Ti guardo aggirarti con aria dispersa,
ingenua ma conscia del mondo reale
e vedo in che cosa da me sei diversa,
ma vedo anche cosa ti rende a me uguale.
Ti leggo negli occhi quel po’ di dolore
che tutto trasforma in un buco nero,
che piano, con calma, ti atrofizza il cuore
perché soffre troppo a restar prigioniero.
Ti vedo che ammiri il cielo che splende,
forse sperando in chissà quale dio
che venga a strapparti da un vero che offende
per poi dare un senso a una vita d’oblio:
rinuncia all’idea, siam senza importanza,
siam foglie che cadon dal vento rapite,
siam stupidi appesi alla sola speranza
che le nostre pene non siano infinite;
e invece ogni giorno ci tocca soffrire,
e in fondo alla fine non sembra poi male,
pensar che morire sia solo morire,
né cielo, né fuoco, ma il nulla totale.
È un degno finale a un racconto di merda
di cui involontari siam protagonisti,
in cui non esiste che tu vinca o perda,
perché hai poche righe, e poi non esisti.
Cerchiamo il controllo della nostra vita;
c’è solo un’uscita da questo racconto,
ma siam troppo vigliacchi per farla finita,
o troppo ignoranti per renderci conto;
viviam con la testa sotto la sabbia,
cercando una fuga ma girando in tondo,
in una prigione che tu chiami gabbia
e a cui invece io metto il nome di mondo.