Anime & Manga > Hypnosis Mic
Ricorda la storia  |      
Autore: rainbowdasharp    21/09/2018    0 recensioni
[Hypnosis Mic]
| hypnosis mic | samaichi | one-shot |
"Le nuvole coprivano il sole, rendendo indistinguibile così indistinguibile il giorno dalla notte: non c'era più un confine netto tra le due, anzi, diventavano quasi due concetti astratti, tanto da scomparire sotto la furia del cielo."
Una ricostruzione immaginata della relazione di Ichiro e Samatoki, dal principio fino alla rottura.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Eclissi.


notte.

Era notte.

La mano del ragazzo che aveva conosciuto il giorno prima lo teneva stretto mentre, insieme, percorrevano le strade buie e poco sicure di Yokohama.

Ichiro, che fino a quel momento si era limitato a guardarsi intorno spaesato, quasi fosse atterrato su un altro pianeta, volse appena lo sguardo verso il suo accompagnatore: Ramuda Amemura stava, come sempre, parlando senza sosta, nonostante lui non lo stesse neanche ascoltando. Ichiro non aveva ancora capito quanti anni aveva ma, a disdetta di quanto in un primo momento aveva presupposto, doveva essere parecchio più grande di lui.

Il che avrebbe dovuto insospettirlo, quanto meno; ma Ichiro non aveva avuto modo di ricevere chissà quale educazione, data la mancanza di genitori nella sua vita – era lui l'adulto di casa. Era lui a prendere le decisioni, giuste o sbagliate che fossero.

E così, quella sera, aveva accettato l'invito dello strambo tizio conosciuto il giorno prima in una sala giochi nei pressi di Akihabara.

Ichiro era stato di rado a Yokohama, prima di quella sera e forse era la suggestione della notte, della sua consapevolezza (nonostante l'incoscienza della sua giovane età) che non avrebbe dovuto essere lì ma le strade sembravano non abbastanza illuminate e i palazzi spogli, quasi lugubri. Niente, niente aiutava a rendere ogni vicolo meno—cupo. Aleggiava un'atmosfera che Ichiro, al massimo, poteva dire di aver visto nei film noir o in alcuni anime di nicchia perché sì, anche Ikebukuro aveva le sue zone complicate ma lui era lì il padrone di casa... quasi letteralmente, nonostante la giovane età.

«... quindi, insomma, non farti intimidire dai due grossi e burberi tipacci di cui ti ho parlato, ok? Sono solo sempre imbronciati e, se si comporteranno male con te, ci penserò io a dar loro una bella lezione! E consolati pensando che avranno presto delle rughe orribili» Il tono incredibilmente colorato di Ramuda riuscì finalmente a strapparlo dai suoi pensieri; il sorriso del ragazzo dai buffi capelli rosa sembrava genuino e non poté fare a meno di replicare con quella che dovette sembrare più una smorfia, che altro. I due “tipacci” di cui gli aveva accennato sembravano davvero spaventosi ma ormai era un po' troppo tardi, per tirarsi indietro.

«Grazie» mormorò, improvvisamente meno spavaldo rispetto al giorno prima. Insomma, non gli era sembrata una così cattiva idea lasciarsi coinvolgere da un gruppo preso dal fare del rap sovversivo: distruggere quella società ingiusta, che avrebbe ben presto reso la vita un inferno anche ai suoi due fratelli minori (ancora troppo piccoli perché se ne rendessero conto), suonava davvero come la cosa giusta da fare. Ma ora...?

Non dovette sfuggire a Ramuda perché, con gli occhi azzurri che scintillarono persino nel buio della notte, ridacchiò appena e, con un cenno, gli mostrò quella che sembrava la serranda di un garage.

«Tranquillo, siamo arrivati!»

Ichiro a quel punto si sarebbe aspettato di tutto – l'immaginazione di un quindicenne poteva davvero arrivare ovunque, solo fantasticando – ma di certo non credeva di trovarsi di fronte ad un vero e proprio bar clandestino dal gusto retrò, uno di quegli ambienti che immagini come sale riservate nei locali alla moda e non di certo nascosti in un vicolo tra le stradine più buie di Yokohama.

Eppure, quel salotto aveva tutta l'aria di un'esclusiva area per clienti particolari, un misto tra gli sfarzi degni dell'ufficio del Padrino e dei party di James Bond: sin dall'entrata si estendeva un lungo bancone in legno tirato a lucido (non se ne intendeva, ma aveva l'aria a metà tra l'antico e il pregiato) di colore scuro, decorato in stile un po' vintage; alle sue spalle, invece, si ergeva un mobile che copriva quasi tutta la parete, piena di... alcolici, immaginava... ?, in bottiglie di svariato genere e non solo di bell'aspetto o dall'aria costosa (riconobbe dell'alcool che vedeva sempre a prezzo basso al konbini). Davanti al bancone, c'erano giusto quattro sgabelli da bar, come se fosse quello il numero di persone che quel posto avrebbe dovuto ospitare.

«Non avresti dovuto chiamare, prima di portarlo qui?» Una voce profonda colse alla sprovvista Ichiro, ancora impegnato a catturare con lo sguardo ogni dettaglio, ogni particolare così da imprimerlo nella sua mente.

«Scuuuusa, Jakurai» Ramuda unì i palmi delle mani, senza suonare troppo dispiaciuto e poi strattonò appena il più giovane in avanti, quasi al centro della stanza. «Non è carino?»

Ichiro si trovò, a quel punto, faccia a faccia con “Jakurai”. Era un uomo dall'aria incredibilmente distinta, lo sguardo affilato come le lame di un macellaio, mascherato da un'aria distaccata e fredda; aveva capelli lunghi fino alle spalle, raccolti in una coda bassa, di uno strano grigio misto ad un violaceo spento – le luci della stanza, soffuse, non lo aiutarono molto a distinguere per bene i colori ma non aveva molta rilevanza, in fin dei conti.

Ichiro avvertì un brivido attraversargli la schiena, come se il suo istinto gli stesse suggerendo che quella persona era pericolosa, una di quelle con cui non era saggio scherzare. Sedeva compostamente su un divano in pelle invecchiata, di un bel rosso mogano, che ben si accompagnava al resto dell'ambiente. Doveva essere lui ad aver deciso l'arredamento, decise Ichiro.

«“Carino” non è tra i prerequisiti richiesti per quel che abbiamo in mente, Ramuda». Nonostante il tono usato, basso ed equilibrato, Ichiro intuì comunque un po' di esasperazione mista ad irritazione. Altra veloce deduzione: era difficile immaginare un tipo come Ramuda andare d'accordo con un... Jakurai. «Ed è poco più che un bambino».

«Non sono affatto un bambino!» protestò immediatamente il ragazzo, avanzando di un passo ed ignorando così il suo buon senso. Odiava quando gli adulti si permettevano di giudicarlo solo per la sua dannata età anagrafica perché beh, sì, sarebbe stato un bambino, se solo gli adulti glielo avessero permesso.

Jakurai spostò lo sguardo su di lui solo in quel momento e la sua espressione, se possibile, si fece persino più affilata. Sembrava che lo stesse vivisezionando con gli occhi, studiando e analizzando ogni singolo centimetro della sua figura.

«Dunque, quanti anni hai?»

«... Quindici» rispose Ichiro, senza farsi intimorire.

«E sai perché il mio eccentrico collaboratore ti ha portato qui?»

«Beh, veramente io—»

«Quindi ti sei lasciato trascinare da uno sconosciuto in un luogo sospetto senza neanche una motivazione valida» dedusse Jakurai, senza allontanarsi poi molto dalla verità; Ramuda non gli aveva detto poi granché riguardo quel che voleva proporgli, se si escludeva quel “cambiamo il mondo, Ichiro!”, né di chi fossero i suoi “compagni” che voleva fargli conoscere. Il giovane sentì gli zigomi scaldarsi.

«Mi ha sentito improvvisare un pezzo rap!» sbottò infine, esasperato da quello sguardo.

Odiava essere guardato dall'alto in basso, soprattutto se a farlo era un adulto.

Quegli adulti che avevano lasciato soli lui e i suoi fratelli.

Vide Jakurai sollevare con scetticismo un sopracciglio, schioccando a Ramuda un'occhiata quanto mai dubbiosa. «Ma davvero?»

«Sentite, non è un problema. Non sarei dovuto proprio venire qui» sbottò infine il moro, voltando le spalle al signore antipatico e superando in fretta Ramuda, così che non avesse il tempo di fermarlo. «E grazie tante per la perdita di tempo» aggiunse, stizzito, prima di sollevare la serranda e uscire.

Beh, o almeno provarci.

«Beh, che cazzo è 'sto casino?»

L'uomo che si trovò davanti e contro cui quasi sbatté la faccia era molto più alto di lui, tanto che inizialmente si trovò faccia a faccia con una camicia mezza sbottonata. Dovette sollevare lo sguardo, per trovare il volto del nuovo arrivato.

La prima cosa che Ichiro pensò fu che aveva la faccia arrabbiata e l'aria particolarmente irritata: teneva con naturalezza una sigaretta quasi consumata tra le labbra, quasi questa fosse nata per trovarsi lì. Il resto del volto era parzialmente in penombra, a causa un po' del buio notturno e del fatto che si trovava in controluce, rispetto alla luna, ma era chiaro che avesse la faccia di chi non ci metteva poi molto tempo a smettere di parlare per passare alle mani. Un numero cospicuo di piercing scintillò tra capelli argentati non appena piegò la testa di lato, incuriosito forse dalla presenza di uno sconosciuto (così giovane, per di più) in quel luogo. Per quel poco che riusciva a vedere, aveva le ciglia più lunghe che avesse mai visto – persino più di Saburo. Teneva ancora saldamente con la mano la serranda alzata, il muscolo del braccio in piena tensione, seppur senza sforzo alcuno.

Sembrava uscito da un manga. Uno di quei protagonisti arrabbiati, contrariati ma incredibilmente brucianti della loro giustizia privata. Oppure una specie di demone, sceso dalla luna e che riusciva a brillare in quel modo grazie alla sua luce.

Era bellissimo.

E non si stupì di averlo pensato almeno fin quando l'uomo non fece un altro passo avanti, costringendolo a farsi da una parte e chiuse la serranda dietro di sé, con un colpo secco; per tutto quel tempo, lo avevo osservato come rapito, quasi incantato. Il rumore della saracinesca sembrava averlo risvegliato da una sorta di ipnosi.

Solo in un secondo momento, Ichiro si rese conto che tutto, nella sua figura, suggeriva una sola e unica parola: yakuza.

Ma questo, paradossalmente, non lo spaventò affatto.

«Beh, abbiamo aperto un asilo, adesso?» fu il suo esordio e questo lo colse nel vivo, tanto che aggrottò le sopracciglia, contrariato. Però, a differenza di Jakurai, lo stava guardando dritto negli occhi, senza perderlo di vista, anche se era evidente che si stesse rivolgendo agli altri due presenti. «Chi è il moccioso?»

«Sono Ichiro Yamada» ribatté immediatamente, impettito. Poteva anche essere giovane e—beh, basso (ma Ramuda non era poi così imponente, dopotutto) ma esigeva rispetto. Persino da uno yakuza bellissimo.

«È il ragazzo di cui vi ho detto!» esclamò improvvisamente Ramuda, quasi assalendo Ichiro alle spalle per abbracciarlo senza che questi potesse ribellarsi. E tanti saluti al suo tentativo di sembrare dignitoso. «Un vero genietto, vero, Ichi? Volevate qualcuno di esplosivo e io ve l'ho portato – un diamante grezzo, credetemi». Ichiro non poteva vedere l'espressione del ragazzo, ma intuì che qualcosa, nel suo volto, bastò a far quietare almeno momentaneamente le proteste dei suoi compagni.

«Bene, Ichiro Yamada»si arrese Jakurai, alzandosi dal divanetto e Ichiro si rese finalmente conto di quanto l'uomo fosse alto – superava persino il nuovo arrivato. E di gran lunga. «Se Ramuda dice che hai talento nel rap, ti metteremo alla prova. Io sono Jakurai e lui--»

«Aohitsugi Samatoki» sbuffò l'albino, prima di dargli un buffetto sulla fronte.

«Ehi!»

«Ma sono il sommo Samatoki per te, moccioso».

E quello fu l'inizio, assolutamente imprevisto ed insensato, di coloro che sarebbero stati conosciuti come i Dirty Dawgs.


E di come Ichiro Yamada iniziò a sognare di poter raggiungere la luna.


giorno.

«Samatoki!»

Ma che cazzo.

Samatoki aveva poche, pochissime regole nella sua vita ma quelle poche cazzo di regole erano sacre. E una delle più importanti era stata appena violata.

Mai svegliarlo senza delicatezza e no, un fottuto cuscino in faccia e urla nelle orecchie non era affatto delicatezza, persino nel suo vocabolario fatto di pugni, calci e battaglie rap.

Quindi la prima istintiva reazione che ebbe fu quella di afferrare l'attentatore del suo sonno e intrappolarlo in una morsa soffocante, in modo tale da essere pronto a rompere l'osso del collo a chiunque avesse osato assalirlo mentre dormiva.

La sua regola era per salvaguardare gli altri, dopotutto.

Ci mise più di qualche secondo a capire chi stesse strozzando come prima cosa appena sveglio: un'arruffata nuca di capelli neri e della braccia ricoperte da una felpa blu piena di stampe di ogni genere lo aiutarono a realizzare.

«Merda» sibilò, un attimo prima di lasciare la sua vittima:Ichiro Yamada, poco più di sedici anni, adesso se ne stava sul divano del loro covo a tossire, massaggiandosi la gola. Samatoki si sollevò a sedere, combattuto tra il sincerarsi delle condizioni del ragazzino oppure lasciare che si riprendesse.

Optò per la seconda e si accese una sigaretta, così da distrarsi ed avere la scusa per voltarsi per guardare altrove.

«Era... solo uno scherzo...» si giustificò dopo un po' il moro, sistemandoglisi poi vicino nonostante sembrasse arrabbiato con lui – “accidenti ai mocciosi”.

«Quante fottute volte ti devo dire che non devi svegliarmi così?!»

«Non è colpa mia se sei permaloso!» ribatté quello, dando per l'ennesima prova di non aver capito assolutamente quale fosse il punto del problema. Ichiro non era stupido, era solo cresciuto in un ambiente così relativamente tranquillo da poter considerare un vero e proprio agguato nel sonno uno “scherzo”. Samatoki si passò una mano tra i capelli, esasperato, conscio che continuare a discutere non avrebbe cambiato proprio un bel niente. «E poi sono le due del pomeriggio, che ci fai qui a quest'ora? A dormire, poi».

«Da quando devo dare spiegazioni ad un moccioso?» ribatté, allungandosi quanto bastava per tirargli una guancia. Ichiro, per tutta risposta, si lamentò appena ma Samatoki sapeva che non si sarebbe ribellato.

Quello strambo (perché sì, non poteva essere normale) ragazzino era in perenne ricerca delle sue attenzioni. Ormai era da un anno che si conoscevano e, dopo un po' di diffidenza iniziale, Ichiro aveva iniziato ad interessarsi a lui sempre più spesso, con una curiosità così genuina che lo yakuza si ritrovava spesso a chiedersi se non fosse matto.

Ma quale moccioso sano di mente stava appiccicato a quel modo ad un criminale dichiarato?

Spense quel poco che rimaneva della sigaretta nel portacenere, sul tavolo davanti a loro, decidendosi a lasciare finalmente andare la guancia di Ichiro, il quale si limitò a borbottare e a massaggiarsi la parte dolorante. Dopotutto, solo Samatoki aveva il privilegio di trattarlo come un ragazzino senza essere rimbeccato ogni volta, proprio come in quel caso.

«Tu, piuttosto, non dovresti essere a scuola?» Lo vide volgere lo sguardo altrove, chiaro segno che , avrebbe dovuto essere a scuola.

Samatoki sospirò e poi, senza aggiungere altro, si alzò in piedi e si avviò verso l'uscita del loro ritrovo, consapevole che Ichiro lo avrebbe seguito al volo.

«Dove vai?» esclamò infatti il ragazzino, raggiungendolo con un balzo; fu lui a chiudere la serranda in fretta e furia.

«A fare delle commissioni» gli rispose semplicemente, ma non protestò quando il moro lo affiancò nella sua usuale camminata.

Sembrava assurdo pure a lui, ma non gli dispiaceva la compagnia del moccioso: Ichiro era un tipetto sveglio, attento a tutto nonostante potesse sembrare a tratti superficiale (dopotutto, aveva sedici anni). Senza contare che, per quanto Samatoki adorasse negarselo, rivedeva un po' di se stesso nel ragazzo: in parte sbandato e abbandonato a se stesso, sulle spalle i fratelli minori a cui a quanto pareva non faceva solo da fratello e la rabbia negli occhi – una rabbia giustificata da un mondo ingiusto che gli aveva negato la spensieratezza della sua età e che lo vedeva, attualmente, in compagnia di tre stupidi adulti (chi più, chi meno) che cercavano di demolire la loro società. Questo però non gli aveva strappato il sorriso, il che gli pareva assurdo: Samatoki non sorrideva. E quando lo faceva, non era di certo genuino.

Ichiro Yamada, invece, nonostante quella vita assurda che conduceva (una sorta di genitore teenager con due mocciosi a carico, invischiato con dei tipi loschi, sembrava ancora brillare di una luce che Samatoki non aveva mai incontrato, figurarsi se potesse averla avuta.

Era puro, ancora. Di una purezza irritante ed irresistibile al tempo stesso. Era come se Ichiro incarnasse il sole: in grado di dare vita a chi lo circondava, di far sì che le persone gravitassero intorno a lui prima che queste ne potessero essere completamente consci.

Ma Samatoki sapeva anche che, continuando a portarselo dietro, prima o poi lo avrebbe deturpato. Avrebbe spento quella luce, trascinandola giù con sé nell'oscurità degli inferi.

Schioccò la lingua, innervosito dai suoi stessi pensieri – non era colpa sua, era Ichiro a seguirlo, a prenderlo come modello. Non poteva addossarsi la responsabilità di quello che un ragazzino voleva fare della sua vita, dopotutto.

«Di' un po', è vero che hai fatto a botte con degli idioti, l'altro giorno? Me l'ha detto Jakurai» chiese il più grande a bruciapelo, dopo essersi fermato; Ichiro, forse sovrappensiero, finì con lo sbattergli addosso.

«Ah... sì» ammise, senza il minimo pentimento nella voce. «Se ne approfittavano di alcuni studenti delle medie, non potevo far finta di nulla».

E anche in questo, Samatoki si disse, erano simili: la giustizia personale era qualcosa che entrambi esercitavano senza pensarci due volte, considerando che della legge del loro mondo non c'era proprio da fidarsi.

«Tra cui tuo fratello immagino».

«... Sì, anche—Jiro. Odio i bulli» mormorò a denti stretti e, ancora una volta, quella rabbia scintillò con forza nei suoi occhi così diversi – antitetici, quasi: il verde smeraldo della pace e il rosso passionale del sangue. Simile ai suoi, ancora.

«Beh, adesso sei un bullo anche tu» gli fece notare, mentre con naturalezza riprendeva a camminare con un mezzo sorrisetto sulle labbra.

«... Un bullo con buone intenzioni, però». Beh, però non aveva negato. Aveva ragione Samatoki – era proprio sveglio.

Ed era per questo, dopotutto, che quel pomeriggio lo aveva aspettato al covo. (Inutile a dirsi che non lo avrebbe ammesso neanche sotto tortura).

Le strade di Yokohama non avevano segreti, per il giovane yakuza; bastavano pochi passi e le strade sembravano piegarsi al suo volere, come se attendessero a gloria il passaggio del loro re.

E così si sentiva, Samatoki Aohitsugi: un re con in mano il proprio destino, senza la minima intenzione di chinare la testa di fronte a qualche stronzo qualunque.

«Allora c'è da festeggiare l'arrivo di un nuovo giustiziere in città» lo provocò, ben sapendo che il ragazzino era appassionato di fumetti e tutta quella roba là, che per lui non aveva mai avuto il minimo senso.

«... Festeggiare?» chiese Ichiro confuso ma, proprio in quel momento, Samatoki si fermò: si trovavano di fronte ad uno studio di piercing e tatuaggi, gente che lo yakuza considerava di fiducia – proprio lì, si era servito quando ne aveva avuto bisogno. Gettò uno sguardo incuriosito ad Ichiro che, oltre ogni sua aspettativa, sembrava star brillando di puro entusiasmo.

«... Posso? Davvero?»

«Hai qualcuno a cui rendere conto? Non mi pare» gli ricordò e, prima che potesse fermarsi, gli stava scompigliando i capelli.

Dannazione.

«Ma—non ho soldi per fare nulla. Non... posso» ammise il moro, a bassa voce, quasi con vergogna.

Samatoki sapeva che Ichiro, oltre alla scuola, spesso si dava da fare come poteva per portare qualche soldo a casa: commissioni, lavoretti saltuari che gli permettevano non solo di far campare tutta la piccola famiglia, ma anche di viziare di tanto in tanto i suoi fratelli minori.

E anche per questo, la risposta di Samatoki fu piuttosto eloquente: gli diede un calcio non troppo delicato sulle chiappe, così che facesse qualche passo avanti.

«Pago io, tu muovi quel culo e decidi cosa fare. Niente tatuaggi però, per quello sei ancora un poppante».

La limitazione non sembrò turbare il giovane più di tanto perché, entusiasta, si mise quasi a saltellare di fronte alla porta dello studio tanto che alla fine, esasperato, fu Samatoki ad aprirla per lui.

«Ohi» salutò lo yakuza, sbrigativo, con un cenno del capo non appena misero piede nel negozio; dietro il bancone, il suo tatuatore di fiducia, Ghost (così si faceva chiamare, almeno... era un tipo drammatico) ricambiò con un cenno del capo e, da dietro i suoi occhiali da vista (decisamente meno da “ghost”), gettò un'occhiata interessata ad Ichiro che, forse un po' intimorito, si era limitato a seguire Samatoki in silenzio. L'uomo lasciò persino perdere la rivista che stava sfogliando, per rivolgersi a loro.

«Giovani reclute?» chiese, con tono quasi provocatorio e Samatoki affilò immediatamente lo sguardo, giusto per ricordargli che non era il caso di scherzare. Non con lui, almeno. «Ah, ho capito. È un tipetto speciale».

Se Ghost aveva un difetto, era che parlava troppo, soprattutto quando capiva troppo. «Siamo qui solo per un piercing» specificò l'albino, ignorando l'insinuazione dell'artista. «Hai deciso, Ichiro?»

«... Ne voglio—uno come i tuoi» mormorò il ragazzo, guardandolo però con decisione. «Sull'orecchio» e quei due occhi, così diversi tra loro chiarirono ogni singolo, debole dubbio circa il motivo della sua scelta.

... Cristo.”

Samatoki cercò di rimanere impassibile, ma c'era qualcosa che scattava dentro di lui ogni volta che Ichiro mostrava in qualche modo di ammirarlo che andava davvero oltre l'autocompiacimento: quel piccolo sole, a soli sedici anni, lo aveva già reso parte del suo fottuto sistema solare e lo aveva fatto poco a poco, grazie alle sue abilità personali, al suo sorriso, a quegli occhi pieni di volontà di piegare il futuro. Seppur inseguendolo, lo aveva trascinato nella sua corsa verso un qualcosa che lo yakuza non era sicuro di voler ammettere.

Cazzo, hai quasi ventun anni, Samatoki. Datti un fottuto contegno”.

«Beh, parti da qualcosa di semplice, tipo sul lobo» riuscì finalmente a dire, con apparente tono piatto ma contraddicendosi un istante dopo mentre allungava una mano per sfiorare il punto di cui parlava sull'orecchio del ragazzo.

Un tocco un po' più dolce di quanto non fosse sua iniziale intenzione.

Ritrasse subito la mano, come se avesse preso la scossa – porca puttana, doveva porsi dei limiti o la cosa rischiava di sfuggirgli più in fretta del previsto. E lo sguardo più che interessato di Ghost non fece che confermargli i suoi timori al riguardo.

«Va bene, allora, piccoletto. Un buchetto veloce, ti resta solo da scegliere l'orecchino». Se non altro, il tatuatore fu veloce ad interrompere quella strana atmosfera; Ichiro si avvicinò curioso al bancone, mentre Ghost gli mostrava una serie di piccoli brillantini colorati, adatti come primo temporaneo gioiello da indossare.

Lo sguardo del ragazzo indugiò a lungo, ma alla fine indicò un semplice brillante di un blu acceso, quasi elettrico.

«Questo qui, se—se va bene». Ovviamente, si rivolse a Samatoki, quasi come se gli stesse chiedendo il permesso.

«Quello che ti pare, Ichiro. Basta che ti piaccia» lo rassicurò il più grande, prima che il moro annuisse con decisione; Ghost quindi estrasse l'orecchino dalla busta dove si trovava e poi si mise ad armeggiare la pistola per prepararsi a bucare.

«Rimani ad assistere, Aohitsugi?»

«Solo se posso fumare» ribatté disinteressato – ma la verità era che voleva vedere con i suoi occhi l'istante in cui Ichiro otteneva quel primo segno che li avrebbe accomunati, il primo passo su una strada volta a raggiungerlo. Era egoista? Fin troppo, lo sapeva. Avrebbe dovuto tenerlo a distanza, non fare di tutto perché seguisse le sue orme. Eppure mentre Ichiro stava lì, seduto sullo sgabello, un po' teso all'idea del piercing imminente ma raggiante e orgoglioso, con quegli occhi fissati su di lui...

Tirò un tiro piuttosto profondo dalla sigaretta, sperando che la nicotina scacciasse per l'ennesima volta quello strano e contorto desiderio che negli ultimi mesi si stava creando in lui.

Ghost poteva avere molti difetti, ma era un professionista; il buco fu rapido ed indolore, la posizione dell'orecchino perfetta; il brillante blu luccicava tra i capelli corvini arruffati di Ichiro, perfettamente intonato alla sua felpa.

«Beh, perché blu?» gli chiese Samatoki, una volta che furono usciti dal negozio: il sole era ancora alto nel cielo e, nonostante fossero nel pieno dell'autunno, il scaldava e splendeva abbastanza da far sì che il gioiello brillasse con più convinzione, sotto la sua luce.

«Perché è il colore della notte» rispose immediatamente Ichiro, senza riuscire a contenere il suo sorriso carico di calore. «E—beh, mi piace, la notte».

Samatoki rimase interdetto, di fronte a quell'affermazione. Era così—paradossale: lui vedeva nel giovane il giorno e a questo piaceva la notte.

«I mocciosi dovrebbero dormire, di notte» lo provocò, con un mezzo sorriso, prima di dargli un leggero pugno sulla nuca. «O rimarrai per sempre piccoletto».

«Crescerò, invece! Diventerò alto quanto e anche più di te, Samatoki!» ribatté immediatamente Ichiro, risentito. Eppure, quel broncio durò un istante; un attimo dopo, Samatoki notò come approfittasse di ogni vetrina affacciata sulla strada per specchiarsi e vedere come quell'orecchino gli stava.

Chissà, si disse. Magari aveva ragione – sarebbe diventato grande e grosso, proprio come lui. E Samatoki avrebbe aspettato, forse.

In fondo, il sole era più bello nel suo punto di massimo splendore.


alba.

Se c'era qualcosa di cui Ichiro era estremamente geloso, era la mattina.

C'era quella luce fioca che filtrava dalle tende a fatica, nella camera di Samatoki, che riusciva a rendere tutto surreale: la piccola stanza, praticamente spoglia, dalle pareti bianche quasi asettiche, con quella luce prendeva una nuova vita – qualcosa che solo lui poteva vedere.

La luce baciava anche, timidamente, la figura del ventitreenne che dormiva al suo fianco; il respiro lento e regolare, le lunghe ciglia nere che spiccavano su quel volto pallido, quasi etereo, in parte coperto solo dalle disordinate ciocche argentee che sembravano volerlo proteggere dal giorno incombente – tutto quel ben di Dio era suo. Sentiva il calore del corpo dell'uomo contro il proprio, Ichiro, che intanto godeva delle braccia che circondavano il suo torace, le quali ogni tanto nervosamente scattavano perché neanche nel sonno dopotutto Samatoki riusciva ad essere completamente sereno.

Eppure, nell'avidità dei suoi tocchi, dei suoi baci, dei suoi morsi e poi delle sue richieste mormorate, ringhiate, imposte il giovane Yamada non riusciva a fare a meno di percepire un disperato bisogno di qualcosa di diverso.

Dolcezza, calore... amore.

E anche se continuava a mascherare quei gesti con la violenza che conosceva, Ichiro aveva imparato a non sussultare più quando improvvisamente lo intrappolava contro il muro, ma a sorridergli, ad accettare la sfida; quando lo mordeva, non si lamentava ma ricambiava con un bacio; quando gli urlava contro, incontenibile nella sua rabbia scoperchiata all'improvviso, rimaneva in silenzio, paziente, ma fronteggiandolo.

Era lui, il suo qualcosa di diverso.

E allora, quando Samatoki lentamente iniziava a svegliarsi come in quel momento, forse disturbato dall'essere fissato (le prime volte che dormivano insieme era bastato persino un respiro diverso perché l'albino spalancasse gli occhi, i sensi in allerta), voleva solo ricordargli che la vita faceva schifo, sì, ma poteva esistere un minuscolo angolo se non di Paradiso, almeno di pace.

«... Perché cazzo sei già sveglio... ?» biascicò lo yakuza, dandogli una svogliata ed assonnata manata in faccia, come per scacciare i suoi occhi.

Ichiro non replicò subito, ma prese piuttosto quella mano e la baciò, mentre ne massaggiava la pelle rovinata, come se così facendo potesse lenirne il vissuto.

«Russavi» lo provocò, mentre lo osservava sollevarsi sui gomiti, quanto bastava per appoggiarsi alla testiera del letto ad una piazza e mezzo su cui stavano un po' stretti. Gli occhi di Samatoki scintillarono, irritati, dello stesso tono vermiglio dell'orecchino che indossava, del tutto simile a quello che Ichiro ancora portava sull'orecchio sinistro – quello blu come la notte.

Il moro ridacchiò mentre il più grande cercava a tentoni sul proprio comodino il pacchetto delle sigarette e l'accendino, immancabile al suo risveglio dopo una nottata di sesso.

«Come no» replicò, dopo aver accuratamente pensato, probabilmente, se tirargli una guancia per rimproverarlo (e non importava che adesso Ichiro fosse alto quasi quanto lui, continuava a trattarlo spesso come un moccioso qualunque) oppure dargli poco conto. Fece scattare l'accendino e, dopo la prima tirata, la sua fronte finalmente si distese, come se solo la nicotina fosse in grado di acquietare la sua rabbia perenne.

«Guarda che è presto» gli fece notare Ichiro, quasi per indurlo a riposare ancora un po' ma per tutta risposta Samatoki gli offrì un tiro della sua sigaretta.

Erano quei piccoli gesti del più grande a comunicare, ben più della sua voce.

Quindi Ichiro prese sì la sigaretta, ma si sporse anche verso di lui per strappargli un bacio che aveva un saporaccio, un misto tra fumo e stantio, ma che proprio per questo era più reale. Più vivo.

«Ah, che schifo» fu infatti il commento di Samatoki, che però non aveva dato alcun segno di disturbo – il che implicava che, nonostante la lamentela, aveva gradito eccome. «Ecco perché non sopporto i mocciosi».

«Il moccioso qui presente stanotte non ti dispiaceva più di tanto» gli fece notare, con un mezzo ghigno consapevole dopo un mezzo tiro dalla sigaretta – cercò in ogni modo di trattenersi dal tossire, ma proprio non ce la faceva; il sapore del tabacco sulla bocca di Samatoki gli piaceva, sì, ma il fumo lo irritava da morire. L'albino gli strappò prontamente la sigaretta di mano, indispettito da quel commento.

«Questo solo perché ti ho insegnato bene». Ichiro si limitò a sorridergli e a guardarlo, perché non si stancava mai di farlo; sapeva che Samatoki, sotto tutta quella corazza fatta di minacce, furia e dolore, era una brava persona. Glielo aveva dimostrato così tante volte che, quando ogni tanto si fermava a riflettere se davvero stesse seguendo la strada giusta, subito si ricredeva e continuava a camminare al suo fianco. «... Ma che hai, stamattina? Hai la faccia da coglione, Ichiro».

«Niente, niente» lo rassicurò, sapendo che quello che provava (e provavano) doveva rimanere taciuto, solo esperito; perché, se lo sentiva, se lui si fosse avanti e si fosse esposto, Samatoki sarebbe scappato lontano da lui, perché ogni legame era da considerarsi pericoloso nel suo caso. «Stavo pensando che sei un pervertito».

«Cambi discorso, eh?» Sì, era il modo più veloce. Samatoki spense la sigaretta direttamente sul comodino, come faceva sempre – non solo Ichiro glielo aveva visto fare chissà quante volte, ma c'erano così tanti segni di bruciato, su quel mobile che era difficile non rendersene conto – e poi si sdraiò di nuovo; lo invitò con lo sguardo, senza pronunciare una parola, a fare quel che voleva. Ed era solo così che Samatoki gli parlava: con gli occhi. Mute richieste che nel tempo aveva dovuto imparare ad interpretare.

La prima volta che si erano baciati, era successo durante un temporale: era sera tardi, ormai e Ichiro sarebbe dovuto tornare a casa da Jiro e Saburo, che sicuramente lo stavano aspettando. Era nervoso ed agitato perché, lo sapeva, per quanto i suoi fratellini cercassero di impensierirlo il meno possibile, puntualmente finivano per innervosirsi a vicenda e litigare, soprattutto quando stava a lungo lontano da casa.

Erano nel loro rifugio, a Yokohama e Ichiro fissava l'acqua che testarda batteva sull'asfalto da sotto la saracinesca appena sollevata. Samatoki, che sedeva sul divano con un bicchiere di birra scadente tra le mani, all'improvviso si era alzato e si era chinato vicino a lui, ancora con quel calice pregiato (di Jakurai, ovviamente) tra le dita. Aveva tentato di distrarlo, a modo suo, fin quando all'improvviso si erano ritrovati con le labbra unite. Così, con naturalezza, senza nessun preavviso.

Era stato un bacio orribile, perché Ichiro al massimo lo aveva visto fare negli anime, ma Samatoki non aveva commentato. Ricordava ancora il sapore della birra misto al tabacco, al modo in cui il rumore dell'acqua aveva coperto il suo sospiro stupito e come, infine, Samatoki fosse tornato a sedersi sul divano.

Era passato un anno, da allora.

Ichiro lo sovrastò poco dopo, le mani puntellate poco sopra le sue spalle; era incredibile quanta complicità potesse crearsi nel silenzio, quanto potesse nascondersi nello sguardo di qualcuno. Si chinò su Samatoki, per baciarlo di nuovo – stavolta più lentamente, assaporando quelle labbra sottili e secche, alternando le carezze della lingua a piccoli morsi leggeri, che mal celavano il desiderio nato dalla pura ammirazione.

Samatoki sollevò il braccio per posare il palmo sulla sua guancia, in un breve e raro momento di dolcezza: sentì il pollice ruvido accarezzare la sua pelle, liscia e Ichiro si rese conto che, se anche lo stava fissando, la sua mente era altrove.

«... Che c'è?» gli chiese, quasi apprensivo, in un sussurro. L'espressione dell'albino non cambiò, ma evidentemente fu riportato alla realtà, al loro letto e al loro bacio.

E fu altrettanto chiaro che scacciò accuratamente quello a cui stava pensando realmente. «Sei cresciuto».

«... Ho quasi diciotto anni, Samatoki. Non sono più un bambino, a differenza di quanto dici tu».

«Lo so. Non me la faccio coi ragazzini, quindi se tu non fossi uomo, stai sicuro che non scoperemmo».

C'era sempre questo modo di esorcizzare qualunque cosa si creasse tra loro sminuendolo, insultandolo, togliendogli dignità. Ichiro ormai ci era abituato, ma a volte si chiedeva se sarebbe mai riuscito a convincere Samatoki che quello che avevano andava ben oltre una sporadica botta e via e si avvicinava, seppur in modo un po' contorto, decisamente di più ad una relazione.

Ma non era quello il punto – lo aveva definito uomo. «Oh, mi dai il permesso di ignorarti, allora, ogni volta che mi chiami moccioso?»

«Moccioso eri e moccioso rimani» fu l'insensata replica del più grande, che però si sciolse almeno in un mezzo sorriso compiaciuto. «Sei solo un moccioso con il corpo di un uomo». Come questo avesse senso nella mente dello yakuza, Ichiro di certo non poteva spiegarselo e neanche ci provò; piuttosto, dopo aver sospirato, tornò a baciarlo con un pizzico in più di dolcezza, mentre avvertiva chiaramente la mano di Samatoki scendere dal suo volto, soffermarsi sul suo collo ed infine percorrere le linee accennate dei pettorali, degli addominali ed infine soffermarsi sul suo fianco, stringendolo con possessività. C'era sempre quel disperato anelare al contatto fisico, quando erano da soli, a cui Ichiro aveva dovuto abituarsi in fretta; a volte aveva la sensazione che Samatoki avesse paura che se ne andasse, gli voltasse le spalle. E lo faceva un po' sorridere perché, dopotutto, lui temeva lo stesso: per quanto ancora la sua personale divinità della notte avrebbe avuto la pazienza di badare a lui, alla sua inesperienza? Quanto avrebbe sopportato, ancora, prima di stufarsi?

«Samatoki...» gli sussurrò, nel bel mezzo di un bacio.

«Hai voglia di chiacchierare, stamattina?» brontolò subito l'altro.

«... Voglio qualcosa».

Lo sguardo dell'uomo scintillò, mentre immediatamente le sopracciglia si inarcavano, perplesse. «Mi pare di darti già abbastanza, col mio cu--».

«Non intendo di fisico» sbuffò Ichiro, prima di lasciarsi andare ad un sospiro. «Un... accordo, diciamo». Stava per dire “promessa”, ma era abbastanza sicuro che sarebbe suonata troppo complicata per Samatoki.

«... Un accordo» ripeté lo yakuza, gli occhi ridotti a due fessure. «E di che genere, sentiamo».

«Non perdiamoci» fu la sola richiesta di Ichiro. «Insomma, se—capitasse di doverci allontanare o qualcosa del genere... non voglio perderti».

Era una fortuna che Ichiro fosse fondamentalmente sincero, nei suoi sentimenti, così come, così giovane, avesse compreso almeno in parte come prendere l'albino: mai cercare di farlo esporre, piuttosto esporsi.

In ogni caso, quella proposta sembrava averlo colto alla sprovvista tanto che, da sdraiato che era, si sollevò di nuovo sui gomiti, per essere quasi allo stesso livello del suo sguardo. Poco importava che fossero nudi, ancora, seduti l'uno sopra l'altro – no, persino Samatoki era consapevole che la frase di Ichiro era un ballo in maschera che portava con sé centinaia di convitati che non si aspettava di dover affrontare in un momento del genere.

«Parla chiaro, Ichiro. Non mi piace quando giri intorno al discorso», ecco, questo invece era il rovescio della medaglia: quando Samatoki pensava che si stesse prendendo gioco di lui.

Il moro si morse il labbro inferiore. «... Voglio solo che quello che abbiamo non vada perso. Per me—significa tanto». Stavolta fu più chiaro e, di conseguenza, anche lo yakuza finì con il rilassarsi appena. E dire che aveva cercato di non metterlo sulla difensiva.

«Sei un sentimentale del cazzo» fu il suo unico commento, ma il suo sguardo si era fatto più morbido, più dolce tanto che fu lui a cercare per primo un bacio che non aveva niente di Samatoki: era leggero, quasi fosse una risposta che però non era in grado di esprimere completamente a parole. «Per questo hai bisogno della balia, anche se sei grande e grosso».

Non gli rispose mai davvero – non a parole, almeno – e Ichiro si limitò a prendere quel bacio come una promessa.

Era difficile sentire la voce della notte: la luna taceva e con essa le stelle che l'accompagnavano.


tramonto.

Faceva quasi fatica a respirare, quel pomeriggio.

L'aria era umida, carica di una pioggia incapace di sfogare tutte quelle gocce ammucchiate e pesanti che le nuvole trasportavano con sé. Era quasi la fine dell'estate, ormai, eppure faceva ancora un caldo insopportabile, di quelli che ti azzannano e non ti lasciano più andare via.

Samatoki camminava con passo nervoso per le strade di Ikebukuro – una zona che conosceva poco, in cui non poteva fare a meno di sentirsi fuori posto; lì, dopotutto, l'impero di Ichiro Yamada era quasi palpabile: i ragazzini giocavano per strada spensierati, con i cellulari guardavano video su video riguardo il loro beniamino e brillavano perché lì “Ichiro” era l'unico nome che contava davvero, che poteva cambiare le cose.

Ma Ichiro era esattamente il motivo per cui si aggirava per quelle vie poco familiari controvoglia – o meglio, la chiamata di Ramuda che aveva ricevuto poco ore prima era il motivo per cui si trovava in quel posto, con fare agitato.

Si era perso due volte. Quelle stramaledette strade gli sembravano tutte uguali o, più probabilmente, era troppo nervoso e distratto dalle proprie rogne per prestare davvero attenzione a dove stava andando: di solito, avrebbe colto almeno i punti di riferimento più evidenti – una sala giochi, una strada particolare, una piazza – ma era evidente che la sua mente fosse altrove.

Non lo avrebbe mai ammesso, ma era preoccupato.

«Credo che Ichiro sia nei guai» aveva esordito Ramuda al telefono con tono quasi serio, per i suoi standard. Samatoki aveva avvertito un brivido corrergli su per la schiena, come se quella sensazione pessima che aveva sin dal primo mattino si fosse improvvisamente spiegata, neanche avesse un istinto animalesco.

Quante cazzo di volte gli aveva detto che aprire un'agenzia tuttofare era un'idea terribile? Ma no, Ichiro era così: doveva sentirsi utile, cercare di aiutare qualcuno. Negli ultimi tempi spostarsi da una zona all'altra era diventato sempre più difficile (soprattutto perché il coglione pareva una specie di celebrità in quel quartiere del cazzo) e quindi aveva pensato che così sarebbe stato più semplice raccogliere informazioni per i Dirty Dawgs e nel frattempo fare qualcosa di buono. “E poi” aveva detto, “è come in una serie che seguo. È perfetto!”.

Inutile dire che Jakurai aveva appoggiato l'idea e, a ruota, anche Ramuda. Per una volta che non avrebbero dovuto essere d'accordo, eccoli lì.

Si accese la terza sigaretta nel giro di mezz'ora, quasi masticando il filtro da tanto che borbottava e digrignava i denti; il suo stramaledetto telefono non sembrava ben intenzionato a collaborare fornendogli un qualcosa di simile ad una mappa (quei maledetti aggeggi e le indicazioni non funzionanti) e stava quasi per lanciarlo a terra, quando finalmente colse l'insegna, chiaramente nuova, che svettava sulla strada larga e trafficata, al primo piano di un condominio altrimenti piuttosto anonimo.

Agenzia Tuttofare Yamada” recitava, a grandi lettere rosse in stile street art su fondo blu. Come la felpa che Ichiro si era comprato ultimamente.

Quanto lo faceva incazzare.

Inspirò a fondo per tentare di darsi una calmata, gettò la sigaretta appena accesa a terra e, dopo averla spenta col piede, entrò nel negozio (o sedicente tale) cercando di non sembrare troppo aggressivo.

Sperava di trovarci Ichiro, così da smentire subito quel che Ramuda gli aveva spifferato al telefono ma, ovviamente, dietro al bancone c'era un ragazzino che non aveva mai visto in vita sua ma che non gli ci volle molto ad identificare: Ichiro gli aveva parlato così tanto dei suoi fratelli minori che avrebbe quasi potuto fare loro un identikit.

Il ragazzo che ricambiò la sua occhiata aveva, come Ichiro, l'eterocromia: un'iride verde, come quella del fratello maggiore e l'altra dorata, di un colore caldo e acceso. Era vestito in modo molto simile a Ichiro e tanto bastò per capire chi dei due piccoli Yamada si trattasse: Jiro, il secondogenito.

«Sì... ?» gli chiese, un po' sospettoso – beh, solo quel coglione di suo fratello maggiore non gli riservava quel genere di occhiate. La sua era una reazione almeno onesta.

«Cercavo Ichiro Yamada. È qui?»

«No, è uscito circa un'ora fa» lo informò subito il ragazzo. «Lo sostituisco nel frattempo» ed era piuttosto evidente che la cosa lo rendesse decisamente fiero.

«Sono un suo—amico» riuscì a dire Samatoki (non era il caso di traumatizzare un moccioso, dopotutto, cercando di spiegargli che suo fratello maggiore faceva sesso con lui). «Puoi dirmi dov'è andato? È una questione piuttosto urgente».

«Mmmh... Non so se potrei, ma se sei un amico del fratellone...» Gli fece cenno di avvicinarsi con fare confidenziale e fu un miracolo se lo yakuza si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo. «Aveva un appuntamento con un cliente al bar Nisshoku». Prese un pezzo di carta dal blocco su cui stava disegnando (… o, almeno, ci stava provando) e gli disegnò una sottospecie di mappa fatta di linee piuttosto chiare. Forse era più un tipo pratico che artistico. «Ecco qua, non è troppo lontano».

«Grazie» disse velocemente Samatoki, afferrando il foglio e precipitandosi di nuovo in strada, senza troppe cerimonie.

«E torna a trovarci!» sentì solamente urlare dall'interno del negozio, ma ormai era già fuori.

La mappa di Jiro Yamada si rivelò così precisa che Samatoki non usò neanche il telefono per orientarsi meglio; tempo una ventina di minuti, quasi tutti di corsa trafelata, e si trovò davanti al bar Nisshoku. Era un un modesto localetto, rifinito in modo semplice, con le sue mura bianche e le finestre ampie, e modesto persino nell'insegna che penzolava un po' svogliata; niente di troppo sofisticato per turisti, ma neanche una bettola da due soldi per delinquenti. Samatoki provò per la quindicesima volta (almeno nell'ultima ora) a chiamare Ichiro prima di entrare ma, di nuovo, non ci fu alcuna risposta.

Il sospetto che le informazioni di Ramuda fossero corrette ormai sembrava fondato: Ichiro si stava invischiando con qualche stronzo del Governo Centrale, senza avere la minima idea di che cosa fossero davvero capaci quelle arpie. Una sola di quelle donne lo avrebbe fatto a fette, pur di ottenere chissà cosa – tanto più che era una personalità in vista, lì a Ikebukuro. Sarebbe bastato davvero poco (come minacciare i suoi fratelli) per far sì che Ichiro divenisse una preziosa pedina nelle loro mani e il ragazzo era abbastanza ingenuo da caderci con le scarpe e tutto.

Non entrò nel bar – no, di informazioni importanti non si parlava in mezzo ad una sala, con tante persone intorno. Era stato lui, dopotutto, ad insegnargli qualche trucco riguardo mercati illeciti... quindi Samatoki aggirò il locale su tutti e quattro i suoi lati, guardingo, finché, nello scorcio che dava alla sinistra rispetto all'entrata, non riconobbe la voce di Ichiro. Rimase poggiato all'angolo, senza farsi vedere, con aria apparentemente casuale.

«Non ho intenzione di vendere nulla».

«Non erano questi i patti, ne abbiamo già discusso» Era strano, sentirlo nel suo habitat naturale: la sua voce, che negli anni si era fatta roca seppur sempre tranquilla, suonava particolarmente autoritaria mentre parlava col suo “cliente”: era come se fosse consapevole del potere che aveva tra quelle vie, a differenza di quando veniva a casa sua, a Yokohama. Samatoki avvertì una sgradevole sensazione dominargli il petto, mentre teneva la mano vicino alla tasca, col microfono a portata.

Ma era mai possibile che fosse diventato così patetico da essere geloso in un simile momento?

«Sai che con quella gente non si tratta, Yamada. E gli Hyp Mic sono merce ricercata ovunque, non solo dagli sbarbatelli come te». L'interlocutore di Ichiro era un uomo, poco ma sicuro, ma suonava abbastanza viscido da poter essere uno dei leccapiedi del Governo. «Il tuo mandante deve farmi vedere la sua bella faccia, se vuole quella roba. Non tratto coi tramiti».

«Allora niente da fare». La replica del giovane suonò secca, senza grande interesse al riguardo. Lo yakuza doveva ammetterlo – era dannatamente bravo a trattare e a tenere il suo cliente sulle spine e probabilmente non avrebbe avuto alcun problema, se si fosse trattato di qualche anonima testa di cazzo qualunque.

Samatoki, intanto, si era fatto più vicino, a pochi metri da dove stava avvenendo il dialogo tra i due: la strada era poco trafficata, se non per qualche tizio di fretta, ma forniva abbastanza ripari (vetrine dei negozi, insegne, cartelli) per poter evitare di essere notati troppo in fretta.

Non doveva essere l'unico ad aver tenuto d'occhio il numero dei passanti; il cliente di Ichiro, tranquillo fino a quel momento, sembrò sentirsi abbastanza alle strette da passare alle maniere forti.

Samatoki ebbe a malapena modo di cogliere con lo sguardo lo scatto con cui senza sforzo sollevò Ichiro per il colletto della felpa e lo sbatté contro il muro, causando un fuggi fuggi generale tra i pochissimi presenti.

Aveva sollevato Ichiro, che era ormai alto quasi quanto lui e se possibile pesava anche di più, come se fosse un ragazzetto qualunque. Il tizio sapeva il fatto suo.

«Forse non hai capito, stronzetto. L'affare si conclude, perché qui non si gioca ai videogame. O mi dici chi è il compratore, o gli mando la tua testa come avvertimento».

Fu un attimo.

La rabbia accumulata in ore di ansia ed apprensione esplosero tutte nello stesso istante: Samatoki balzò fuori da dietro l'insegna “Crepes a prezzi stracciati!” a cui si era poggiato fino a quel momento ed assalì lo sconosciuto con una ferocia inaudita: il solo fatto che avesse osato toccare Ichiro – Ichiro, il suo protetto, il suo ragazzo, il suo sole – bastò ed avanzò perché a dialogare fossero prima i pugni che le parole. Si rese a malapena conto che il tipo che stava massacrando era un pelato sulla quarantina dall'aria nerboruta e forse straniera; realizzò anche, dopo un bel po', che probabilmente sarebbe finito dritto in galera, stavolta. Forse pure per sempre.

Ma quella rabbia cieca non poteva essere placata così facilmente, neanche mentre sentiva le nocche delle mani fargli male, che quella sostanza rossa che vedeva volare per l'aria di tanto in tanto era sangue e che c'era chi stava tentando di strattonarlo via, forse in un tentativo disperato di salvare sia lui che la vittima dai suoi colpi impietosi.

«SAMATOKI!»

Fu come risvegliarsi da un trance: avvertì solo in quel momento il rumore sordo e spiacevole del sangue che pompava con la massima forza nelle orecchie, il respiro affannato da quella scarica di pugni e calci incontenibile e quel paio di braccia che lo stringevano, da dietro e lo allontanavano dal vicolo.

La voce piena di terrore di Ichiro lo aveva finalmente risvegliato.

eclissi.

Non sapeva bene come fossero riusciti ad allontanarsi in fretta e furia da quella strada o come fossero arrivati fino a casa di Samatoki. Ichiro doveva aver chiamato un taxi, uno di quelli che non faceva troppe domande, perché l'albino era abbastanza coperto di sangue da riuscire a far trasalire chiunque, oltre che ad attirare l'attenzione. Si rese conto che indossava la felpa di Ichiro, proprio quella nuova che il ragazzo sfoggiava con tanta sicurezza... ma l'aveva completamente sporcata, tanto che non era proprio sicuro che sarebbe riuscito a lavarla e riportarla come prima.

Ah, alla fine c'era riuscito, allora. A sporcarlo.

Era seduto al tavolo della sua cucina, mentre Ichiro era in piedi dall'altra parte della stanza, poggiato al muro con le braccia incrociate. Non riusciva a vederlo bene in volto perché teneva il capo chino, ma era sicuro che avesse un'espressione scura, grave, non di certo quelle che amava vedere su quel viso pulito. Inoltre, aveva la sensazione che stesse eviando di guardarlo.

«Ti avrebbe ammazzato». Avrebbe potuto dire tante cose, Samatoki, in quel momento ma l'unico modo che aveva per affrontare di giorno in giorno il mondo era quello: imporsi. Non era una giustificazione, la sua: quella convinzione bastava a dargli il diritto di distruggere dai pugni uno stronzo come ce n'erano già troppi, a quel mondo. Se lo aveva ammazzato, aveva fatto un favore all'umanità, ad essere sinceri.

«Non avresti dovuto» mormorò il giovane in risposta, piatto. Sembrava come... svuotato, come se avesse perso qualcosa, nel tragitto dal luogo di negoziazione a casa del suo amante. E ancora non lo guardava in volto.

«Dovresti ringraziarmi» ringhiò Samatoki, mentre la rabbia riprendeva a circolare nel suo corpo, donandogli di nuovo l'energia necessaria per affrontare il mondo intero, quindi anche l'uomo che aveva di fronte. L'uomo per cui aveva forse ucciso una persona.

«Per aver quasi ammazzato un tizio che neanche conoscevi?!»

«Un tizio che ti avrebbe fatto fuori perché così gira questo mondo di merda, Ichiro! Smettila di vivere nei tuoi cazzo di fumetti! Non sei un supereroe, ma solo un ragazzino che non sa un cazzo di come va la vita!»

Stavano urlando, fronteggiandosi come due animali. Adesso si guardavano dritto negli occhi, inferociti, come se non avessero passato tutti quegli anni uno al fianco dell'altro, ma come se avessero un nemico di fronte a loro.

«Oh, scusa tanto se non faccio le cose a modo tuo e se cerco di migliorarlo, questo mondo! Chi ti dice che avessi bisogno di aiuto? Pensi che abbia bisogno di una balia? Perché cazzo mi stavi seguendo?!»

Troppe domande, troppe urla, troppa... paura. Conosceva quella sensazione che gli mozzava il respiro e gli annebbiava la ragione, era simile a quella che aveva provato quando aveva trovato sua madre morta una volta ritornato a casa.

Era la paura di perdere quel poco che si aveva.

Il corpo di Samatoki si mosse prima che potesse domarlo o cercare di fermarlo – per anni, aveva fatto di tutto per scongiurare che accadesse qualcosa del genere. Per anni, aveva sempre cercato di contenersi di fronte a quel ragazzo perché, lo sapeva seppure se lo negasse, non voleva distruggere l'immagine che aveva di lui. Voleva essere quell'immagine che Ichiro aveva di lui, voleva pensare che non fosse completamente da condannare.

Ma la realtà era che erano due adulti, ormai e nessuno dei due poteva più aggrapparsi a delle illusioni. Due persone che, nonostante per così tanti anni avessero camminato fianco a fianco, avessero condiviso il giorno e la notte, ormai si trovavano di fronte ad un bivio, ad un passo dall'intraprendere strade diverse, parallele.

Samatoki sbatté così forte Ichiro contro la parete che il suono della nuca del più giovane contro il muro quasi colpì fisicamente anche lui. Ichiro cercò di liberarsi in ogni modo, per la prima volta davvero fuori di sé dalla rabbia come Samatoki mai lo aveva visto e alla fine, nell'agitarsi, riuscì ad assestargli una ginocchiata dritta nello stomaco, che lo costrinse a mollare la presa.

Voglio che mi insegni a combattere. Devo sapermi difendere!”

Piegato a terra, dolorante, la mano premuta sulla parte lesa, Samatoki si lasciò sfuggire una risata amara, vuota. Ichiro, malconcio, con la felpa bianca macchiata di sangue anch'essa (probabilmente sangue del suo cliente, quello che lo yakuza aveva ancora un po' ovunque), troneggiava sopra di lui, gli occhi di colore diverso che brillavano, lucidi, della stessa identica emozione: tradimento.

Ma Samatoki sapeva che quel giorno sarebbe arrivato. Sapeva che la fiaba del piccolo Ichiro avrebbe trovato una sua deludente fine, perché l'uomo di cui si era innamorato non era un tormentato principe-eroe dei suoi adorati anime, ma uno yakuza. Un mafioso. Un delinquente della peggior specie. Che lo amava, sì, ma non poteva essere nient'altro che quello che aveva sotto gli occhi.

L'incantesimo era rotto. Anzi, non c'era mai stato.

«... Sei un ipocrita di merda» sibilò infine l'albino, sollevandosi di nuovo in piedi. «Non c'è spazio per il tuo buonismo da due soldi in questo mondo, Ichiro. Apri gli occhi perché il potere si ottiene con la forza, non con le belle parole».

Ichiro non replicò, stavolta. Rivolse lo sguardo a terra, come se la testa improvvisamente pesasse il doppio rispetto a qualche ora prima. Lo vide mordersi il labbro, esitare, come se non avesse davvero il coraggio di proseguire e poi fece quello.

Si portò una mano al lobo sinistro, lì dove il brillante blu ancora luccicava, dopo tutti quegli anni e bastò un singolo gesto perché sparisse: se lo tolse così, semplicemente, con un movimento rapido delle mani. Strinse l'orecchino forte, nel pugno e poi lo lasciò scivolare nella tasca dei jeans.

Nonostante l'evidente frustrazione e dolore che trasparivano con chiarezza su quel volto sempre limpido e sincero, non c'era più alcuna paura di agire nei suoi occhi. Era certo della sua scelta.

«Non c'è spazio per me, ma nella tua vita, forse» mormorò ed ogni parola sembrò togliere a Samatoki almeno un litro di sangue. «Ma sta' tranquillo, farò in modo di non entrarci più. Non è per vedere altra gente morire che voglio cambiare le cose». Fece un passo incerto verso la porta, instabile sulle sua gambe. Era grande, grosso e persino troppo maturo per la sua età, ma il suo corpo tradiva le emozioni che provava davvero, così come la sua voce incrinata. «... Addio, Samatoki».

Samatoki rimase lì, immobile.

Non seppe per quanto. Aveva lo sguardo fisso sulla porta, incredulo, persino dopo che Ichiro fu sparito dietro di essa. Non seppe mai neanche il perché – non si aspettava che il ragazzo tornasse indietro; a dirla tutta, non aveva neanche provato a fermarlo, perché sarebbe stato inutile: legarlo a sé avrebbe significato ricattarlo, in qualche modo.

Motivo ulteriore per cui non gli aveva mai detto neanche una volta che lo amava.

Dopo chissà quanto, riuscì a rialzarsi. Frastornato, si guardo intorno e si rese conto che fuori finalmente era scoppiato il temporale, così furiosamente che era difficile cogliere anche solo il contorno del lampione che distava una qualche decina di metri da casa sua.

Prese una sigaretta e, come un automa, si portò alla finestra per guardare il temporale imperversare con le sue folate di vento implacabili, con fulmini e tuoni che sembravano scandire un qualcosa a metà tra una melodia e una cacofonia di guerra. Tiro dopo tiro, la realtà sembrò riprendere i suoi soliti contorni; non avrebbe saputo dire se quella cucina, quelle pareti, quella casa sembrassero più grigie solo perché Ichiro gli aveva detto addio. Non era tipo da smancerie simili, si ricordò, seppur per un momento lo avesse pensato.

Pioveva anche la prima volta che non era riuscito a trattenersi dal baciare Ichiro.

Le nuvole coprivano il sole, rendendo indistinguibile così indistinguibile il giorno dalla notte: non c'era più un confine netto tra le due, anzi, diventavano quasi due concetti astratti, tanto da scomparire sotto la furia del cielo.

Si rese conto solo in quel momento che indossava ancora la felpa di Ichiro: gliel'aveva lasciata. Non aveva senso, si disse, quindi se la tolse dalle spalle, ignorando il brivido di freddo che lo colpì quando rimase in sola camicia, ora che le temperature, a causa del temporale, si erano abbassate bruscamente.

Ora che nessuno avrebbe potuto riscaldarlo più.

La rabbia era passata, almeno per il momento. Poteva concedersi di essere triste, poteva mancargli, adesso? Poteva finalmente smettere di imporsi di non amarlo, almeno adesso che lo aveva perso? Non lo avrebbe costretto a restare, ora che non poteva più ascoltarlo.

Spense la sigaretta.

Sapeva che ben presto quell'amore avrebbe assunto la forma di un mostro che si sarebbe giurato di uccidere. Samatoki aveva imparato ad esorcizzare i suoi mostri quando era ancora troppo piccolo per distinguere bene quelli reali da quelli fittizi. Sapeva che ciò che lo feriva doveva essere estirpato, perché solo così poteva continuare ad avanzare, a rialzarsi, a trovare un fottuto senso a quell'esistenza di merda che gli era toccata.

Non avrebbe dovuto permettere ad Ichiro di avvicinarsi. Non avrebbe dovuto lasciarsi andare a quello che provava per lui.

E invece lo aveva fatto.

Quando sua sorella rientrò nel tardo pomeriggio era ancora lì, alla finestra. Si guardarono a lungo, senza proferire una parola, fin quando Mirai non gli si avvicinò e lo abbracciò forte, cingendogli la vita, cercando di trasmettergli la sua vicinanza. Senza porgli domande.

Non sapeva niente di quello che era successo, perché loro non si dicevano niente. Mirai sapeva, ma taceva. Samatoki taceva, perché non c'era bisogno di dire niente.

Chissà se anche Ichiro, in quel momento, si stava facendo abbracciare dai suoi fratelli.

Senza allontanare la ragazza, Samatoki aprì in parte la finestra e, per un momento, i due vennero investiti dall'ululo del vento e dall'acqua che rimbalzava violentemente contro ogni cosa che sfiorava – non importava. L'uomo si portò una mano all'orecchio, lì dove c'era il brillante rosso che Ichiro gli aveva regalato dopo qualche tempo dal suo primo piercing per “ricambiare”.

Lo tolse e lo gettò fuori.

Erano finite le giornate di sole, ormai. Poteva dimenticare l'estate, il caldo mezzogiorno, il tepore del mattino invernale.

Era tornato il tempo della notte.


Note: Ogni volta, affrontare due nuovi personaggi non è mai semplice: per me è una vera e propria sfida, soprattutto quando vado a tagliuzzare e ricomporre la loro vita come un puzzle, come ho fatto in questo caso. La cosa bella di HypMic è che, essendoci "poco" materiale, è facile creare. Si crea in abbondanza, si cerca di suturare le parti mancanti e infine si ottiene qualcosa di familiare ma nuovo al tempo stesso,.
Samatoki e Ichiro hanno preso la mia anima e l'hanno fatta a pezzi, letteralmente. Ho sempre adorato le relazioni complicate come le loro (parole non dette, rabbie inspiegabili, dolori imperdonabili) e ho cercato di dare alla loro storia una forma personale, mia. Ichiro è indubbiamente più semplice da scrivere: è sincero, sveglio, superficiale solo a tratti; ho adorato cercare di carpire il suo punto di vista (soprattutto da bambino, da adolescente). Samatoki è una furia. Probabilmente uno dei personaggi più passionali  e al tempo stesso più aridi che abbia mai cercato di rendere. Ho cercato di dare un'interpretazione mia alla rabbia che cova costantemente, a quel suo aggredire il mondo ogni volta che questo osa sfiorarlo.
Spero che questa sia solo la prima di una lunga serie di storie che riguardano HypMic e spero, soprattutto, che possa piacere ~
   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Hypnosis Mic / Vai alla pagina dell'autore: rainbowdasharp