Anime & Manga > Yuri on Ice
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Autore: Tenar80    17/10/2018    2 recensioni
Di Victor, che deve fare i conti con la realtà
Di Yuuri, che deve fare i conti con Victor
Di Otabek, che deve fare i conti con i propri desideri
Di Yuri, che pretende che tutti che facciano i conti con lui.
Di quello che accade dopo l'ultima immagine della serie, della difficoltà di ancorare le fiabe alla realtà. Una realtà che abbonda di elementi disturbanti quali omofobia, doping, accenni a molestie e ad abuso d'alcool, ma in cui c'è ancora spazio per la tenerezza.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Yuuri sorseggiava il proprio the, spiando da sopra la tazza Victor, intento a leggere un menù per lui incomprensibile. Fuori dall’ampia vetrata, la notte precoce e aggressiva di San Pietroburgo aveva già divorato la Neva, appena intuibile nei riflessi dei lampioni. C’era qualcosa di oppressivo in quell’oscurità gelida così ingombrante dell’inverno russo. Yuuri non era sicuro di riuscirne a venire a patti. Ammesso che Victor glielo chiedesse davvero, di venire a vivere a San Pietroburgo.

    Il pattinatore aveva cercato di partire dal Giappone privo di qualsiasi aspettativa, aperto a ogni possibilità. Minako, con quel suo modo quasi brutale di guardare la realtà, aveva messo le cose in chiaro.

    «Forse per lui il Giappone è stata una sorta di vacanza» aveva detto. «Una parentesi piacevole, ma pur sempre una parentesi. Non si può dire che tu lo conosca davvero».

    Aveva ragione. Yuuri amava Victor, ma non lo conosceva. A parte che per ciò che riguardava il pattinaggio, le cose che sapeva di lui potevano stare nella manciata di un bambino. Sapeva che se si trattava di stare a mollo o sotto il getto di acqua calda perdeva la cognizione del tempo. Sapeva che poteva entusiasmarsi per ogni sciocchezze e che non andava lasciato solo in un negozio di souvenir. Sapeva che era abbonato a più di una rivista di moda. Sapeva che se mangiava il gelato ne offriva anche al proprio cane, evitando di prenderlo al cioccolato per paura che gli facesse male. Sapeva che a volte nel sonno tremava e poi si svegliava di soprassalto, guardandosi intorno con occhi spaesati. Sapeva che il giorno del proprio compleanno, il giorno di Natale, aveva ricevuto messaggi d’auguri da mezzo mondo, ma neppure una telefonata.

    Victor era tornato in Russia il 28 dicembre e in quei quindici giorni Yuuri gli aveva inviato le riprese dei propri allenamenti, che tornavano indietro corredate di commenti tecnici. C’erano state videochiamate e migliaia di messaggini, naturalmente, ma il giapponese era salito sull’aereo che lo avrebbe portato a San Pietroburgo sentendo si non sapere davvero che cosa avessero significato quei giorni per Victor. Aveva cercato di mettere in conto il fatto che qualcuno o qualcuna si fosse nuovamente insinuato nella sua vita, aveva cercato di accettare la possibilità di essere stato dimenticato. Persino quando aveva visto il suo braccio alzato, sul ponte, in quella luce strana, che sembrava quella dell’alba e invece era del mezzogiorno, non si era fidato del tutto del suo sorriso. Forse neppure adesso, mentre Victor ordinava per entrambi chissà cosa, si fidava davvero di occupare il posto giusto.

    Rimase in silenzio mentre la cameriera scambiava con Victor qualche battuta e poi lui si prestava a un selfie sorridente insieme alla ragazza.

    – Non penso sappia che questa mattina sono arrivato solo terzo – commentò, appena lei si fu allontanata.

    – Sei davvero famosissimo qui in Russia – constatò Yuuri.

    Che fosse una celebrità mondiale a livello di pattinaggio era ovvio. Aveva posato per un buon numero di pubblicità internazionali e quindi era un volto conosciuto. Che la gente lo fermasse per una foto, però, Yuuri non l’aveva messo in conto.

    Victor fece una smorfia.

    – È un effetto collaterale delle vittorie, pare – disse. – Comunque destinato a finire.

    – Domani vincerai! Non possono darti ancora un punteggio così basso di artistico!

    – Anche tralasciando quello, lo azzoppi tu Yurio per me?

    – Non ce n’è alcun bisogno! – esclamò Yuuri, indignato.

    Gli piaceva moltissimo lo stile del ragazzo, per non parlare della sua mostruosa bravura, ma Victor era ancora un altro pianeta… Ancora… Per la prima volta Yuuri si domandò per quanto. Yurio non aveva ancora sedici anni e Victor aveva già compiuto i ventotto…

    – Allora, ti piace la mia città? – chiese il russo, forse per cambiare discorso.

    – È buia – disse Yuuri, d’istinto, poi pensò che forse non era la risposta che Victor si era aspettato. – È molto bella. Mette quasi soggezione.

    L’altro sorrise, annuendo.

    – Sì. Ha fatto anche a me lo stesso effetto, all’inizio. Una vecchia signora arcigna fatta di pietra… Lilia formato città.

    Yuuri rise a quel commento, mentre la cameriera tornava con delle zuppe a prima vista non così diverse da certi ramen.

    – Ci abiti da quando ti allena Yakov, giusto? – chiese.

    – Sì, da quando avevo tredici anni.

    – Io non sarei riuscito ad andarmene da casa a quell’età – mormorò Yuuri.

    Victor non replicò. Il vapore della zuppa si intravedeva davanti al suo viso, che aveva assunto quella particolare espressione malinconica, con una sorta di mezzo sorriso triste, che a volte accompagnava i silenzi dell’atleta.

    – Perché l’hai fatto, andartene dal Giappone? – chiese Victor. – Ho scovato alcuni video di quando eri juniores… 

    – Hai cercato dei video di quando ero juniores?

    – Mi sono annoiato parecchio in questi giorni. Ad allenarsi e dormire non si occupano comunque ventiquattr’ore – rispose Victor, il cui sorriso adesso era diventato sornione. – Eri notevole. Perché andare fino a Detroit?

    – Perché l’uomo che mi aveva allenato fino ad allora è morto – disse Yuuri. – Un incidente d’auto… A volte penso che quel giorno si sia rotto qualcosa per sempre in tutti noi.

    Si bloccò. Di colpo pensò a quelle telefonate non arrivate. Era puerile raccontare di quel lutto, quando forse chi aveva davanti ne aveva vissuti di ben altri. Eppure, in quel momento, gli sembrò che il proprio dolore fosse la cosa migliore che avesse da offrigli.

    – Non voglio neppure immaginare cosa sarebbe stato di me se fosse accaduto qualcosa a Yakov – mormorò Victor, piano, senza deridere la sua sofferenza.

    Yuuri annuì. Forse, tra tutti, Victor poteva capirla. All’epoca ne aveva parlato con una compagna di scuola. Ma chi non praticava sul serio uno sport individuale non poteva capire cosa fosse un allenatore, più di un maestro o di un famigliare, un tetto al riparo del quale dare forma alla propria vita.

    – Ognuno ha reagito a modo suo – raccontò. – Non ci eravamo mai accorti che Minako avesse una storia con lui, o forse non l’aveva, non ancora. È da allora che ha iniziato a bere… Yuko ha mollato l’agonismo e si è voluta sposare subito. Non voleva trovarsi alla fine della propria vita a scoprire di averla trascorsa in un’eterna attesa, ha detto. In breve, del gruppo che allenava sono rimasto solo io. E mi sembrava di doverglielo, a provarci fino in fondo col pattinaggio, che almeno uno di noi dovesse onorare la sua memoria in quel modo. In Giappone, però, non c’era nessuno che non finissi per paragonare a lui e quindi, quando si è presentata l’occasione, ho cercato qualcosa del tutto diverso.

    – Com’è tipico di te, Yuuri, questo modo di fare… – sospirò Victor, scuotendo piano il capo. 

    – Vitya! È stata un’estenuante caccia all’uomo, ma finalmente ti ho scovato!

    Yuuri sobbalzò, preso alla sprovvista dalla voce femminile squillante e aggressiva che aveva parlato in inglese con un forte accento russo. 

    Dietro di lui c’era una giovane alta, almeno qualche centimetro più di lui, con il fisico tonico e asciutto delle sportive. Portava i capelli castani legati in una coda e aveva impressionanti occhi turchini nel viso affilato. Yuuri l’aveva già vista. Il giorno prima, in un cartellone pubblicitario all’aeroporto, ritratta insieme a Victor a favore di un marchio di abbigliamento sportivo a cui non aveva fatto caso.

    – Non mi presenti al tuo… Allievo, Vitya? – chiese, posando una mano dalle unghie fucsia sulla spalla del pattinatore russo.

    Se non fosse stato per il disagio che quella posa possessiva gli procurava, Yuuri si sarebbe goduto l’espressione di totale imbarazzo di Victor.

    – Yuuri, ti presento Ludmilla Sopronova, due ori olimpici nel salto con l’asta, un numero imprecisato di titoli mondiali tra esterno e indoor, un paio di onorificenze nazionali, mia partner in qualche campagna pubblicitaria e, mi auguro, la donna più rapida del mondo nello spiegarci cosa ci fa qui in questo momento – ringhiò il russo.

    Lei rise, poi con rapidità degna della grande atleta che era, si abbassò fino ad avere il viso all’altezza di quello di Victor, estrasse il cellulare e scattò un selfie. Un battito di ciglia dopo stava già valutando lo scatto con sguardo critico, prima di diffonderlo sui social.

    – Salvo il culo a entrambi, come sempre – disse. – Ah, Yuuri, grazie per quella foto su istagram con i gatti del museo. Sarebbe stato un casino trovarvi, senza.

    Victor, intanto, si era alzato, afferrando il polso di Ludmilla con un gesto del tutto diverso da quello che aveva usato, neppure un’ora prima, per condurlo fino alla statua di Michelangelo.

    – Yuuri, perdonaci, torno subito – disse, gelido, mentre già stava conducendo Ludmilla fuori dalla sala ristorante del museo.

    Il giapponese rimase seduto, seguendoli con lo sguardo. Vide Victor condurre Ludmilla nell’atrio, mettersi di fronte a lei, con una mano appoggiata al muro, in una posa che da lontano poteva apparire affettuosa. Li osservò parlare a bassa voce. Victor rovesciò indietro la testa in una breve risata, in un movimento abituale, ma Yuuri da dov’era vedeva i suoi occhi chiari, tutt’altro che divertiti. Facevano quasi paura. Il giovane sapeva che l’anno precedente Victor aveva fatto coppia per un periodo con una famosa atleta russa e adesso si chiese perché in dieci mesi non gli avesse mai sentito pronunciare il nome di Ludmilla e quanto male fosse finita la storia con lei. Si portò alle labbra un cucchiaio di zuppa. Aveva un aspetto che assomigliava a certi ramen, ma il sapore gli risultò del tutto nuovo, irrimediabilmente sgradevole.

 

*
   

    Arrivato sulla soglia della casa, Otabek si bloccò.

    – Mi fa impressione – confessò.

    – Cosa? – chiese Yuri, guardando perplesso l’androne    del palazzo signorile.

    – La casa di Yakov.

    – A dire il vero è la casa di Lilia, la ex moglie, anche se non ho mica capito cosa combinano quei due, adesso. Una volta mi sa che li ho beccati a baciarsi.

    Yuri finse di vomitare, a sottolineare quello che pensava della scena a cui, forse, aveva assistito.

    – Grazie tante. Per noi che non siamo dei del pattinaggio russo è come entrare in tempio. Sempre con la paura che un fulmine ci colpisca per indegnità.

    Il ragazzo biondo lo guardò perplesso.

    – E quindi io sarei che cosa, il dio?

    – Mi pare evidente, il giovane dio capriccioso del pattinaggio, con Yakov come grande sacerdote.

    – Ma quanto sei scemo – replicò Yuri, affibbiandogli un pugno giocoso sullo sterno.

    Otabek scosse il capo. Niente da fare. Poteva fare a Yuri qualsiasi tipo di complimento. Tanto quello non coglieva. Prese un respiro e superò il portone, sperando davvero che nessun fulmine gli cadesse in testa.

    – Non ci sono, Yakov e Lilia? – chiese.

    Poteva sperare di rimanere solo con Yuri per un po’?

    – Lilia è via con il balletto, Yakov tornerà, suppongo.

    Ecco, sapere che il vecchio allenatore poteva rientrare da un momento all’altro era una cosa in grado di bloccare qualsiasi iniziativa. E poi, sì, l’idea di entrare in quella casa faceva impressione. Anche l’aria, lì, era impregnata di pattinaggio. Yuri, però, fece irruzione nell’appartamento con la tracotanza innocente di chi, davvero, non ha nulla da spartire con i mortali. Gettò noncurante lo zaino su un divano dei tempi dello zar e passò senza apprensione davanti a una sfilza di fotografie che ritraevano per lo più pattinatori sul gradino più alto di podi importanti e qualche ballerina. Alcuni erano volti noti. Otabek riconobbe un Victor forse quattordicenne ritratto insieme a un giovanissimo Georgi e a un altro ragazzo che non riconobbe. 

    – Chi sono?

    – Tutti gli allievi che Yakov ha allenato fino al 2006, quando ha divorziato e si è trasferito.

    – Questo però sei tu.

    Era già stata incorniciata e aggiunta la foto del podio del Grand Prix, con Yuri che esponeva la propria medaglia d’oro.

    – Sì, ma io sono nella quota di Lilia, è lei che ha insistito perché venissimo a vivere qui, io e Yakov.

    – Quindi conti come una ballerina? – provocò Otabek.

    L’altro non si scompose.

    – Io sono la prima ballerina – replicò, altezzoso.

    – Naturalmente.

    La camera di Yuri era, come Otabek si era immaginato, un’esplosione di caos. Sul letto c’erano strati di vestiti, in parte provenienti da una valigia rossa semi aperta abbandonata sul pavimento. Sulle ante di un armadio che non meritava dello scotch stavano dei poster di improbabili cantanti punk russi, truccati in modo da far sembrare Popovic un mostro di sobrietà e buon gusto. Attaccato al muro di una parete, però, stava un poster scolorito, antico di almeno quindici anni, che ritraeva un pattinatore russo che Otabek ricordava di aver visto quand’era bambino. Ed erano già registrazioni vecchie.

    – Chi l’ha appeso quello? – chiese.

    Yuri scosse la testa, facendo ondeggiare i capelli biondi.

    – Victor, credo. È Jagudin, ha vinto quattro campionati mondiali, ai suoi tempi.

    Lo disse come se fosse una cosa normale, quasi scontata, vincere quattro campionati mondiali. Ma, del resto, a quanto pareva, un tempo in quella stanza ci aveva dormito Victor, che ne aveva vinti cinque e all’età di Yuri gareggiava ancora tra gli juniores. Quel mostro biondo aveva tutto l’agio di vincerne sei o sette. Lui, invece, poteva solo sperare di salire di nuovo su un podio mondiale una volta o due. Chissà quanto doveva apparire patetico a Yuri…

    Ma Yuri in quel momento stava cercando qualcosa sul letto, raspando come un cane alla ricerca di un osso.

    – Eccola qua! Prendi al volo!

    Otabek si girò appena in tempo per afferrare qualcosa di peloso. Un maglione? Ma l’oggetto si mosse e un istante dopo lo fissò con enormi occhi turchesi.

    – Un gatto?

    – Sua Maestà La Gatta! – lo corresse Yuri.

    – È di Lilia? – chiese Otabek, perplesso, mentre elargiva una carezza alla bestiola.

    – È mia!

    Otabek immaginò per un istante di chiedere a uno qualsiasi degli allenatori che aveva avuto di essere ospitato a casa loro, con un gatto al seguito. Era tanto se i Leroy gli avevano permesso di mangiare al loro stesso tavolo, ogni tanto, quando stava in Canada.

    Posò sul letto la gatta, che era già riuscita a lasciargli una scia di pelo bianco sul maglione, e cercò uno spazio per il proprio zaino.

    – Lì no! È lo scaffale del fantasma.

    – Eh?

    – Quando sono arrivato ho trovato un quaderno e un portachiavi su quello scaffale. Sono ancora lì, vedi?

    In effetti dove Otabek aveva pensato di riporre il pigiama c’era un vecchio quaderno e un pupazzetto a forma di dinosauro.

    – Erano di un tale Ivan – spiegò Yuri. – Ho pensato che fosse il figlio di Yakov e Lilia e che fosse morto o scomparso, perché è evidente che quelle cose sono state lasciate lì apposta e la cosa iniziava a diventare un po’ inquietante. Così ho chiesto a Victor, ma pare fosse un atleta, c’è la sua foto di là in salotto. Si è rotto un ginocchio dopo aver vinto il mondiale juniores e adesso lavora in una fabbrica… È stato Victor a chiamare quello “il ripiano del fantasma”. Dice che deve servirmi a ricordarmi che non è scontato, andare a vanti. Anche a prescindere dal talento.

    Fece una smorfia per sdrammatizzare, ma lo sguardo che lanciò al vecchio quaderno, parlava di un’inquietudine tutt’altro che esorcizzata.

    L’inquietudine che sentiva Otabek, invece, era di tutt’altra natura. Tre ragazzi, più o meno della stessa età, si erano succeduti in quella stanza. La cosa lo portava verso pensieri sgradevoli. Domandare: «non è che per caso il tuo allenatore ti molesta?» non sembrava una buona idea. Ma ormai l’idea era nata e non poteva ucciderla.

    – Com’è che sei venuto a vivere qui? – chiese con fare noncurante, mentre estraeva spazzolino e pigiama dallo zaino.

    – Non è male questa bettola, no?

    – No, per niente. Posso farti sentire qualcosa che ho portato su quel mega stereo che c’è di là? Però io non ho vissuto a casa del mio allenatore.

    – Lo stereo di là? Fino a che i vecchi non sono in casa è nostro. E comunque è una bella comodità per me stare qui. Prima mi ospitava un amico di mio nonno. Ma era deprimente stare con quel vecchio e comunque il nonno gli pagava l’affitto. Potrei pagarmelo io, ma per lui, mio nonno, è tipo una questione d’onore mantenermi. I soldi che guadagno li spenderò più avanti, dice. Non è mica convinto che possa farlo per lavoro, pattinare.

    Otabek annuì.

    Il nonno tornava spesso nei racconti di Yuri. Sempre il nonno. Mai la madre, il padre, uno zio. E non sembravano ricordi di un’infanzia agiata.

    – E Victor, perché ha abitato qui? – domandò, passando al biondino la chiavetta con i brani che voleva fargli ascoltare. Chissà se il metal kazako era di suo gradimento? 

    – Nessuno sa molto di Victor, ma credo non avesse molta scelta – ora Yuri aveva il fare cospiratorio di chi sta per rivelare un segreto. – Una volta ho trovato un vecchio documento nell’ufficio di Yakov, un’iscrizione a una gara. A quanto pare Yakov ne era il tutore legale.

    Otabek annuì, dandosi del cretino. Il pattinaggio non era certo lo sport nazionale kazako, non era un passatempo per ragazzi ricchi come aveva visto negli Stati Uniti o in Canada, ma era comunque una cosa che si sceglieva. Con genitori che pagavano gli allenatori e portavano i pargoli all’allenamento. Una cosa per ragazzi di città di quartieri almeno rispettabili. La Russia, invece, allevava atleti e aveva da sempre nel pattinaggio uno dei propri cavalli di battaglia. Andava a prenderseli, gli atleti, anche, o forse sopratutto, tra chi non aveva niente da perdere.

    Di colpo la stanza accogliente, con il pavimento di legno rossiccio, con i suoi poster alle pareti e il disordine, tollerato in una casa arredata con precisione maniacale, acquisì tutto un altro aspetto. La gatta venne a strusciarsi sul suo calcagno. Otabek si chiese se Lilia avesse dovuto sopportare anche il cane con cui Victor si faceva sempre fotografare. Forse, dopo tutto, c’era un motivo per cui Yakov terrorizzava tutti, tranne i propri atleti.

    – Allora, questo pezzo che deve cambiarmi la vita? Ti avviso che quando torna il vecchio mette su la lirica.

 
   
 
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