Capitolo
2
Tristemente
prescelta, felicemente amata
“Ciò che ero
solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo:
lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità.
È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo
tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In
me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: «Ti odierò,
se posso; se no, t’amerò contro voglia».”
Francesco
Petrarca, Ascesa al Monte Ventoso
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Napoli,
maggio 1946
Ogni
mattina alla stessa ora, quando il sole iniziava a regalare il suo calore e
l’asta del pesce era ormai conclusa, Matteo alzava gli occhi dalla rete che
stava riparando e lei era lì, appoggiata alla ringhiera della banchina, con lo
sguardo fisso verso il mare, avvolta da un alone di misteriosa e intrigante
malinconia. Forse era il suo rituale prima di andare al lavoro, dato che
indossava una divisa da cameriera. La camicetta bianca esaltava il colore nero
dei suoi lunghi capelli e la gonna nera a campana si adattava perfettamente
alle forme del suo corpo. L’eleganza nel portamento donava agli abiti che
indossava particolare classe e dignità. Un forte scappellotto lo riportò alla
realtà.
“Mattiuccio,
acàla ’a capa e fatìca!”[1]
lo rimproverò il compare e Matteo accennò un sorriso per nascondere il suo
imbarazzo.
Anche
la ragazza, guardando quella scena, sorrise per poi andare via in fretta.
“Faresti
meglio a togliertela dalla testa, la romana non è pane per i tuoi denti”,
continuò il compare con tono canzonatorio. “è
una tipa un po’ altezzosa che sta sempre sulle sue, lavora al Gran Cafè.”
“Compàr,
site addiventato ’nu carabinièr?”[2]
lo interruppe Matteo e il discorso si concluse con una risata collettiva.
Il
giorno dopo, Matteo era seduto a uno dei tavolini del Gran Cafè.
Sarah
raggiunse in gran fretta il Gran Cafè, un bar poco lontano dalla banchina e a
due passi dalla spiaggia, velocemente legò i capelli in uno chignon e indossò
il grembiule bianco. Sempre carina e sorridente, lavorava con grande
professionalità; educata e precisa, a volte assumeva un’espressione così seria
da farla sembrare quasi presuntuosa. Tirò fuori il blocchetto dalla tasca della
gonna e iniziò a prendere le ordinazioni ai tavolini all’aperto. Lavorava sodo
per costruirsi una nuova vita in quella provata ma ridente città della
provincia di Napoli, per mandar via i pensieri tristi e dimenticare gli anni
della guerra, per dimenticare la sua prigionia a Fossoli. Di Hermann non le
restava altro che il rumore atroce di un colpo alla testa e la mera speranza in
una sua fortuita sopravvivenza. In fondo, era a lui che doveva la propria vita.
Dopo
la battaglia partigiana di Gonzaga, Sarah era stata accolta da una famiglia
modenese e aveva vissuto nascosta nel buio del loro seminterrato insieme a una
bambina ebrea di cinque anni che divenne la sua ragione di vita in quegli
interminabili mesi; finita la guerra, aveva fatto ritorno a Roma ma lì il
dolore per l’assenza dei suoi cari era troppo opprimente e insieme ad Hannah,
una sua vicina di casa e amica d’infanzia, anche lei sopravvissuta ai campi di
concentramento e sola, decise di partire alla volta della terra del sole e del
mare, dei pescatori e dei naviganti, dove un vecchio conoscente di suo padre
aveva offerto loro lavoro e ospitalità. E in quella terra di persone semplici e
cordiali, benedetta da Dio con ogni bellezza che la guerra non aveva potuto
deturpare, il suo cuore trovava un po’ di pace.
Il
Gran Cafè cominciò ad affollarsi, avvolto dai raggi del sole che ne penetravano
le tende, mentre la radio trasmetteva una canzone dal ritmo dolce e malinconico
e, sebbene lei non conoscesse la lingua napoletana, riuscì a capire che parlava
di maggio, di amore, di un addio e di un ritorno[3].
Dal palazzo di fronte vide una donna stendere energicamente un lenzuolo bianco
e un ricordo, né felice né triste, si fece strada tra i suoi pensieri.
Campo di Fossoli,
maggio 1944
Affacciata
alla finestra della stanza di Hermann, Sarah osservava i bambini giocare
all’acchiapparella rincorrendosi attorno alle loro mamme frettolosamente intente
a lavare e stendere il bucato. Anche il sole si divertiva rincorrendo con i
propri raggi i passi svelti dei bimbi che ridevano più forte e arrossendo i
volti distesi, quasi contenti delle donne inconsapevoli del loro tragico
destino. Sarah sapeva. Sapeva della tragica destinazione dei convogli ferroviari
verso Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Ravensbrück. Sapeva che a quelle donne,
che si affaccendavano per l’imminente partenza, il bucato sarebbe stato tolto e
che quei bambini probabilmente non avrebbero visto un’altra primavera. Destino che
a lei era stato risparmiato. Lacrime di gratitudine e di senso di colpa si
mescolarono sulle sue guance mentre un abbraccio l’avvolse da dietro.
“Non
permetterò a nessuno di portarti via da me. Tu sei mia.”
Il ricordo della voce decisa e suadente
di Hermann, sussurrata al suo orecchio, le attraversò con un brivido lungo
tutta la schiena e si sorprese nel ritrovarsi desiderosa di sentirsi ancora al
sicuro, protetta come in quella mattina assolata di metà maggio a Fossoli.
Tristemente prescelta, felicemente amata. Ritornò subito in sé e, distolto lo
sguardo dal balcone di fronte, continuò il giro per i tavolini.
Matteo arrotolò le maniche della
camicia, impacciato in una tenuta per lui troppo elegante, preoccupato per la
persistente ed inevitabile puzza di pesce che la quantità eccessiva di profumo
non aveva di sicuro debellato. Ai suoi occhi, che non avevano smesso di
fissarla, la misteriosa ragazza era sembrata allontanarsi verso un altro
pianeta in un rapido viaggio che le aveva portato via il sorriso. Quando fu
vicina al suo tavolino, le parole gli si impastarono in bocca come mai gli era
capitato prima. Non aveva mai visto creatura più perfetta.
Sarah riconobbe subito nel volto di quel
giovane uno dei pescatori che intravedeva ogni mattina alla banchina. I capelli
scuri e ricci, scarmigliati gli coprivano in parte il viso un po’ stanco,
precocemente segnato dal sole e dalla salsedine mentre gli occhi marroni si
sgranavano in un’espressione di irrequieto stupore. Il giovane pescatore era lì
per lei, intuì, già pronta a mettersi sulla difensiva.
“Che cosa desiderate, signore?” gli
chiese in tono altero, corrugando la fronte e suscitando imbarazzo in Matteo.
“Un caffè espresso, grazie”, biascicò,
mentre in cuor suo avrebbe voluto dirle altro, chiedere il suo nome, conoscerla
di più e lo fece.
“Posso conoscere il vostro nome?”
domandò con cuore a mille e, intanto, la canzone d’amore lasciò il posto a
un’altra che assomigliava più al chiasso delle voci dei venditori ambulanti[4].
Sarah sospirò, alzando gli occhi al
cielo in un’espressione infastidita, ma dovette rispondergli per non apparire
scortese nei confronti di un cliente.
“Sarah”, disse, addolcendo il tono della
voce.
“Complimenti, è un nome bellissimo,
molto elegante.” La risposta del giovane piena di ammirazione le riportò alla
mente un altro ricordo.
Campo
di Fossoli, febbraio 1944
Sull’attenti
e tremante di paura, Sarah non osava alzare lo sguardo, limitandosi a guardare
del tenente solo gli stivaloni neri. Iniziò a girarle lentamente attorno e a
parlarle con voce bassa e autoritaria.
“Da
questo momento sei al mio servizio, ti occuperai solo di me. Tutti i giorni
dovrai tirare a lucido la stanza e il bagno, lavare e stirare le mie uniformi,
soddisfare ogni mia necessità.”
Sarah
era sempre più confusa e impaurita mentre una scia di profumo di ambra e
muschio le penetrava nelle narici.
“In
cambio sarai risparmiata al trasferimento, avrai doppia razione di cibo al
giorno e, se farai la brava, ti porterò io qualcosa dalle cucine degli
ufficiali”, concluse con tono beffardo per poi afferrarla per il mento,
costringendola a sollevare il capo.
Sarah
s’imbatté in due occhi verdi privi di un’espressione decifrabile: erano belli e
feroci, ghiacciai che sembravano sciogliersi pian piano.
“Qual
è il tuo nome?” le domandò severo e sprezzante.
“Sarah”,
rispose con un fil di voce, incespicando nelle lettere.
“è un bel nome, quasi reale”, fece il
tenente, lasciandosi rabbonire nel tono e nello sguardo.
“Il caffè arriverà fra un attimo!”
esclamò Sarah il cui sorriso tirato, forzato deluse Matteo.
E il caffè arrivò subito ma a
portarglielo non fu Sarah.
“Potrei avere carta e penna gentilmente?”
chiese alla cameriera con un nodo alla gola.
“Perché
indimenticabile ancora sei per me
anche
se i giorni passano più duri senza te.
Tutte
le cose che farò avranno dentro un po’ di te
perché
lo so dovunque andrai in ogni istante resterai
indimenticabile.”
Antonello
Venditti, Indimenticabile
[1]“Matteo, abbassa
la testa e lavora!”
[2]“Compare, siete
diventato un carabiniere?”
[3]Riferito alla
canzone “Era de maggio”, basata sui versi di una poesia del 1885 di Salvatore
Di Giacomo e messa in musica da Mario Pasquale Costa.
[4]Riferito alla
canzone “’A
rumba
de’ scugnizze”, scritta nel 1932 da Raffaele Viviani.