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Autore: Ghostclimber    12/09/2018    5 recensioni
Confusione.
Un dolore alla testa, atroce, come se me l'avessero spaccata in due.
"Volpaccia, non te ne andare, torna qui, devo ancora dimostrarti che sono il migliore!"
Genere: Angst, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Confusione.
Un dolore alla testa, atroce, come se me l'avessero spaccata in due.
Voci dall'ombra: “Commozione cerebrale...”, “Trauma cranico”, “Prognosi riservata”, tutti termini che non riesco a collegare a qualcosa di comprensibile.

 

L'ultima cosa che ricordo è Hanagata che mi placcava da vicino, e il suo gomito che si avvicinava alla mia faccia, poi... buio.
Buio, e una voce: “Kitsune, porcaccia miseria!”, ma non ricordo chi sia il proprietario della voce.
Lentamente scivolo di nuovo nell'oblio.

 

Un sole arancione sta tramontando ad ovest, e i suoi raggi caldi falsano i colori della spiaggia su cui giaccio, immobile.
Odo le onde infrangersi piano sulla sabbia, con un rumore che pare una ridda di sussurri, rubano granelli da sotto le mie caviglie e mi mordono i talloni.
I gabbiani urlano, da qualche parte in questo cielo accecante, e io sprofondo piano piano nella morsa della sabbia bagnata, che sfugge da sotto le mie membra mentre la marea sale, e sale.
Provo a parlare, a chiamare aiuto, non mi posso muovere, il mio corpo non mi appartiene più, ma la mia voce fuoriesce muta dalle mie corde vocali, come se avessi una spugna in bocca.
Uno stridio acuto, una scimmia che balla appena dentro al mio campo visivo, urla e salta, come se stesse cercando di attirare l'attenzione di qualcuno.
Le onde mi lambiscono il collo.
“Sta affondando” dice una voce sconosciuta dalla nuvola che sta correndo qui da est.
Non voglio affondare, provo a dire, aiutami, ma la voce ancora non esce, e l'acqua salata mi entra in bocca. Provo a tossire, ma non riesco a fare nemmeno questo.
Una volpe, silenziosa e regale, mi annusa i capelli, curiosa di capire cosa sia questo strano relitto portato a riva da chissà dove. Infila il muso sotto alla mia nuca e mi solleva. Le sono grato: così potrò morire guardando questo sole arancione.

 

Arancione.
Il sole è arancione come una palla da basket.
Palla da basket.
La scimmia saltella verso di me, sempre lanciando le sue urla stridule, e stringe una palla da basket di fronte al corpo, nella posizione tipica del pivot che si è appena impossessato del rimbalzo.
Rimbalzo.

“Signora...

...mpagno...

...adra...

...akurag...

...me sta?”

Frammenti,
frammenti di parole si infrangono contro di me insieme alle onde.
È fredda, quest'acqua, avverto un dolore acuto e paralizzante alle caviglie, che sono la parte di me che è immersa da più tempo.

“...ppena in tempo...

...alutarl...

...ne sta andan...”

Altri mozziconi di parole, fanno male, come se le onde fossero piene di spine e me le stessero gettando tutte addosso.
Un rumore ritmato, veloce, incalzante, sempre più forte, sempre più forte.
Il sole comincia a ridere.
Una risata sprezzante, da smargiasso, sembra che mi stia dicendo di essere meglio di me, ed è vero: lui sta per immergersi nell'acqua, ma domani si rialzerà dalle montagne come se nulla fosse accaduto.
Io sarò sommerso, ma non sorgerò di nuovo, domani.
Aiuto. Ho bisogno di aiuto.

 

“Volpaccia.”
Una parola completa nel buio che sta crescendo, mentre volge al termine questo crepuscolo chiassoso e colorato, quasi clownesco.
La volpe si accoccola meglio sotto la mia nuca, sento la testa ciondolare verso la spalla, privata dal supporto del suo caldo corpo peloso.
“Volpaccia.”
La scimmia si è fermata, è in silenzio. Stringe ancora la palla da basket tra le mani. Ha l'espressione solenne, per quanto una scimmia possa essere espressiva.
“Volpaccia, ti prego.”
Un Buddha ride, da qualche parte in mezzo al mare, sento la sua risata, ritmica e consolante nella sua monotonia: “Ho. Ho. Ho.”
Le onde muovono il Buddha, lasciando intravedere la zattera su cui è posato, immoto e generoso, stagliato come una roccia contro lo sfondo sempre più blu del cielo.
“Volpaccia, ti prego, non te ne andare.”
La scimmia emette un altro suono, geme, come se fosse in preda ad un'atroce sofferenza. Sposto lo sguardo su di essa, è rannicchiata in posizione fetale e si lamenta, come se l'avessero colpita.
“Rukawa.”, chiama il Buddha, “È tempo. Devi decidere.”
Voglio vivere, ma non posso parlare. Mi prende il panico, ho paura, come faccio a dire quel che ho deciso se non posso parlare?
“Ascolta.”

 

“Continua, ragazzo, sta reagendo.” dice una voce sconosciuta.
“Non so cosa dire” dice una voce che mi è nota. Per qualche motivo mi ricorda il sole che sta tramontando di fronte a me.
“Qualsiasi cosa!” la voce sconosciuta torna a farsi sentire, è fastidiosa, sta dando ordini al sole, ma non è possibile, il sole farà sempre ciò che vuole.
“Ecco... Io...” di nuovo la voce nota. Chi sei, dimmi chi sei, ti prego, parlami e forse potrò trovare la strada.
Poco sopra alla linea fumosa dell'orizzonte si accende, poco a poco, la prima stella della sera, e io le trasmetto il mio desiderio: fallo parlare, fa' che trovi le parole.
La scimmia si alza di scatto e corre verso di me.
Mi salta in testa e comincia a percuotermi, isterica.
“Volpaccia, non te ne andare, torna qui, devo ancora dimostrarti che sono il migliore!” esclama quella voce, che proviene dall'etere e dalla scimmia, e tutto torna.

 

Arancione.
Palla da basket.
Rimbalzi.
Sakuragi Hanamichi.
Arancione come una palla da basket, luminoso come il sole beffardo, che sta terminando di tramontare...
Il Re dei Rimbalzi, tzè.
Fa' rimbalzare anche me, ti prego, fammi rimbalzare fino a tornare a casa...
...da te.

 

Ma il sole non tramonta.
La luce sembra farsi poco a poco più intensa, e i raggi mi scaldano la pelle.
L'acqua si ritrae dalle mie membra, e la stella della sera svanisce in un soffio, come se qualcuno l'avesse coperta con uno spegni candela.
La volpe si stiracchia sotto di me, si sposta come per andarsene, e per mantenere l'equilibrio punto un gomito a terra.
La scimmia smette di percuotermi, e saltella battendo le mani, felice. Fa una capriola nella sabbia.
“Idiota di una scimmia.” dico, e le mie parole hanno finalmente un suono.
La spiaggia svanisce.

 

Una luce lattescente, cruda, mi morde gli occhi.
Non posso aprire le palpebre, ma percepisco i muscoli della mia faccia contrarsi.
Un'ombra si posa, misericordiosa, su di me, e finalmente posso aprire gli occhi.
“Volpaccia.” dice Sakuragi Hanamichi.
“Idiota.” rispondo, con voce roca.
La gola mi fa male.
“Dategli del ghiaccio” dice la voce sconosciuta.
“Faccio io.” s'impone Sakuragi Hanamichi. Che vi dicevo? Il sole non accetta ordini, il sole fa quel che vuole.
Un cubetto di ghiaccio si posa sulle mie labbra riarse. Provo a succhiarlo, e la sensazione è paradisiaca.
“Piano, volpe. Non strozzarti.” la voce calda di Sakuragi Hanamichi fa spostare i miei occhi dalla sua mano al suo viso.
“Ci hai fatto prendere un colpo, volpaccia”
“Nome...” biascico, le labbra premute contro il cubetto di ghiaccio, sempre più piccolo e scivoloso.
“Come?”
“Di'... mio nome.”
“Cos'è, volpe, non te lo ricordi? Sei Rukawa Kaede, il secondo miglior giocatore di basket della prefettura! Il primo, naturalmente, sono io, Sa...”
“Sakuragi Hanamichi.”
So chi sei, vorrei dirti, ma non riesco, non ancora.
Sei il motivo per cui sono tornato.
Sei la ragione per cui il mare non mi ha inghiottito.
Sei l'idiota che pensa di poter rivaleggiare con me.
E lo farai.
Anzi, mi hai già sconfitto.

 

“I parametri vitali sono stabili, e sorprendentemente buoni”

 

Hai superato le mie difese e mi hai afferrato, come afferri i rimbalzi durante le partite, e mi hai portato contro il tuo ventre muscoloso, possessivo, deciso ad impedire che chiunque altro mi rubi dalle tue mani.
Hai parlato nella mia mente, dalla prima volta che ho sentito la tua voce hai parlato nella mia mente.
Hai illuminato di speranza la spiaggia isolata che ho sempre cercato di essere, per non farmi ferire, per non farmi insozzare dalle banalità quotidiane, per poter essere una macchina perfetta.
Mi hai fatto comprendere che non posso essere immoto e immutabile, perché l'acqua lambisce le mie sponde, e gela i granelli di sabbia che mi compongono, e li smuove, li mescola e li confonde, costringendomi a mutare giorno dopo giorno.
Ti guardo da lontano, ti ammiro, amo che tu ti mostri di fronte a me, così luminoso, così possente, così fiero della tua forza.
Amo la tua luce che si stempera nelle acque agitate della tua insicurezza, che mascheri così bene quando sei alto in cielo; ma ti sciogli poi col buio, mescolandoti all'acqua come i granelli di sabbia della mia spiaggia, permettendomi, se guardo bene, di scorgere ciò che c'è dietro.

 

“Posso dichiarare in tutta sicurezza che il ragazzo è fuori pericolo, anche se non mi spiego come sia possibile”

 

Ti amo, vorrei urlartelo, ma la mia gola è ancora arida, nonostante i cubetti di ghiaccio che mia madre (quando le hai lasciato il posto?) continua a somministrarmi con pazienza e devozione.

 

“È un miracolo.”

 

Mi sorridi, un sorriso timido, a metà, che non arriva agli occhi, ancora cupi e un po' arrossati. Vorrei rispondere al tuo sorriso, ma sono stanco.
Ho fatto fatica a tornare qui.
Seguire il sole non è un'impresa da poco.
Mi resta solo l'energia per fare un'ultima cosa, prima di riposare un po'.
Alzo la mano e fermo il polso di mia madre, che mi scosta piano il ghiaccio dalle labbra.
“Kaede, gioia, hai bisogno di qualcosa?” mi chiede la sua voce soave.
Annuisco.
Ti guardo, sei già pronto a scattare, sembri pronto per correre fino in Svezia e ritorno in caso avessi bisogno di mangiare un rotolino alla cannella.

 

Non preoccuparti, ti chiederò molto di meno.
E molto di più.


“Hanamichi.”
“Dimmi.”
“Domani torni?”
I tuoi occhi si sgranano in un'espressione di stupore.
Li fisso nei miei, cercando di trasmetterti quello che non so dire: sì, sei tu l'unico che voglio al fianco, proprio tu, mister Cinquanta Rifiuti, e ti voglio al fianco domani, dopodomani, il giorno dopo, ogni lunedì di merda e ogni noiosa domenica di pioggia della mia vita, ogni banale martedì, ogni mercoledì in cui non sai se è più lunga la settimana o più vicino il weekend, ogni giovedì che ce l'ha quasi fatta, ogni venerdì di sollievo, ogni sabato di basket e di giri al parco e di gelati e di cioccolata calda e di amore.
“Certo.”


Alzo una mano, pesa una tonnellata.
La prendi, piano, e la soppesi nella tua. Con delicatezza me la appoggi sul petto, e finalmente sento che sto sorridendo.
Niente di esagerato, è chiaro, ma sto sorridendo, perché sei qui ora, perché sarai qui domani.
Forse lo dico o forse lo penso soltanto, prima di scivolare nel lento oblio di un sonno ristoratore: “Ti amo.”
Chiudo gli occhi sul tuo sguardo stupito, e sul lieve cenno del tuo capo, come a dire che hai capito, che vedremo come venire a capo della questione.
Chiudo gli occhi sulla tua espressione decisa, e fiera, e felice, la stessa che hai in campo quando stai per mettere a segno uno dei tuoi dunk pazzeschi, e mi rigiro quelle due parole nella mente.
Chissà se le ho dette o soltanto pensate.
Credo di averle dette.
“A domani.” è la tua voce calda a dare l'ultima spinta al dondolìo delle onde del mare, che ora mi cullano invece di affogarmi.
Sento il tocco delicato delle tue labbra sul mio zigomo, e non vedo l'ora che sia domani.

 

 
   
 
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