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Autore: Manuel Lanhart    29/04/2005    6 recensioni
Una dignità mai piegata, in un mondo di ricordi indistruttibile
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Edaryn Questa è la mia storia e nessuno potrebbe essere più triste nel raccontarla. Del resto, non ho molto da dire, solo quello che i ricordi consentono.
A volte mi ritrovo a desiderare che i pensieri si confondano, che cessino di ripercorrere giorno dopo giorno lo stesso tragitto di dolore. E d’incontenibile malinconia. Ma rammentare è una delle tante sfaccettature della pena che devo scontare.
Mi chiamo Edaryn, della lontana contrada di Fyleam, e affido al vento insensibile i miei lamenti. Sono rinchiusa in questa torre da molti mesi ormai, e di anime vive che si aggirino in questi luoghi sventurati finora non ne ho viste. La solitudine è la mia unica compagna, da quando mi portarono via dal reame, e i soliti sentimenti che conosco…ve li ho già presentati, come una madre mostrerebbe raggiante il figlio appena nato.
Ora passeggio lungo i corridoi di questa alta costruzione e guardo le pianure che si estendono sino all’orizzonte. Non posso fare nient’altro che sognare di amare nuove distanze e perdermi nella contemplazione di aperte lontananze adesso negatemi, piuttosto che battere ogni centimetro di questa landa a me ben nota, dopo tutto questo tempo. Se spero di fuggire, la magia mi riporta alla realtà deridendomi: non c’è via d’uscita dalla torre; alla sua base solo mura di mattoni nei quali non si apre alcuna finestra o porta verso l’esterno. Hanno eseguito davvero un bel lavoro, i miei carcerieri! Hanno sigillato gli ingressi e a malapena mi hanno lasciato queste ringhiere e queste vetrate scorrevoli. Il problema, anzi l’offesa, è che esse si trovano quasi in cima, in un punto troppo elevato per tentare di calarsi giù. E’ una trappola mortale e vitale, dove mi nutro di aria magica che costituisce il mio cibo arcano, creato dagli stregoni dell’usurpatore del nostro trono. Possa la maledizione del casato a cui appartengo ricadere su di lui e su quanti lo considerano un benefattore!Cosa abbiamo fatto di male, quando governavamo Fyleam con onestà e lungimiranza? Chi abbiamo derubato del pane, chi gettato nella miseria? Abbiamo reso florido un regno decadente e in cambio del nostro prezioso operato, mio marito è morto, mentre io sono costretta a patire una condanna senza fine! Tuttavia c’è tempo – quanto ne voglio, ahimé – per spiegare come si svolsero esattamente i fatti, nella speranza che un ignaro viandante ascolti la voce d’una dignità mai piegata, di una madre ferita.
Nessuna possibilità di fuggire, dunque. Posso muovermi a piacimento nella torre, scendere e salire le scale tortuose per ingannare il silenzio e la monotonia delle giornate. La notte riposo su un letto comodo, dentro una stanza ancor più accogliente, perché pure questo Galaran, l’usurpatore, ha architettato, ferendomi col costante ricordo degli anni in cui vivevo felice a palazzo, come se non avessi un cuore e una mente per torturarmi da sola! Così questa torre si staglia contro il cielo, tetra rocca inaccessibile da fuori e dentro, se non per chi è capace di sciogliere l’incantesimo. Ora basta dare adito ai patemi personali, e qui, sfiorando il ferro gelido delle balaustre, mentre osservo l’ambiente circostante, mi accingo a raccontare la verità.
Meno di cinque stagioni fa, la vita seguiva il suo tranquillo corso nel regno, una regione aspra e fredda del settentrione, nel cuore d’imponenti catene montuose. Fyleam, la capitale da cui anche il regno prende il nome, era dove abitavo con il re Myro, amato consorte ed instancabile sovrano. Il palazzo reale era stupendo. Mi sembra quasi di camminare ancora per i corridoi e le sale profumate e luccicanti, o di sedere sul trono, dispensando ordini benevoli. Qualunque straniero vi mettesse piede restava colpito dalla bellezza della mobilia, dalla raffinatezza dei tappeti, dall’austerità dei dipinti di regnanti defunti alle pareti. L’autorità dei re era tangibile per il viavai di diplomatici e personaggi illustri che venivano a renderci omaggio. Eppure io e Myro non abbiamo mai sperperato le ricchezze di Fyleam, gli dei mi siano testimoni: abbiamo semplicemente impugnato le redini di uno Stato che stava attraversando una fase opaca, a causa del nostro predecessore, ma rimetterlo in piedi non è stata un’impresa tanto difficile. Con editti ed elargizioni abbiamo permesso sia al benestante che al meno agiato di trovare un benessere stabile, certi di non suscitare malcontento, e in effetti avevamo il consenso generale dei sudditi, o almeno di una parte di essi, come ci accorgemmo in seguito.
La nascita del primogenito venne accolta con grande entusiasmo. Chiamai mio figlio Arlad, e assaporai il piacere delle maternità. Naturalmente sacrificai l’incarico di regina per qualche tempo, allo scopo di dedicarmi a lui. Era la mia vita, l’avevo sentito crescere in me, avevo sentito una nuova esistenza sorta dal nulla crescere nel ventre, e solo una madre coglie appieno l’inebriante sensazione che si prova di fronte al miracolo del procreare. E quel magnifico maschietto che avevo dato alla luce crebbe sempre più forte e bello col passare degli anni.
Ecco, già le prime lacrime cadono in quel vuoto per me irraggiungibile. Cosa darei per librarmi e volare. Sogni…destinati a perire nella stessa mestizia in cui nascono nel mio animo. Chissà dov’è Arlad adesso, chissà se Garalan è riuscito a contaminarlo!
Se i pensieri diventassero realtà, allora penserei il meglio per Arlad, gli augurerei tutto il bene che una madre può desiderare per il figlio, anzi glielo sussurrerei dolcemente, se lui fosse qui a porgermi l’orecchio. Ah, caro e sordo vento, ti abbatti su queste piane, ti scontri con questa torre e mi raggiungi così lontano dal suolo. Mi sollevi le vesti e mi procuri brividi di freddo, ma l’ira è troppo calda, troppo viva, e non la raggelo. Consentimi di continuare a sfogarmi.
Quegli anni si susseguirono rapidi come te, vento, quando porti la pioggia sulle montagne, eppure li ho vissuti intensamente. Frammenti di memorie sono scolpite in me a comporre un mosaico nitido di emozioni indimenticabili. La prima parola ("Mamma", detta in modo quasi incomprensibile), i primi passi, il sorriso irto di dentini: quella era la felicità, in giorni indorati dal sole, in gite al calore dell’estate, in passeggiate nei boschi, con lui che mi teneva per mano. Arlad somiglia molto a Myro, ma ha ereditato i miei occhi blu come il mare lontano e osservare nel suo sguardo la profondità di abissi di purezza e innocenza infantile è una delle lezioni più belle che un genitore possa imparare: amare senza confini, sognare senza limiti. Mi hanno imprigionata, ma mai, nemmeno con la più potente delle magie, mi deruberanno di tutto ciò, gli infidi servitori dello spergiuro. Sono pronta a scommettere che le loro anime marce ignorano la soavità dei buoni sentimenti, fossero anche capaci di evocarli ricorrendo agli incantesimi. C’è un mondo in molti di noi – non in ognuno – di cui siamo i padroni incontrastati, e un mostro della risma di Garalan non può usurparlo come invece ha fatto con Fyleam.
Lui era uno dei consiglieri più fidati e non smetto di accusarmi di non essermi accorta prima del male che in lui covava. Era a conoscenza dei segreti del regno, sapeva i nostri progetti futuri, era al corrente di ogni minima mossa di me e Myro, e infatti si preparava a giostrarci nella sua scacchiera. Un giorno venne nella sala del trono buio in volto e terribilmente serio, lui che era sempre disponibile allo scherzo. Disse che ad uno dei maghi di corte era apparso in sogno uno strano spirito, il quale gli aveva rivelato che un pericolo incombeva su di noi. E così era, per gli dei! Solo che il pericolo lo avevo davanti a me. Allora Garalan ci condusse alla Grotta delle Tempeste, un antro nella montagna più vicina ai confini orientali di Fyleam. Allarmati dalla gravità delle sue parole, spronammo i cavalli a galoppare il più velocemente possibile, e io e il re, insieme al consigliere e alla scorta, giungemmo a destinazione al crepuscolo.
La Grotta è proibita ai comuni mortali e nessuno, ad eccezione dei monarchi, può accedervi. Delle guardie erano di presidio giorno e notte all’ingresso della cavità e più a valle, dove c’era una fortezza di pietra antica, eretta dai nostri Avi in epoche dimenticate. Lì lasciammo le guardie e il consigliere, che ci mise in guardia raccomandando di non indugiare a lungo. Nella Grotta, uno specchio incastonato nel ghiaccio era situato di fronte all’imboccatura. La sua particolarità era dovuta a magia vecchia di secoli: era invisibile, tranne che per la cornice dorata, e compariva all’improvviso sulla parete di fondo quando qualcuno entrava. Il vetro era liscio, né il freddo né il tempo erano riusciti ad intaccarlo. Mandava riflessi accecanti se un raggio di sole lo colpiva, ma dal momento che era il crepuscolo e l’astro infuocatosi era immerso tra le alture innevate ad occidente, lo Specchio si limitò a riflettere la nostra immagine in modo perfetto: mio marito avvolto in un mantello scarlatto, io con indosso un giubbotto di folta pelliccia. C’eravamo recati nella Grotta una volta, dopo che avevamo ricevuto la corona, per scoprire se il nostro regno sarebbe stato fausto e duraturo. Lo Specchio mostrava molte cose, tutte secondo il suo desiderio. Era impossibile prevederne – figurarsi regolarne – il meccanismo, perché era un congegno degli Avi, frutto di una tecnologia non disgiunta dalla magia, per cui quando si sarebbe rotto, non sarebbe stato riparato. Chi lo consultava, riceveva immagini del suo futuro, riviveva attimi del passato scordati o vedeva il volto di uno sconosciuto che gli dava consigli. Molto spesso lo Specchio si divertiva a confondere più che a illuminare chi disturbava il suo sonno. Le cose che vedemmo io e Myro furono eloquenti: il palazzo in fiamme, Fyleam falciata da epidemie orribili, morte e distruzione ovunque. Afferrai la mano del re e sconvolta assistei al crudele destino riservato al mio popolo per motivi incomprensibili. Infine lo Specchio ci mostrò l’immagine di colui che in quel frangente occupava l’ultimo dei miei pensieri, Garalan, sogghignare soddisfatto. Dietro di lui comparve un’altra faccia, quella di un essere dalla bruttezza indescrivibile che ci fissava truce, solcata da innumerevoli rughe e coronata da un turbante su cui era inciso l’emblema dell’Ordine degli stregoni, banditi da Fyleam anni e anni addietro. Allora la comprensione invase la mia mente e stavo per pregare Myro di andare via, quando Garalan in persona e le guardie corrotte da lui penetrarono nella Grotta violando il luogo sacro. Lo Specchio esplose in mille frantumi e un boato ruggì nelle viscere della montagna facendo tremare la terra, crepando il ghiaccio e causando la caduta di alcune stalattiti. C’immobilizzarono e il traditore ci portò nella fortezza. Lentamente realizzammo la portata del suo crimine e la stupidità con cui ci eravamo lasciati abbindolare. Ci rinchiuse in una cella e da oltre le sbarre ci scherniva, infimo uomo, privo di onore, vaneggiando di folli piani e assurdi progetti di governo. A quanto constatammo da quegli sproloqui, aveva accettato l’aiuto degli stregoni pur di sottrarci la corona. Una simile empietà non si compiva nel regno da generazioni e di tali avvenimenti narrano i miti di Fyleam. Nessuno di questi ha un lieto fine.
Garalan ci riservava la classica scelta di chi è ad un punto di svolta da cui non si può torna indietro: servirlo o morire. E noi demmo la classica risposta di chi ha vissuto lealmente e non si a piegare nemmeno in prossimità della morte. Così il traditore, che con immensa dedizione ci aveva servito fino al giorno precedente, all’apparenza almeno, chiamò lo stregone che avevo visto nello Specchio. Incredibile la paura che mi suscitò. Mentre le guardie mi tenevano bloccata, Myro fu accompagnato fuori e non lo rividi più vivo. Passarono diversi giorni. Alle lunghe veglie si alternavano sonni turbati da incubi, e appena riemergevo nella realtà il pensiero di quanto era successo tornava a sconvolgermi. Pensavo mi avessero abbandonata in quel forte, e invece un mattino venne Garalan a prelevarmi. Mi trasse in catene per le strade della capitale, mi fece urlare di dolore quando notai il cadavere di Myro brutalmente oltraggiato e appeso ad un palo innanzi al portone del palazzo, e dopo aver pronunciato un discorso ad un popolo zitto, sottomesso, sentenziò la mia condanna. Fui trasportata lontano da Fyleam, non so bene in quale regione del mondo, e rinchiusa nella torre. Arlad, che prima di recarmi nella Grotta avevo affidato alla balia, e che non potei salutare, rimase indifeso nelle mani di Garalan. Perché, vento, perché tanto male? Non avrebbe fatto meglio ad uccidermi che riservarmi una punizione infinita? E senza un motivo valido. Sono condannata a chiedermi in eterno quale colpa ho commesso per non morire subito. Avrei preferito una fine lesta, che attendere l’arrivo di una in una condizione di totale disinteresse da parte del mondo. Ad una madre non deve essere negato il diritto di crescere i propri figli, a meno che non si macchi di colpe imperdonabili verso di loro. Invece io ho ciò che solo un disperato vorrebbe: la solitudine.
Per amore di mio figlio avrei potuto asservirmi a Garalan, ma non l’ho fatto. Anche se adesso sono lacerata dal dolore, ho trovato la forza di essere coerente pure nella rovina, affinché Arlad, ripensandomi mentre diventa uomo, si renda conto di quei principi di onestà e lealtà sulla base dei quali ho poggiato la vita. E’ stato il mio ultimo dono ad un bimbo adorato. Ma non mi ucciderò.
Finché il ricordo di Arlad, di Myro, e dei bei tempi che furono sopravvivrà dentro di me, io, Edaryn, resisterò fieramente al piacere dell’usurpatore, nell’attesa di spirare, o di chi verrà a liberarmi.
  
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