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Autore: Anya_tara    19/09/2018    1 recensioni
Come Shaka di Virgo e Kanon di Gemini hanno incrociato i loro destini prima di ritrovarsi vent'anni dopo. Il titolo vuole essere un omaggio alla corrente di pensiero di cui Goethe ( Vergine, 28/08/1749) fu forse massimo esponente, in cui vi è una " nuova visione della Natura, in cui il sublime è l'elemento dinamico che trasforma e volte annienta, ma che riconduce infine all'equilibrio" ( Wikipedia). Naturalmente, anche qui strizziamo l'occhio a Nemesis!
P.S: Auguri Shaka!!! :)
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Gemini Kanon, Gemini Saga, Sagittarius Aiolos, Virgo Shaka
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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L’aveva perduto.
E non aveva idea di come fare a ritrovarlo.
Il piccolo indiano azzardò un passo fuori dall’alloggio ch’era stato assegnato a lui, e lui solo. Per il momento, datosi i suoi poteri ancora non del tutto controllabili, era preferibile che prendesse dimora in solitudine, piuttosto che rischiare la vita innocente di un ignaro pretendente.
Non si era ribellato a quella giusta decisione. In cuor suo sapeva ch’era l’unica possibile e inoltre contava di non affezionarsi a nessuno di coloro che il destino aveva voluto come suoi compagni. Non era che pura illusione, un inganno di Maya, il sentimento di calore provato nel vedere quei ragazzini scrutarlo con curiosità, lui così biondo, chiaro, taciturno e distaccato.
Eppure aveva … desiderato unirsi a loro, nei loro giochi, nei loro studi, persino nelle loro lotte, negli allenamenti. Anche se solo per un fuggevole attimo, aveva … bramato di essere tale e quale a loro, invece che l’incarnazione dell’Illuminato.
Era stato questo a meritagli il castigo del silenzio? Il fatto che avesse anteposto la sua giovane età al sommo onore del custodire in sé il vero spirito del Buddha?
Non ne aveva idea, dacché non gli parlava più.
Sperava di riuscire tuttavia a porre rimedio presto a quel piede in fallo. Era già in programma che trascorresse poco tempo, lì in Grecia. Solo per farsi un’idea di cosa lo avrebbe atteso una volta completato il suo ciclo di studi nel monastero, che è vero, lui era Buddha incarnato, ma “ nessuno nasce imparato”, come diceva in pessimo greco antico quel ragazzino dal buffo nomignolo, Malaqualcosa.
Doveva ricominciare da capo, in questa esistenza.
Mai il principio della vacuità gli era stato tanto comprensibile, benchè non gli fosse stato insegnato ma soltanto accennato. La Sunyata, la condizione di vuoto interiore che il Buddha esige perché i semi del Loto e i suoi preziosi effetti potessero germinare e fiorire in uno spirito adesso era qualcosa di minaccioso, dacché il bambino non percepiva più l’amorevole voce che tanto spesso lo aveva confortato e guidato nel buio delle notti della sua infanzia rinchiusa tra le pareti del monastero.
Ma qui non era in India. Doveva sottostare agli ordini del Sommo Sacerdote in quanto apprendista Cavaliere di Athena, ma rimaneva pur sempre un prescelto, molti gradini più in alto degli altri ragazzini … eccettuato forse quel tale Aiolia.
Agli occhi perennemente chiusi – che così si era raccomandato di tenerli il Capo Monaco per rinvigorire gli altri sensi in luogo di quello estremamente ingannevole della vista umana- del piccolo indiano, quel ragazzino era un vero abominio. Uno scherzo della natura. Non dal punto di vista fisico: era simile a tanti altri bambinetti della loro età. Ma possedeva in sé un’energia, una potenza che era quasi impossibile eguagliare per la stragrande maggioranza degli altri.
Shaka mai l’avrebbe confidato ad anima viva, ma il suo desiderio più grande era raggiungere quel livello di elevazione cosmica interiore senza dover premere sulle pulsioni puramente istintive, umane. Dimostrare a quel piccolo pericolo ambulante che si poteva agire con il potere della mente e non soltanto con la forza bruta.
Andava educato, Aiolia. Ma seppur severo, suo fratello maggiore, Aiolos di Sagitter non sarebbe stato in grado di arginare quel flusso spaventoso di calore interstellare, semmai il piccolo apprendista del Leone avesse perso il segno. Avrebbe non gocciolato, non scorso ma zampillato vividamente dalla vena del cosmo reciso, semmai si fosse trovato a confronto coi demoni che prima o poi, per coloro che non risiedono nelle Terre Pure o camminano per le otto vie illuminate del Sentiero, si ritrovano davanti.  
Intanto lui non trovava più il suo, di sentiero. Aveva iniziato a piovere, il tempo capriccioso di metà estate aveva deciso di testa sua e adesso, la stretta stradicciola tra gli alti alberi fitti non era più visibile e perso nelle sue cogitazioni si era allontanato parecchio, addentrandosi nel folto.
Aprì gli occhi, smarrito. Ma nemmeno così riusciva a vedere dove stesse andando; e il temporale montava con sempre più intensità, scrosciando, le grosse gocce come lamine gelide che solo in virtù dei folti rami non riversavano tutta la loro potenza sul bambino che cercava la strada di casa, fissando il terreno quasi si aspettasse di trovare dei sassolini seminati per via, come guida.
Un grido interiore gli sfuggì, mentre il cuoricino pulsava frenetico, come quello di un leprotto impaurito.
Dove sei? Perché non mi parli? Aiutami!
Ma la voce interiore rimaneva muta.
Forse era il suo destino proseguire verso un’altra incarnazione. Quel suo corpicino fragile, quasi debole doveva essere stata una specie di indugio, per prendere tempo in attesa di qualcuno più degno di lui ad assurgere a quel posto.
Probabilmente c’erano degli animali feroci, in quel bosco. Un brivido scosse le sue delicate ossa: aveva sentito parlare dei lupi che infestavano la zona. Sacri ad Apollo, non venivano toccati, ma lasciati liberi di abitare quei luoghi incolti, selvaggi.  Ad ogni movimento del vento, della pioggia battente che sferzava lo spesso strato di felci del sottobosco vedeva muoversi ombre minacciose, affamate, gli pareva di intuire lo scintillio di occhi ambrati, di zanne luccicanti. Nelle pause dei tuoni le sue piccole orecchie affinate udivano il ringhiare gutturale, sommesso della belva famelica, pronta a far scempio delle sue membra.
Terrorizzato, si mise a correre. Ma non era stata un’idea furba: uno dei piedini si avvolse nelle radice delle felci, mandandolo a terra. Era intrappolato lì, una trappola di radici e sterpi da cui era impossibile venire fuori.
Gli occhi finalmente aperti, ma ciechi e inutili in quel buio soffocante si riempirono di lacrime. Forse era davvero destino che dovesse perire lì, in età tanto giovane e immatura, e lasciar posto ad una nuova rinascita del Benedetto Gautama … in quel finimondo chiuse le palpebre di nuovo, sentendo le gocce calde mescolarsi con quelle fredde che venivano giù dalle fronde e dallo spiraglio di cielo nero e tempestoso sopra di esse, da cui baluginavano lampi paurosi.
Il suo cammino era stato deciso. I suoi ultimi passi, come i ventisette mossi dal Beato appena venuto al mondo lo avevano condotto in quel luogo, e non toccava a lui scegliere.
Col piedino pulsante di dolore, il visetto affondato nel sottobosco umido e fragrante respirava a pieni sorsi l’odore dolce e terroso, quasi fosse una consolazione. L’accettazione, costante inculcatagli dagli amorevoli monaci che si erano presi cura di lui fin da quando era neonato adesso era tutto ciò che gli rimaneva.
Forse per questo la voce era svanita. Il suo tempo era scaduto, e non aveva più nulla da dirgli se non di arrendersi al suo Fato.
Un rumore di rami calpestati si fece largo tra quelli furibondi del nubifragio. Era sempre più vicino, e Shaka avvertì il fiato gelido dell’animale venuto a prenderlo sulla nuca.
Non aveva scampo.
Eppure il tocco che gli sfiorò i capelli grondanti, penetrandone la cortina per lambirgli il collo tenero non era quello irsuto, selvatico della creatura che aveva immaginato. Aveva un che … di delicato, quasi di accorato.
E di umano. Sentiva chiaramente il tocco dei polpastrelli premergli la pelle, misurargli le pulsazioni nell’incavo sotto l’orecchio, quasi volesse accertarsi che fosse ancora vivo.
Non si mosse, lasciò che il battito frenetico parlasse per lui. Anche se avesse aperto bocca tanto, era facile che non lo comprendesse: il greco antico, che lui stava imparando a velocità stupefacente, era tanto diverso da quello moderno quasi quanto l’hindi, ch’era avvezzo a parlare fin dall’età della ragione; e il sanscrito, di cui aveva appreso i rudimenti ma che ancora avrebbe dovuto perfezionare al suo ritorno al monastero.
Avrebbe voluto voltarsi, vedere in faccia il suo soccorritore. Ma quello gli gettò addosso qualcosa, inibendogli il respiro; invece che divincolarsi restò ancora più immobile.
Avrebbe potuto ricorrere al suo potere. Ma non era ancora stabile: e se invece di far bene avesse fatto danno? Se avesse ucciso un innocente che voleva solo aiutarlo?
D’altro canto … i monaci si erano sempre raccomandati di non dar confidenza agli sconosciuti.
Cosa doveva fare?
Stavolta non c’era nessuno a guidarlo.
Non temere. Non ti farà alcun male, piccolo Shaka. Non potrebbe, in alcun modo.   
Shaka s’irrigidì senza volerlo.
La … la voce. La voce del Buddha era tornata, così, dal nulla. Dal vuoto su cui si stava tanto devotamente concentrando, era emersa nuovamente quasi che attendesse quel momento per riaccostarsi a lui.
Forse non si trattava di un essere umano, ma di una manifestazione della Compassione del Beato. Aveva sentito i racconti dei saggi monaci, narrati perché gli fossero d’esempio: vi era in particolare un Bodhisattva, chiamato Avalokitesvara, che ascoltava le preghiere degli afflitti e correva in loro aiuto, poiché era giusto questa la missione di cui si era fatto carico all’inizio dei tempi, e non si peritava di apparire agli uomini in diverse forme, come meglio poteva indurli ad accettare la sua protezione.
Una delle leggende più belle, appartenente però alla branca tibetana del suo credo era quella che raccontava di come un pellegrino intento a compiere il cammino del Kailasan, un monte dell’Himalaya, per ottenere il perdono dei peccati si fosse smarrito; e la Dea Tara, figlia ed emanazione di Avalokitesvara, avesse inviato ventuno lupi che avevano fatto strada allo sventurato divenendo poi uno solo, e tramutandosi infine ina una roccia, chiamata poi appunto come la Divina Soccorritrice.
Dimenticò persino di avere male al piede, di essere infreddolito, e di non sapere dove lo stesse portando quella creatura, se alla fine fosse buona o malvagia. Se fosse santo, o lupo.
Anche i lupi a volte potevano essere buoni, malgrado non godessero di grande reputazione; e forse la misericordia di Tara si era estesa fino ad essi, per ripulirne l’immagine e donar loro una nuova occasione.
Rassicurato, Shaka si accoccolò in quel tepore umido che tuttavia lo proteggeva dalla tempesta fuori. Avvertiva un odore strano, gli rammentava per certi versi quello di alcuni incensi che aveva sentito ardere per le stanze di pietra del monastero.
Così cullato, stanco, provato dalle lunghe notti spese in vacue meditazioni si assopì.
Poteva fidarsi.            
 
 
 
Regole, regole, regole.
Ne aveva abbastanza delle regole. Fin da bambino, non aveva praticamente ricevuto altro: dai suoi genitori, dai suoi insegnanti, dagli anziani. Da chiunque incrociasse sulla sua strada, in pratica.
E non ne poteva più.
Anche adesso, che sembrava finalmente doversi liberare da quel giogo, ecco che nuove regole tornavano ad abbattersi come quel temporale della malora sulle sue spalle, sul suo capo. Suo fratello, che aveva avuto compassione di lui al punto da non abbandonarlo a se stesso, ma farlo venire a Rodorio, dopo la morte della madre, aveva iniziato a dargliene anche lui.
Suo fratello era quello buono, quello giusto. Quello che a tavola sapeva come comportarsi, quello che spegneva la luce, che chiudeva l’acqua quando si lavava i denti. Che faceva i compiti senza far storie, e andava a dormire non quando aveva sonno ma quando glielo ordinavano. Assurdo. E non contento di quelle che gl’imponevano gli altri, aveva cominciato a forgiarsene lui delle altre ancora.
Sta’ lontano da me. Resta qui, non avvicinarti al Santuario finché non te lo dico io.
E poi, la peggiore. Non azzardarti a farlo mai più.
Kanon Glykàmethisi odiava le regole. Per lui era contronatura dover andare contro i propri istinti, le proprie inclinazioni soltanto perché condividevano lo stesso sangue, guarda un po’.
Era una stupidaggine. Gli dei in cui credevano avevano sposato le loro stesse sorelle, si erano uniti a loro generando nuove divinità, sempre più forti, più acute, più splendide ed eroiche. Certo, a loro quella possibilità sarebbe stata negata; erano maschi entrambi, ma poco male, a lui non interessavano i marmocchi.
Saga invece … lui piangeva ancora il neonato perduto tra le acque del Mediterraneo, insieme alla sorella ancora chiusa nelle viscere della madre. E quasi per rimediare a quella scomparsa aveva scelto di occuparsi di tutti quei mocciosi orfani sbattuti lì al Santuario, bambini di cui non fregava niente a nessuno.
Lo aveva spiato, di nascosto, celandosi come aveva imparato a fare. Lo vedeva prendersi cura ora di questo ora di quel pidocchio, assieme a quel … tizio, quell’Aiolos.
Dei, quanto lo detestava. Il modo in cui Saga gli sorrideva, un’espressione che per Kanon restava relegata invece all’infanzia.
Se avesse potuto, se lo sarebbe messo sotto e picchiato finché gli rimaneva fiato in corpo. Ma se solo ci avesse provato Saga gli avrebbe torto il collo.
Quando era uscito a fare quattro passi, prima che venisse giù il diluvio, non era sua intenzione arrivare al Santuario ma solo prendere un po’ d’aria fresca, adeguatamente camuffato per evitare che qualcuno potesse vederlo in faccia e notare l’evidentissima somiglianza. La casetta in cui il gemello lo aveva sistemato all’insaputa di tutti era appena dall’altra parte del bosco, e in realtà non era neppure tanto male. Anzi, forse stava meglio lui, con la sua quiete e la sua solitudine, di Saga perennemente immerso in quel marasma di adulti pronti a imporre nuove regole, e di bambocci che lo stressavano in continuazione.
Se solo avesse potuto avere Saga tutto per sé, non avrebbe potuto chiedere di più.
E invece era costretto a restarsene nascosto sotto una mantella. Fortuna che non era rosso ma di un arancione stinto, altrimenti avrebbero potuto scambiarlo per il Cappuccetto della fiaba. Che Saga a volte gli raccontava per scherzo, da piccoli, per metterlo in guardia dai cattivi incontri che Kanon sembrava del tutto determinato a fare, già fin da bambino.  
Se solo avesse immaginato che il suo fratellino non aveva nulla da temere da nessuno, poiché non era lui la bambina ingenua e un po’ tocca sotto il mantello, ma la belva feroce che non vedeva l’ora di dilaniare e divorare, arrivando a fingersi ciò che non era pur di mettere gli artigli su quello che bramava.
Ma questo incontro non pareva avere nulla di disdicevole.
Aveva notato già da prima quella figurina di spalle, presumibilmente appartenente ad un bambino camminare da solo. Lo aveva visto addentrarsi nel bosco e approfittando del buio incipiente lo aveva seguito a distanza, temendo che sarebbe potuto incappare in qualcosa di spiacevole, se i lampi illuminanti il crepuscolo si fossero poi rivelati qualcosa di più di una minaccia aleggiante nell’aria elettrica.
Come infatti era accaduto. E aveva intuito, più che visto la figuretta del ragazzino correre, e correre sempre più spaventato, come un leprotto in trappola, perdere completamente l’orientamento e finire per ingarbugliarsi nelle radici insidiose del sotto bosco.
Doveva essere un pretendente. Sicuro. Non lo aveva mai visto allenarsi con gli altri, ma a nessuno che non fosse del Santuario sarebbe mai saltato in mente di arrivare fin lì.
In circostanze ordinarie non gliene saprebbe fregato nulla, l’avrebbe abbandonato al suo destino e pace amen.
Ma … mentre seguiva con gli occhi la sua ombra, qualcosa gli si era mosso in petto, un impeto inspiegabile, almeno nei riguardi di un estraneo.
Che ora si fece più forte, nello stargli più vicino. Nel vederlo giacere in terra, schiacciato quasi da quella cortina bianca e affilata che batteva senza misericordia sulle piccole spalle, la fragile schiena, il capino fradicio.
Chissà a quale costellazione apparteneva. E di quale Cloth sarebbe stato rivestito un giorno, ammesso che non finisse preda delle fauci del Fato prima che potesse essere consacrato.
Si chinò su di lui che non si muoveva. Aveva la faccia affondata nelle felci, il corpicino immobile e teso sobbalzò appena allungò due dita a toccarlo, dietro la nuca.
Accidenti, che capelli soffici. Sembrava di toccare seta, gli sfiorarono il dorso della mano scivolando verso il basso, appesantiti dalla pioggia.
Non lo vedeva in volto, ma era quasi certo che fosse uno sguardo di pura gratitudine quello che doveva avergli rialzato in faccia.
Avrebbe voluto rassicurarlo a voce, ma esisteva la vaga possibilità che si fregasse, così. La sua era cambiata, con l’adolescenza, ma aveva un timbro molto simile a quella di Saga, appena un po’ più basso, un filo più roca.
Però quel bambino sembrava già tranquillizzato dal fatto che fosse un essere umano, e non una creatura del bosco.
D’impulso, sfilò la mantella e gliela posò addosso cercando di ripararlo quanto più possibile dalla pioggia battente. Lo issò tra le braccia, stupendosi di quanto fosse leggero, quasi evanescente.
Forse si era sbagliato. Non sembrava avere la stoffa del cavaliere quel ragazzino, forse era soltanto qualche nuovo piccolo sguattero accolto per carità. Era così piccolo, così indifeso, e rabbuffato in quella vecchia mantella lo appariva ancora di più.
Era una sensazione strana. Confusa, che gli ricordava gli abbracci di Saga durante i temporali quand’erano ancora bambini loro due. Quella stessa innocenza perduta adesso era incarnata in quel fanciullo di cui non vedeva i tratti.
Ma sentì il suo lieve sospiro. E il tremito del suo corpicino esausto contro il proprio petto.
Kanon non era sicuro di reggerlo a lungo. No, non quel peso quasi inesistente; quel dolore allo stomaco che si fece più intenso quando lo tirò su e si rimise in piedi, avanzando con cautela nella melma, sforzandosi di tenere gli occhi aperti malgrado le gocce glieli ferissero. Anche s’era inutile: non si vedeva nulla ad un palmo dal naso, solo i fulmini gettavano sprazzi brevissimi di luce, ma duravano troppo poco.
Fortuna che lui ormai quella strada la conosceva palmo palmo. La faceva quasi ogni giorno, perché a lui delle regole non gliene fregava un … cazzo, ecco. E avrebbe saputo trovare la via d’uscita da quell’inferno anche alla cieca.
Infatti da lì a poco la macchia si diradò, e approdarono in una larga chiazza d’erba pulita. Avrebbe potuto metterlo giù e farlo camminare per conto suo.
Eppure non ci riusciva. Per male che gli facesse quel calore tremante raggomitolato contro di lui, non poteva staccarlo da sé. Si stava dicendo che probabilmente era sotto shock, non si sarebbe retto in piedi, e poi lui non era mica una femminuccia da non poterlo tranquillamente portare fino al Santuario, anche con una mano sola, se gli girava.
Pesava meno di un gattino bagnato. Era il primo contatto che aveva da quando era rimasto solo, mesi prima, e per questo non riusciva a metterlo giù. Saga si guardava sempre attentamente anche solo dallo sfiorarlo.
No, non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura, ma sentiva la mancanza del calore umano. Gli mancava la mano della mamma che si posava sulla sua testa, quella del suo gemello che la stringeva nella propria.
Quel piccolo batuffolo fradicio era la quiete nella tempesta dei suoi giorni. Un brevissimo bagliore che si affacciava tra le nubi grigie e pesanti della sua esistenza.
Non si accorse immediatamente dello sguardo severo che lo fissava, fendendo anche la spessa cortina della pioggia. << Perché sei qui? >>, lo apostrofò subito Saga duro.
Kanon istintivamente abbassò gli occhi. Non poteva sottrarsi alla forza invisibile che lo piegava sempre, davanti al suo gemello. << Non ti avevo forse detto che non devi mai, mai mostrarti in questo luogo, se il Sommo non mi accorda il suo permesso? >>.
L’adolescente non fiatò. Strinse più forte il fagotto che teneva tra le braccia, facendosene quasi scudo dal gelo tagliente del fratello.
Poi ritrovò tutta la sua sfrontatezza. Rialzò il volto, fissando quello identico al suo di Saga, con quel ciglio fiero, aggrondato, sforzandosi di non odiare una volta di più Aiolos. << Vi siete perso uno dei vostri. Pensavo lo rivoleste indietro >>, disse sardonico. << Altrimenti potrei mangiarmelo per colazione >>.
L’espressione esterrefatta di Saga gli strappò un sogghigno. << Nahh, non è il mio genere. E’ poco più che pelle e ossa, non sarebbe buono neanche per il bollito >>.
<< Kali ouranòs, Kanon >>, mormorò Saga, fissandolo con qualcosa di simile al disgusto. Si poteva quasi pensare lo ritenesse davvero capace di simili scelleratezze.
Come se … desiderare il proprio fratello aprisse i cancelli a qualsiasi perversione.
Non glielo portò tra le braccia. Lo posò per terra, davanti a sé, dando fondo a tutta la restante delicatezza di cui era capace.  
<< Be’, me ne vado. Stammi bene, adelphòs >>, disse di proposito, sapendo quanto quella parola ferisse il gemello, neanche fosse il peggiore degli insulti che avrebbe potuto rivolgergli.
Girò sui tacchi pronto a tornare a casa. << Aspetta, Kanon >>.
Suo malgrado si voltò. Il tono di Saga suonava meno severo, adesso. << Grazie. Per averlo riportato a casa >>.
<< Sì, ma non farci l’abitudine. Piuttosto, dì al tuo Sommo di darsi una mossa con quella decisione. Ho qualche dubbio riguardo le sue capacità di occuparsi del Santuario, visto che non è buono neppure a sorvegliare i suoi pretendenti >>. Sputò nell’erba, infilando le mani in tasca.
Quasi per non disperderne il calore rimasto attaccato ad esse.
Aveva il vago presentimento che sarebbe stato l’ultimo bagliore ne avrebbe percepito per molto, molto tempo.
 
 
 
 
<< Quanto ha? >>. Aiolos si affaccendava intorno al lettuccio, un’espressione aggrondata che era raro vedergli in volto, a meno che non avesse a che fare con una delle ennesime marachelle di Aiolia.
Shura scosse la testa. Il giovane pretendente del Capricorno non aveva di particolari competenze mediche, eppure era quello che più degli altri sembrava capirci qualcosa. Chissà quante volte si era ammalato e curato da solo, poveretto. << Abbastanza >>, disse laconico, strizzando il panno nella bacinella e posandolo di nuovo sulla piccola fronte sudata, decorata dal puntino scarlatto del terzo occhio.
Qualunque cosa fosse, notò Sagitter, non andava via nemmeno con l’acqua. Neppure con tutta la pioggia che aveva preso era sbiadito. Non c’era davvero di che dubitare che fosse l’incarnazione del Buddha.
Eppure a vederlo sdraiato in quel giaciglio, febbricitante e pallido, non aveva proprio nulla di sacro. Sembrava un qualsiasi ragazzino ammalato che abbisognava delle cure della mamma.
Suvvia, si disse. Anche Aiolia sembrava tutto tranne che ciò che era: un bambino già venuto al mondo con un potere spaventoso. Ma continuava a comportarsi come una piccola peste, facendo dannare lui e Shura con le sue birbonate.
<< Possiamo restare qui con lui? >>, domandò Mu, il tenero Lemuriano, l’unico che forse era riuscito ad instaurare un minimo di rapporto umano col piccolo Gautama redivivo.
<< Certo. Continuate a rinfrescargli la fronte, mentre noi andiamo all’allenamento. Se delira, o succede qualcosa di strano, però, venite a chiamarci >>, dichiarò Aiolos, fissando il pretendente all’Armatura del Toro, Eduardo.
<< D’accordo >>.
Shura e Aiolos si misero in piedi, congedandosi dai più piccoli, ed uscirono fuori dal dormitorio.
<< Dov’è tuo fratello? >>, chiese Shura d’un tratto, così. in lui diplomazia e franchezza facevano a pugni, spesso e volentieri, quando si trattava di Aiolia.
Aiolos sorrise indulgente. Lungi dall’offendersi, quel legame tutto speciale tra il suo fratellino e il suo protetto gli era caro, e mirava a custodirlo quanto più possibile. Tanto più ch’era una delle rare cose in grado di trarre Shura dal suo isolamento. Anche col piccolo Malafruscula, arrivato da poco, sembrava avesse stabilito più una sorta di tacito accordo che un vero e proprio principio di amicizia. D’altronde, il siciliano non dava confidenza ad alcuno. << In casa, a studiare. Se non finisce i compiti oggi non esce, gliel’ho già detto >>.
<< Sei esigente >>, notò Shura. Poi subito dopo si morse un labbro, e Aiolos sorrise ancora più visibilmente. << Non preoccuparti. Vedrai che li finirà presto, e bene, pur di andare ad arrampicarsi sugli alberi e farti prendere un accidente. Lo sai che sei forse l’unica ragione a spronarlo tanto ad essere diligente >>.
Shura arrossì, tartagliando. << Ma che dici >>.
Los si mise a ridacchiare, quando un lampo azzurro gli passò davanti, correndo in fretta e furia. << Oh, Saga, buongiorno >>.
Per un attimo Aiolos pensò che andasse di sopra, a informarsi del piccolo Shaka. Era stato proprio lui a trovarlo svenuto, in preda ad una febbre che minacciava di degenerare rapidamente in qualcosa di più grave.
Ma il giovane Gemini a stento gli rivolse uno sguardo. Curioso. Anche se il mondo fosse andato in rovina, Saga non avrebbe mai perduto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con lui.
Aiolos raggelò di colpo, dandosi del morboso. Non era sana quella mania che aveva di pensare sempre a lui. soprattutto quando si ritrovavano da soli, durante le loro scappate notturne, che il temporale della sera prima aveva bruscamente cancellato dalla lista degl’impegni del giovane Sagittario.
In realtà, anche gli ultimi due appuntamenti erano saltati senza una ragione precisa. Saga si teneva sul vago, e Los aveva creduto d’intuire … che Saga avesse capito, e non gli andasse a genio la piega che avevano preso quegli incontri clandestini. Uno col suo acume doveva averlo capito per forza.
Non era … bene. Lo sapeva e se ne vergognava un po’,  ma non riusciva a smettere di perdersi nell’immagine di quella bellezza lambita dai raggi lunari, dalle onde salse e tranquille, della risata cristallina e insieme malinconica dell’amico e compagno. 
Un lampo gli balenò nell’anima. Oggi il cielo era sereno, non si annunciava maltempo. Forse … avrebbero potuto … recuperare. << Ciao, Los. Shura. Scusate, ma sono un po’ di fretta. Devo … fare una commissione >>, annunciò, con in volto il cipiglio aggrottato che metteva su quando qualcosa non gli garbava.
Sarebbe stato semplice salire dal Sommo e ottenere delucidazioni al riguardo. Ma Aiolos decise che non era il caso. Doveva smetterla di pensare a lui in quel modo. E se Saga aveva da fare, non erano affari suoi.  
O avrebbe finito con lo svelarsi. E perderlo, definitivamente. << Va bene. Noi andiamo ad allenarci >>, replicò Shura innocentemente.
Lo sguardo di Saga si posò prima sull’uno, poi sull’altro. Ad Aiolos parve che un bagliore sinistro splendesse in quelle iridi che tanto gli rammentavano il mare.
Ma si disperse quasi subito. << Bene. Ci vediamo più tardi >>. Proseguì, e Aiolos si accorse che non aveva neppure domandato delle condizioni del piccolo Shaka.
<< E’ strano, non trovi? >>, domandò Shura rivolto all’amico, quasi echeggiando i suoi pensieri. Al pari di Saga, un bagliore si era acceso anche nei suoi occhi neri da spagnolo.
Sembrava sapesse qualcosa, che però Aiolos non voleva sentire in quel momento.
<< Può darsi >>, si limitò ad assentire. << Andiamo >>.
 
 
<< Come stai? >>. Saga posò lo zaino sul tavolo, estraendone una boccetta colma per metà di polvere bianca. L’aveva presa dallo speziale del villaggio, il giorno prima, quand’era andato a provvedere il medicinale per Shaka.
Fortuna fosse toccato proprio a lui. Così aveva potuto comprarne di più senza dar addito a sospetti.
Kanon sbuffò. Tipico. Detestava dar prova di debolezza, specialmente dinanzi a suo fratello.
La febbre si era manifestata con violenza, dopo tutta la pioggia che aveva assorbito per portare al sicuro il piccolo Shaka. Quando Saga era andato a trovarlo il giorno prima, per portargli da mangiare, lo aveva trovato sdraiato sul letto a fissare il soffitto con occhi vacui.
Si fosse trattato di un altro avrebbe azzardato delle spugnature, per farla calare più in fretta. Ma il ribrezzo che gli causava il pensiero di spogliare suo fratello e toccare il suo corpo nudo era persino maggiore del timore che quel malanno lo ammazzasse, volgendo in polmonite.
Non era colpa sua. Conosceva Kanon, sapeva che sarebbe successo qualcosa di sconveniente, se solo gliene avesse concesso l’occasione soprattutto adesso che non erano più fanciulli ma uomini.
Ecco, questa era la grande differenza tra lui e Aiolos. Giocare nell’acqua calma delle Lenopios accanto all’amico seminudo non gl’ispirava nessun terrore, nessuna repulsione, perché sapeva che da lui non aveva nulla da temere.
O più che altro … da sperare. 
Da quando si era risvegliato uomo, Saga era costantemente in preda alla vergogna più pura. Se soltanto Los avesse sospettato … quel che faceva, agitandosi da solo nelle sue lenzuola, imbrattando esse, la Sacra Casa dei Gemelli e l’immagine del suo più fidato compagno non avrebbe perso tempo a chiedergli di recarsi al loro posto. Giammai. Anzi, lo avrebbe scacciato da sé come un cane.
Proprio come faceva lui con Kanon.
Ma ad un cane piegato dalla febbre non si può negare un minimo di misericordia. Non sarebbe mai stato così folle da ricorrere al metodo usato quand’erano bambini, stringersi addosso a lui per aiutarlo a mandar via il freddo dei brividi nelle ossa; ma non poteva nemmeno lasciarlo badare a sé da solo.
Kanon sbuffò di nuovo. << Ecco, tieni. Manda giù >>, fece Saga, versando la polvere della boccetta in un bicchiere con un dito d’acqua, e porgendoglielo.
Il ragazzo scosse la testa. << Bevi. O ti lascio qui da solo >>, fece in tono greve.
Kanon si raddrizzò appena, bevendo il medicamento. << Sa di vomito >>, dichiarò, con una smorfia disgustata.
<< Preferisci un’iniezione? >>.
Il panico sul viso tanto simile al suo riempì Saga di un rimescolamento di antiche emozioni sommerse, perdute.
Una volta da bambini era stato necessario far loro delle punture, per via di una fastidiosa gastroenterite che non faceva trattenere loro in corpo neppure l’acqua fresca. Il medico, convocato dai loro genitori, aveva estratto il temibile ago dalla borsa. Prima Saga, che aveva resistito stoicamente, mordendosi il labbruzzo; poi Kanon, a cui erano montate le lacrime agli occhi e si era messo a strillare.
Al che anche gli occhi di Saga avevano lacrimato. Non il proprio, ma la sofferenza sul visetto di Kanon gli aveva settato lo stomaco peggio della nausea provocata dal virus; e nel suo innocente desiderio di condivisione aveva preso a lamentarsi,  per non far sentire il fratello in difetto rispetto a lui ch’era stato tanto temerario.
Da allora le odiava anche lui. Ancora oggi, che aveva ormai quindici anni, storceva le labbra quando sentiva pronunciare la parola “iniezione”. Gli ricordava ch’era esistito un tempo … in cui Kanon aveva ancora provato dei sentimenti giusti, delle sensazioni pulite, ingenue. << Cerca di stare al caldo >>, gli sfuggì, e subito dopo si morse la lingua.
Aveva sbagliato. Quel ricordo lo aveva disorientato, pensava di aver ancora a che fare con l’innocente gemello, e non con il mostro in cui si stava gradualmente trasformando.
Una volta di più si sforzò di non rabbrividire, nel dare ascolto a quelle voci che lo tormentavano. I suoi genitori davvero erano mancati, anche se in differenti modi e tempi.
Ma aveva la terribile sensazione che nel caso di Kanon … sarebbe stato lui quello che l’avrebbe tolto dal mondo. Un giorno o l’altro.
A meno che il Fato misericordioso lo liberasse da quella condanna, ottemperando al posto suo  a quell’angosciante impegno fratricida.   
Forse aveva fatto male a dargli quella medicina. Ma lui voleva avere la coscienza e le mani pulite, almeno per quel che concerneva l’omicidio intenzionale.
Peccato non valesse altrettanto per la lussuria. Per quella era già troppo tardi. << E … senti? >>, biascicò Kanon, tossendo.
<< Sì? >>.
<< Come sta il marmocchio? >>.
Saga restò per un attimo impietrito. Davvero gli aveva … domandato di qualcuno? Stava mostrando interesse … per qualcuno che non fosse lui, così, del tutto gratuitamente?
<< Non saprei, non sono passato stamani >>, ammise. Veramente avrebbe dovuto chiedere di lui a Los, era Sagitter che si era fatto carico del piccolo ammalato.
Ma il fatto che lo scrutasse con quegli occhioni turchesi ammantati di aspettativa lo avevano spinto a fuggire. Era inevitabile che gli chiedesse se l’appuntamento saltato la sera precedente potesse aver luogo quella.
E Saga si stava sforzando di non cedergli, ad alcun costo. Era preso nella morsa di un duplice spavento: paventava di lasciarsi sfuggire qualcosa riguardo a Kanon, ch’era lì da ormai tre settimane, in incognito; e insieme aveva il terrore che questo fungesse da catalizzatore per lasciarsi andare a qualcosa di più … intimo, quasi che le mani di Aiolos, le sue labbra custodissero il magico potere di scacciare i demoni dalla sua anima divisa a metà.
Come se … concedendogli di dar sfogo alle sue fantasie malate Los fosse in grado di proteggerlo dalla nefasta influenza che Kanon esercitava su di lui.
Una vera follia. Da cui doveva guardarsi, anche se ciò significava deludere il suo migliore amico. Per il suo bene. Aiolos era puro, non avrebbe mai dovuto venire a conoscere certe verità obbrobriose. Il suo spirito davvero Santo si sarebbe irrimediabilmente macchiato, altrimenti.
Anche se … vederlo sempre più vicino a Shura era un rospo aspro e grosso da ingoiare.
<< Be’, allora quando vieni domani passa prima da lui >>, concluse Kanon, voltandosi sulla schiena.
Questo ebbe il potere di ricondurre Saga alla ragione. No, non andava bene affatto che Kanon mostrasse tanto interesse per un ragazzino. Non che ne fosse geloso: tutt’altro.
Se non l’avesse temuto tanto, ne avrebbe gioito. Forse esisteva ancora un barlume di speranza, per il suo gemello.
Ma non in questo caso.
Non contava il fatto che non gli avesse chiesto l’identità del fanciullo che aveva soccorso: era semplicemente un diversivo, un alibi furbo per non porre l’accento su quell’incontro, conscio che altrimenti Saga avrebbe fatto di tutto per tenerlo al sicuro dalle sue fauci. Non quelle reali, che sapeva bene che quella battuta macabra del gemello minore era stata solo uno scherzo orribile, tanto giusto per stuzzicarlo.
Ma c’era dell’interesse, era evidente. Se ora gli aveva dato la schiena era perché se ne rammaricava lui stesso, che qualcosa occupasse anche soltanto uno dei suoi pensieri, invece di rivolgerlo alla sua ossessione assieme a tutti gli altri. 
Forse … qualcosa in Shaka aveva colpito tanto profondamente Kanon da lasciargli dentro un segno, anche se fugace. Magari non era nient’altro che una reminiscenza di umanità, chi poteva dirlo.
Tuttavia doveva sottrarlo alla sua pericolosa influenza al più presto. Non poteva permettere al giovane Buddha, il Santo tra i Santi, ancora bambino indifeso e smarrito di venire plagiato da una mente perversa come quella di Kanon.
Così come non avrebbe dovuto permettere a quella di Los di indugiare a guardare i suoi occhi, nel tentativo di sondare la sua, realizzò amaramente.
Perché … se aveva imparato una cosa dai trattati di filosofia che leggeva al Santuario, era che a furia di allenarsi a combattere i mostri, si rischiava di divenire mostri noi stessi.
E nell’indugiare a fissare l’abisso, spesso si finiva col venire catturato da esso.
 
   
 
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