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Autore: T612    13/09/2018    2 recensioni
Dal testo:
L’aveva capito solo in quel momento il vero significato dell’acciaio nella spina dorsale. Non è mai stata un’ostentazione di forza, è sempre stata una dimostrazione d’ingegno.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Tony Stark/Iron Man
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Stark's'
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We are each our own devil, and we make this world our hell.
-Oscar Wilde
 
 
 
Osserva le sue dita mentre aspetta di vederle tramutarsi in cenere, ceneri che si disperderanno in mezzo alla sabbia rossa di Titano, mentre trema con gli occhi lucidi e aspetta… aspetta…
 
“È meglio essere temuti o rispettati? Io dico, è troppo chiedere entrambe le cose? […] Dicono che la migliore arma è quella che non bisogna usare mai, con rispetto, io non concordo. Io preferisco l’arma che si deve usare solo una volta, è così che faceva mio padre, è così che fa l’America e finora ha funzionato piuttosto bene.”
 

È sempre stata una dimostrazione di forza. Dimostrare al mondo intero che Tony Stark è abbastanza forte per superare la morte dei genitori, per reggere gli scandali, per sostenere la reputazione che si è creato, per accrescere il suo ego, per dimostrarsi migliore di quello che è.
Era stata una delle primissime lezioni che aveva imparato da Howard, l’avere “l’acciaio nella spina dorsale”.
Quando suo padre era morto aveva messo in pratica tutto ciò che gli aveva insegnato, si era messo a capo delle Stark Industries ed aveva ideato, progettato e costruito ogni diavoleria che partoriva il suo cervello… aveva fatto pagare fior di quattrini le sue invenzioni, come se la quantità di soldi sborsata dovesse equiparare ogni volta il raggio di distruzione della bomba.
Bombe, missili, ordigni… il suo messaggio di pace controverso per un mondo in guerra.
Era così che suo padre l’aveva istruito, dimostrando il suo “acciaio nella spina dorsale” che Howard tanto amava, prendendo posizione per avere l’America ai suoi piedi… e fino a quel momento aveva funzionato piuttosto bene.
 
“Quello che ha appena visto… quello è il suo retaggio Stark, il lavoro di una vita nelle mani di quei criminali. Così vuole uscire di scena? Questa è l’ultima sfida, l’ultima provocazione del grande Tony Stark? Oppure pensa di fare qualcosa?”
“Perché dovrei intervenire? Uccideranno me, lei… e se non lo faranno sarò comunque morto tra una settimana”
 

L’universo voleva sbeffeggiarlo, non c’era altra spiegazione. In fin di vita per colpa delle armi che ha progettato lui stesso, la promessa di salvezza per una briciola del suo ingegno… sarebbe morto comunque e, in entrambi i casi, l’unica persona da incolpare era sé stesso.
Il suo primo istinto era stato quello di addossare la colpa a qualcun altro, suo padre si prestava bene a quel compito ma non c’era più da quasi vent’anni, ormai l’unico artefice del suo operato era sé stesso. Questa volta Howard non era la causa delle sue grane, anzi, era la sua fonte di salvezza.
L’aveva capito solo in quel momento il vero significato dell’acciaio nella spina dorsale. Non è mai stata un’ostentazione di forza, è sempre stata una dimostrazione d’ingegno.
 
“Ho visto i filmati, l’unica cosa per cui combatti è te stesso. Non sei il tipo votato al sacrificio, che si stende sul filo spinato perché gli altri lo scavalchino.”
“Io il filo spinato lo taglierei.”

 
È quello che riportavano i giornali, era quello che lui permetteva alle telecamere di riprendere: l’uomo che non deve chiedere nulla, che ha tutto sotto controllo, che parla di conseguenze paragonandole a variabili impazzite.
Tutto ciò che succede può essere controllato e valutato attraverso parametri etici, morali, matematici, legali. Viene indagato l’effetto ma si ignora la causa, celata nello sguardo protetto dagli occhiali da sole.
Come poteva Tony Stark, il mercante di morte, il genio visionario, il volto sulla copertina di playboy, spiegare alle orde di giornalisti inferociti che lui si immola alla pubblica gogna costantemente e non per sua volontà?
Ogni suo più piccolo errore veniva giudicato, ogni scandalo, ogni microscopico segno di cedimento veniva valutato dalla mattina del 17 dicembre 1991. L’avevano buttato giù dal letto i giornalisti, ponendogli domande a cui non sapeva e non voleva dare risposta… aveva scoperto dai reporter che i suoi genitori erano morti, Obadiah e zia Peggy non erano riusciti ad avvisarlo in tempo e con un po’ più di tatto, prima che quegli avvoltoi prendessero d’assalto la villa.
Da quel momento in poi aveva avuto un obbiettivo fotografico sempre puntato contro… il geniale figlio di Howard Stark era degno della grandezza del padre? Il padre aveva aiutato a combattere i nazisti, aveva dato uno scudo a Captain America, aveva lavorato al progetto Manhattan, era un pioniere nella ricerca e nel mercato d’armi, un titano, un colosso del ventesimo secolo… e il figlio?
Howard Stark non ha mai commesso errori, Anthony Stark causa una catastrofe dopo l’altra.
Non ha ereditato solamente le chiavi dell’impero Stark, ha ereditato il carisma, l’ingegno, il modo di fare… compresa la gestione delle situazioni critiche.
La differenza sostanziale era che gli errori di Howard riuscivano a restare dentro le mura domestiche, gli errori di Tony finivano in mondovisione nel giro di due secondi.
 
“Non so come ti procuri le informazioni ma lui non era un mio grande fan.”
“Che ricordo hai di tuo padre, eh?”
“Era freddo, era calcolatore, non mi ha mai detto ti voglio bene, non mi ha mai detto che mi stimava quindi per me non è facile digerire che lui abbia detto ad altri che il futuro dipende da me.”

 
Solo negli ultimi anni era riuscito a capire suo padre. I suoi dubbi, l’incomprensione globale di un genio proiettato vent’anni avanti, limitato ad un tempo che non riusciva a stare al suo passo.
L’aveva capito tardi che il lavoro di una vita era stato pensato, progettato ed edificato come un’enorme trampolino di lancio per lui… non aveva lasciato istruzioni apposta per spronarlo a cercarle e capirle, ma aveva allegato al pacchetto anche un paracadute d’emergenza.
Suo padre lo conosceva, Tony non poteva dire la stessa cosa di Howard.
Aveva scoperto da Fury che suo padre aveva fondato lo SHIELD… negli anni aveva capito che quest’ultimo aveva imparato da Howard a compartimentare le informazioni, a creare segreti ai segreti, cercando di emulare il cubo di Rubik ideato da Stark Senior.
Fury era stato addestrato egregiamente nel confondere le acque, nel trasportare la gestione caotica della vita di Howard all’interno delle SSR e successivamente dello SHIELD, per poi lasciare zia Peggy a rimettere tutto in ordine. Aveva imparato a ingarbugliare la matassa, ma una volta che i fili si erano annodati intorno al suo collo non era più riuscito a sbrogliarla, il Capitano aveva dato il colpo di grazia e Romanoff aveva alzato un polverone sotto giuramento spianandogli la strada a lui e Hill.
Erano serviti i suoi soldi, il suo carisma e il suo bel faccino per non far affondare il progetto Avengers insieme allo SHIELD.
Howard aveva lasciato la chiave d’interpretazione per risolvere l’enigma al figlio che in mezzo a quel caos era stato cresciuto e istruito. Già da New York Fury era andato su tutte le furie quando era riuscito a decriptare tutti i file appena aveva messo piede sull’Helicarrier, quando aveva visto decine e decine di file secretati scorrere sui server del laboratorio che gli aveva messo a disposizione.
Aveva capito di tenere una bomba ad orologeria tra le mani, un genio incompreso dal suo tempo nella sua visione del mondo, nonostante il mondo gli corresse dietro per stare al suo passo.
Tale padre, tale figlio… tempi diversi, stesse scarpe.
 
“Stark è un biglietto di sola andata”
 
Non ci aveva pensato due volte a lanciarsi nello spazio, non ci aveva pensato due volte a sacrificarsi per salvare New York… alla fine si era steso metaforicamente sopra il filo spinato.
Da bambino si sdraiava sul prato ad osservare le stelle desiderando di diventare un astronauta, crescendo aveva scoperto che lo entusiasmava di più capire come funzionavano le macchine… i motori avevano battuto le stelle.
Dopo New York, se alzava lo sguardo al cielo, le stelle gli facevano paura. Le aveva viste da vicino, luminose e fredde, in mezzo allo spazio vuoto. Le aveva viste con la sua armatura, i propulsori andati, in silenzio radio, l’aria irrespirabile… solo.
Solo, mentre l’onda d’urto di una bomba lo catapultava giù dal cielo.
 
“Vivi esperienze al limite… e poi tutto finisce senza una spiegazione? Alieni, dei, altre dimensioni… sono solo un uomo di latta. L’unico motivo per cui non ho avuto un crollo è perché ti sei trasferita da me. È fantastico, ti amo, sono fortunato… ma tesoro, non riesco più a dormire. Tu vai a letto e io vengo qui a fare quello che so fare… armeggio. Il pericolo è imminente e devo proteggere l’unica cosa senza la quale non vivrei. Sei tu.”
 
“Tu sei un uomo che ha tutto e niente”

 
A cosa serviva navigare nell’oro?
Non era il tipico stereotipo del supereroe, non rientrava nei parametri già dal progetto Avengers, ma dopo New York veniva osannato come tale. Era stato facile mettere a disposizione i soldi.
Fin da piccolo era cresciuto avendo come esempio Howard. Per suo padre bastava muovere un dito, o dire mezza parola al telefono, che si ritrovava automaticamente l’intero mondo ai suoi piedi. Aveva imparato fin da subito che tutto aveva un costo, che per lui le porte non sarebbero mai rimaste chiuse… bastava avere i soldi, il carisma, una buona dose di faccia tosta e un vago talento nel mentire.
Si era reso conto a suo discapito che i soldi non creavano la vera felicità, a Natale poteva ricevere il più bel regalo del mondo, ma Howard non si sarebbe mai inginocchiato di fronte all’albero addobbato per scartarli con lui… tutti i soldi del mondo non avrebbero mai sostituito tutti quei momenti mancati.
Nella vita che si era ritrovato a vivere era partito con un vantaggio notevole, aveva tutti i mezzi per attuare il cambiamento, i fotografi e le telecamere che lo seguivano sempre erano un megafono potentissimo che si ripercuoteva sull’intero mondo… era la parte scomoda dell’essere figlio di suo padre.
La reputazione degli Stark era un fardello pesante da portare, era una condanna più che una benedizione.
Però aveva il mondo ai suoi piedi… e poi aveva Pepper.
C’erano voluti anni perché capisse cos’era quel vuoto che provava, c’era voluto altrettanto tempo perché riuscisse a trovare il coraggio per dar voce ai suoi sentimenti… quelli erano complessi, mutevoli, completamente diversi dai dati schematici di una macchina.
Fin da quando era un poppante i suoi genitori l’avevano affidato a Jarvis, c’era sempre stato il suo maggiordomo ad occuparsi di lui, quando era venuto a mancare aveva programmato appositamente J.A.R.V.I.S. perché intuisse i suoi bisogni prima ancora che lui li richiedesse.
Con Pepper era diverso, lei era la persona che aveva cercato tutta la vita senza sapere di averne bisogno.
Aveva sbattuto la testa contro così tanti muri nel tentativo di chiarire la situazione nella sua mente, quando l’unica cosa da capire era che per metterle un anello al dito non ci sarebbero dovuti volere dieci anni, perché il pericolo è imminente e la vita è troppo breve.
 
“Io ieri sera ho sognato che avevamo un bambino, era molto reale. Aveva il nome di quel tuo zio eccentrico, com’era il nome? Morgan!”
“Certo… così ti sei svegliato e hai pensato che noi…”
“Aspettavamo. Si.”
“Già… no.”
“L’ho sognato ma era molto reale.”
“Se tu avessi voluto un bambino, non avresti creato questo.”
“Sono contento che ne parli perché non è niente, è solo un alloggio per nano particelle.”
“Ti stai dando la zappa sui piedi, okay? Non ne hai bisogno.”
“Mi sono operato! Cerco di proteggere noi… e dei futuri noi, tutto qui, nel caso ci sia un mostro nell’armadio invece delle...”
“Camicie.”

 
Nel suo sogno si guardava allo specchio e vedeva Howard. C’era la voce di Pepper che lo chiamava, riecheggiava nei corridoi della villa di Malibu e quando la raggiungeva nel suo laboratorio, vedeva la sua versione in miniatura armata di chiave inglese e ricoperta d’olio per motori, mentre Pepper sgridava entrambi di sporcare ovunque in giro per casa. Era così reale.
Si era svegliato con la convinzione di avere una culla ai piedi del letto, era rimasto deluso nel scoprire che si trattava solamente di un sogno. Aveva passato l’intera mattinata a chiedersi se lui fosse in grado di comportarsi da padre, se era destinato a seguire le orme di Howard nell’esperimento fallimentare che era stato il loro rapporto padre-figlio, o se lui riuscisse a mettere da parte un po’ di amor proprio per riversarlo nei confronti della sua prole.
Suo figlio… la grazia e la spigliatezza di Pepper, la sua curiosità e il suo ingegno, mescolati in un piccolo concentrato di vitalità e gioia di vivere tipica dei bambini… come Parker.
Parker, il ragazzino, il suo pupillo… il quindicenne che si ostinava a non chiamare per nome perché sapeva che si sarebbe affezionato irreparabilmente. Il ragazzino che lo bersagliava di messaggi facendo trillare il suo cellulare costantemente causando un esaurimento nervoso a Pepper, che immancabilmente lo pregava di concedergli un minimo di soddisfazione, un complimento, un minimo di interesse. Lo pregava perché si congratulasse per la A nel compito di fisica, perché gli ricordasse che farsi pagare in churros non era una pratica redditizia, o semplicemente lo rimproverasse perché avanti di quel passo avrebbe fatto finire in bancarotta May a forza di farsi ricomprare lo zaino… ma non gli rispondeva mai.
Se iniziava ad interessarsi al ragazzino si sarebbe affezionato, era terrorizzato dal fatto che Peter potesse vederlo come la figura paterna che mancava nella sua vita… non sapeva gestire un adolescente, figurarsi un neonato, stava già riscontrando serie problematiche anche nell’adempiere alla figura di mentore.
Ma era troppo tardi perché se non voleva diventare il mentore di qualcuno non doveva trascinare un quindicenne del Queens a Berlino, era troppo tardi perché se voleva diventare seriamente padre non doveva impiantarsi nel petto un alloggio per nano particelle.
 
“Happy ci concedi un minuto? Vai a prendere la valigia di Peter.”
“Posso tendere il costume?”
“Si è di questo che parlavamo, però me lo fai un favore? Happy è il tuo uomo chiave, non devi assolutamente stressarlo, non fare stupidaggini, ha un brutto retro cardiogramma. Va bene?”
“Si.”
“Non fare cose che io farei, e soprattutto, non fare cose che io non farei… c’è una piccola zona d’ombra in mezzo ed è lì che tu operi.”
“Vuol dire che sono un Avenger?”
“No.”

 
Nel viaggio di ritorno si era concentrato su Peter, in parte perché sapeva che c’era Happy al volante, in parte perché il ragazzino sovreccitato ed emotivamente stressato andava tranquillizzato se non voleva ritrovarsi una zia May particolarmente arrabbiata.
Happy che adempieva egregiamente ai suoi doveri di autista, nonostante lo avesse promosso di grado e non avesse mai ricoperto quel ruolo in vent’anni di contratto di lavoro.
Le mani sul volante dovevano essere le proprie, era una sicurezza personale per non schiantarsi contro un albero sulla strada per il Pentagono, ma era diventata una necessità primaria dopo l’Afghanistan. Anche in quel momento gli prudevano le mani ogni volta che Happy inchiodava o sbagliava strada… ma era più importante tranquillizzare un quindicenne che si era ritrovato in una situazione più grande di lui e non poteva farlo con le mani sul volante.
Gli era sembrata una buona idea premiarlo per il suo impegno, concedendogli il suo tempo, oltre che ad un abbraccio mancato e la tuta high tech… una cosa che Howard non aveva mai tentato di fare nei suoi confronti, voleva essere migliore di suo padre.
Ma aveva capito che il suo era stato un errore lasciarlo solo e allo sbaraglio… come poteva pretendere che fosse migliore di lui se negli ultimi dieci anni i televisori avevano riportato solo il lato migliore dell’essere un supereroe?
Pensava di essere stato chiaro mentre lo riportava a casa dall’aeroporto, ma gli Stark parlano una lingua a parte, la “zona d’ombra” che aveva descritto voleva dire tutto e niente. Non poteva biasimarlo se aveva frainteso, non poteva capire cosa significasse avere il peso del mondo sulle sue giovani spalle e non saperlo gestire… lui non c’era riuscito quando era riemerso dalla grotta in Afghanistan.
Con il senno di poi, semplicemente, si era reso conto che Peter Parker non era per niente come lui.
 
“Lo sai che ero l’unico che credeva in te? Tutti gli altri mi dicevano che ero un pazzo a voler reclutare un quattordicenne…”
“Quindicenne.”
“No ora ti cuci la bocca! Va bene? Adesso parla l’adulto. Se fosse morto qualcuno? Tutt’altra storia, No? Sarebbe stata colpa tua. E se fossi morto tu… mi sarei sentito in colpa io. Non voglio avere rimorsi.”
“Si signore… mi scusi… mi dispiace…”
“Le scuse non servono…”
“… Volevo essere come lei.”
“… e io volevo che tu fossi migliore. Okay, non funziona, devi restituirmi il costume.”
“Per quanto tempo?”
“Per sempre. Si è così che funziona, ridammelo.”
“No la prego no, Signor Stark non capisce, è tutto quello che ho… sono niente senza il costume.”
“Se sei niente senza il costume non dovresti averlo, okay? Mh… parlo come mio padre.”
 

Quando il bimbo ragno era riuscito a farlo uscire dai gangheri era ricorso ai ripari attuando il “Metodo Howard”, l’unico modello collaudato che conosceva. Ogni volta che lui toccava le chiavi inglesi senza permesso, entrava nel suo studio e spostava qualcosa da quell’ordine disorganizzato o interrompeva suo padre mentre stava lavorando si vedeva sbattere una porta in faccia, Howard lo rispediva da sua madre mentre si versava un bicchiere di scotch, rigorosamente dopo una strigliata con i fiocchi e il sequestro del giocattolo del momento… gli era sembrato abbastanza naturale comportarsi allo stesso modo.
Si era reso conto dell’errore madornale quando Happy gli aveva telefonato nel cuore della notte spiegandogli cosa aveva trovato sulla spiaggia di Coney Island… Parker aveva modo di comprendere i suoi errori e di porvi rimedio, il piccolo Tony di cinque anni non capiva il perché suo padre si arrabbiasse tanto quando toccava le chiavi inglesi che quest’ultimo gli aveva messo in mano per tenerlo buono. Tutta la sua adolescenza l’aveva passata rinchiuso in un collegio, intravedeva suo padre durante le vacanze che quest’ultimo trascorreva al Pentagono, per poi scappare di casa e andare a rifugiarsi da zia Peggy dall’altra parte del mondo… non aveva un modello standard da seguire, aveva dovuto improvvisare quando era arrivato il momento di ammettere le sue colpe di adulto.
Aveva fatto in modo che l’ammissione di colpa venisse oscurata dal nuovo costume per il bimbo ragno, oltre al mitigare il tutto con un punto della situazione al retrogusto di predica, per poi fargli recapitare in un sacchetto di carta la tuta che aveva sequestrato. Fare qualcosa di semplice era fuori discussione, tipo una diatriba davanti a un cheeseburger da Burger King, doveva per forza complicare tutto.
Alla fine il tentativo di reclutare Spiderman all’interno del Progetto Avengers era andato in fumo, in compenso aveva avuto la prova che il ragazzino era molto più responsabile di lui.
Quando aveva spiegato il concetto “zona d’ombra” di ritorno dall’aeroporto pensava di essere stato chiaro, ma come al solito gli Stark comunicano con una lingua a parte … Peter aveva interpretato i grandi poteri di cui parlava Tony come un derivato di grandi responsabilità.
In realtà la “zona d’ombra” era una confort-zone, perché da grandi poteri derivano una tonnellata di stranezze che non si è mai pronti ad affrontare.
 
“Signor Stark… non mi sento molto bene.”
 

No. Non era vero. Non poteva essere vero… era solo un altro sogno molto reale. L’ennesima allucinazione, l’ennesimo incubo ad occhi aperti, l’ennesimo attacco di panico.
Osserva le sue dita aspettando di vederle tramutarsi in cenere, ceneri che si disperderanno in mezzo alla sabbia rossa di Titano, mentre trema con gli occhi lucidi e aspetta… aspetta… ma non accade.
-L’ha fatto.
L’aliena blu osserva desolata le ceneri della sua famiglia adottiva, annientata e fredda come l’universo che contempla. Si lascia cadere al suo fianco, lo afferra per una spalla cercando di trasmettergli un po’ di conforto, ma l’unica cosa che avverte Tony è la pressione delle dita metalliche.
Era la resa dei conti, erano sei anni che tentava di prepararsi al peggio… lo temeva, aveva provato ad evitare quel momento, aveva dato anima e corpo per proteggere il mondo dai suoi incubi.
Era destino che il grande Tony Stark raggiungesse le stelle, non pensava che dopo aver avuto l’infelice occasione di ammirarle, la vita gli aveva presentato un secondo viaggio di esplorazione delle stesse.
Il dejavu gli dà la nausea mentre ripensa ai rimproveri di Pepper… le aveva promesso che non ci sarebbero più stati imprevisti. Combatte la nausea mentre imita l’aliena blu che gli offre un barattolo vuoto, iniziando a raschiare il terreno rosso con le unghie rotte, raccogliendo ciò che rimane di Parker… ciò che rimane di Peter.
 
“Che cosa ne pensa dell’altro suo soprannome? Il mercante di morte.”
 
“Tolta l’armatura che cosa sei?”
 
“Io sono quello che ha ucciso gli Avengers. L’ho visto. Non l’ho detto… come potevo. Li ho visti tutti morti, l’ho percepito… il mondo intero, per causa mia.”
“Molte delle tue invenzioni sono state sbalorditive Tony, la guerra non era una di queste.”
“Ho visto i miei amici morire, si potrebbe dire che non c’è niente di peggio… no, non era la parte peggiore.”
“La parte peggiore è che tu non sei morto.”

 
Il suo tormento più grande, il suo incubo ricorrente, la sua più assillante paura si era concretizzata davanti ai suoi occhi. La parte più dolorosa non era la visione di quei barattoli pieni di cenere mescolata con la sabbia rosso sangue… la parte più dolorosa era il suo cervello che continuava a riproporre le parole di Thanos.
Non era l’unico tormentato dalla Conoscenza, aveva cercato disperatamente una soluzione e il titano pazzo si era congratulato per la sua dedizione… gli augurava che tra i vivi ci fosse ancora qualcuno che pensasse a lui come un eroe e non come l’uomo che non ha fatto abbastanza per fermare l’apocalisse.
 
“Stavamo facendo una ricerca…”
“Che avrebbe riguardato la squadra.”
“Messo fine alla squadra… non è questa la missione? Non è il motivo per cui combattiamo? Per non combattere più e per poter tornare a casa?”
 

Casa. Una bella favola lontana galassie dal punto in cui si trovava in quel momento.
Più osservava il barattolo pieno di cenere e più la sua mente masochista verteva verso l’unico pensiero che non osava formulare… c’era ancora qualcuno ad aspettarlo a casa?
Seduto in quel terreno rosso non aveva modo di scoprirlo, fino a quando non avesse varcato la soglia del Complesso poteva illudersi che il mondo non fosse andato completamente a catafascio, doveva semplicemente convincere le sue gambe a non tremare per mettersi in piedi e salire sulla navicella dell’aliena blu.
C’era una possibilità su miliardi di miliardi che da quella situazione ne sarebbero usciti vincitori.
Se non era morto per delle schegge che puntavano al suo cuore, per una intossicazione da metalli pesanti e per un volo dallo spazio verso il suolo terrestre poteva sopravvivere anche a quello… poteva affrontare May, poteva pregare il perdono di Pepper, poteva trovare il modo per riavvolgere la pellicola e tornare indietro.
Non era più un’ostentazione di forza, era puramente una questione d’ingegno e in quel campo Anthony Stark vinceva a man bassa. Gli Stark sono sempre vent’anni avanti mentre il mondo cerca di stare al loro passo per non rimanere indietro.
 
“Un giorno tu risolverai questo rompicapo e, quando lo farai, potrai cambiare il mondo. Quello che ora è, e resterà sempre, la mia più grande creazione… sei tu.”
 

Per tutta la vita aveva rincorso suo padre: da bambino quando lo inseguiva con la cassetta degli attrezzi, da adolescente quando lo guardava partire per lavoro lasciandolo solo, da adulto nel tentativo di trovare un’invenzione geniale.
Era diventato il suo obbiettivo, il suo scopo nella vita.
Negli anni a venire, nei libri di storia, non voleva che tutti lo ricordassero come il figlio di Howard Stark.
Il lavoro di una vita puntava al fatto che nei libri di storia riuscisse ad eclissare suo padre, con il tempo aveva capito che ciò che contava sul serio non era il lato scientifico della scoperta ma il lato umano.
Una volta Jarvis l’aveva beccato in lacrime dopo l’ennesima strigliata, gli aveva consigliato di non prendersela, che il rapporto padre-figlio è particolare e difficile da manovrare da entrambe le parti, ma che alla fine il tempo guarisce tutte le ferite.
All’epoca aveva ingigantito tutta la faccenda e purtroppo non aveva avuto abbastanza tempo perché tutte le ferite si cicatrizzassero, nessuno a ventun'anni conosce veramente i propri genitori.
Ma poi in mezzo alla caccia al tesoro di Howard aveva trovato quel filmato ed era arrivato al capolinea, aveva raggiunto suo padre e l’aveva superato. Le orme di Howard si erano esaurite, da quel momento in poi ci sarebbero stati altri che avrebbero seguito le sue di impronte… persone come Peter.
Anthony Stark, dopo tutti quegli anni, aveva perdonato quasi tutto a suo padre perché ritrovandosi nelle sue scarpe aveva capito che non esiste un manuale per essere bravi genitori, che in realtà è tutta una questione di improvvisazione.
Era stato strano riscoprire dopo tutti quegli anni che il padre, burbero e costantemente insoddisfatto, riponesse così tante speranze su di lui… era stato strano sentirsi dire che lui era la chiave per il futuro.
-Se solo potessi vedermi ora papà… credevo di aver fatto un buon lavoro.
Le sue parole si disperdono nel vuoto, ancora indeciso se alzarsi in piedi o meno, le lacrime sul volto mentre contempla l’universo e il suo futuro incerto.
Le stelle non sono mai state così spaventose.
 
 
 
Commento dalla regia:
 
Ciò che avete appena letto non era in programma, è stato l’incontro fortunato tra una “sfida” con _Lightning_ (considera questa one-shot una dedica) e i miei pensieri che hanno preso la tangente… inizialmente voleva essere un pretesto per rinvangare il magone post-Infinity War, poi la storia si è sviluppata da sé in qualcosa di molto più ampio.
Tutte le opinioni/critiche/commenti sono ben accetti!
_T
   
 
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