello che era accaduto. Così Lilith aveva venduto l'auto, raccolto tutti i suoi risparmi, ed era partita senza guardarsi indietro.

 

Quando il treno si fermò per Lilith fu come un brusco risveglio. Era stata così presa dai suoi pensieri per tutto il viaggio che a stento si era accorta della partenza.

 

Sospirò pesantemente e chiuse gli occhi.

Respira.

Andrà tutto bene.

Sono solo pochi mesi.

 

Afferrò le maniglie dei due trolley e si fece spazio tra la calca, percorrendo lo stretto corridoio del treno. Quando finalmente riuscì ad uscire fu sorpresa di notare di come la stazione fosse praticamente quasi deserta. Nessun altro scese a quella fermata, lei fu l'unica.

 

Almeno trovare il suo tutore fu abbastanza semplice.

 

Arthur Honeycutt era un'uomo sulla cinquantina, ma decisamente di aspetto gradevole. Aveva i capelli brizzolati, i lineamenti erano fini ed eleganti, ed era di corporatura asciutta.

Indossava un cappotto lungo, di pelle scura, e il collo era avvolto da una spessa sciarpa color senape.

Accanto a lui c'era un ragazzo molto alto, superava Honeycutt di almeno una quindicina di centimetri.

Portava indosso da un completo nero di buona fattura e un paio di guanti in cuoio.

Aveva un incarnato pallido, i capelli  erano lisci, di un biondo cenere, e la frangia gli copriva appena gli occhi chiari. 

 

Lilith e il ragazzo si scambiarono un breve sguardo.

Era bello, questo era innegabile, ma al momento non poteva interessarle di meno.

Stava passando il periodo più brutto della sua vita, si sentiva in colpa anche solo per aver notato una cosa del genere.

 

«Lilith Burke? Io sono Arthur Honeycutt, ovviamente.»

Chiese il più anziano avvicinandosi a lei. Il tono era freddo, come il suo modo di fare. Lilith lo sentì da subito ostile.

Non ne fu sorpresa.

Annuì appena.

 

«Non mi avevano detto che aveva un figlio.»

 

L'uomo fece una rapida smorfia, poi si voltò in direzione del ragazzo e scosse la testa con vigore.

 

«Bill? No, no. Lui non è mio figlio. È il mio autista, qualche volta aiuta il giardiniere. Be', è il tuttofare. Nulla di più. Io non ho figli.»

 

Un tuttofare? Lilith analizzò il suo atteggiamento spocchioso, il suo abbigliamento, e il fatto che potesse permettersi un giardiniere e un tuttofare. Dedusse che doveva per forza essere un uomo ricco. Come diavolo facevano i suoi genitori a conoscere una persona del genere?

 

Bill le sorrise appena, sembrava volesse incoraggiarla dopo quelle presentazioni disastrose, e le sfilò le maniglie dei trolley dalle mani.

Fosse stata un'altra situazione non glielo avrebbe permesso, odiava quando gli altri facevano le cose per lei al posto suo, ma non aveva voglia di opporre resistenza.

Si sentiva svuotata, senza energie.

Al momento voleva solo che la giornata finisse il prima possibile.

 

Honeycutt camminò a passo spedito fino ai parcheggi della stazione e si fermò soltanto quando fu di fronte a una Rolls Royce color vino messa a lucido. Lilith non avrebbe mai pensato di salire su un'auto del genere.

 

Sì, era decisamente ricco.

 

Bill posò le valigie nel bagagliaio, poi le aprì la portiera muovendosi in modo fluido ed elegante. Chissà da quanto tempo faceva quel lavoro. Lilith lo osservava senza guardarlo davvero. 

Era assente e non sapeva bene cosa pensare.

Avrebbe vissuto i prossimi mesi con un estraneo che a malapena le rivolgeva la parola e che probabilmente la reputava un'assassina.

Come mezza Chicago, dopotutto.

Lilith aveva impresso a fuoco nella sua memoria quella parola scritta in rosso con una bomboletta spray sul parabrezza della vecchia Ford che il padre le aveva lasciato.

Assassina.

 

Tenne lo sguardo fuori dal finestrino per tutto il tragitto. Ravenfield era piccola e ripetitiva come se l'era immaginata. Una fila di case tutte uguali e ben allineate, una piccola piazza con qualche ristorante, un supermercato di una nota catena, una fioreria dai muri colorati...

Quello che la colpì fu però che ovunque fosse la direzione in cui la Rolls Royce si stesse dirigendo gli occhi di tutti i pedoni continuavano ad essere puntati su di essa, quasi ipnotizzati.

 

Doveva essere strano in un borgo come quello vedere un'auto tanto costosa. O almeno fu in questo modo che Lilith giustificò la cosa.

 

Ma non fu l'unica cosa a stupirla, quel giorno.

Quando furono arrivati Lilith stentava a credere ai suoi occhi.

Faticava ad associare la parola casa al luogo che si trovava davanti. Si trattava di un vero e proprio maniero, situato poco fuori città e circondato da enormi alberi di acero per tutto il suo perimetro.

 

Grandiosa e imponente, la struttura si sviluppava in altezza per almeno quattro piani e si mostrava all'esterno lastricata di pietre di un grigio pallido su cui svettava il tetto azzurrino. Una fila di ampie vetrate a sesto acuto occupavano gran parte della torre principale, quella che ospitava anche il portone d'ingresso di legno intarsiato e protetto da uno spesso arco in pietra. Ai lati della torre si sviluppavano una serie di torrette minori che donavano alla proprietà un'aria d'altri tempi, quasi tetra. 

Di sicuro doveva essere molto antica.

 

«Goldentree Hall è la casa della famiglia Honeycutt fin dalla sua fondazione. Mi auguro che tu le rivolga il giusto rispetto.»

 

Pronunciò il padrone di casa senza una particolare intonazione di tono, e senza neppure degnarla di uno sguardo si diresse verso l'entrata.

Lilith non sapeva bene cosa rispondere, era spiazzata. Non poteva credete che quello era il posto in cui avrebbe vissuto fino ai suoi diciotto anni.

 

«È così con tutti. Io non la prenderei sul personale.»

 

Lei era così presa dai suoi pensieri che ci mise qualche istante a rendersi conto delle parole di Bill. 

Quella confidenza improvvisa le diede un po' di conforto. Si sentiva sommersa da tutte quelle novità in modo quasi soffocante.

 

Lilith sorrise appena, amaramente.

«Credo di non piacergli. Be', perché dovrebbe essere il contrario?»

 

L'autista si morse appena il labbro, d’improvviso sembrava teso, poi però dopo qualche secondo sorrise mostrando due piccole fossette ai lati della bocca.

 

«A me piaci.- pronunciò, e senza alcun imbarazzo. Poi cambiò del tutto argomento.  -Mi occuperò io delle tue cose. Ritroverai tutto in camera tua. Il Signor Honeycutt ti aspetta nella sala grande. Charlotte ti indicherà la strada.»

 

A me piaci.

 

Lilith non rispose, fece finta che quella frase non le avesse provocato alcun effetto. 

Non voleva complicarsi la vita più di quanto già non lo fosse.

Si strinse nella giacca di denim nera e a passo incerto si indirizzò verso l'ingresso.

Sull'uscio, proprio come Bill le aveva anticipato, l'aspetta una donna con un docile sorriso sul volto.

 

«Benvenuta a Goldentree, cara. Entra, Il Signor Honeycutt ti sta aspettando per iniziare la cena. Io sono Charlotte, ma puoi chiamarmi Lottie, e lavoro qui come cuoca e cameriera, presto conoscerai tutto il personale.»

 

Aveva un non so che di materno, e faceva male. Lilith preferiva i modi gelidi del padrone di casa a quelli teneri di Charlotte, questa donna bionda e sfiorita a causa dell'età, così gentile e delicata. Le ricordava sua madre, le ricordava cose che non voleva ricordare.

 

La condusse in un ampio salone stretto ma molto lungo in cui l’arredo principale era composto da un tavolo di ciliegio che percorreva quasi l’intera stanza. Avrà potuto contenere almeno una trentina di persone, calcolò Lilith su due piedi.

Il soffitto era alto e  dipinto con numerosi affreschi a tema religioso e ad illuminare la stanza era “incaricato” un lampadario di cristallo che scendeva a cascata. 

Charlotte la fece sedere proprio alla destra di Honeycutt, che era a capotavola.

Lui sembrava osservarle senza troppa attenzione, annoiato.

 

Lilith invece non faceva che meravigliarsi di ogni cosa. Persino il modo in cui era allestita la tavola la lasciava senza parole. Calici di cristallo, posate d’argento, candele profumate...

 

Non aveva mai visto tanto sfarzo in vita sua, se non nei film. La sua era una di quelle famiglie che faticava ad arrivare a fine mese, con una madre casalinga e un padre dipendente in fabbrica. Si sentiva come un’attrice, come se stesse recitando una parte e alla fine della scena era certa di doversene andare lasciando quella stupenda scenografia alle sue spalle.

 

Sua madre sarebbe stata così felice di vivere in un posto come quello, il palazzo dei suoi sogni. Suo padre invece, umile per natura, si sarebbe di certo sentito a disagio, esattamente come si sentiva lei in quel momento.

 

«Ti ci abituerai presto. Goldentree può sconvolgere qualsiasi persona comune, ma non è questo il caso.»

 

Disse il vecchio Honeycutt, notando con un certo divertimento lo stupore della sua ospite. Poco dopo fu servita la prima pietanza, una zuppa di colore aranciato e dal sapore molto delicato.

 

Cosa intendeva dire? Per lui Lilith non era una persona comune? Questa era un’altra accusa velata?

 

«Ho poche regole in questa casa, ma mi aspetto che vengano rispettate. Tutte. Sei sotto la mia responsabilità, quindi non ammetto repliche al riguardo. Ogni qualvolta vorrai uscire dovrò essere informato almeno un paio d’ore prima, e dovrai sempre essere accompagnata da Bill. Il coprifuoco è alle undici, non ammetto ritardi. Inoltre il quarto piano del maniero è pericolante, necessita di lavori per essere messo in sicurezza, quindi ti proibisco l’accesso a quella zona. È tutto chiaro?»

 

Lilith era tentata di ridergli in faccia. Faceva sul serio? Era diventato il suo carceriere tutto d’un tratto?

Ma non aveva né la voglia né la forza di combatterlo. Non questa volta.

 

«Cristallino.»

 

Il resto delle portate furono consumate in religioso silenzio. Lilith ne fu grata, quell’uomo la metteva profondamente a disagio, si sentiva osservata anche nei più piccoli atteggiamenti, anche se lui cercava in tutti i modi di simulare disinteresse. Lilith però era sempre stata una ragazza sveglia e di buon occhio, sapeva notare quel genere di attenzioni.

 

Consumata la cena Arthur Honeycutt si alzò e le fece cenno di seguirlo senza parlare. Percorsero un corridoio riccamente arredato fino a una nuova sala, più ampia di quella riservata ai pasti perché si sviluppava in larghezza. Vi era un camino massiccio e diversi divani, in raso color salmone, e diverse librerie piene zeppe di libri.

 

Nel centro della camera vi era un gruppetto di persone disposte ordinatamente in fila. Lilith riconobbe subito Charlotte e Bill. Il primo aveva cambiato abiti e adesso indossava una divisa più modesta, adatta ai lavori manuali, mentre Charlotte indossava lo stesso abito nero lungo fin oltre le ginocchia su cui era tenuto un grembiule candido, esattamente come la giovane donna accanto a lei.

Doveva avere almeno una quarantina d’anni, se non di più, ma era ancora una bella donna e nonostante l’età i capelli continuavano ad essere biondi e lucenti.

 

«Questo è l’intero personale che lavora a Goldentree Hall. Intendo presentarteli in modo che tu non ti senta a disagio vedendoli muoversi per la casa e impari a considerarli come parte dell’arredamento di questa casa.»

 

Persone considerate come semplici mobili.

Il solo pensiero disgustò Lilith a tal punto da non riuscire più a guardare in direzione di Honeycutt. Come poteva dire una cosa del genere?

 

«Hai già conosciuto Bill, ovviamente. Lui è il nostro autista, come ti ho detto, ma si occupa anche dell’impianto elettrico, aiuta con i giardini e be’, fa tutto quello di cui c’è bisogno. Poi c’è James, che è qui da trent’anni, ormai. Lui è il giardiniere e si occupa principalmente dei terreni anteriori al Maniero. Vivono entrambi in una dependance a poca distanza dai giardini. Non ti disturberanno.»

 

L’uomo anziano si pulì le mani sulla stoffa della vecchia salopette che indossava, poi fece un piccolo passo in avanti seguito da una specie di goffo inchino. 

Profonde rughe gli solcavano gli occhi e i lati della bocca e i suoi modi erano appesantiti dalla fatica.

 

«Benvenuta, Signorina Burke.»

 

«Poi ancora Charlotte. Hai già conosciuto anche lei. È principalmente la cuoca, ma aiuta anche come cameriera. Per finire, Romy. È la più giovane. Lavora come cameriera e si occuperà lei di te. Nel caso ti servisse qualcosa ti potrai sempre rivolgere a Romy. L’ho fatta sistemare nella camera accanto alla tua, per ogni evenienza.»

 

Romy era di una bellezza disarmante. Con la sua pelle abbronzata, le giuste forme, gli occhi neri e penetranti, i capelli lunghissimi e castani... avrebbe lasciato chiunque senza parole.

In viso portava un sorriso cortese ma distante, di cortesia, e nonostante la divisa da cameriera emanava un’aura di distinta eleganza.

 

«Bene, potete lasciarci adesso. Romy, porta Lilith nelle sua stanza. Sarà stanca dopo il viaggio.»

 

Lilith li vide rompere le righe come soldati disciplinati. Uscirono dalla stanza solo quando Honeycutt si fu allontanato. Bill invece solo dopo che Lilith gli rivolse un ultimo sguardo.

Aveva gli occhi grigi, se ne accorse solo in quel momento.

 

«Signorina Burke, andiamo.»

 

Lilith le sorrise appena, esausta.

 

«Chiamami Lilith.»

 

Percorsero una lunga scalinata a chiocciola fino ad arrivare al secondo piano. Di fronte a loro vi era un lungo corridoio percorso da numerose porte chiuse e illuminato da pregiate lampade a muro in broccato veneziano. 

Sulla parete cieca, in fondo alle porte, era appeso un enorme dipinto. 

Raffigurava una giovane donna bellissima, bionda, e vestita in modo raffinato seppur moderno. Una figura quasi celestiale.

 

«È Noëlle Honeycutt, la padrona di casa. La moglie del Signor Honeycutt. Ormai è deceduta da più di quindici anni... È bellissima, non è vero?»

 

Spiegò Romy, notando l’interesse di Lilith. 

Non attese risposte.

Camminò a passo spedito fino all’ottava porta a sinistra. Infilò la chiave nella toppa e fece scattare la serratura.

 

«Ecco qui, siamo arrivate. La camera da letto comunica con un bagno indipendente, inoltre potrete utilizzare il balcone ogni qualvolta vorrete. Io sarò nella stanza di fronte alla vostra, nel caso avrete bisogno di me.»

 

Lilith entrò nella sua camera a passo pesante, ma prima che Romy potesse sparire dietro la porta del suo alloggiò la chiamò, impacciata.

 

«Romy! Aspetta un attimo... »

 

La ragazza si voltò all’istante, vigile.

 

«Sì?»

 

Lilith sospirò, poi si mordicchiò appena il labbro inferiore.

 

«Io non considero nessuno di voi come pezzi di arredamento. Non lo farò mai. Ci tenevo a fartelo sapere.»

 

Romy sorrise, per la prima volta in modo sincero.

 

«Buonanotte, Lilith.»

 

E dopo essersi congedata, chiuse la porta alle sue spalle.

 

Una volta entrata Lilith fu nuovamente sommersa dal lusso più sfrenato. Iniziando dal letto a baldacchino con le tende in seta azzurra, alla scrivania intarsiata, fino ai parati e gessi preziosi che decoravano i muri. Nel centro della camera troneggiava un piccolo camino e davanti ad esso vi era sistemato un tavolino di cristallo e un divanetto celeste, mentre di fianco ad esso vi era sistemato un ampio specchio e una libreria. 

L’intera camera era arredata nei toni del bianco e del blu.

 

Lilith notò le valigie sistemate accanto al comò color avorio, ma le ignorò. Avrebbe sistemato le sue cose domani, ora era troppo stanca, troppo frastornata da tutte quelle novità.

 

Si sfilò prima la giacca, poi la gonna scozzese e infine la maglietta nera. Gettò  tutto sul divano fino a che a coprirla rimase solo il completo intimo di pizzo color pesca.

Si guardò allo specchio e quasi non si riconobbe.

 

Era ormai incredibilmente magra, quasi spigolosa. Il seno era poco più che una curva morbida sul petto. L’incarnato era talmente pallido da farla sembrare un fantasma, e i capelli nerissimi e lisci non facevano che accentuare il suo pallore. Gli occhi azzurro ghiaccio si arrossarono, sul punto di bagnarsi di lacrime.

 

Cosa era diventata? L’ombra della ragazza che era stata. Il suo stesso dolore la stava mangiando viva, rendendola fragile e malaticcia.

Ora quel rossetto rosso che aveva indossato per simulare un colorito più salutare le sembrava quasi il trucco di un pagliaccio.

Se lo strofinò via con il palmo della mano, impiastricciandosi la pelle delle guance, ma non le importava.

Non le importava più di nulla.

 

Fu solo allora che notò la rosa rossa poggiata sul comò accanto a lei, accompagnata da un foglietto di carta profumata.

 

“Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, non esitare a chiamarmi.

-Bill”

 

Perché lo faceva? Perché gli importava tanto di lei? Lilith non era abituata a quella gentilezza gratuita, le risultava completamente estranea.

Strinse il pezzo di carta al petto, poi si infilò sotto le coperte leggere.

Voleva solo dormire e spegnere la mente, almeno per qualche ora.

Fingere di trovarsi nella sua cameretta, imprecando sottovoce perché presto la sveglia sarebbe suonata e lei sarebbe dovuta andare a scuola, dimenticando che ormai la scuola era finita e che non ci sarebbe stato nessuno a svegliarla...

 

 

«Sei diversa da come ti avevo immaginata.»

 

Un volto.

C’era un volto oltre la nebbia fitta e gelida.

C’era qualcuno che parlava. Lei poteva avvertire la sua presenza anche se non riusciva a vederlo.

 

Lentamente riuscì a sentirlo avanzare, avvicinarsi a lei a passo lento ma inesorabile.

Sorrideva.

 

«Sei diversa.»

 

Lei voleva parlare, dire qualsiasi cosa, ma era come se qualcuno le avesse strappato le corde vocali. Era come se non fosse in grado di produrre alcun suono.

Poi scoprì di non essere capace di compiere nemmeno il più piccolo movimento.

 

«Hai paura?»

 

Finalmente riuscì a vederlo davvero.

Era una ragazzo, un ragazzo bellissimo. Sembrava un angelo.

Un angelo dai capelli mori legati dietro la nuca pallida e dagli occhi blu, di un blu talmente intenso da sembrare innaturale.

 

«Posso toccarti?»

 

E il suo tono era dolce. Se lei avesse potuto parlare avrebbe detto sì senza nemmeno pensarci.

Lui sorrise piegando le labbra piene e rosee, un lampo di furbizia gli attraversò gli occhi cerulei.

 

«Lo prendo per un sì.»

 

Ma nel momento stesso in cui il ragazzo le sfiorò il viso con le dita i suoi occhi tanto belli cambiarono, diventarono neri e minacciosi, iniziando a piangere lacrime di sangue...

 

 

Lilith si svegliò di colpo, ricoperta di sudore e tremando in modo convulso. Era sembrato tutto così reale...

Eppure a svegliarla non era stato lo spavento provocato da quell’incubo tanto assurdo, ma la musica...

Sì, poteva sentire bene la musica prodotta da un pianoforte suonare dolcemente, seppur ovattata dalla distanza.

 

Non conosceva quella melodia, era la prima volta che la sentiva in vita sua, ma se ne sentiva attratta come un ape con il miele. Si sfilò dal letto e indossò la sua giacca di denim, poi sgusciò fuori dalla sua camera e in tutta fretta, seguendo il ritmo della musica che a mano a mano si faceva più frenetico, scese le scale fino ad arrivare al piano inferiore.

Peccato che prima che potesse superare l’ultimo scalino la musica cessò all’improvviso, e in modo tanto brusco da risultare fastidioso. 

Corse più veloce ancora, ma fu tutto inutile.

 

Lilith trovò davanti a se’ un meraviglioso pianoforte a coda, rosso e illuminato dalla luce della luna che filtrava attraverso le alte vetrate della sala. 

 

«C’è qualcuno?»

 

Lilith si guardò intorno, senza ricevere risposta. Cercò addirittura dietro mobili e tende, senza risultati. 

Non poteva esserselo immaginato, qualcuno era lì! Ed era fuggito non appena l’aveva sentita arrivare!

Ma ormai continuare a cercare era inutile:

Non c’era più nessuno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:

Wow, da quant’è che non pubblicavo qualcosa? Probabilmente da un’eternità, e devo dire che ne sentivo proprio la mancanza! È raro che mi cimenti in storie mistery o sovrannaturali, di solito sono impostata su un tipo di Romance più classico, al massimo di ambientazione storica, ma quando l’ispirazione arriva perché mettere paletti?!

Spero di riuscire a pubblicare almeno un paio di volte a settimana, università permettendo.

Detto questo spero che questo primo capitolo vi abbia incuriosito abbastanza da decidere di seguire la mia storia! Come ho detto non pubblico da molto, e sapere cosa ne pensate di questo prologo mi farebbe molto piacere quindi, forza! Recensite, lasciatemi un vostro pensiero! Io sarò più che felice di rispondervi e anche ringraziarvi nelle note del prossimo capitolo. Qui sotto vi lascio le foto dei volti che ho deciso di dare ai miei personaggi. Sotto ogni capitolo lascerò le foto di tre pg, in modo da farveli conoscere man mano che la storia va avanti!

Un bacio, Nimphadora!

 

 

 

 

 

 

Lilith Burke, 17 (Ann Kuleshova)
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Outfit di Lilith:
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Bill Larsson, 26 (Bill Skarsgård)
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Arthur Martin Honeycutt, 54 (Jude Law) Image and video hosting by TinyPic

  
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